EURO - NEURO - QUARK
Bibliografia essenziale: Lucio Russo, «Le “magnifiche sorti” e regressive», Roma, 15 settembre 2015 (www.ospi.it)
Nel pianeta delle scimmie odierno, la “teoria della relatività generale” di Einstein è insegnata come la “più bella delle teorie scientifiche” (C. Rovelli, “Sette brevi lezioni di fisica”, Ed. Adelphi, Milano 2014, p. 14), per capire la quale occorrerebbe meno impegno di quello necessario “per arrivare a sentire la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven. In un caso e nell’altro, il premio è la bellezza, e occhi nuovi per vedere il mondo” (ibid. pag. 26).
Per le “scimmie” insomma la bellezza non è un premio per l’arte ma per la scienza.
Al tempo degli umani il premio proveniente dalla scienza era la “verità”.
Al tempo delle “scimmie” la scienza è bella nella misura in cui è NON galileiana, ma metafisica della quantità, e perciò un prodotto regressivo e anacronistico.
Ma un conto era fare della metafisica come al tempo degli umani, che nella fase evolutiva dell’anima razionale-affettiva sapevano di fare “metafisica”, altro - come avviene oggi con le scimmie - è fare metafisica credendo di fare “fisica”.
Certamente qualche umano c’è ancora ed osserva che: “quando una disciplina matematica viaggia lontano dalla sua sorgente empirica, o ancor più, quando si trova a una seconda o terza generazione ispirata soltanto indirettamente dalle idee provenienti dalla “realtà”, corre rischi assai gravi. Diventa sempre più puramente estetizzante, sempre più l’art pour l’art” (John von Neumann, cit. in G. Israel, “La matematica e la realtà. Capire il mondo con i numeri”, Ed. Carocci, Roma 2015, p. 131).
Sembra che “a scrivere per primo le equazioni della nuova teoria” (dei “quanti”) sia stato Werner Heisenberg (Rovelli, op. cit., pag. 26), e che secondo questa teoria nessun oggetto avrebbe “una posizione definita, se non quando incoccia contro qualcos’altro”, così che “per descriverlo a metà-volo fra un’interazione e l’altra, si usa un’astratta funzione matematica che non vive nello spazio reale, bensì in astratti spazi matematici” (ibid., pag. 27), e che dovremmo perciò “accettare l’idea che la realtà sia solo interazione” (ibid., pag. 29).
Domanda: ma la realtà dovrebbe essere “solo interazione” negli “astratti spazi matematici” oppure dovrebbe esserlo anche nello “spazio reale” di Newton, che egli appellava “sensorio di Dio”?
Secondo l’“architettura del cosmo” scimmiesco “la scienza, prima di essere esperimenti, misure, matematica, deduzioni rigorose, è soprattutto visioni. La scienza è attività innanzitutto visionaria. Il pensiero scientifico si nutre della capacità di “vedere” le cose in modo diverso da come le vedevamo prima” (ibid., pag. 31).
Anche chi si è fatto una canna o ha bevuto molto vino però vede le cose in modo diverso da come le vedeva prima. Si tratta perciò di capire se, vedendole in modo diverso da prima, le si vede meglio (più realisticamente) o peggio (meno realisticamente) di come le vede la coscienza ordinaria (o il realismo ingenuo). Una cosa, infatti, è la FANTASIA SOGGETTIVA (la facoltà “visionaria”, più o meno spontanea), altra - come dimostra Goethe - la FANTASIA OGGETTIVA (la facoltà “immaginativa”). Prima di essere esperimenti, misure, matematica, deduzioni rigorose, la scienza è certamente visione, ma prima di essere “visione” è “ispirazione”, e occorrerebbe una scienza dello spirito per riconoscere mediante intuizione le entità aberranti che ispirano agli scienziati visioni (magari i “modelli matematici”) che non solo impediscono di passare dal normale realismo delle cose a un più alto realismo del pensare e delle idee, ma minano anche il realismo stesso, cioè il “buon senso”.
Cristo (1) dice: “A chi ha [IL SANO INTELLETTO, DONO DELLO SPIRITO SANTO - nota di L. Russo, op. cit.] sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13,12).
