Sugli assolutizzatori dei concetti
Nel mondo non vi è nulla di assoluto.
La parola “assoluto” proviene dal latino “absolutus”, participio passato di “absolvere”, sciogliere.
Se provo ad applicare questo concetto a un qualsiasi oggetto mi accorgo subito che esso può esistere come elemento disciolto o staccato dal resto del mondo solo in un pensare unilaterale o patologico in quanto, appunto, assolutizzante.
Sarebbe infatti patologico pensare a foglie e i fiori che dal nulla si formino sulla pianta, cioè senza che vi sia terra in cui collocare il seme, né luce ed aria in cui foglie e fiori possano svilupparsi. Allo stesso modo ogni altro oggetto di percezione è concettualmente pensabile separato dal resto del mondo solo in modo patologico.
Ovviamente, chi d’abitudine assolutizza il pensare potrà subito ribattere che il pensare non è assolutamente mai unilaterale o sbagliato o patologico, dato che sbagliato può essere solo e soltanto un pensato, non il pensare, il quale per sua natura può correggere i pensati.
Allo stesso modo costui riesce a dimostrare che non esistono convinzioni sbagliate e, procedendo con altre continue affermazioni assolute, arriva a negare la realtà di convinzioni errate, perché queste per lui non sono vere convinzioni, ecc.
Se ti imbatti in un simile uomo ti accorgi che pian piano le assolutizzazioni logiche si fanno in lui strada fondandosi sul Logos o su un dio creatore che crea tutto dal nulla e che egli non fa che involversi nell’antica teocrazia, che in fondo è eristica.
L’eristica insegna l’arte retorica dell’assolutizzazione concettuale finalizzata all’avere ragione sui nostri simili, vissuti sempre come avversari, da convertire a noi, ai nostri bisogni, insomma da portare a noi come schiavi. L’eristica è l’arte dell’imperare sui nostri simili mediante aria fritta. Dal greco “éris”, contesa, irritazione, l’eristica è l’accendersi come il fuoco, diventar rossi (“erithròs”), infiammarsi, esaltarsi e perfino vergognarsi per “ergersi”, “erigersi” sugli altri.
Procedendo mediante assolutizzazione dei concetti, siamo sempre in grado di spiegare un’affermazione negandone il contenuto.
Poniamo il caso che io voglia spiegare il contenuto della seguente affermazione di Rudolf Steiner, il quale come è noto presenta la realtà come proveniente NON dal mero pensare, bensì dal percepire E dal pensare, cioè da DUE fattori: “La realtà ci si presenta come percezione e concetto” (“La filosofia della libertà”, op. cit., VI, §9°).
Se spiego questa proposizione negandone il contenuto di realtà che evoca, posso dire: “dove ho io la cosa reale? Nella percezione o nel pensare? Nel pensare” (Pietro Archiati, “Libertà e cristianesimo. Fondamenti cristologici dell’esperienza della libertà”, Bologna, 1994).
In tal modo spiego quell’argomento, negandolo, cioè dicendo che la realtà io la ho nel pensare, e che dunque la realtà proviene da un solo fattore, non da due fattori.
Si veda per esempio
questo altro passo. Steiner scrive: “Se io sto al termine di un viale, gli
alberi che stanno all’altra estremità, quella lontana da me, mi appaiono più
piccoli e ravvicinati che non là dove sto io. L’immagine della mia percezione
cambia quando io cambio il luogo dal quale compio le mie osservazioni. Perciò
l’aspetto in cui essa mi appare dipende da una determinazione che non risiede
nell’oggetto ma è dovuta a me che percepisco. Per il viale è del tutto
indifferente dove io stia. Ma l’immagine che ne ottengo ne dipende
sostanzialmente” (Rudolf Steiner, “La filosofia della libertà”, IV, §18°).
È chiaro che se non assolutizzo alcun concetto, da queste affermazioni - e
soprattutto dalla realtà che esse evocano - ho chiaro che la grandezza e la
vicinanza degli oggetti sono “illusioni ottiche” rispetto alla loro realtà.
