Dinamiche del minimo vitale
È del tutto inutile discutere sull’opportunità o meno di introdurre un minimo vitale senza condizioni per tutti dalla nascita alla morte. Non solo perché idetrattori di questa idea non sanno pensare ma perché assicurare a tutti uno stipendio minimo vita natural durante sarà una scelta obbligata per far fronte all’automazione del mondo del lavoro, che nei prossimi anni porterà alla cancellazione di una percentuale di mestieri che va dal 35% (calcoli di Deloitte) al 47% (secondo uno studio di Oxford).
Fonte: http://www.iltascabile.com/societa/reddito-di-cittadinanza/
Le previsioni, anche sulle tempistiche, variano di analisi in analisi, ma è
evidente che la sostituzione dell’uomo non è una questione di se, ma di quando:
“Secondo me, ci vorranno ancora decenni”, ha spiegato al New York Times James
Manyika, autore di uno degli studi più prudenti sul tema. “A dispetto di quanto
pensano i tecnologi, che tendono a focalizzarsi solo su ciò che è tecnicamente
fattibile, il modo in cui l’automazione influirà sul lavoro dipende anche da
altre incognite”. Per esempio, dalla convenienza economica: non è un caso allora
che una proposta di legge sul tema Robot & Lavoro depositata al Parlamento
Europeo sottolinei la necessità di tassare le imprese proporzionalmente al
livello di automazione; per impedire che i loro guadagni aumentino drasticamente
(i robot non richiedono stipendi, tredicesime, ferie, malattie; solo acquisto e
manutenzione) senza che nulla venga restituito alla società e per far sì,
magari, che contribuiscano per via fiscale all’introduzione di un reddito di
cittadinanza.
La questione del reddito di cittadinanza (o reddito di base; sulle differenze
terminologiche torneremo più avanti) è oggi inestricabilmente legata
all’automazione del lavoro. Un legame indissolubile, ribadito da più parti, che
fa sì che l’idea di garantire a tutti uno stipendio minimo venga considerato un
tema innovativo e futuribile. Sulla questione ha qualcosa da dire Tommaso Moro,
il filosofo umanista che – nella sua celebre opera L’Utopia, pubblicata nel 1516
– è stato il primo a proporre qualcosa di simile a un reddito garantito, allo
scopo di ridurre i furti nell’Inghilterra del tempo.
“Provvedere affinché tutti abbiano i mezzi per guadagnarsi da vivere”, scrive
Moro, avrebbe contribuito a far scendere il tasso di criminalità molto più
efficacemente dell’impiccagione, che peraltro aveva uno sgradevole effetto
collaterale: l’aumento del numero di omicidi. Più che al reddito garantito,
però, Moro mirava all’impiego garantito; ragion per cui se si vuole cercare la
più antica proposta veramente vicina al reddito minimo bisogna guardare a un
altro umanista: Juan Luis Vives. Il filosofo elaborò nel 1526 una dettagliata
proposta – destinata al sindaco di Bruges con il titolo “De Subventione Pauperum”
– in cui descrisse la necessità che fosse il municipio della città a occuparsi
di garantire un minimo di sussistenza a tutti i suoi residenti.
“La questione del reddito di cittadinanza è oggi inestricabilmente legata
all’automazione del lavoro.
Vives prevedeva inoltre che questa sorta di reddito minimo dovesse spettare a
tutti: “Anche quelli che dissipano le loro fortune in una vita dissoluta –
attraverso il gioco, le donne, il lusso esagerato, le scommesse – dovranno
ricevere il cibo; perché nessuno dovrebbe morire di fame. D’altra parte, a
costoro andrebbero assegnate razioni minori e compiti peggiori, in modo che
possano essere d’esempio agli altri”.
In un’epoca in cui il problema non era tanto la disoccupazione, ma la povertà
(“anche i vecchi e gli stupidi possono imparare un lavoro in pochi giorni, come
scavare buche o portare l’acqua”, scriveva Vives; oggi il problema è proprio che
a breve questi lavori non esisteranno più), ancora non veniva presa in
considerazione la possibilità che qualcuno potesse ricevere soldi senza in
cambio offrire quanto meno la disponibilità a lavorare.