La scimmia dice: “La natura è la nostra casa e nella natura siamo a casa. Questo mondo strano, variopinto e stupefacente che esploriamo, dove lo spazio si sgrana, il tempo non esiste e le cose possono non essere in alcun luogo” (Rovelli, op. cit., pag. 84).
Vladimir Soloviev (1853-1900), riferendosi al darwinismo, dice: “L’uomo discende dalla scimmia; dunque amiamoci l’un l’altro”.
Allora, parafrasando la scimmia, io dico: “Lo spazio si sgrana, il tempo non esiste e le cose possono non essere in alcun luogo; dunque amiamoci l’un l’altro”.
Steiner allora mi corregge: “Il mondo non solo ci è noto quale ci appare, ma ci appare qual è realmente (certo però soltanto all’osservazione pensante). La figura della realtà che l’uomo delinea nella scienza, è l’ultima verace figura della realtà” (R. Steiner, “Linee fondamentali di una gnoseologia della concezione goethiana del mondo” in “Saggi filosofici”, Ed. Antroposofica, Milano 1990, p. 75).
Allora posso accorgermi del fatto che quanto si va “sgranando”, unitamente alla coscienza dell’OGGETTO, non è altro che la coscienza del SOGGETTO, cioè dell’IO, vale a dire l’autocoscienza.
Finché non arrivo a questo accorgermi umano, posso solo scimmiescamente “accettare l’idea che la realtà sia solo interazione” (Rovelli, op. cit., pag. 29) e che ciò faccia da PENDANT all’“IO = RELAZIONE” della teologia di altre scimmie (cfr. il teologo Vito Mancuso, “Della relazionalità”, 9 gennaio 2015).
Le scimmie odierne, dette scienziati, studiano le “particelle”, e predicano dal pulpito che “ELETTRONI, QUARKS, FOTONI e GLUONI sono i componenti di tutto ciò che si muove nello spazio intorno a noi. Sono le “particelle elementari” studiate dalla fisica delle particelle. A queste particelle se ne aggiungono alcune altre, per esempio i NEUTRINI, che pullulano per l’universo ma hanno poche interazioni con noi, e il BOSONE DI HIGGS, rilevato a Ginevra, nella grande macchina del CERN, ma in tutto non sono molte. Una manciata di ingredienti elementari che si comportano come le tessere di un LEGO gigantesco con cui è costruita tutta la realtà materiale attorno a noi” (Rovelli, op. cit. pp. 39-40).
A me capita spesso di vedere qualche bambino costruire qualcosa con i mattoncini del LEGO. Invece non mi capita mai di vedere mattoncini del LEGO costruire qualcosa da soli, vibrando e fluttuando “in continuazione fra l’esistere e il non esistere” (ibid., pag. 45). Allo stesso modo non mi è mai capitato di vedere lettere dell’alfabeto costruire di loro spontanea volontà le parole. Come mai? La scimmia che è in me dice che vaneggio e allora rimuovo questi pensieri.
Eppure, sui cosiddetti “grani di spazio”, alcune "scimmiette" osservano che la relatività generale e la meccanica quantistica “non possono essere entrambe giuste, almeno nella loro forma attuale, perché si contraddicono l’un l’altra” (ibid., pag.47). Per la relatività generale, infatti, “il mondo è uno spazio curvo dove tutto è continuo”; per la meccanica quantistica, invece, “il mondo è uno spazio piatto dove saltano quanti di energia”: “dove sono questi quanti di spazio? Da nessuna parte. Non sono IN uno spazio, perché sono essi stessi lo spazio. Lo spazio è creato dall’interagire di quanti individuali di gravità […]. L’illusione dello spazio e del tempo continui attorno a noi è la visione sfocata di questo fitto pullulare di processi elementari” (ibid., pp. 51-52).
“SFOCATA” la normale “VISIONE” dell’intelletto legato ai sensi? Proprio quella che per Cartesio era “chiara e distinta”? Minchia! È allucinante!
