Uno studio di Lucio Russo su percezione e concetto, basato sulle massime 171ª, 172ª e 173ª di Rudolf Steiner

 

Cominciamo subito a leggere questa lettera, intitolata: L’organizzazione dei sensi e del pensiero dell’uomo nella sua relazione con il mondo (15 marzo 1925).

“Quando l’uomo, nel considerare la propria natura umana, applica la conoscenza immaginativa innanzitutto a se stesso, in questa osservazione egli si spoglia del sistema sensorio. Per osservare se stesso egli diventa un essere privo di tale sistema” (p. 202).

Abbiamo detto, una sera, che un conto è considerarsi (rappresentativamente) uno spazio che vive nel tempo, altro considerarsi (immaginativamente) un tempo che vive nello spazio (prescindendo ovviamente dall’Io e dal corpo astrale).


Solo considerandosi un tempo (un corpo eterico) che vive nello spazio (nel corpo fisico) si può ad esempio realizzare che una cosa sono gli occhi per mezzo dei quali si vede il sensibile, altra il vedere.


Non si vedono infatti con gli occhi né i sogni né le immagini della memoria, giacché sono realtà extrasensibili o eteriche.


Afferma Goethe: “Per se stesso e in quanto si serve dei suoi sensi integri l’uomo è il maggiore e più preciso strumento di fisica che possa esistere(1)
.


Dunque l’uomo è “strumento di fisica”, i sensi sono “strumenti dell’uomo”, e il microscopio è “strumento dei sensi”.


Ora immaginiamo che mentre stiamo guardando qualcosa al microscopio, intervenga un mago che ce lo incolli agli occhi; da quel momento in poi, saremo costretti a guardare l’intera realtà attraverso il microscopio.


Ebbene, questo mago esiste: si chiama Arimane. E’ grazie a lui (il “micromane”) che siamo identificati con il nostro sistema neuro-sensoriale, e indotti così a credere che sia il cervello a vedere attraverso gli occhi, e non l’Io.


Dobbiamo dunque disidentificarci dal corpo fisico, ma possiamo cominciare a farlo soltanto prendendo le giuste distanze dal pensiero riflesso e sviluppando la coscienza immaginativa.
Dice Steiner: “Quando l’uomo, nel considerare la propria natura umana, applica la coscienza immaginativa innanzitutto a se stesso, in questa osservazione egli si spoglia del sistema sensorio”.


Grazie allo sviluppo di questo superiore grado di coscienza ci si “spoglia” infatti “del sistema sensorio”, così come, una volta venuto meno il sortilegio, ci si “spoglia” del microscopio o, per essere più precisi, ci si libera della dipendenza dal microscopio.

“Per osservare se stesso egli diventa un essere privo di tale sistema. Non cessa di avere dinanzi all’anima delle immagini che prima erano portate dagli organi dei sensi; ma cessa di sentirsi collegato con il mondo fisico esteriore mediante questi organi. Le immagini del mondo fisico esteriore, che gli stanno davanti all’anima, ora non sono portate dagli organi dei sensi; esse costituiscono per la veggenza immediata una dimostrazione del fatto che l’uomo, attraverso il collegamento sensorio, sta col mondo naturale circostante in un collegamento diverso, che non è portato dai sensi. È il collegamento con lo spirito che ha preso corpo nel mondo naturale esteriore” (p. 202).

Continuando nella metafora, una cosa è dunque il microscopio quale “strumento dei sensi”, altra l’attività o la forza del vedere che dovrebbe essere libera di servirsene o non servirsene.
Il che significa che se Arimane non ce lo avesse incollato agli occhi, vedremmo con il microscopio (con i sensi) ciò che è possibile vedere solo per suo mezzo, e vedremmo, liberi dal microscopio (liberi dai sensi) ciò che è possibile vedere solo senza farne uso.
Lo facciamo (inconsciamente) durante il sonno, ma dovremmo imparare a farlo (coscientemente) anche durante la veglia.

Domanda: Che cosa vuol dire che le immagini del mondo fisico esteriore che “stanno davanti all’anima, ora non sono portate dagli organi dei sensi; esse costituiscono per la veggenza immediata una dimostrazione del fatto che l'uomo, attraverso il collegamento sensorio, sta col mondo naturale circostante in un collegamento diverso, che non è portato dai sensi”?
Risposta: Vuol dire che tutto ciò che crediamo di vedere con gli occhi, secondo quanto abbiamo detto una sera (lettera 22 febbraio 1925), lo immaginiamo, in realtà, con lo spirito. “Applicando la coscienza immaginativa” a se stessi, si realizza infatti che “le immagini del mondo fisico esteriore” (le immagini percettive) “non sono portate dagli organi dei sensi”, ma dal corpo eterico.


Ricordiamoci che per sviluppare sanamente la coscienza immaginativa occorre prendere le mosse da La filosofia della libertà, ossia da un’opera che, come dice Steiner, “intende sollecitare ad ogni pagina l’attività pensante del lettore”. Per questo, mi sono permesso di definirla un’opera “logodinamica”, e non “filosofica” (in senso classico). Ascoltate infatti ciò che afferma Steiner: “Dovevo prima presentare al mondo (prima di Teosofia, de La scienza occulta, ecc. - nda) qualcosa che fosse concepito in modo rigorosamente filosofico, anche se in realtà andava oltre la filosofia ordinaria (grassetto nostro). Era pur necessario compiere una volta il trapasso dallo scrivere puramente filosofico e scientifico a quello scientifico-spirituale(2).

