Pasqua 2018 per la sovranità dell'io
Quando si nasce, la nostra parte eterna entra nel mondo, e dal
mondo ottiene la sua essenza corporea sensibilmente percepibile. Col pensiero
della nascita è dato contemporaneamente quello della morte.
Abbiamo ormai dimenticata la realtà del fatto che il nostro elemento eterno
(che in quanto immortale non avrebbe neanche bisogno di nascere) discende
dall'immateriale mondo delle idee per rivestirsi di corporeità fisica, così che
fin dall'inizio della nostra esistenza l'operare dell'entità immateriale nel
nostro corpo non è altro che un orientarlo verso la morte. Infatti per
sperimentare la vita del pensare, che è vita immateriale, abbiamo bisogno di un
cervello che si allontani dalle forze gravitazionali e dalla pesantezza
materiale della corporeità fisica grazie alle forze idrostatiche del liquido
cefalo-rachidiano: grazie alla presenza di questo liquido (detto "liquor") il
cervello, pesando un settantesimo del suo peso reale, rende possibile la
riflessione concettuale. Se pesasse completamente sui nervi cranici,
schiacciandoli, vale a dire premendo sullo spazio sub-aracnoidale intracranico
che risente di tutte le variazioni di pressione (dovute alla respirazione
mediante inspirazione ed espirazione) del liquido cefalo-rachidiano, non
esisterebbe né la vita del pensare né la stessa vita umana. Ecco perché
soppesare è anche sinonimo di pensare: dobbiamo "camminare sulle acque"
cefalo-rachidiane se vogliamo sperimentare la vita del nostro pensare, perché
altrimenti nel nostro cranio il morire sarebbe sempre presente. Solo se vediamo
come nell'organizzazione della nostra testa il morire è sempre presente ed è
sempre combattuto dalle forze di vita del rimanente nostro organismo,
comprendiamo anche che proprio nel momento in cui quelle forze di morte - sempre
presenti nella nostra testa in quanto ne rendono possibile la natura pensante -
prevalgono sul nostro essere perituro, subentra la morte vera e propria. Ecco
perché l'idea della morte è l'altro lato dell'idea della nascita. Ed ecco perché
l'idea della Pasqua non può essere l'unilaterale espressione dell'idea della
morte, ed è l'altra faccia dell'idea del Natale.
L'idea della Pasqua e quella del Natale sono due facce di un'unica medaglia. Non
ce ne accorgiamo perché queste due feste sono diventate solo l'ennesima occasione
per banchettare. Se però vogliamo riprenderci la dignità di esseri umani, che
ci è stata tolta dallo Stato plenipotenziario, sostituitosi ai poteri di tutto
l'organismo sociale di cui dovrebbe costituirne un solo terzo, dovremmo
innanzitutto riflettere sull'idea di innatalità e di immortalità che nel nostro
immateriale io costituisce quella dignità.
L'idea unilaterale della morte collegata alla Pasqua è da secoli prodotta dal
materialismo della croce, e genera una fonte continua di squilibrio nell'uomo.
Il bene è per l'uomo - e sempre lo sarà - l'equilibrio fra due unilateralità,
fra due lati estremi in tutti gli ambiti della vita.
Le entità di energia che hanno il compito di portare l'uomo verso
l'unilateralità sono dette da sempre "luciferiche" e "arimaniche". Il termine "arimaniche",
proveniente da "Arimane", risulta oggi strano ai teologi o agli "scienziati"
confessionali, perché la loro confessione, è letteralmente pervasa da ciò che
esso evoca. L'uomo confessionale non può vederlo, così come il piccolo pidocchio
o il virus non può vedere se il terreno su cui poggia è la schiena di un
elefante o altro. Dico questo in modo oggettivo e non mosso da antipatia per il
mondo cattolico o per una qualsiasi altra confessione religiosa (comunità
scientifica compresa).
È possibile mostrare quanto dico non solo attraverso la bibbia ma anche
attraverso la storia: la principale seduzione di Arimane, detto anche "dio della
menzogna" consiste nel far credere che la ricchezza economica porti alla
felicità, e nell'incoraggiare i nazionalismi. Paolo di Tarso chiamava questa
entità o energia "Belial" (Corinzi 6,15). Così è chiamata nei testi biblici
(Deuteronomio 15,9; Giudici 19,22; 1Samuele 11,9; 2Samuele 16,7; 2Samuele 23,6;
1Re 21,10; Proverbi 16,27; 19,28; 2Cronache 13,7; Giobbe 3,18; Salmi 101,3;
41,8; Naum 1,11; Belial). A volte trascritto anche come "beliar", Arimane è
anche il serpente, "nahash", di Genesi 3, cioè l'ingannatore. Non è casuale che
in inglese "be liar" significhi "essere bugiardo"; nei vangeli è Satana, il
finto avversario di Lucifero e del realistico detto paleocristiano "Christus
verus lucifer", che significa: "Cristo è il vero portatore di luce". Cristo è
infatti l'IO SONO.
