I L   V E R O   P O T E R E

 

 

 

Scienza del conoscere possibile e infinito
 

Da secoli la scienza, soprattutto la scienza del terzo millennio, soffre di una peste consistente in una malsana fede in Kant. Quindi potrà guarire solo col contributo di individualità che sapranno opporsi decisamente al grande misfatto di Kant. Il grande misfatto di Kant fu quello di presentare la causa prima delle cose come situata fuori dalle cose, in un al di là del mondo dei sensi e della ragione, e dunque come qualcosa del tutto inaccessibile al nostro potere di conoscenza. Da ciò Kant dedusse che la nostra conoscenza scientifica avrebbe dovuto essere limitata all’esperimento e che comunque non avrebbe potuto giungere a conoscere la causa prima soprasensibile della “cosa in sé”. Il risultato di questo modo di pensare è che oggi ci ritroviamo una scienza regredita all’infantilismo o alla fantascienza creduta scienza (viaggi nel tempo, macchine del tempo, LHC, ecc., si noti che il macchinario “Large Hadron Collider” o LHC, “Grande Collisore di Adroni”, cioè l’odierna macchina più grande del mondo, costò 6 miliardi di euro. L’Italia, contribuendo per il 12%, mise a disposizione 720 milioni di euro, “spalmati” in 10 anni, per un equivalente di circa 50 milioni di euro all’anno. Ma non è finita: il mantenimento di questo inutile macchinario, lungo ben 27 km, continua a costare più di un miliardo di euro l’anno. L’Italia, grazie alle tasse dei “contribuenti”, ne paga il 10%, cioè 100 milioni di euro ogni anno! E ciò per scovare fanaticamente nuove particelle, moda questa non dissimile a quella dell’andare per funghi).

È però facile riconoscere che questa “cosa in sé” kantiana, assieme all’ultra-mondana causa prima delle cose, non è altro che un fantasma: ammettere principii del nostro mondo, fuori da esso, si palesa come pregiudizio di una filosofia morta, sopravvivente soltanto in vani dogmi illusori. Kant avrebbe potuto accorgersene se solo avesse veramente indagato di che cosa sia capace il nostro pensare; invece dimostrò nel modo più cavilloso possibile che, per la disposizione delle nostre facoltà conoscitive, noi non saremmo in grado di arrivare ai principi ultimi, i quali sarebbero sempre oltre la nostra esperienza.

Ma per l’individuo ragionevole le cose non stanno così e quei principi non vanno affatto collocati in quell’inaccessibile “al di là”. E questo sarà reso sempre più evidente dal sano pensare.

Kant confutò, sì, il dogmatismo, ma non mise alcunché al suo posto; perciò il pensiero tedesco che cronologicamente a lui si riallacciava, si sviluppò dovunque in opposizione a Kant. Fichte, Schelling, Hegel, non si curarono più oltre dei limiti della conoscenza imposti da Kant e cercarono i princìpi delle cose entro il di qua della ragione umana. Perfino Schopenhauer, il quale pure diceva che i risultati della kantiana critica della ragione sarebbero state verità incrollabili in eterno, non poté fare a meno di battere vie divergenti da quelle del suo maestro.

La sfiga di questi pensatori fu quella di cercare la conoscenza delle verità supreme, senza avere prima posto le basi a tale impresa mediante l’indagine sulla natura stessa del conoscere. Ecco perché le tronfie costruzioni di pensiero di Fichte, Schelling e Hegel sono senza basi e questa deficienza danneggiò perciò anche tutto lo svolgimento del pensare più oltre, fino a oggi. Senza conoscere l’importanza del mondo delle idee e del suo rapporto con quello del percepire sensibile, si costruirono errori sopra errori, unilateralità sopra unilateralità. È quindi ovvio che i troppo stupidi sistemi che seguirono non furono più in grado di sfidare i guai di un’epoca del tutto antilogica, come è ancora la nostra del terzo millennio. Si prenda per esempio l’attuale sistema di pensiero che riguarda il monetaggio. È ancora esattamente quello veterotestamentario secondo il quale chi presta è signore e chi invece riceve il prestito è schiavo. Non dimostrò forse Kant che cento talleri immaginati equivalgono a cento talleri reali? Oggi dunque non si tratta più di dimostrare, come fece Kant, ciò che la nostra conoscenza NON può, ma al contrario ciò di cui essa È veramente capace.