“In tale veggenza il mondo fisico si stacca dunque dall’uomo. È l’elemento terrestre che si distacca. L’uomo non sente più attaccato a sé l’elemento terrestre.


Si potrebbe credere che con questo svanisca per lui la autocoscienza. Ciò sembra derivare dalle precedenti considerazioni che hanno indicato l’autocoscienza come un risultato del collegamento dell’uomo con l’entità della terra. Ma non è così. Ciò che l’uomo ha conquistato per mezzo dell’elemento terrestre gli rimane, anche se, dopo averlo conquistato, egli se ne spoglia nella conoscenza che sperimenta” (p. 202).

L’abbiamo detto: dobbiamo essere grati al sistema neuro-sensoriale, perché è in virtù dello specchio corticale che l’Io ha raggiunto la moderna autocoscienza (dell’Io quale ego).
Abbiamo definito questo primo livello di autocoscienza “cartesiano” (cogito, ergo sum), ma potremmo anche definirlo, nel bene e nel male, “borghese” (habeo, ergo sum).


Che questo grado di autocoscienza (l’individualismo egoico) abbia ormai esaurito la propria spinta evolutiva, e debba pertanto essere superato, lo testimonia, nel modo più tragico, la storia del Novecento (3).


Gli orrori della prima guerra mondiale, del comunismo, del fascismo, del nazismo e della seconda guerra mondiale, non sono stati infatti prodotti dagli sciagurati tentativi di dar vita, politicamente, a una “nuova umanità”?


Tra quanti si sono illusi che la prima guerra mondiale potesse rigenerare l’umanità figuravano (come testimonia Emilio Gentile nel suo L’apocalisse della modernità, che vi consiglio di leggere) (4), Thomas Mann, Stefan Zweig, Vladimir Majakovskij, Max Weber, Robert Musil, Benedetto Croce, Charles Péguy, Giovanni Papini e perfino don Luigi Sturzo.

 

Ma quanti altri artisti e intellettuali si sono poi illusi (e in parte ancora s’illudono) che tale rigenerazione potesse essere prodotta dal comunismo, dal fascismo o dal nazismo?
Questo che cosa dimostra? E’ semplice: che la nostra cultura, asservita dal potere, dalla vanità o dalle ideologie, si è ormai estraniata dalla realtà (nel migliore dei casi, è infatti in grado di coglierne solo un quarto, quello materiale).

 

(Scrive Aurobindo: “I cambiamenti che oggi vediamo nel mondo sono intellettuali. La rivoluzione spirituale attende la sua ora e durante questo tempo fa sorgere qua e là delle ondate. Fino a che essa non giunga, il significato degli altri cambiamenti non può essere compreso; e fino a quel momento tutte le interpretazioni degli avvenimenti presenti e tutte le previsioni dell’avvenire umano sono cose vane[5].)
 

Ma torniamo a noi. Ho detto che una cosa è sperimentarsi come uno spazio, uno stato o un divenuto (“Sono fatto così!”), altra sperimentarsi come un tempo, e quindi come un divenire.
Ma all’ego, il pensiero vivente, in virtù del quale ci si può sperimentare così, fa paura. E sapete perché? Perché ciò ch’è vivo diviene, ossia muore e rinasce, mentre l’ego crede di essere vivo, ma è morto: la sua ordinaria paura della morte è in realtà paura della vita e del divenire (animico-spirituale).


Se questo dovesse sembrarvi strano, leggete o rileggete allora quanto dice l’Apocalisse nella quinta “lettera alla chiesa di Sardi”, che rappresenta, come spiega Steiner (6), la nostra attuale civiltà (la quinta postatlantica): “Così parla colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle. Mi è nota la tua condotta: porti il nome di vivente e invece sei morto” (Ap 3,1).
Lo ripeto: entrare nella corrente del divenire equivale, sul piano immaginativo, a camminare sulle acque.


(“Pietro gli disse: “Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque”. Ed egli disse : “Vieni!”. Pietro, scendendo dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma per la violenza del vento, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: “Signore, salvami!”. E subito Gesù stese la mano, lo afferrò e gli disse: “Uomo di poca fede, perché hai dubitato?” - Mt 15,28-31.)

“Mediante la veggenza spirituale-immaginativa ora descritta, appare in sostanza che l’uomo non è collegato molto intensamente con il suo sistema sensorio. In realtà non è lui che vive nel sistema sensorio, ma il mondo circostante. Questo, col suo essere, si è inserito nell’organizzazione dei sensi.


Perciò l’uomo che pratica la contemplazione immaginativa, vede l’organizzazione sensoria come un frammento del mondo esteriore. Un frammento del mondo esteriore che gli è indubbiamente più affine del mondo naturale circostante, ma che tuttavia è mondo esteriore. Esso si distingue dal restante mondo esteriore solo per il fatto che in questo l’uomo non può immergersi, conoscendo, se non mediante la percezione sensoria” (pp. 202-203).

Non è l’uomo a vivere “nel sistema sensorio, ma il mondo circostante”.


Che il corpo fisico sia una porzione di mondo della quale ci siamo appropriati (e nella quale ci siamo immersi), lo prova il fatto che, dopo la morte, dobbiamo restituirlo.


