COSE NON DETTE SUL MONDO DEGLI INFELICI
Avevo detto che il mondo degli infelici è quello in cui la felicità è vissuta come calamità, e in cui ogni concetto è distorto affinché il masochismo imperi mascherato da esistenzialismo, ed in cui la sfiga è la norma. Queste considerazioni sono di certo dure per gli infelici lamentosi, o per gli “schopenhaueriani” incalliti esistenti ancora nel 2016, o per tutti i moralisti della filosofia ciarliera di cui parlava Goethe nella sua “Favola”, per i quali perfino l’antico motto delfico “Conosci te stesso” era inevitabile fonte di dolore, in quanto la vita è un po’ come una cipolla: più la scopri ed apri gli occhi su di essa, e più “piangi”… Ed avevo mostrato che, per passare la vita senza cipolle da pelare, il mondo degli infelici preferisce in genere una concezione della vita, secondo la quale la vita sarebbe una schifezza, alla Camus, rispetto alla quale il suicidio sarebbe preferibile; inoltre: poiché l’accesso alla conoscenza sarebbe negato, il sostenitore di quel mondo si nutre perfino dell’antica espressione “so di non sapere” pur di non aprire gli occhi sul soggetto di essa, che è l’io. In altre parole, credendo che il “sapere di non sapere” (Socrate, 470ca-400 a. C.) sia espressione di umiltà, non si vuole vedere che con la nascita del pensare, gli esseri umani iniziavano ad accorgersi della loro “anima”, cioè del loro animarsi interiormente (attività interiore), quindi a chiedersi: cosa dice l’anima, quando tenta di parlare e di esprimere ciò che vi depongono le forze universali? Ancora oggi infatti l’uomo dice: “ho avuto un’idea”, “mi è venuta l’idea di…”, “mi viene in mente”, ecc. Avvertendo questo fatto, era quindi naturale per l’uomo porsi tale domanda. E la risposta risulta dal modo in cui Platone (427-347 a. C.) sta dinanzi a Socrate (470ca-400 a. C.): nell’anima la ragione universale dice all’uomo ciò che vuol dirgli. Con ciò si giustifica la FIDUCIA nelle rivelazioni dell’anima umana, dato che l’anima sviluppa in sé il pensare. La figura di Socrate appare sotto il segno di questa fiducia. Nei tempi antichi, l’anima dell’uomo greco sottoponeva i problemi importanti della sua vita ai santuari sacerdotali, facendosi “predire” da essi la volontà e l’intenzione delle potenze spirituali. Ora, con la nascita della consapevolezza del pensare, l’uomo doveva dedicare la propria anima al pensare, in quanto avvertiva che il pensare è un bene: un bene comune a tutti gli uomini. Da qui la fiducia nella vita del pensare come fiducia nella vita universale stessa: l’uomo, in quanto amante del sapere, continuamente “sa di non sapere” perché in ogni attimo avverte che può apprendere sempre qualcosa di nuovo. Ecco perché per Socrate la vita era qualcosa di meraviglioso in cui avere fiducia. Chi invece oggi “sa” già (crede di sapere) che la vita è schifosa - magari in base all’ideologia di Kant o di Schopenhauer o del dio Pan del “panteismo”, o della perenne crisi (di panico) che contraddistinguerebbe l’esistenza umana -, non può avere alcuna fiducia né interesse a conoscerla. Ecco perché quando il masochista schopenhaueriano o il panteista lamentoso, o il materialista dice “so di non sapere”, lo fa solo formalmente: per l’immagine di sé, cioè per apparire umile, o per giudicare l’eventuale mancanza di umiltà che crede di ravvisare in un suo simile, il quale non pensandola come lui gli ha magari detto: “dai non fare così, la vita non è poi così terribile...”. Oppure lo fa per negare la possibilità di conoscenza epistemica, o incontrovertibile, in base al dato di fatto che siamo tutti in via di divenire e quindi di evolvere sempre più in noi la nostra esperienza mai esaustiva di concetti e idee, e del loro immateriale mondo.