Pongo fra virgolette “illusioni ottiche”, in quanto so benissimo che la
percezione del senso della vista nei vari momenti dell’esistenza, nello spazio e
nel tempo, non dice mai bugie, come era già ben noto a Goethe, il quale era
solito affermare che i sensi non ingannano, ma che è il giudizio ad ingannarsi.
Dunque se ho giudizio e non mi inganno, mentre guido un’auto in una stradina di campagna e vedo sopraggiungere da lontano un “piccolo” autocarro, non mi metterò ad accelerare, assolutizzando il dato di percezione o della mia rappresentazione di quel “piccolo” automezzo come se quel dato fosse una fotografia che ferma lo spazio ed il tempo in quell’istantanea, ma decelererò fino al passaggio di entrambe le vetture, no? Riflettendo, saprò così che il concetto di “illusione ottica” è spurio in quanto in esso si ritenga fuori dal divenire quella determinazione di grandezza (cioè quel “piccolo” riferito all’autocarro, come se il “mentre” del mio guidare quell’auto, non esistesse).
Se dunque assolutizziamo i concetti, per esempio il concetto di percezione in un dato momento del tempo, saremo costretti a dire che quel “piccolo” autocarro è realmente più piccolo, e quindi - se poi siamo “coerenti” con noi stessi e stupidi fino a quel punto, cioè fino al punto di negare che siamo in divenire - potremo benissimo decidere di accelerare in quella stradina di campagna, convinti che nulla può succederci di male... Tanto, quell’autocarro che sopraggiunge da lontano è “piccolo”… Che male può farmi se accelero? Evola era talmente “coerente” con l’Assoluto che passeggiava sereno in mezzo ai bombardamenti convinto che Dio non poteva volere la sua morte!
Allo stesso modo,
cioè con la stessa “coerenza” con l’Assoluto, posso capire e insegnare quel passo di Steiner sul viale alberato come segue:
“[...] un essere umano che io vedo davanti a me ad un
metro di distanza è realmente più piccolo se lo vedo a duecento metri di
distanza? È più piccolo realmente o è soltanto un’illusione ottica? No, non è
un’illusione ottica, è più piccolo realmente. La scienza, invece, ci dice il
contrario” (“I dodici sensi in relazione alla pedagogia”, Seminario
condotto da Pietro Archiati, Roma, 21-25 Giugno 1994, parte 1ª).
Con ciò resta chiaro che assolutizzando i concetti non si esce da PENSATI
ASSOLUTI, o da un idealismo assoluto, o da uno spiritualismo assoluto, cioè non
si esce dal “grandioso affresco del mondo in
pensieri, senza alcun contenuto di esperienza” di Fichte (“La
filosofia della libertà”, op. cit., II, §7°).
Insomma, rimanendo in Fichte, ci si può solo illudere di poter in tal guisa spiegare e predicare tutto e il contrario di tutto.
Così possiamo spiegare un qualsiasi autore facendogli dire cose mentre egli afferma tutt’altro!
Se io affermo che “le cose sono reali solo nel pensare” (Archiati, “Libertà e cristianesimo”, op. cit.) o che “nella percezione non ho la realtà” (ibid.), dico solo due mezze verità, dato che nell’esperienza della percezione senza il pensare non abbiamo la realtà, così come non possiamo averla nell’esperienza del pensare senza la percezione.
Nell’esperienza del pensare-senza-l’esperienza-della-percezione possiamo solo costruire, appunto, un “grandioso affresco del mondo in pensieri, senza alcun contenuto di esperienza”.
Se dunque un guidatore veramente convinto che “il concetto ottenuto dalla fase precedente sia in se stesso sufficiente per dedurne le fasi successive” (“La filosofia della libertà”, op. cit., XII, §17°) accelera perché è convinto che in quella stradina di campagna gli sta venendo incontro un “piccolo” camion (“piccolo” in quanto egli ha creduto di essere in grado di fermare il tempo), agisce con la medesima assurdità del “voler misurare una nuova forma naturale sulle antiche, e dire che i rettili sono una forma illegittima (degenerata) perché non coincidono con i protoamnioti” (ibid.). Si può allora dire che questo modo di procedere con l’auto, accelerando, è pericolosamente patologico.