Fatto si è che l’uomo è un Io (libero) che “indossa” una veste karmica astrale, una veste karmica eterica e una veste karmica fisica ricavate, rispettivamente, dal mondo astrale, dal mondo eterico e dal mondo fisico. E’ da questi mondi, infatti, che viene prelevata la “stoffa” con la quale le Gerarchie confezionano il nostro personale destino (“Voi [spiriti] che tessete la sostanza delle anime nelle sfere del cosmo”, recita la preghiera per i defunti).


Dice Steiner: “Perciò l’uomo che pratica la contemplazione immaginativa, vede l’organizzazione sensoria come un frammento del mondo esteriore. Un frammento del mondo esteriore che gli è indubbiamente più affine del mondo naturale circostante, ma che tuttavia è mondo esteriore”.


Perché tale frammento ci è “più affine del mondo naturale circostante”? Lo abbiamo appena detto: vuoi perché lo indossiamo, vuoi perché ci è stato fatto su misura (karmica).


Nel mondo esteriore, dice ancora Steiner, “l’uomo non può immergersi, conoscendo, se non mediante la percezione sensoria”.


Sentite quanto scrive, al riguardo, Pasquale Galluppi (1770-1846): “Mi sembra dunque che io sia nel diritto di concludere che la nostra esistenza intellettuale incomincia con la percezione del me, che percepisce un fuor di me”; che questo fatto è primitivo, e che è il solo, onde dee partire la vera filosofia(7).


Ma che cosa sono, in realtà, il “me” e il “fuor di me” di Galluppi? E’ facile: l’ego e il non-ego.


Com’è vero, dunque, che la nostra esistenza intellettuale “incomincia con la percezione del me, che percepisce un fuor di me”, così è vero che la nostra esistenza immaginativa incomincia con la percezione del “me” quale “Sé spirituale”, che percepisce “un fuor di me” quale ego, quale sistema sensorio o quale corpo fisico.

“Invece nella sua organizzazione sensoria egli si immerge sperimentando. L’organizzazione dei sensi è mondo esteriore, ma l’uomo vi immerge il suo essere spirituale-animico che egli reca con sé dal mondo dello spirito, quando entra nella sua esistenza terrena” (p. 203).

Per poter nascere sulla Terra, l’Io, dopo essersi rivestito di un corpo astrale e di un corpo eterico, deve rivestirsi di un corpo fisico.


Suo primo compito, una volta raggiunta l’ordinaria coscienza rappresentativa, sarà perciò quello di scoprire, grazie alle forze “che reca con sé dal mondo dello spirito”, che indossa tale abito, ma che non è tale abito (checché ne pensino tutti quegli psicologi che parlano di un ”io corporeo”).


***


“Salvo il fatto che l’uomo riempie la sua organizzazione sensoria col suo essere spirituale-animico, questa organizzazione è mondo esteriore come lo è il mondo vegetale che si apre di fronte all’uomo. In ultima analisi l’occhio appartiene al mondo e non all’uomo, come la rosa che l’uomo percepisce non appartiene a lui, ma al mondo.


Nell’epoca testé attraversata dall’uomo nell’evoluzione cosmica, sorsero degli studiosi che dissero: il colore, il suono, le impressioni di calore, non sono veramente nel mondo [non sono oggettive], ma nell’uomo. Il “colore rosso” - essi dicono - non esiste là fuori nel mondo circostante, ma è soltanto l’effetto prodotto sull’uomo da qualcosa di sconosciuto. La verità è invece precisamente il contrario di questa concezione. Non è il colore che appartiene all’essere umano assieme con l’occhio, ma è l’occhio che insieme col colore appartiene al mondo” (p. 203).

Ho già detto, una sera, che quella operata dall’ego è una sorta di “appropriazione indebita”. Anziché dire, ad esempio: “L’occhio è mondo”, l’ego dice infatti: “L’occhio è mio, così come miei sono i colori che vedo”.


Ricordate queste parole di Boncinelli (lettera 12 ottobre 1924)? “In natura l’odore di violette non esiste, come non esiste un accordo in Do o il giallo paglierino. Ciascuno di questi è un segmento di realtà ritagliato da uno dei nostri sensi e da essi elevato al rango di sensazione”.
Ma non è così. Mondo è l’occhio e mondo è il giallo paglierino, ed è proprio per questo che il primo è in grado di percepire il secondo (similia similibus).


Lasciatemi fare, in proposito, una considerazione di carattere psicologico.


Sapete per quale essenziale ragione siamo sempre inquieti e insoddisfatti? Perché, non dando al mondo quel ch’è del mondo e all’Io quel ch’è dell’Io, siamo diventati psichicamente obesi e costipati: tanto obesi e costipati, ossia pieni di noi stessi, che corriamo il rischio, continuando a gonfiare la soggettività e a sgonfiare l’oggettività, di deflagrare: di fare cioè la stessa fine della rana della celebre favola di Fedro.


Freud distingueva la “libido narcisistica” (auto-referenziale), che si consuma all’interno del soggetto (che “se la canta e se la suona”), dalla “libido oggettuale” (etero-referenziale), che invece ne fuoriesce per andare verso l’oggetto. Ma potrebbe andare verso l’oggetto, se questo non esistesse (come l’odore di violette, l’accordo in Do o il giallo paglierino di Boncinelli), oppure esistesse, ma non fosse raggiungibile (come la “cosa in sé” di Kant)?
“Chi mi rimanda a me stesso - ha detto Clemens Brentano (1778-1842) - mi uccide”. Non aveva torto, giacché l’anima può guarire solo se, restituendo al mondo quel ch’è del mondo e all’Io quel ch’è dell’Io (la verità), cessa di pascersi, quale psiche, di se stessa (delle proprie opinioni e fantasie).