Mi risponde Steiner: “Chi si ritrova nella vita immaginativa sa che quanto percepiamo nella natura coi nostri sani sensi è spiritualmente più in alto di tutto quanto può presentarsi all’anima come visione o allucinazione” (R. Steiner, “L’antroposofia e le scienze”, Ed. Antroposofica, Milano 1995, p. 18). Per “vita immaginativa” Steiner intende NON la vita della fantasia senza freni come può essere quella del bambino che allunga la mano per afferrare la luna ma l’esperienza (o l’esperimento della formazione dell’immagine oggettiva delle cose percepibili); per esempio se in un bosco “vedo” uno gnomo o guardando un disegno figure ambigue come il vaso di Rubin o come altre creazioni di Max Wertheimer (padre della psicologia gestaltica e amico di Albert Einstein) sperimento NON la reale vita immaginativa offertami offerta dai sensi sani ma, appunto, una visione o un’allucinazione che mi proviene NON dai sensi, bensì da un immaginare dipendente dalla mia volontà: di fronte al vaso di Rubin posso “vedere” a piacere un vaso o due profili di viso umano ... In base a ciò però non dirò mai, se sono sano di mente, che tutto è relativo...
Il paradosso, dicono gli scimmioni intelligenti, è “che entrambe le teorie funzionano terribilmente bene” (Rovelli, op. cit., pag. 48). L’obiettivo scimmiesco è dunque quello di “trovare una teoria, cioè un insieme di equazioni, ma soprattutto una coerente visione del mondo, in cui la schizofrenia sia risolta” (ibid., pag. 48).
Ma scimmiette, non fatevi illusioni: a questa e ad altre odierne “schizofrenie” (o ad altri odierni “stati confusionali”) potrà porre rimedio solo una “coerente visione del mondo” che si presenti NON come “un insieme di equazioni”, ma come il frutto di un nuovo pensare e dello sviluppo di nuovi e superiori livelli di coscienza e di autocoscienza. Tutto il resto è psicopatologia. Ecco perché Virgilio vedeva assai rischioso “scendere agli inferi” [nel mondo sub-sensibile] sprovvisti del “ramo d’oro” [della conoscenza soprasensibile].
Predicando “probabilità”, “tempo” e “calore dei buchi neri”, alla domanda: “Che cos’è il calore?”, i gibboni odierni rispondono in coro che “una sostanza calda è una sostanza in cui gli atomi si muovono più veloci”, mentre una sostanza fredda è una sostanza in cui gli atomi “corrono più lenti” (ibid., pag. 57), e alla domanda: “Perché il calore va dalle cose calde alle cose fredde e non viceversa”, rispondono: “Il motivo lo ha trovato il fisico austriaco Ludwig Boltzmann ed è sorprendentemente semplice: è il caso”; e aggiungono: “L’idea di Boltzmann è sottile, e mette in gioco la nozione di probabilità” (ibid., pag. 59), così come la mette in gioco, seppur diversamente, la meccanica quantistica, dal momento che “prevede che il movimento di ogni cosa minuta avvenga a caso” (ibid., pag. 60). È il caso! Il motore immobile del mondo mobile procede a caso!
Eppure nel pianeta delle scimmie non è chiaro come mai siano gli atomi delle sostanze calde a muoversi più veloci, e non invece la realtà del calore a renderli più veloci. Inoltre, l’idea del “caso”, che per Hegel è “ciò che è privo di pensiero” (G. W. F. Hegel, “Enciclopedia delle scienze filosofiche”, Ed. Laterza, Roma-Bari 1989, p. 114), più che “semplice” e “sottile”, mi sembra semplicistica e grossolana, al pari di ogni altro DEUS EX MACHINA (“In principio” era il caso) evocato al solo scopo di mascherare la nostra ignoranza e di porre (kantianamente) limiti alla nostra conoscenza (delle “cose in sé”). Scrivono appunto gli scimmioni: “La prevedibilità o imprevedibilità del loro comportamento non riguardano il loro stato esatto” (Rovelli, op. cit., pag. 62): vale a dire, la loro oggettiva realtà.