Bisogna arrivare all’epoca delle rivoluzioni, sul finire del ’700, per trovare
un pensatore che sostenga l’idea di un reddito minimo incondizionato,
giustificato come forma di ricompensa per l’ingiustizia insita nella proprietà
terriera. L’autore di questo concetto è il filosofo, politico e rivoluzionario
Thomas Paine: “La terra, nel suo stato naturale e non coltivato, era, e sarebbe
continuata a essere, una proprietà comune a tutta la razza umana”, scrive nel
libello Giustizia Agraria. “(…) Ogni proprietario terriero, per questa ragione,
deve alla comunità una rendita per la terra che possiede”. Una rendita, prosegue
Paine, “che dovrebbe essere pagata a ogni singola persona quando arriva all’età
di ventuno anni”.
Se nell’Ottocento il reddito di base poteva rappresentare la compensazione per
l’ingiusta sottrazione di terre che sarebbero spettate per natura a tutti, negli
anni Duemila lo si potrebbe considerare una compensazione per il lavoro gratuito
che, inseriti come siamo nel “capitalismo dei dati”, svolgiamo quotidianamente
senza ricevere nulla in cambio.
“Quando si parla di reddito di base, solitamente si intende una forma
redistributiva, quindi secondaria. Io ritengo che, oggi, i processi di creazione
del valore utilizzino invece una parte della vita degli individui senza che
venga certificata come produttiva”, spiega a il Tascabile Andrea Fumagalli,
docente di Economia Politica all’Università di Pavia e uno degli economisti
italiani più attivi sul fronte del reddito di base.
“L’attività di consumo, ma anche quella artistica e di svago, non rientrano
nelle categorie del labor novecentesco, ma sono comunque inserite in un processo
di produzione di valore: quando sono su Facebook produco valore attraverso i big
data; quando al supermercato pago con una fidelity card entro in un meccanismo
di produzione del valore e lo stesso si può dire per una molteplicità di azioni
che compiamo quotidianamente online ma non solo”.
“Si potrebbe considerare il reddito di base come una compensazione per il lavoro
gratuito che, inseriti come siamo nel ‘capitalismo dei dati’, svolgiamo
quotidianamente senza ricevere nulla.
Il reddito di base, di conseguenza, diventerebbe una forma di compenso diretto
per un lavoro che svolgiamo costantemente senza che, oggi, nessuno ci paghi per
farlo: “Sarebbe la remunerazione di un’attività lavorativa che non viene
considerata come tale”, conferma Fumagalli. “Da questo discende un altro aspetto
fondamentale: se è una remunerazione per un lavoro che svolgo, non può essere
sottoposta ad alcuna condizione”.
Vale a dire, per esempio, che il reddito di base non andrebbe elargito solo a
chi si impegna a cercare lavoro o solo per un limitato periodo di tempo; al
contrario, dev’essere fornito incondizionatamente e dev’essere un reddito
sufficiente a vivere: “L’obiettivo dovrebbe essere di portare tutte le persone
alla soglia di povertà relativa, che è di circa 700 euro al mese a testa”,
prosegue il professore. Ed è proprio per questa ragione che dev’essere lo Stato,
e non direttamente le aziende private, a ricompensare i cittadini per il
servizio svolto: per assicurarsi che il compenso per questa produzione di valore
abbia una funzione sociale nei confronti delle classi più disagiate.
Fornendo potenzialmente a tutti un reddito di questo tipo, però, si andrebbe
incontro a una società in cui lavorare diventa un’opzione. Una società
post-lavoro, insomma; difficile da accettare in una “Repubblica fondata sul
lavoro” come la nostra, in cui il lavoro è anche “una forma di affermazione e
costruzione dell’identità personale”.
Questa visione si trova perfettamente espressa da Michele Serra in una recente
Amaca pubblicata su Repubblica, il 24 gennaio: “Riuscite a immaginare un mondo
nel quale la propria fisionomia individuale e sociale non sia anche il frutto di
quello che si è capaci di fare? Io no. Sono cresciuto nel mito del ‘lavoro ben
fatto’, dell’operaio Faussone (Primo Levi, ‘La chiave a stella’). (…) Una
eventuale società di assistiti, nella quale il ‘lavoro ben fatto’ diventa
appannaggio di pochi privilegiati, non sarebbe forse una società di depressi,
anche se con la pancia piena?”.