Luciferica è dunque l'unilaterale energia dell'egoismo e del disprezzo del mondo
della materia; mentre arimanica è l'unilaterale energia del materialismo,
connessa alla ricerca della potenza ed alla pregiudiziale illusione che sia
reale solo ciò che è sensorialmente percepibile.
Quando il cristianesimo antico, partendo da una concezione orientale, espresse
la sua prima forma, mise in risalto non la morte del Cristo, ma la
"risurrezione" con le decise parole: "Se Cristo non fosse risorto sarebbe vana
la nostra fede" (1Corinzi 15,14). Il pensiero pasquale, cioè l'essenza della
primigenia forma assunta dal cristianesimo quando era ancora sotto l'influsso
della sapienza orientale, era innanzitutto la risurrezione, cioè il trionfo
sulla morte, il superamento della morte. In corrispondenza di ciò, compaiono
proprio in questo periodo immagini che presentano il Cristo come Buon Pastore,
che veglia sui destini eterni dell'uomo, il quale purtroppo "dorme" nella sua
esistenza temporale.
La cristianità originale fu sempre di nuovo richiamata alle parole dei vangeli:
"Colui che cercate non è qui" (Matteo 28,6; Marco 16,6; Luca 24,6). Infatti il
Cristo andava cercato non più nel mondo materiale. Se lo si fosse cercato nel
mondo materiale si sarebbero ottenute solo risposte come queste parole: "Colui
che cercate come essere fisico-sensibile non è più nel mondo fisico-sensibile".
La saggezza dell'evento del Golgota (nascita dell'io nell'umanità) e di tutto
quanto vi si ricollega, furono travolti dal materialismo occidentale perché la
concezione della religione orientale si congiunse con la concezione dello Stato
sorta in occidente.
Nel quarto secolo, il cristianesimo divenne infatti RELIGIONE DI STATO, e nel
cristianesimo entrò qualcosa che ne eliminò progressivamente lo spirito.
Giuliano l'Apostata, fu detto "apostata" appunto perché non poteva aderire a ciò
che era diventato il cristianesimo dopo Costantino. Il materialismo occidentale
produsse i suoi primi disastrosi effetti proprio a seguito del congiungersi del
cristianesimo con la romanità in declino. Fra questi effetti disastrosi vi è
l'immagine di Cristo che non c'era, e che nessuno aveva messo all'inizio del
cristianesimo: la raffigurazione del Cristo come crocifisso e sofferente,
dell'uomo dei dolori, dell'uomo che si dilania in dolori per i terribili
tormenti che gli sono inflitti. Con ciò sorse una profonda frattura nella
concezione rivoluzionaria della cristianità, dato che l'immagine del
Cristo crocifisso e sofferente, che da allora in poi perdurò per secoli, impedì
di coglierlo nella sua immateriale essenza, consentendo di percepirlo solo nella
sua natura corporea materiale.
A questa rappresentazione dell'Uomo dei dolori si unì, poi, quella del Cristo
"Giudice universale", esprimente in realtà un dio giuridicamente inteso al modo
romano.
La rimozione dalle coscienze dell'immagine della tomba dalla quale si innalzava
trionfante il Salvatore, e perciò dello Spirito trionfatore, Vincitore della
morte, fu un'operazione arimanica, vale a dire del medesimo "dio della menzogna"
che fece sparire perfino la parola "spirito" nell'8° Concilio Ecumenico
dell'anno 869 a Costantinopoli. In tale Concilio si dichiarò che non si dovesse
più credere nello spirito, e che ci si dovesse rappresentare l'uomo come fatto
soltanto di corpo e anima.
Attività dello spirito è però il pensare, e non si può comprendere l'uomo se
dalla triade formata di pensare, sentire e volere, che lo caratterizza
compiutamente come essere umano si elimina il pensare. Eliminando il pensare,
cioè eliminando l'attività dello spirito ("io") nell'uomo si promosse in realtà
un essere umano astratto e menomato, vale a dire un subumano, che in quanto tale
non avrebbe mai potuto avere alcuna vita conviviale in un organismo sociale,
senza le opportune regole teocratiche imposte da fuori come morale!
In effetti l'idea della triarticolazione sociale è impossibile in una società di
subumani non pensanti, perché in una simile società si pretende che il cittadino
non si accorga di essere un suddito di uno Stato e di una religione di Stato,
così che egli possa credere di essere un pio e libero contribuente a questa
situazione, che in verità è predominio sulla sua propria volontà, resa docile ed
obbediente alla "volontà di Dio".