Al tempo degli umani, dunque, la scienza scopriva le leggi della natura e la necessità, mentre oggi la fisica statistica “scopre” il caso e la probabilità. Il che equivale a dire che al tempo degli umani, grazie all’intelletto, si conosceva l’io (almeno in veste di ego), mentre oggi si trascende l’ordinaria autocoscienza e/o l’io, non in modo cosciente e progressivo nella direzione della sopra-natura (dell’io superiore, o sé spirituale, o Cristo), bensì in modo incosciente e regressivo nella direzione della sub-natura (dell’indifferenziato o del caos).
E nel pianeta delle scimmie ciò è normalmente comprovato da parole come le seguenti: «Nella fisica non c’è niente che corrisponde alla nozione di “adesso”» (ibid., pag. 64), o di queste altre “La distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione” (A. Einstein in Rovelli, op. cit., pag. 65).
I pochi umani rimasti su questo pianeta delle scimmie, cioè rare persone orientate alla scienza dello spirito a carattere antroposofico sanno purtroppo che l’HIC (il qui) è manifestazione dell’io nello spazio (nel corpo fisico), che il NUNC (l’ora o l’adesso) è manifestazione dell’io nel tempo (nel corpo eterico), e che dove non ci sono più lo spazio e il tempo (surrogati magari dallo “spazio-tempo”) non c’è più l’io (l’autocoscienza). Qualche umano insiste purtroppo nel dire che “il presente è il riflesso dell’eterno nel tempo degli uomini”!
Ma oggi per fortuna siamo nel tempo di scimmie senza io, le quali, lottando strenuamente per consolidare la loro cecità volontaria anche riguardo a se stesse, continuano incessantemente e “umilmente” la loro opera di predicazione: “Nel grande quadro della scienza contemporanea ci sono molte cose che non capiamo, e una di quelle che capiamo meno siamo noi stessi” (Rovelli, op. cit., pag. 71). Ciò tuttavia non impedisce loro di scrivere: “abbiamo bisnonni in comune con le farfalle e con i larici”, “non siamo che un ghirigoro fra tanti” (ibid., pag. 72-73), “la sostanza prima dei nostri pensieri è una ricchissima informazione raccolta, scambiata, accumulata e continuamente elaborata” (ibid., pag. 76), «non ci sono “io”», “i neuroni del mio cervello” (O SCIMMIE, “MIO” DI CHI, SE AVETE APPENA DETTO CHE «NON CI SONO IO”»?), dato che “si tratta della stessa cosa”, e che «quell’“io” che decide è lo stesso “io” che si forma - in un modo che ancora non ci è certo del tutto chiaro, ma incominciamo a intravedere - dallo specchiarsi su se stessa, dall’autorappresentarsi nel mondo, dal riconoscersi come punto di vista variabile collocato nel mondo, di quella impressionante struttura che gestisce informazioni e costruisce rappresentazioni, che è il nostro cervello» (ibid., pag. 79-80). Ripeto: “NOSTRO” DI CHI?
È arduo credere, però, che gli scimmioni incomincino a intravedere qualcosa di nuovo se confondono l’io, che FORMA, con la coscienza dell’Io, che SI FORMA (nel corso dell’età evolutiva), se considerano il cervello (come fa da sempre il materialismo) una struttura che si “autorappresenta”, rispecchiandosi su se stessa, e se parlano della libertà (come fa da sempre il determinismo) in questi termini: “i nostri comportamenti sono determinati da quello che succede dentro noi stessi, nel cervello, e non sono costretti dall’esterno. Essere liberi non significa che i nostri comportamenti non siano determinati dalle leggi di natura. Significa che sono determinati dalle leggi della natura che agiscono nel nostro cervello” (ibid., pag. 78). Ripeto la domanda: “NOSTRO” DI CHI?
Purtroppo i pochi umani rimasti sanno che l’uomo è libero solo quando è determinato da dentro (dall’IO IN SÉ) e non da fuori. Perciò ogni tanto c’è qualche umano pazzo che grida pericolosamente alle scimmie: o scimmie, guardate che noi siamo vivi quando moriamo per conto nostro, non quando ci ammazza qualcun altro!