Devo ora aggiungere ulteriori osservazioni, dato che se lo si vuole vedere, il lamentoso odierno è proprio quello che crede di trovare sollievo in una nuova mistica, quella einsteiniana, secondo la quale vivremmo in uno strano cosmo, dominato dalla legge della relatività e nel quale tutto l’esistente, pur essendo relativo ai sistemi di riferimento da cui si osserva (sistemi di riferimento convenzionali, fatti cioè di unità di misura), comporterebbe una costante assoluta: la velocità della luce. Quest’ultima sarebbe una legge assoluta in un universo relativo. Bisognerebbe chiedergli: questa luce appartiene o non appartiene a questo universo? Se rispondesse “no” cadrebbe nella metafisica “luce” del dogmatismo; se rispondesse “sì”, sarebbe costretto ad accettare un universo che è contemporaneamente relativo ed assoluto. E ciò equivarrebbe ad accettare che il bianco sia nero, o che l’acqua sia vino, o che la pasta asciutta sia un budino...
La filosofia ciarliera (o lo scientismo contemporaneo) accetta questo ed altro, dato che tre sono i suoi modi di procedere: o nega l’io, cioè lo spirito, divenendo materialismo; o nega la materia per cercare la sua salvezza nello spiritualismo; oppure ancora dichiara che ovunque nel mondo, già fin nell’essere più semplice, materia e spirito sono indivisibilmente congiunti, e che quindi non deve far meraviglia se nell'uomo si ritrovano insieme questi due aspetti dell’esistenza, che non sono mai neppur altrove disgiunti.
Tutti e tre questi modi di procedere non conducono da alcuna parte. Per esempio lo spiritualista puro nega la materia nella sua esistenza indipendente, e la considera solo come un prodotto dello spirito. Anche qui non mancano i fuori di testa (l’ho mostrato a suo tempo nel video “Antroposofia comica” (https://youtu.be/CepuHwY77FE). Se lo spiritualista puro vuole risolvere l’enigma di sé come entità umana, è messo alle strette: all’“io”, che può essere posto dalla parte dello spirito, sta direttamente di fronte il mondo materiale; a quest'ultimo non sembra aprirsi alcun accesso immateriale; va percepito e sperimentato dall’io attraverso processi materiali, ma l’io non trova in sé quei processi se vuol farsi valere solo come entità immateriale: in ciò che l’io si conquista spiritualmente non c’è mai il mondo dei sensi; sembra dunque dover ammettere che se non si pone in relazione col mondo per via materiale, quel mondo gli rimane chiuso; parimenti, se passa nel campo dell’azione, dovrebbe trasformare i suoi propositi in realtà con l’aiuto di sostanze e di forze materiali. Non può perciò fare a meno del mondo esterno. Il più spinto spiritualista, o - se si vuole - il pensatore che per l’idealismo assoluto si presenta come il più spinto spiritualista, è J. Gottlieb Fichte, il quale tentò di dedurre dall’io l’intero edificio del mondo. Ma arrivò solo ad una grandiosa immagine mentale del mondo, senza alcun contenuto sperimentale.
Come stanno le cose col materialismo? Il materialismo non può mai fornire una
spiegazione soddisfacente del mondo. Perché ogni tentativo di spiegazione non
può che cominciare con la formazione di pensieri riguardo a ciò che nel mondo
appare. Il materialista principia perciò col pensiero della materia o dei
processi materiali. Con ciò ha già dinanzi a sé due distinti gruppi di fatti: il
mondo materiale e i pensieri, immateriali, su di esso. Eppure cerca di
comprendere i secondi, concependoli come processi puramente materiali. Egli
immagina che il pensare si produca nel cervello più o meno come la digestione
negli organi animali. In tal modo, attribuendo alla materia proprietà meccaniche
e organiche, le attribuisce anche la capacità, in determinate condizioni, di
pensare. Ma non vede che, così, non fa che spostare il problema: invece che a se
stesso, attribuisce la capacità di pensare alla materia.