(Provate ad esempio ad affermare che gli uomini hanno due gambe e due piedi, e vedrete che qualche campione dell’odierno intellettualismo, sganciato, come abbiamo detto, sia dalla realtà morta della coscienza intellettuale, sia dalla realtà viva di quella immaginativa, e quindi in preda all’astrazione, non esiterà a replicare che la vostra affermazione è frutto di una concezione “bipedista” dell’essere umano. Come non ricordare dunque quegli uomini che “si sono perduti - come dice Paolo (Rm1 1,21-22) - nelle loro vane elucubrazioni […] Sicché mentre si vantavano di essere sapienti, diventarono stolti”?).

 
“Poiché le decisioni riguardanti la verità - afferma appunto Steiner - non dimorano in noi, la verità ci costringe a reprimere in noi la vita delle brame (…) Di conseguenza tendere alla verità è in definitiva ciò che più di ogni altra cosa trattiene nella giusta misura il sentimento di noi stessi (…) L’anelito alla verità ci rende sempre più umili (8).


(“Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. “E’ ricolma. Non ce n’entra più!”. “Come questa tazza”, disse Nan-in “tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?” [9].)


Teniamo ben presente che i pensieri si trasformano prima o poi in sentimenti, e che solo con questa trasformazione cominciamo davvero a cambiare.


Meditando, ad esempio: “Non è il colore che appartiene all’essere umano assieme con l’occhio, ma è l’occhio che insieme col colore appartiene al mondo”, possiamo arrivare a sentire che il colore e l’occhio (come il profumo e il naso o il suono e l’orecchio) rivelano le qualità del mondo, e non di noi stessi.


Si dice: “Senza l’occhio non ci sarebbe la luce”. E’ vero, ma non meno è vero che senza la luce non ci sarebbe l’occhio.


Dice infatti Goethe: “L’occhio è creato dalla luce per la luce”.

“Durante la sua esistenza terrena l’uomo non accoglie in sé il mondo circostante terrestre, ma fra la nascita e la morte egli si inoltra in quel mondo esteriore.


È un fatto notevole che sul finire dell’“era oscura”, in cui l’uomo figge lo sguardo nel mondo senza sperimentare la luce dello spirito, neppure come un presentimento, la verità sulla relazione dell’uomo col mondo circostante diventi addirittura il contrario del vero” (pp. 203-204).

Che sul finire dell’era oscura “la verità sulla relazione dell’uomo col mondo circostante diventi addirittura il contrario del vero” non ci stupisce, giacché sappiamo che il regno del diavolo non è che il rovescio del regno di Dio, per cui ciò che in questo è primo in quello è ultimo, e viceversa.

“Se chi conosce immaginativamente si è spogliato del mondo circostante nel quale vive con la sua organizzazione sensoria, nello sperimentare si presenta un’organizzazione dalla quale il pensiero è portato, così come la percezione sensoria di immagini è portata dall’organizzazione dei sensi” (p. 204).

A un certo punto del nostro cammino, si sente (tanto più oggi) un vitale bisogno del “bello” (“Il bello è il trasparire dello spirituale attraverso la forma esteriore”) (10). La scienza dello spirito, spiega infatti Steiner, parte dalla scienza (dal pensare) e arriva, attraverso l’arte (il sentire), alla religione (al volere).


Giorni fa, riascoltando il Lohengrin, ho ancora una volta sperimentato la benedetta potenza della vera arte, di quella bellezza (“filocalia”) che, come dice Dostoevskij, “salverà il mondo”.


Lohengrin, figlio di Parsifal, è l’inviato del Graal. Ebbene, tutto ciò che, grazie allo studio, custodiamo devotamente nel pensiero, viene espresso da quest’opera con una forza (morale, più che estetica) che commuove, consola e allevia il dolore dell’anima.


Prima di poter “sentire questo sentire”, bisogna però pensare il pensare o, per meglio dire, percepire il pensare.


Di norma, infatti, percepiamo l’oggetto al quale pensiamo, ma non il pensare con il quale lo pensiamo. Per percepire quest’ultimo, dobbiamo far ricorso all’esercizio della concentrazione, e porci, per ciò stesso, in una condizione extra-ordinaria.


Scrive appunto Steiner: chi cerca “d’afferrare il pensare attraverso un semplice processo di osservazione, come fa per altri oggetti del mondo (…) non potrà mai afferrarlo, perché, come ho dimostrato, il pensare si sottrae propriamente all’osservazione normale. Chi non può superare il materialismo manca della facoltà di collocarsi in quello stato di eccezione sopra descritto, per cui egli diviene cosciente di ciò che rimane incosciente in ogni altra attività dello spirito” (nel sentire e nel volere) (11).


Solo sperimentandolo è possibile scoprire che il pensare è una realtà in movimento, un’attività o una forza: ch’è cioè un verbo, e non (come i pensati o le rappresentazioni) un sostantivo.


Mi disse una volta Scaligero: “Quando pensiamo, dovremmo arrivare a sperimentarci nello stesso modo in cui ci sperimentiamo quando ci muoviamo”.