A un ragionamento di questo tipo si potrebbe replicare sottolineando una
differenza generazionale: il “mito del lavoro” ben si applica a chi, com’è il
caso dei figli del dopoguerra e dei decenni successivi, ha goduto di uno scambio
equo: la disponibilità a lavorare in cambio di diritti, tutele e garanzie. Più
difficile proporre questa visione a una generazione che semmai ha davanti a sé
il “miraggio del lavoro”.
Ma l’aspetto fondamentale è un altro: davvero una società in cui chiunque può
ottenere un reddito di base incondizionato si trasformerebbe in una società “di
assistiti depressi con la pancia piena”? “Personalmente, mi rifiuto di pensare
che le persone passerebbero il loro tempo davanti alla televisione”, spiega il
professor Fumagalli. “È vero invece che ci sarebbe maggiore possibilità di
esprimere se stessi nella gestione libera e autonoma del proprio tempo. Si
tornerebbe al concetto di otium latino, sfruttando il tempo liberato per
svolgere attività di proprio gradimento, per partecipare all’attività sociale
della comunità di riferimento, per costruire relazioni migliori e magari per
brevettare invenzioni significative”.
A sostenere la tesi secondo cui il reddito di base non porterebbe a una società
di sdraiati sul divano è anche un’azienda privata come Y Incubator (il più
importante incubatore di start-up della Silicon Valley), che ha deciso di
elargire per un anno un reddito compreso tra i mille e i duemila dollari al mese
a 100 famiglie di Oakland. Per quale ragione un’impresa dovrebbe farsi carico di
un impegno del genere? Al di là dell’attività di lobbying che la Silicon Valley
sta facendo in favore dell’universal basic income – per evitare l’ira funesta di
chi subirà sulla sua pelle l’automazione del lavoro – la ragione sembra essere
un’altra: “Y Incubator sta fornendo questo reddito a persone dotate di un certo
tipo di istruzione e di abilità; vogliono vedere se metteranno a frutto questi
soldi in maniera utile per loro. Se, insomma, grazie al tempo liberato
riusciranno a inventare qualcosa che potrà poi essere messo a frutto”, prosegue
Fumagalli. “È un capitalismo avanzato tipico della Silicon Valley, che si
scontra con le visioni sindacali dell’etica del lavoro basate su una società
passata”.
Quello di Y Incubator, però, non è l’unico esperimento in atto. Una forma di
reddito di base viene elargita, a partire dall’inizio del 2017, anche in
Finlandia: il governo di Helsinki ha infatti varato un programma sperimentale
che garantisce un reddito di 560 euro mensili a 2000 cittadini disoccupati, che
non dovranno fornire giustificazioni sul modo in cui spenderanno i soldi e che
manterranno la somma (detratta però da eventuali altri sussidi) anche se
dovessero trovare un lavoro.
Ma a fornire i dati più interessanti sono due esperimenti che si sono tenuti nel
passato. Il primo risale al 1969 e ha come protagonista Richard Nixon, che aveva
uno dei suoi più ambiziosi obiettivi proprio nell’introduzione di uno universal
basic income “di destra” (torneremo più avanti su questa divisione). La
sperimentazione venne avviata corrispondendo l’equivalente odierno di 10mila
dollari l’anno (quindi circa 800 dollari al mese) a 8.500 cittadini, senza
alcuna condizione.
Quale fu la conseguenza? Che le ore lavorate diminuirono del 9% (non esattamente
il trionfo dell’assistenzialismo), principalmente perché i giovani sfruttarono
questo reddito per proseguire gli studi, o comunque per formarsi, e perché
alcuni genitori sacrificarono parte delle ore lavorative per dedicarle alla cura
dei figli. Il grande piano di Nixon finì nel nulla, soprattutto a causa della
strenua opposizione di uno dei suoi principali consiglieri: Martin Anderson.
“La questione della ‘pigrizia indotta dal reddito di base’ sembra essere
smentita non solo dai progetti che prendono forma nella Silicon Valley, ma anche
dagli studi condotti sugli esperimenti del passato.