Ed eccolo ritornato al punto di partenza. Come avviene che la materia possa
pensare sopra la sua propria natura? Perché mai non dovrebbe accontentarsi di
accettare senza problemi la propria esistenza? Il materialismo distoglie dunque
l’attenzione
da un determinato soggetto, cioè dal nostro proprio io, ed arriva ad un’immagine
indefinita e nebulosa, ritrovandosi così di fronte lo stesso enigma irrisolto.
Può dunque solo spostare il problema, non risolvendolo mai.
Il terzo modo di procedere è quello che vede le due sostanze - materia e spirito - già riunite nell’essere più semplice, cioè nell’atomo, o nel quark. Ma anche così si arriva solo a portare in un’altra sede il problema che sorge propriamente nella nostra coscienza. Come avviene che l’essere più semplice si estrinseca in duplice modo, se è un’unità indivisa? Contro tutti questi punti di vista, bisogna mettere in evidenza il fatto che il contrasto fondamentale e originario sorge esclusivamente entro la nostra coscienza.
Proprio perciò dovremmo emanciparci dagli
antichi e dai nuovi dogmatismi, nonché da tutte quelle antiche pratiche ascetiche,
le quali non portarono da alcuna parte, anzi, portarono per lo più solo ad un
egoismo sempre più raffinato, o a “speciali”
rapimenti voluttuosi (“speciali” in quanto caratteristici più della specie che
dell’individuo; anche se riuscire a superare i condizionamenti ed i legami
della specie è possibile solo all’individualità in se stessa; si veda a questo proposito il concetto di epicheia
(il diritto canonico di epicheia cristiana è quello di disobbedire alle leggi
ritenute ingiuste), di cui ho già
scritto a sufficienza nel web, già a partire dal 1999).
Il moralismo del lamentoso è infatti un egoismo e/o un egotismo sottile con cui
si può giocare al gioco dell’esistenzialista con atteggiamenti saccenti. È il
tipico gioco dello stolto che giudica i propri genitori dicendo loro: “Perché mi
avete messo al mondo? Chi ve l’ha chiesto?”.
È indubitabile che oggi un numero sempre maggiore di persone subisca esperienze
di paura e di dolore. Il mondo è pieno di angoscia e dolore nella misura non si
vuole pensare al significato e all’origine di tali esperienze. La scienza
odierna e l’antroposofia osservano entrambe questo problema, ma ognuna in modo
del tutto diverso dall’altra: la prima si occupa delle cose meramente materiali,
mentre la seconda anche di quelle immateriali.
Il ricercatore delle cose anche immateriali è coraggioso, in quanto sempre più è
resiliente al dolore e alla sofferenza, poiché sa che una reale scoperta non può
essere raggiunta se non a prezzo di un certo dolore, di una certa sofferenza.
Cambiare idea su qualcosa è già un po’soffrire. I mutanti sono umani, persone
sane. I non mutanti sono come macchine, robots o persone ideologizzate.
Di tutt’altro ordine è il punto di vista della scienza odierna, fondata sulle
degenerazioni ideologiche del secolo passato: gli odierni psichiatri credono che
fra gli innumerevoli mali terreni di cui è afflitto l’uomo, la sofferenza fisica
sia il peggiore, dato che curano anche la sofferenza psichica con rimedi fisici.
Da un lato dunque si ha la considerazione del dolore nel suo carattere positivo
e dall’altro quella del suo aspetto fondamentalmente negativo. Da un lato il
dolore è una necessità per seguire il sentiero della conoscenza anche
immateriale o sovrasensibile; dall’altro il dolore è il più angoscioso dei mali.
Per entrambi i punti di vista però la sofferenza è riconosciuta come un fenomeno
di coscienza.