Quando afferriamo, allungando un braccio, una cosa, siamo infatti coscienti di averlo fatto grazie a un nostro movimento (fisico), mentre quando afferriamo, pensando, un’idea o un concetto, non siamo coscienti di averlo fatto grazie a un nostro movimento (eterico).
E’ di questo, dunque, che dobbiamo prendere anzitutto coscienza. Solo così potremo scoprire, al di là o al di sopra dell’organizzazione fisica, l’organizzazione eterica (quale portatrice appunto del pensare).

“Allora l’uomo sa di trovarsi collegato, mediante questa organizzazione del pensiero, col mondo stellare circostante, come prima si sapeva collegato con la sfera della terra attraverso l’organizzazione dei sensi. Egli si riconosce quale essere cosmico. I pensieri non sono più ombre; sono saturi di realtà come le immagini sensorie nella percezione dei sensi” (p. 204).

Abbiamo visto, a suo tempo, che il mondo vegetale sta tra “cielo e terra”: sta cioè in mezzo, tra una forza centrifuga, che lo attrae verso il cosmo, e una forza centripeta, che lo attrae verso il centro della Terra.


Ebbene, quando consideriamo l’organizzazione fisica dei sensi e l’organizzazione eterica del pensare, ci troviamo alle prese con la stessa dinamica: la prima è infatti centripeta, mentre la seconda è centrifuga.


Potremmo perciò dire, parafrasando “l’eterno femminino ci trae in alto” di Goethe: “l’eterno pensare ci trae in alto”.


Verso che cosa? Verso quei logoi, quelle essenze o quei pensieri universali detti, da Steiner, “saturi di realtà”.


Di questo riparleremo tra poco. Per il momento, conta soprattutto realizzare che una cosa è il pensare quale verbo (il pescare), altra i pensieri universali (i pesci), con i quali è “collegato”, e altra ancora i pensati o le rappresentazioni (i pesci pescati e morti).


Scrive appunto Scaligero: “Per il pescatore raffinato il pescare è più importante del pescato: così come, per il saggio, il pensare è più importante del pensato (12).

“Se poi l’uomo si eleva conoscendo all’ispirazione, si avvede di potersi spogliare di questo mondo, che si appoggia all’organizzazione del pensiero, così come si era potuto spogliare del mondo terreno. Scorge come anche con l’organizzazione del pensiero egli appartenga non all’essere suo proprio, ma al mondo. Scorge come attraverso la sua propria organizzazione del pensiero regnino in lui i pensieri universali. Si rende di nuovo conto di come, pensando, egli non accolga in sé delle immagini del mondo, ma di come egli si inoltri nel pensare universale con la sua organizzazione del pensiero.


Tanto in relazione all’organizzazione dei sensi, quanto al sistema del pensiero, l’uomo è mondo. Il mondo si costruisce dentro di lui. Perciò né nella percezione dei sensi, né nel pensiero egli è se stesso, ma è contenuto del mondo” (p. 204).

Abbiamo parlato del pensare eterico, vivente o immaginativo; parliamo adesso del pensiero qualitativo o ispirato (dei pensieri), e quindi di ciò che si trova al di là della soglia.


Che cosa si trova al di là della soglia? Lo sappiamo: il mondo delle idee di Platone, il regno delle Madri di Goethe o il regno di quelle essenze che brillano, come stelle, di luce propria.
Solo a questo livello si penetra nella sfera animico-spirituale: ossia nella sfera in cui siamo (quali Io), e non solo (come in quella eterico-fisica) esistiamo (“anche con l’organizzazione del pensiero”, dice Steiner, l’uomo appartiene “non all’essere suo proprio, ma al mondo”).
“L’iniziazione - affermano i maestri - consiste nel morire prima di morire”.


In effetti, lo spogliarsi liberamente del corpo fisico, per scoprire il corpo eterico, e lo spogliarsi liberamente del corpo eterico, per scoprire il corpo astrale, sono atti che corrispondono ai fatti che si verificano necessariamente dopo la morte.


Dopo la morte dobbiamo tornare all’Io, mentre durante la vita, per mezzo della moderna iniziazione, vogliamo tornare coscientemente all’Io (a quell’Io che non abbiamo mai smesso, in realtà, di essere).

 

***


“Nell’organizzazione del pensiero l’uomo immerge ora lo spirituale-animico dell’essere suo, il quale non appartiene né al mondo terreno, né a quello stellare, ma è di natura totalmente spirituale ed esiste nell’uomo di vita terrena in vita terrena. Questo elemento spirituale-animico è accessibile soltanto all’ispirazione” (pp. 204-205).

Non ricordo se nelle Introduzioni agli scritti scientifici di Goethe (13) o altrove, Steiner spiega che la coscienza intuitiva è pneumatologica, che quella ispirata è psicologica, e che la coscienza immaginativa e quella rappresentativa sono naturalistiche (la prima relativamente alla natura organica, la seconda alla natura inorganica).


E’ Goethe, ovviamente, a fornire il migliore esempio di una scienza naturale ch’è al tempo stesso una scienza immaginativa o di una scienza immaginativa ch’è al tempo stesso una scienza naturale.

“Così l’uomo esce dalla sua organizzazione terrestre-cosmica [fisico-eterica], per stare davanti a se stesso come essere puramente spirituale-animico grazie alla sua ispirazione” (p. 205).