Le scimmie tuttavia continuando a spendere e spandere nell’inutile gioco dell’“aiuto stregone” o del CERN, ogni tanto, vergognandosi un po’, si chiedono: “Che cos’è la teoria dei quanti a un secolo dalla sua nascita? Uno straordinario tuffo profondo nella natura della realtà? Un abbaglio, che funziona per caso? Un pezzo incompleto di un puzzle? O un indizio di qualcosa di profondo che riguarda la struttura del mondo e che non abbiamo ancora ben digerito?” (ibid., pag. 30).
La mia risposta - purtroppo umana (sic!) - è la seguente: culturalmente e praticamente la teoria dei quanti esprime forze che FRANTUMANO O DISGREGANO LE FORME. Ecco perché la bomba atomica era detta, agli inizi, “bomba disgregatrice”. E poiché l’entità aggregante, nell’essere umano, è l’io, ne consegue che tali forze sono forze anti-io, quindi antilogiche, antisociali e antiumane. Ecco perché l’umano Steiner affermava che l’affacciarsi di queste forze sulla scena della vita umana, trascina “in un’oscurità che oltrepassa perfino quella del Kali Yuga”, poiché provengono da una sfera che si trova “ancor più in basso del Kali Yuga” (R. Steiner, “L’impulso-Cristo e la coscienza dell’Io”, Ed. Tilopa, Roma 1994, p. 96).
Tale affacciarsi delle scimmie segna l’inizio non solo dell’“era atomica”, ma anche di altri fenomeni. Osserva ad esempio Giorgio Israel: “A partire dalla prima decade del Novecento, la matematizzazione dei fenomeni non fisici si sviluppò in modo imponente in ogni settore, come sotto l’effetto di una decisione comune […]. Questi sviluppi presero forma come per una miracolosa coincidenza e si concentrarono nell’arco del ventennio 1920-40. Spiegare le ragioni di una siffatta esplosione è per lo storico un compito tanto avvincente quanto complesso” (G. Israel, op. cit., pag. 124).
Eppure, anche se gli scimmioni intelligenti non lo intuiscono, a causa di ottusità emergente perfino dai titoli di loro libri intelligenti (vedi ad es., di Boncinelli-Giorello, “Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà”, Ed. Rizzoli, Milano 2009), la potenza della realtà immateriale (spirituale) è tale che pure in questo cervellotico e autoreferenziale pianeta di scimmioni o della fisica contemporanea, riesce a fare capolino qualche verità, che l’antroposofo può riconoscere come episteme scientifico-spirituale (dato che non può non riconoscere come scienza dello spirito o dell’io, che invece per la scimmia è aberrante). Ad esempio, questa: «Il Big Bang, la “grande esplosione”, potrebbe essere stato in realtà un Big Bounce, un “grande rimbalzo”. Il nostro mondo potrebbe essere nato da un universo precedente che stava contraendosi sotto il proprio peso, fino a schiacciarsi in uno spazio piccolissimo, per poi “rimbalzare” e ricominciare a espandersi, diventando l’universo in espansione che osserviamo attorno a noi […]. Il nostro universo può essere nato dal rimbalzo di una fase precedente, passando attraverso una fase intermedia senza spazio e senza tempo” (Rovelli, op. cit., pp. 55-56). Certamente questa ipotesi è da tempo, nella scienza dello spirito, una certezza scientifica più che estetica o estetizzante.
Per concludere (ora, sì, “in bellezza”) ricordo ai pochi umani rimasti su questo mondo mal-mondato, queste parole di un umano: “Per se stesso e in quanto si serve dei suoi sensi integri l’uomo è il maggiore e il più preciso strumento di fisica che possa esistere; ed è appunto la maggior calamità della fisica moderna quella di aver quasi scisso gli esperimenti dall’uomo, di pretendere di conoscere la natura solo attraverso ciò che ne rivelano gli strumenti artificiali, anzi, di voler con questi limitare e decidere ciò che essa è in grado di fare” (J. W. Goethe, “Massime e riflessioni”, Ed. TEA, Roma 1988, p. 160). Infatti: “sono pochi quelli che hanno il senso e il gusto del reale. I più si spassano entro paesi e circostanze inverosimili, di cui non hanno idea veruna, ma che la loro fantasia dipinge loro come meravigliosi” (G. P. Eckermann, “Colloqui con Goethe”, Ed. Laterza, Bari 1912, vol. I, pp. 168-169).