Eppure la sofferenza ha la sua sorgente nelle varie metamorfosi della coscienza.
Ogni sofferenza è condizionata dalla coscienza. Eppure, nel senso del
darwinismo, coscienza e sentimento del dolore sono inseparabili da un evoluto
sistema nervoso: dal punto di vista dell’evoluzione, si constata che l’uomo dei
primordi semplicemente sopportò la sofferenza. Seguirono poi epoche in cui la
desiderò persino, per esempio nel Medioevo, come penitenza o mezzo di
purificazione. In seguito le cose cambiarono ancora e nei tempi più vicini al
nostro, l’uomo tentò di superare il dolore per mezzo di metodi puramente fisici:
un esempio fra molti altri, l’anestesia scoperta nel 19° secolo.
La missione dell’avvenire si adempirà però solo mediante la vittoria dell’io
sulla sofferenza, cioè ottenuta per mezzo di una disciplina immateriale, fermo
restando il metodo anestetico scoperto dalla chirurgia.
Oggi, per osservare al meglio la sorgente del dolore dovremmo incominciare a
risalire ai primordi dell’evoluzione cosmica. Ma come possiamo saperne
concretamente qualcosa se non attraverso il pensare? Il pensare è immateriale e
vitale, è etereo, non lo tocchiamo con le mani, non lo percepiamo sensibilmente.
Possiamo sentirlo in noi solo in modo sovrasensibile, come sentiamo in noi la
vita. Nel corso dei tempi questo mondo etereo o vitale lo percepimmo sempre più
complesso e sempre più intensamente reattivo alle perturbazioni dell’ambiente.
Infine l’evoluzione raggiunse un punto in cui l’organismo vitale giunse ad uno
stato di irritazione tale che ne fu perturbato, danneggiato così che intervenne
nell’organizzazione vivente una specie di morte parziale: il vivente incominciò
a patire il dolore. Ecco perché la prima sensazione è la sofferenza. La
sofferenza dovrebbe essere studiata come testimonianza dell’evoluzione.
Ovviamente superando l’idea che l’uomo discenda dalle scimmie. Come è possibile
questo, se Darwin ha mostrato, gradino per gradino, la scala discendente?
Occorre chiarire una volta per tutte che non si tratta di bastonare Darwin per
le sue scoperte. Darwin aveva ragione. Solo che, a mio modo di vedere,
sono le
scimmie a discendere dall’uomo,
non l’uomo dalle scimmie.
Partendo dal principio che il perfetto derivi dall’imperfetto (per esempio che
gli organismi si siano trasformati man mano dall’imperfetto al perfetto, fino
all’uomo) la teoria di Darwin risulta giustificata. Questa teoria però può
essere giustificata anche partendo dal principio opposto, e cioè che
l’imperfetto derivi dal perfetto. Infatti si può ugualmente dimostrare che
dall’eternità vi sia il perfetto, e che per decadenza si sia formato poi
l’imperfetto; vale a dire che da sempre vi sia l’uomo e che, per decadenza,
derivino dall’uomo gli altri regni della natura. E ciò è altrettanto esatto. La
nostra kultura non vuole ricordare che per moltissimo tempo si poté discutere
del fatto che mentre Darwin (1809-1882) mostrava che gli esseri perfetti
discendevano da quelli imperfetti, Schelling (1775-1854) mostrava che gli esseri
imperfetti discendevano da quelli perfetti. Chi dei due aveva ragione? Entrambi!
Sia Darwin che Schelling avevano entrambi ragione! Solo che i punti di vista
erano differenti. Una scala è giusta in sé: la si può vedere nella sua direzione
verso il basso o nella sua direzione verso l’alto. Se si considera il processo a
partire non dalla materia ma da ciò che è immateriale, o dall’io (Gv 8,58) o dal
logos o dalla logica (Gv 1,1), l’imperfetto discende dal perfetto (cfr. R.