Teniamo presente che la nostra organizzazione “terrestre-cosmica”, potrebbe essere anche detta “arimanico-luciferica”.


Arimane patrocina infatti l’identificazione (centripeta) con ciò che, al di qua della soglia, è morto (terrestre), mentre Lucifero patrocina l’identificazione (centrifuga) con ciò che, al di qua della soglia, è vivo (cosmico).


Guardate quanto sta succedendo: non è significativo che in un mondo come il nostro, che si va sempre più arimanizzando, vada di contro aumentando, in specie tra i giovani, il cupio dissolvi: ossia il desiderio (più o meno cosciente) di morire, di annullarsi o di autodistruggersi?


Dice Steiner che l’uomo, “grazie alla sua ispirazione”, sta “davanti a se stesso come essere puramente spirituale-animico”.


Grazie alla coscienza ispirata, stiamo infatti davanti allo spirituale che si manifesta animicamente, mentre, grazie alla coscienza intuitiva, stiamo davanti allo spirituale che si manifesta spiritualmente (quale realmente è).


La manifestazione animica dello spirito è l’epifania dell’Io nell'anima.

“In questa entità puramente spirituale-animica l’uomo incontra l’azione del proprio destino” (p. 205).

Perché “in questa entità puramente spirituale-animica” incontriamo l’azione del nostro destino? E’ presto detto: perché incontrando il corpo astrale incontriamo il nostro karma.
Sappiamo, infatti, che il corpo astrale è il corpo “causale”: ossia il corpo in cui risiedono le cause di quanto, mediante il corpo eterico, si realizza nel mondo fisico.

“Con la sua organizzazione sensoria l’uomo vive nel suo corpo fisico; con l’organizzazione del pensiero nel suo corpo eterico. Dopo essersi spogliato di entrambe queste organizzazioni per mezzo dell’esperienza conoscitiva, egli è nel suo corpo astrale.


Ogni volta che l’uomo si spoglia di qualche cosa della sua natura acquisita, il suo contenuto animico, da una parte, si impoverisce; ma dall’altra si arricchisce” (p. 205).

Ho detto poc’anzi che, non dando al mondo quel ch’è del mondo e all’Io quel ch’è dell’Io, siamo diventati psichicamente “obesi” e “costipati”. Sarebbe dunque opportuna una “dieta dimagrante”: una dieta che, in quanto (psichicamente) “dimagrante”, c’impoverisca, ma che, in quanto (animicamente) “rigenerante”, ci arricchisca.


Dice appunto Steiner: “Ogni volta che l’uomo si spoglia di qualche cosa della sua natura acquisita, il suo contenuto animico, da una parte, si impoverisce; ma dall’altra si arricchisce”.

“Se l’uomo, dopo essersi spogliato del corpo fisico, ha davanti a sé la bellezza del mondo vegetale sensibile solo in forma sbiadita, in compenso gli sorge dinanzi all’anima tutto il mondo degli esseri elementari che vivono nel regno vegetale.


Ma perché è così, nell’uomo che veramente conosce spiritualmente, non domina un atteggiamento ascetico di fronte a ciò che i sensi percepiscono. Nell’esperienza spirituale permane in lui pienamente il bisogno di percepire ancora mediante i sensi quanto egli sperimenta nello spirito. E come nell’uomo completo, che tende all’esperienza della realtà intera, la percezione sensoria desta l’anelito al suo polo opposto, al mondo degli esseri elementari, così la veggenza degli esseri elementari desta a sua volta la nostalgia per il contenuto della percezione sensoria” (p. 205).

Sappiamo, grazie a La filosofia della libertà, che siamo noi a dividere il mondo, ch’è uno, in un mondo percepito (res extensa o non-ego) e in un mondo pensato (res cogitans o ego).
Non umano, dunque, è il mondo solamente percepito, e non umano è il mondo solamente pensato: il primo è ipotecato infatti da Arimane, mentre il secondo lo è da Lucifero.
Dice Steiner: “E come nell’uomo completo, che tende all’esperienza della realtà intera, la percezione sensoria desta l’anelito al suo polo opposto, al mondo degli esseri elementari, così la veggenza degli esseri elementari desta a sua volta la nostalgia per il contenuto della percezione sensoria”.


Spesso i sensi vengono invece patiti o fuggiti. Ma se ne è schiavo chi li patisce, non ne è meno schiavo chi li fugge perché preso dal timore di rimanerne irretito.


Solo un “uomo completo” (un uomo del Cristo) può infatti avere con i sensi un rapporto non “bulimico” né “anoressico”, bensì sobrio, sano e innocente (al noto detto di Goethe: “Non sono i sensi a errare, ma il giudizio”, potremmo perciò aggiungere: “Non sono i sensi a bramare, ma la psiche”).


Tra breve, Steiner parlerà appunto di una “gioiosa inclinazione” dell’anima ad accogliere pienamente “i miracoli del mondo dei sensi”.


Dice infatti il Cristo-Gesù: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18,3).

“Nel complesso della vita umana lo spirito richiede il senso, e il senso richiede lo spirito” (p. 205).

L’abbiamo detto e ridetto: il mondo sensibile è il mondo spirituale così come si presenta ai sensi (fisici), mentre il mondo spirituale è il mondo sensibile così come si presenta allo spirito (all’Io).