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(1) Cosa significa “Cristo”? Se si intende il Cristo - o qualsiasi altro concetto o insieme di concetti (idea) o versetto biblico - come qualcosa di assoluto si violenterà la realtà in quanto si cadrà nel dogmatismo. Per esempio, l’uso da parte della chiesa della cosiddetta definizione apostolica di Pietro, basata su Mt 16,18 (“Su questa pietra io costruirò la mia Chiesa”) è anticristiano. Perché il valore di un versetto (come di ogni oggetto percepibile) non risiede nel versetto in quanto tale ma nella correlazione esistente fra quel versetto ed il suo contesto. Ripeto: se si intende un versetto come un assoluto si cade nel dogmatismo e quindi nell’errore. Il mastodontico errore della chiesa cattolica fu quello di edificare giuridicamente se stessa in base a quel versetto mal compreso, cioè compreso in senso meramente assolutizzante, vale a dire in senso giuridico alla maniera romana, dato che il versetto fu usato nei secoli successivi fino ad oggi per giustificare un “vicariato”, cioè un’“istituzione del Cristo” che è il massimo malinteso del cattolicesimo. Questa paurosa “svista” consiste nel voler vedere il divino in un versetto o in un’idea anziché in un rapporto fra versetti o fra idee. Se infatti si mette in correlazione quel versetto coi versetti che precedono quello giuridicamente usato nello stile cesaropapista che ancora oggi caratterizza l’apparato della religione di Stato, si scorge un passaggio importante: “[...] Rispose Simon Pietro: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù: Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa...” (Mt 16,15-18). In questo contesto cosa compare? Compare un uomo - Pietro - che riconosce in un altro uomo il Cristo, cioè il Messia. Nella consapevolezza della maggior parte dei cattolici è però completamente trascurato il fatto che Gesù di Nazaret, detto il Cristo, intende edificare NON su un nome ma precisamente sul fatto che un uomo riconosca in un altro uomo il “Cristo”. E proprio perché l’uomo Pietro riconosce il Cristo nell’uomo Gesù di Nazaret, tale riconoscimento, e non altro, è posto a pietra di fondamento - che sarà poi la cosiddetta “pietra d’inciampo” dei legulei, assatanati del potere imperialistico - della “qahal” (assemblea) o dell’organismo sociale del futuro. Quel versetto dunque tratta del RICONOSCIMENTO DELL'IO CRISTICO NELL’UOMO. Questo, e non altro, avrebbe dovuto costituire l’edificazione della cosiddetta chiesa, non certo intesa come mera cupola o istituzione concettual-dogmatica del Cristo, astrattamente o nominalmente costruita sul nome “Pietro” ma come vivente organismo di testimonianze ogni volta rinnovabili dell’unica verità possibile “come in cielo così in terra”. Invece quel versetto fu trasformato giuridicamente in una “definizione apostolica”. Di conseguenza si trasformò il “Cristo” in qualcosa di meramente fideistico e/o dogmatico. Eppure il termine (“Cristo”) è naturalmente e perfino foneticamente risorgivo: i termini “Cristo” e “crisalide” hanno infatti la stessa radice (anche in greco). Il simbolismo della crisalide e della sua trasformazione in farfalla è infatti analogo a quello della risurrezione del Cristo: dalla crisalide nasce la farfalla che vola via lasciando la “bara” (bozzolo). Dunque il Cristo non è altro che l’involucro dell’io di ogni essere umano. Invece è stato trasformato, alla maniera romana, in un’“istituzione”, poggiante NON sulla vita ma sulla “fine” in croce, fine che perfino lo stesso concetto di “de-finizione” evoca in sé. E la chiesa parla infatti di “definizione apostolica” per de-finire se stessa nella coscienza degli umani come gran prostituta (Ap. 17,1; 12,15-16; 19,2).
Bibliografia essenziale: Lucio Russo, «Le “magnifiche sorti” e regressive», Roma, 15 settembre 2015 (www.ospi.it).