Steiner, “Esigenze sociali dei nuovi tempi”, conf. 6, Dornach 8/12/1918); se
invece si considera il processo a partire dalla materia il perfetto deriva
dall’imperfetto. Il problema è dunque la contrapposizione fra materia e spirito
(o fra materia e io). In genere siamo tutti addomesticati ad incatenarci a
verità unilaterali. La verità però è ottenibile solo considerando i due aspetti
insieme, o il maggior numero possibile di aspetti della realtà. In genere ci si
rappresenta il credente (nel dio che crea dal nulla) come uomo spirituale.
Questa rappresentazione è però antilogica, perché se veramente esistesse una
creazione dal nulla (creazionismo), questa creazione sarebbe l’inizio di ciò che
prima non era; oppure sarebbe il passaggio dal non essere all’essere. Se però le
cose stessero in questi termini, l’essere umano, in quanto creatura, potrebbe
conoscere se stesso solo come proveniente dal nulla e non come proveniente
dall’essere, che è il contrario del nulla. Nel 1882, con profondità di pensiero,
Wilhelm Heinrich Preuss, esprimeva che l’uomo non è derivato da altri esseri
della natura, ma che è, fin dal principio, la fondamentale entità che, prima di
potersi dare la forma che le spetta sulla terra, doveva innanzitutto espellere
negli altri esseri viventi i suoi stadi iniziali. Scrive Preuss: “Dovrebbe [...]
essere tempo [...] di formulare una teoria dell’origine delle specie organiche
che non si fondi solo su una proposizione unilateralmente enunciata dalla
scienza naturale descrittiva, ma che sia anche in pieno accordo con altre leggi
di natura, che sono al tempo stesso leggi del pensare umano. Una teoria che, al
tempo stesso, sia PRIVA D’OGNI ELABORAZIONE IPOTETICA e che si fondi solo sulle
rigorose conclusioni di un’osservazione scientifico-naturalistica, nel più ampio
senso; una teoria che, in ordine alle reali possibilità, preservi il concetto di
specie, ma simultaneamente assuma nel proprio campo, dal lato opposto, il
concetto di evoluzione formulato da Darwin, e cerchi di renderlo fecondo” (V. H.
Preuss in R. Steiner, “Gli enigmi della filosofia”, vol 2°, Ed. Tilopa, p. 175).
Il punto centrale della concezione di Preuss, sconosciuta alla scienza acefala
odierna, è “l’uomo, la specie che ricorre una sola volta sul nostro pianeta,
l’Homo sapiens” (ibid). È degno di nota, osserva Preuss, il fatto che anche i
più esperti osservatori partono dagli oggetti della natura, e poi si smarriscono
a tal punto da non trovare quella strada verso l’uomo, a cui anche Darwin
perviene solo nel più fiacco e meno soddisfacente dei modi, cercando tra gli
animali il capostipite del signore della creazione - mentre il naturalista
dovrebbe invece cominciare da se stesso in quanto uomo, e così,
progressivamente, TORNARE ALL’UMANITÀ ATTRAVERSO L’INTERO CAMPO DELL’ESSERE E
DEL PENSARE. Fu per necessità e non per caso che la natura umana scaturì
dall’evoluzione di tutto l’elemento terrestre. L’uomo - sempre secondo Preuss -
è la meta di tutti i processi tellurici, e ogni forma che affiora accanto a lui,
ha preso a prestito i propri tratti dai suoi. L’uomo è l’essere primogenito del
cosmo intero… Appena i suoi germi si furono formati, altri esseri organici
rimasti indietro non ebbero più la forza necessaria per produrre nuovi germi
umani. Quanto ancora si formò divenne animale o pianta (cfr. ibid., p. 176).