Un altro esperimento del passato si tenne negli anni ‘70, in Canada, nella
provincia di Manitoba: per cinque anni i cittadini più poveri della provincia
ricevettero un assegno mensile, anche in questo caso di circa 800 dollari. La
fase di test si interruppe bruscamente a causa del cambio di governo, ma fu
comunque sufficiente a fornire i dati che l’economista Evelyn Forget ha
utilizzato in uno studio del 2011. Stando a quanto risulta dagli studi di Forget,
il tasso di scolarizzazione salì notevolmente, mentre i tassi di ricovero in
ospedale calarono, grazie alla maggiore possibilità dei cittadini di procurarsi
le cure di base. Nel complesso, invece, la quantità di ore lavorate scese solo
dell’1%.
Insomma, la questione della “pigrizia indotta dal reddito di base” sembra essere
smentita non solo dai progetti che prendono forma nella Silicon Valley, ma anche
dagli studi condotti sugli esperimenti del passato. La stessa questione, però,
si ritrova anche analizzando la differenza tra le due varianti fondamentali del
reddito di base: il reddito minimo garantito e il reddito di cittadinanza
strettamente inteso; una differenza decisiva, sulla quale si fa spesso
confusione.
Sintetizzando: il reddito minimo garantito comporta che, per esempio, chi non
lavora riceva 800 euro al mese, chi invece ha un reddito di 600 euro ne riceva
altri 200, come integrazione, e chi guadagna più di 800 euro non riceva nulla.
Il vero e proprio reddito di cittadinanza prevede invece che vengano dati 800
euro mensili a tutti, dal disoccupato nullatenente fino a Bill Gates.
Ma perché mai lo stato dovrebbe spendere soldi per darne a chi non ne ha
bisogno? È proprio per rispondere a questa domanda che ritorna la questione
della pigrizia. I sostenitori del reddito di cittadinanza da elargire a tutti,
miliardari compresi, sostengono che solo attraverso uno strumento di questo tipo
si evita che le persone siano disincentivate a lavorare. La logica è la
seguente: se lo stato mi dà 800 euro indipendentemente da tutto e mi viene
offerto un lavoro da 1000 euro al mese, lo accetterò volentieri, perché avrò
così la possibilità di mettere assieme 1.800 euro mensili. Se invece accettare
quel lavoro dovesse provocare la perdita del reddito di base di 800 euro, lo
rifiuterei: perché dovrei lavorare 40 ore a settimana per 200 euro in più?
“Non riesco a considerare una conseguenza negativa il fatto che una persona,
grazie al reddito minimo, abbia la possibilità di rifiutare un lavoro. Anzi, che
un lavoratore sia messo nelle condizioni di rifiutare i lavori malpagati è solo
positivo, potrebbe anche portare a una crescita dei salari”, prosegue Fumagalli,
sostenitore di un reddito di base la cui elargizione si interrompa oltre una
certa soglia di reddito.
La differenza tra un reddito minimo garantito e un reddito di cittadinanza
indipendente da qualunque altro fattore sta, ovviamente, anche nei costi
enormemente differenti: “Nel primo caso, si tratta di portare alla soglia di
povertà relativa tutti gli italiani che, nel 2017, si trovano al di sotto,
ovvero 9 milioni di persone. Andando a vedere i calcoli Istat, e i dati della
Commissione di Indagine sulla Esclusione Sociale, se ne deduce che una misura di
questo tipo costerebbe circa 22/23 miliardi di euro l’anno”.
Non sono pochi. Ma da questi 22 miliardi si dovrebbero sottrarre tutte le forme
di sussidio che verrebbero sostituite dal reddito minimo: Aspi, Naspi, cassa
integrazione in deroga, indennità di mobilità, ecc ecc; resterebbero da
recuperare circa 11/12 miliardi di euro: “Se pensiamo che nelle due ultime leggi
di stabilità, tra riduzione dell’Irap, dell’Ires, super-ammortamento e incentivi
per il Jobs Act, si sono spesi circa 11 miliardi; ecco che le risorse si possono
trovare”. Un modo anche per ribaltare la logica con cui vengono spesi i soldi da
parte dello Stato: “Perché spendere una decina di miliardi di euro a sostegno
della produzione quando si possono spendere gli stessi soldi per sostenere la
domanda?”, prosegue Fumagalli.
Nel caso di un reddito di cittadinanza fornito a tutti, indipendentemente dal
reddito, i costi sono decisamente più elevati. I calcoli, in compenso, sono
molto più semplici: fornire 800 euro al mese a tutti i cittadini maggiorenni (in
Italia, 47 milioni di persone) verrebbe a costare la spropositata cifra di 450
miliardi di euro. Una voce che sarebbe pari a poco più del 50% di quanto lo
stato spende complessivamente ogni anno (circa 830 miliardi di euro).