Se rendessimo trasparente la nostra coscienza, renderemmo trasparente il sensibile, e vedremmo allora, attraverso il sensibile, il sovrasensibile o, attraverso la materia, lo spirito (a partire, naturalmente, dagli “esseri elementari”).


(Scrive Paolo: “Noi ora vediamo, infatti, come per mezzo di uno specchio, in modo non chiaro; allora invece vedremo direttamente in Dio; ora conosco solo in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente nello stesso modo con cui io sono conosciuto” – 1Cor, 12.)

“Nell’esistenza spirituale vi sarebbe il vuoto se non vi fossero come ricordo le esperienze della vita dei sensi; nell’esperienza dei sensi vi sarebbe la tenebra se non vi operasse luminosamente, sebbene a tutta prima nel subcosciente, la forza dello spirito.


Di conseguenza, quando l’uomo si sarà maturato in modo da poter sperimentare l’attività di Michele, non avverrà nelle anime un impoverimento delle esperienze suscitate dalla natura, ma al contrario un arricchimento. E neppure la vita del sentimento tenderà a ritirarsi dall’esperienza dei sensi, ma avrà una gioiosa inclinazione ad accogliere pienamente nell’anima i miracoli del mondo dei sensi” (pp. 205- 206).

Approfitto, prima di passare alle massime, per fare una breve digressione.


Vi ho detto, una sera (lettera 10 agosto 1924), che una persona, anni fa, smise di frequentare il nostro gruppo perché, disse, “facevamo sempre le stesse cose” (perché studiavamo sempre gli stessi testi).


Ebbene, rileggendo in questi giorni "L’impulso Cristo e la coscienza dell’io", ho ritrovato un paio di passi che vi voglio leggere.


Il primo è questo: “Oggi dedicheremo la nostra attenzione a cose che possono interessare lo studioso di scienza dello Spirito in senso lato; cose che dovrebbero chiarire questo o quell’aspetto a chi già da tempo partecipa a queste riunioni. È bene innanzitutto ricordarsi ogni tanto che nella scienza dello Spirito l’essenziale non è tanto apprendere una determinata cosa in generale, come teoria o insegnamento, ma occuparsi sempre di nuovo, in modo più rigoroso e profondo, delle questioni e dei misteri della vita. Qualcuno potrebbe infatti obiettare: ciò che della scienza dello Spirito, in prima battuta, bisogna sapere per la vita, lo si potrebbe inserire, in tutta la sua completezza, in un opuscoletto di una sessantina di pagine; successivamente ognuno potrebbe assimilare questo opuscoletto, per farsi delle convinzioni circa l’essere dell’uomo, la reincarnazione e il karma, l’evoluzione dell’umanità e della Terra, e potrebbe, con queste convinzioni, pellegrinare attraverso la vita. E qualcuno, allettato da questa idea, potrebbe forse dire: “Ma perché il movimento antroposofico non dissemina per il mondo, in più esemplari possibili, questi argomenti principali, affinché ognuno possa farsi delle convinzioni in merito? Perché questo movimento fa una cosa apparentemente curiosa, vale a dire riunisce una volta a settimana chi si occupa di scienza dello Spirito, per descrivere sempre da capo ciò che comodamente si potrebbe inserire in una sessantina di pagine? Questi antroposofi - ci si potrebbe chiedere - che cosa hanno da dire settimana dopo settimana ai loro seguaci?”. Sì, la necessità di avere dei compendi che consentano di appropriarsi dell’indispensabile, anche riguardo all’indagine spirituale stessa, forse corrisponde ad una certa mentalità del nostro tempo. Ma è proprio questo che dobbiamo richiamare sempre più alla mente, ossia che nell’indagine spirituale non sono sufficienti gli opuscoli divulgativi, che in fondo l’essenziale non è il sapere, anche se l’indagine spirituale consiste in un sapere, in una conoscenza. Dobbiamo richiamare alla mente che non bisogna vedere l’essenza dell’indagine spirituale in frasi astratte, ma in conoscenze ben concrete, di cui non basta però appropriarsi, secondo l’uso comune, come di una convinzione diffusa e accontentarsi di ciò. Non si tratta, infatti, di sapere di avere delle convinzioni. L’uomo non vive una volta sola, dal momento che ci sono nessi causali che da una vita si estendono all’altra, e dal momento che ci sono la reincarnazione e il karma. L’aspetto propriamente salvifico dell’indagine spirituale non consiste nel diffondere questi insegnamenti, ma nell’occuparsene con grande costanza, in modo profondo, intimo, con attenzione ai particolari, lasciando che questi insegnamenti operino ininterrottamente sull’anima dell’uomo”.