Fu dunque un grave errore del cattolicesimo la rimozione dello spirito dalla
concezione dell'uomo, dato che con tale rimozione si impedì e si impedisce
all'uomo di accorgersi dello spirito venturo promesso dal Cristo come
Consolatore, consistente nella sua seconda venuta, appunto, nel pensare umano.
L'essere umano fu sempre caratterizzato secondo corpo, anima e spirito (dalla
tricotomia di Platone fino a quella di Paolo di Tarso). Poi tutto cambiò con
l'avvento della religione di Stato che abolì lo spirito, appunto, nell'869
(Concilio di Costantinopoli).
Le radici di questa soppressione sono antichissime, perché l'opera antiuomo
risale alla concezione faraonica dello schiavo, e questo concilio ne fu figlio,
dato che dall'869 d.C. in poi sparì letteralmente dalla "fede" l'uomo
pneumatico, cioè l'uomo dell'io, o dell'elemento sovrasensibile o spirituale o
immateriale, "io" che sarà poi, con Marx, considerato "sovrastruttura della
materia".
Anche se gli antichi conoscevano l'uomo come un essere fatto di corpo, anima e
spirito, l'ottavo Concilio di Costantinopoli dichiarava ora eretica quella
dottrina, stabilendo che la costituzione umana era fatta solo di corpo e anima,
tentando così di cancellare dalla coscienza umana, la realtà dello spirito, cioè
dell'io.
Là dove il cristianesimo, divenendo ufficiale alla maniera romana, si
trasformava in cattolicesimo, cioè in religione di Stato, si cercò sempre più di
nascondere, di sopprimere il concetto di spirito. Ecco perché poi in quel
Concilio fu enunciato il dogma, che nelle parole del testo forse non si esprime
ancora chiaramente, ma che dev'essere compreso da tutti se si vuole uscire, per
es. oggi, dall'inganno dell'UE, dall'iniquità del monetaggio, detto signoraggio
della moneta unica, dalle tasse che schiavizzano l'uomo, ecc.
Quando parlate di questa cosa ricordatevi che il testo del decreto di quel
Concilio - canone 11 - non usa i termini "anima" e "spirito", ma si limita a
condannare in modo equivoco coloro che attribuirebbero all'uomo "due anime".
Questa ambiguità finì poi per dar luogo all'interpretazione che non fosse
cristiano parlare di corpo, anima, e spirito, e che fosse invece cristiano dire
che l'uomo consta solamente di corpo ed anima (oggi addirittura non si parla
neanche più di anima, che è l'attività interiore dell'essere umano, il suo
muoversi e commuoversi da dentro). In quel Concilio, organizzato contro il
patriarca Fozio (che fra l'altro venne bastonato a morte), fu stabilito nei "Canones
contra Photium", al Can. 11, appunto, che l'uomo non ha due anime, bensi "unam
animam rationabilem et intellectualem" (cfr. Cornelio Fabro, "L'anima.
Introduzione al problema dell'uomo", p. 127, Editrice del Verbo Incarnato, Roma
1955, p. 127)!
Con tale Concilio vediamo svanire dal Crocifisso lo spirito, in modo che l'anima
piena di dolore trovi espressione nel solo corpo fisico privo di spirito. Lo
spirito che doveva sparire era l'io trionfatore sulla morte, nonché il custode
dell'umano. Quello doveva sparire dalle labbra degli uomini. Ecco dunque perché
vediamo rimuovere perfino la parola "spirito" dall'essere umano, mediante
l'oscurantismo dogmatico di un decreto conciliare concepito al modo romano.
Ed ecco anche perché la celebrazione del Venerdì santo, cioè della morte in
croce, fu pian piano unificata alla la festa della risurrezione di Pasqua.
Perciò l'intelletto umano divenne sempre più arido, mentre il Venerdì santo
diveniva la celebrazione in cui l'idea della Pasqua prendeva una forma sempre
più egoistica e mangereccia, a discapito degli agnelli sgozzati.
Veggenza ed esperienza spirituali si ritirarono così dalla cultura occidentale.
Questo è il vero motivo per cui la cultura occidentale è da lungo tempo su una
via sbagliata rispetto allo spirito, cioè rispetto all'io. In tutta la nostra
cultura occidentale abbiamo quindi bisogno di elevarci di nuovo allo spirito,
all'io. Abbiamo bisogno di una Pasqua reale, cioè di reali passaggi alla
sovranità dell'io, vale a dire alla nostra individuale sovranità, di cui siamo
stati privati, prima ancora della sovranità dello Stato o della sovranità
monetaria di cui si va blaterando per raccogliere consenso partitocratico in
stile gattopardesco.
Col ritirarsi della veggenza spirituale, dovuto all'eliminazione dello spirito
da parte dell'8° Concilio di Costantinopoli anche il Natale si inaridì nella
festa del pranzo di Natale: ciò che un tempo, in modo grandioso, si era
manifestato come il santo Mistero della Nascita, o Mistero Natalizio, finì
sommerso, nell'evolversi della nostra cultura occidentale, in quei
sentimentalismi che si esprimono in tutte le poesiole sul bambinello Gesù, le
quali non sono che l'altra faccia del materialismo.