Ma il fatto che abbia un costo stratosferico non significa che sia un progetto
impossibile da realizzare: “Sostenendo tale ipotesi, si correrebbe però il
rischio di azzerare qualsiasi servizio sociale diretto e indiretto e il reddito
di cittadinanza dovrebbe diventare quasi l’unica voce di spesa dello stato. Il
che significherebbe privatizzare tutto: dalla scuola alla sanità, dalle carceri
all’esercito”. Un incubo per chiunque ritenga che il mercato debba restare fuori
(almeno in parte) da determinati settori e un sogno iper-liberista in cui lo
stato si fa talmente leggero da non dover fare altro che staccare un assegno
mensile per ogni suo cittadino (ma deve comunque raccogliere le tasse,
ovviamente).
Che lo stato (specie quello italiano) decida a breve di abdicare al suo ruolo
per diventare un immenso libretto degli assegni è altamente improbabile; lo
stesso non si può dire per la possibilità che un reddito minimo garantito venga
introdotto per tamponare gli effetti dell’automazione del lavoro. Il reddito
minimo, come detto, potrebbe diventare realtà più per obbligo che per scelta, ma
contribuirebbe comunque a modificare radicalmente la nostra cultura e a
precipitarci in una società completamente nuova: la società post-lavorativa, in
cui il lavoro salariato diventa un’opzione e non più la forma stessa della
nostra identità sociale.
“La battaglia sul reddito minimo potrebbe riunire la sinistra a quella fascia
della popolazione che dalla sinistra si è sentita tradita: i precari, le finte
partite Iva, il popolo dei voucher, i disoccupati.
È per questa ragione che la sinistra italiana rischia di compiere un errore
gravissimo a lasciare un tema del genere nelle mani del Movimento 5 Stelle (il
cui fondatore, Gianroberto Casaleggio, era ammiratore della versione
ultra-libertaria, ma un necessario pragmatismo ha fatto sì che le proposte di
legge depositate dal M5S siano relative al reddito minimo garantito). Un errore
a cui non si sta ponendo rimedio, se si considera che il leader del più grande
partito della sinistra italiana – che al momento è ancora Matteo Renzi – ha
definito il reddito di base “la cosa meno di sinistra che esista” e che
Sel-Sinistra Italiana (che ha depositato anch’essa una sua proposta a riguardo)
batte su questo chiodo con molta meno convinzione dei grillini.
E pensare che, idealmente, quella del reddito minimo garantito e incondizionato
potrebbe essere la nuova grande battaglia della sinistra; una battaglia in grado
di dare un nuovo orizzonte a un’area politica che proprio sul lavoro sta
perdendo la sua identità; un sol dell’avvenire da inseguire per arrivare a una
società in cui nessuno sia più costretto ad accettare qualunque tipo di
trattamento economico e di sfruttamento orario perché privo di alternative.
La battaglia sul reddito minimo potrebbe riunire la sinistra a quella fascia
della popolazione che dalla sinistra si è sentita tradita: i precari, le finte
partite Iva (ma pure quelle vere), il popolo dei voucher, i lavoratori a cottimo
della on-demand economy, i disoccupati e tutta quella nuova generazione di non
garantiti che si sono sentiti abbandonati da una sinistra e da un mondo
sindacale che scende in piazza solo in difesa di chi, comunque, ancora può
contare su tutele certe, su una pensione assicurata e più in generale su quei
diritti che sono stati ormai trasformati in privilegi (come gli straordinari
pagati o le tredicesime).
È proprio nel vuoto di idee offerto ogni volta che si parla di giovani e lavoro
che la sinistra ha perso la sua battaglia, lasciando che fosse il Movimento 5
Stelle a impugnare, tra contraddizioni insanabili, quella che potrebbe essere la
soluzione per conciliare due generazioni di lavoratori senza mettere l’una
contro l’altra. Il reddito di base e la costruzione di una società post-lavoro
potrebbero rappresentare un progetto a lungo termine con la giusta dose di
utopia. La sinistra così ritroverebbe la sua ragion d’essere originaria:
difendere i più deboli. Questa volta, però, non dai padroni, ma dai robot.