E questo è il secondo: “Ora diamo una risposta alla domanda: perché ci riuniamo così spesso? Ci riuniamo così spesso perché non solo vogliamo arricchire la nostra conoscenza accogliendo degli insegnamenti, ma anche perché gli insegnamenti, offerti nella giusta maniera, sono adatti a rendere il nucleo del nostro essere sempre più forte e vigoroso. Versiamo una linfa vitale e spirituale nelle nostre questioni quando ci incontriamo e ci occupiamo di scienza dello Spirito. La scienza dello Spirito non è, quindi, una teoria, bensì una pozione vitale, un elisir vitale che si riversa sempre nuovamente nella nostra anima e di cui sappiamo che rende l’anima sempre più forte e vigorosa. Quando la scienza dello Spirito non sarà più per gli uomini ciò che essa è oggi, a causa dell’incomprensione del mondo esteriore, quando un giorno interverrà in tutta la nostra vita spirituale, allora gli uomini vedranno come la salvezza di tutta la vita esteriore, anche della vita fisica, dipende dal rafforzamento che si può guadagnare attraverso la meditazione e attraverso esperienze comunitarie come le nostre. Verrà il tempo in cui queste riunioni potranno diventare il ricostituente più importante per gli uomini, che potranno allora dire a tutti: le nostre capacità, la nostra salute, la nostra forza nella vita, tutto ciò lo dobbiamo al fatto che noi ci rafforziamo sempre nuovamente nel nucleo vero e proprio del nostro essere, nel centro del nostro essere!” (14).
Occupiamoci adesso delle massime.

171) “L’organizzazione umana dei sensi non appartiene all’entità umana, ma vi è edificata dal mondo circostante durante la vita sulla terra. L’occhio percettivo è spazialmente nell’uomo, ma nella sua essenza è nel mondo. E l’uomo immerge il suo essere spirituale-animico in ciò che il mondo sperimenta in lui per mezzo dei suoi sensi. L’uomo non accoglie in sé, durante la vita sulla terra, il mondo fisico circostante, ma penetra in esso col suo essere spirituale-animico”.

Notate questa affermazione: “E l’uomo immerge il suo essere spirituale-animico in ciò che il mondo sperimenta in lui per mezzo dei suoi sensi”.
Che cosa ci ricorda questo? Che l’uomo è quella parte del mondo per mezzo della quale il mondo prende coscienza di sé.
Quando affermiamo, ad esempio: “Questa è una rosa”, noi ri-conosciamo la rosa, e la rosa si conosce in noi: vale a dire, il soggetto (l’Io) si ri-conosce nell’oggetto, e l’oggetto si conosce nel soggetto.
Non si tratta, mi sembra di averlo già detto, di un processo astratto, bensì di un processo concreto che necessita tanto alla nostra evoluzione quanto a quella del mondo che ci circonda.

172) “Similmente avviene per l’organizzazione del pensiero. L’uomo penetra con essa nell’esistenza stellare. Riconosce se stesso quale mondo stellare. Quando, nel conoscere sperimentando, si è spogliato dell’organizzazione dei sensi, egli vive e si muove nei pensieri universali”.

Abbiamo detto più volte che il mondo è unità di forma e di forza, di concetto e percetto. In quanto parti di tale unità, la forma o il concetto e la forza o il percetto sono dunque mondo.
La prima è la parte “stellare”, la seconda è la parte terrena o sensibile, quella accolta dalla organizzazione dei sensi.
L’uomo, quale terzo, sta in mezzo, laddove il mondo prima si divide (“solve”) e poi si ri-unisce (“coagula”).
E’ questa la chiave di tutto. Dall’uno nasce il due (la separazione, l’opposizione, il peccato), e dal due nasce il tre (la ri-unione, l’accordo, la redenzione).
L’uno è l’unità prima della divisione, mentre il tre è l’unità dopo la divisione, dopo quella divisione o dualità che modernamente affligge, per dirla con Hegel, “la coscienza infelice scissa entro se stessa(15).

173) “Spogliatosi di entrambi, del mondo terrestre e di quello stellare [del mondo dei percetti e di quello dei concetti], l’uomo sta dinanzi a sé stesso quale essere spirituale-animico. Allora non è più mondo, allora è veramente uomo. E il rendersi conto di ciò che sperimenta allora, vuol dire per lui conoscere se stesso, come il percepire nell’organizzazione dei sensi e del pensiero vuol dire conoscere il mondo”.

Note:

1)
J.W.Goethe: Massime e riflessioni – TEA, Roma 1988, p. 160;
2) R.Steiner: I confini della conoscenza della natura – Antroposofica, Milano 1979, pp. 104 e 106;
3) cfr. Pensare il Novecento, 27 marzo, 22 aprile, 22 maggio 2010;
4) cfr. E.Gentile: L’apocalisse della modernità – Mondadori, Milano 2008;
5) Shrî Aurobindo: Considerazioni e pensieri – Bocca, Milano 1943, p. 61;
6) cfr. R.Steiner: L’Apocalisse – Antroposofica, Milano 1963;
7) P.Galluppi: Saggio filosofico sulla critica della conoscenza (estratti) – Signorelli, Roma (s.d.), p. 34;
8) R.Steiner: Antroposofia-Psicosofia-Pneumatosofia – Antroposofica, Milano 1991, p. 154;
9) 101 Storie Zen – Adelphi, Milano 1978, p. 13;
10) R.Steiner: Genesi. I misteri della versione biblica della creazione – Antroposofica, Milano 1978, p. 132;
11) R.Steiner: La filosofia della libertà – Antroposofica, Milano 1966, pp. 37-38;
12) M.Scaligero: Il sorriso degli Dei – Tilopa, Roma 1987, p. 18;
13) cfr. R.Steiner: Introduzioni agli scritti scientifici di Goethe – Antroposofica, Milano 2008;
14)
R.Steiner: L’impulso del Cristo e la coscienza dell’Io – Tilopa, Roma 1994, pp. 25-26 e 40;
15) G.W.F.Hegel: Fenomenologia dello spirito – La Nuova Italia, Firenze 1996, p. 132.