Ora è tempo di capire che è antistorico il crocifisso pieno di dolori (non per
favorire i seguaci di Maometto, ovviamente, ma perché è una mezza verità e
quindi una menzogna), dato che possiamo vedere al di là della croce, il
Trionfatore, non toccato né dalla nascita né dalla morte. Solo con tale
Trionfatore e Consolatore all'interno di noi stessi possiamo alzare il capo
verso le vastità eterne della vita spirituale, cioè immateriale, sovrasensibile.
Solo in questo modo possiamo avvicinarci di nuovo alla vera essenza del Cristo.
Dobbiamo riflettere sul fatto che anche nell'antichità ebraica
יהוח YHVH (Iavé) non
era concepito come un Giudice universale inteso nel senso giuridico del termine.
La più poderosa rappresentazione drammatica del sentimento religioso ebraico,
cioè il libro che descrive le sofferenze di Giobbe, in fondo esclude il
sentimento di ciò che è esteriormente "giusto": Giobbe è l'uomo che, attraverso
il suo patire, considera come suo "karma" ciò che gli viene dal mondo esterno.
Solo lentamente comparve nell'ordine del mondo il concetto giuridico del castigo
vendicatore. Noi abbiamo però bisogno non di quel Cristo che vediamo sofferente,
ma di quello che aleggia sopra la croce e guarda dall'alto a ciò che sulla croce
di inessenziale perisce. Abbiamo bisogno di una salda consapevolezza
dell'eternità dello spirito, che è il nostro vero io. E non conseguiremo mai
tale consapevolezza perdendo noi stessi nella contemplazione del solo
Crocifisso.
È necessario trasformare sia l'atmosfera del Venerdì santo che quella pasquale.
La prima deve assumere una forma che comprenda, sì, la contemplazione del Gesù
morente, ma che sa: questo non è che l'altro lato del nascere. Allo stesso modo
non si comprende la nascita se non vi si scorge anche il morire. Ecco perché
nella tristezza mortale del Venerdì santo si manifesta soltanto un lato
dell'umano, il cui polo opposto è dato dall'ingresso del bambino nell'esistenza
mediante la nascita. Solo questo da' la certezza che ciò che nasce e muore è
soltanto l'involucro corporeo; ma l'uomo vero e proprio non nasce, così come non
può morire. L'uomo vero e proprio deve liberamente unirsi con Colui che è
entrato nel mondo come Cristo, e che non può morire. L'Uomo dei dolori appeso
alla croce che vorrebbe mostrarci Arimane, è una mezza verità e quindi, ripeto,
è una menzogna della chiesa di Arimane o di Belial, o del "dio della menzogna".
Certamente sarebbe pure una menzogna credere che il Cristo non abbia patito
dolore per il fatto di essere passato per la porta della morte in qualità di
essere divino-spirituale. Ritenere che il suo sia stato soltanto un dolore
apparente è infatti un pensiero che non ha senso; quel dolore va considerato
reale nel senso più efficace possibile. Però non lo si pensi in senso opposto
alla sua realtà.
Ciò che realmente muore nella morte è lo strumento fisico, cioè il "Chrestos",
che non è il Christos (ho già parlato del Chrestos nella pagina "Sull'abbandono
e la gloria"). Perciò il Christos può "risorgere" in un mondo puramente
spirituale.
Alla morte di Cristo muore l'involucro umano dell'uomo Gesù e risorge lo spirito
di Cristo. L'antica formula per la morte del "Chrestos" era: "Mio Dio, mio Dio,
perché mi hai abbandonato?". È così in Matteo (27, 46) il cui Vangelo è scritto
nella prospettiva dell'uomo-Gesù.
Per il "Christos" la formula era invece: "Mio Dio, mio Dio, quanto mi hai
esaltato!". Ed è così in Marco (15, 34) che fin dall'inizio rivolge il suo
occhio al Cristo cosmico.
Nell'ebraico antico la frase suona quasi uguale in entrambi i casi: «Eli, Eli,
lamma azabtani» (mi hai abbandonato) ed «Eli, Eli, lamma sabachtani» (mi hai
glorificato, esaltato). Questo fatto portò a inversioni e a fraintendimenti.
Ecco perché nell'antichità, all'immagine del "Chrestos" sofferente subentrava
quella del "Christos" vittorioso, che guardava dall'alto al "Chrestos"
sofferente come a qualcosa da vincere.
Ed è questa vittoria che dobbiamo re-imparare, perché possa ritornare la dignità
di cui il "religionismo papolatrico", cioè la religione di Stato, ci ha privati.