Oggi siamo stati abituati a dire che la verità non esiste e che se esiste è il riflesso ideale di qualcosa di reale. No. Non è vero. La verità è invece una libera creazione dell’io e semplicemente essa non esisterebbe in alcun luogo, se non fosse prodotta da noi stessi. Il compito della conoscenza non è dunque quello di ripetere in forma concettuale ciò che già esiste altrove, ma di creare un campo del tutto nuovo che solo in unione col mondo sensibile dato formi la realtà completa. Con ciò la suprema attività dell’uomo, il suo creare immateriale, è organicamente inserito nel divenire universale. Senza quest’attività il divenire universale non sarebbe per nulla pensabile come totalità completa in se stessa. Di fronte al corso del mondo, l’uomo non è uno spettatore ozioso che ripete in immagini all’interno di sé quello che senza la sua opera si compie nel cosmo, ma un co-creatore attivo del processo del mondo; e nell’organismo dell’universo il conoscere è l’elemento più perfetto.

Solo da questo modo di considerare le cose del mondo potrà sorgere come conseguenza - e come conseguenza molto importante - che anche tutte le leggi del nostro fare, tutti i nostri ideali etici, non andranno più considerati come l’immagine di qualcosa che esiste fuori di noi, ma come ciò che è presente SOLO in noi. Con ciò sarà dunque eliminata anche una signoria, i cui comandi, comandamenti, imposizioni, imposte, ecc., risulteranno essere le sole nostre leggi morali.

Non andrà più riconosciuto un “imperativo categorico” privo di “imperatore”, cioè privo di io imperante, né una voce dell’al di là, che ci prescrive quel che dobbiamo fare e non fare; i nostri ideali morali saranno e sono una nostra propria libera e continua produzione: l’uomo ha bisogno oggi di fare quello che egli stesso si prescrive come norma del suo fare.

La concezione della verità come atto di libertà genererà quindi anche un’etica, la cui base sarà la personalità perfettamente libera.

Tutto ciò che può dirsi in questo campo varrà ovviamente solo per quella parte del nostro fare le cui leggi saremo stati in grado di approfondire attraverso una conoscenza di idee e di concetti sempre più perfetti. Finché queste leggi saranno motivazioni puramente naturali, cioè fisiologici, o concettualmente ancora oscure, le sentiremo e le sentiamo agire su di noi dal di fuori come costrizioni, pur potendo qualcuno, spiritualmente più alto di noi, riconoscere fino a che punto queste leggi del nostro agire siano fondate nella nostra individualità. Ogni volta che saremo in grado di afferrare simili motivazioni con chiara conoscenza, faremo una conquista nel campo della libertà.

Lo scopo di tutta la scienza è in ultima analisi quello di elevare il valore dell’esistenza di ogni persona. Chi non coltiva la scienza con questo fine, lavora solo perché ha visto il suo maestro fare altrettanto; cioè “investiga” perché ha imparato appunto questo per caso; ma non può essere detto un “pensatore libero”. Il vero valore della scienza è dato alla scienza solo dalla dimostrazione pensante dell’importanza umana dei suoi risultati. A questa dimostrazione lo scienziato, se è un vero scienziato, dovrebbe anelare a portare un contributo.

La scienza odierna invece sembra non chiedersi minimamente una simile giustificazione
(vedi per esempio le puttanate di Schrödinger sul pensare inteso come meramente soggettivo). In questo caso due sono le cose certe: la prima è che tutte queste parole su questo argomento, e ogni altra parola del futuro sono e saranno inutili; la seconda è che l’erudizione odierna pescherà e pesca nel torbido, non sapendo ciò che vuole.

Bibliografia essenziale:

R. Steiner, “Verità e scienza”, Prefazione, pp. 7-12, Ed. Antroposofica, Milano 2012.