Questa concezione, prescindendo dalla natura, comprende l’uomo come essere
fondato su se stesso “per trovare poi in questa conoscenza dell’uomo, qualcosa
che possa gettare luce sull’essenza del mondo a lui circostante” (ibid.). Preuss
anela ad acquisire attraverso la conoscenza dell’uomo anche e in pari tempo la
conoscenza del mondo. Le sue energiche idee piene di significato (alla faccia
del cosiddetto pensiero debole) “sono direttamente orientate all’entità umana.
Egli scruta questa entità che lotta e si dibatte nell’esistenza. E vede che
quanto ESSA deve lasciarsi alle spalle - da sé espulso - sulla propria strada,
si ferma come natura coi suoi esseri, su un gradino inferiore dell’evoluzione, e
si presenta come ambiente dell’uomo” (ibid.). E ancora: “L’evoluzione stessa
della nuova filosofia dimostra dunque come essa debba intraprendere la strada
verso gli enigmi del mondo cercando di sondare l’entità umana che si manifesta
nell’io autocosciente. Infatti quanto più si cerca di comprendere a fondo lo
forzo e la ricerca di questa nuova filosofia, tanto più ci si avvede che la
ricerca stessa è rivolta verso esperienze dell’anima umana da cui non venga
chiarezza solo su quest’anima, ma in cui risplenda una luce in grado di fornire
spiegazioni certe sul mondo che giace al di fuori dell’uomo” (ibid.). Invece se
si osserva la concezione di Hegel e dei pensatori affini (di destra e di
sinistra) si vede come essa induca questi “filosofi” a dubitare che nella VITA
DEL PENSARE possa esserci la forza di rischiarare l’ambito dell’io umano e della
sua attività interiore. A costoro l’elemento-pensiero sembra troppo debole per
svelare in sé una vita capace di contenere rivelazioni sull’essenza del cosmo.
Il loro modo di vedere scientifico e naturalistico esige una penetrazione nel
nocciolo dell’attività interiore basata su premesse più solide di quanto possa
fornire loro il pensare. Questi nuovi filosofi sono infatti gli attivisti
dell’anti-umanesimo scientifico o dell’antilogica attuali… Che le loro
scienziaggini o neuroscienziaggini si dimostrino pro o contro Darwin credo non
mi pare molto determinante, almeno finché la scienza continuerà ad escludere
l’uomo da sé, e le neuroscienze a credere a cose inesistenti come i nervi motori
(ho spiegato questo punto in altri scritti e video).
Sofferenza e paura sono pertanto elementi primordiali dell’interiore
attività vitale degli esseri umani. Le prime sensazioni furono dolorose, proprio
perché indicano i punti per mezzo dei quali la morte si impiantò nel nostro
organismo.
Quando nel corso dei periodi di evoluzione la struttura del vivente divenne così
fragile da ritrovarsi parzialmente distrutta al contatto del mondo esterno, il
dolore si fece sentire nella vita umana come un avvertimento.
Il dolore ebbe dunque la missione di avvertire l’uomo, di metterlo sull’attenti
di fronte alle forze di distruzione e di morte che
l’avevano impregnato (cfr. G. Wachsmuth, “La missione del dolore”).
Il lato positivo di questi fatti è che da una parziale morte dell’organismo
nasce una qualità superiore: la sensibilità. Questa sensibilità avverte che
qualcosa di vivente si distrugge. Dal fatto che il vivente sente dolore, nasce
dunque la possibilità di ricevere un messaggio dal mondo esterno, cioè una
manifestazione che distingue il mondo esterno dal mondo interno dell’io.
L’organismo allora è ovviamente spinto a sottrarsi al processo del dolore. Ed
ecco perché, isolandosi, individualizza sempre di più la propria vita. In questo
modo, grazie alla sensibilità, sorge una nuova coscienza, anzi una coscienza
“sempreverde”, sempre più nuova, evolutiva. In altre parole: all’inizio
dell’evoluzione dell’uomo, i raggi solari penetrano più profondamente in un dato
punto del suo organismo non ancora differenziato. Ne risulta dolore, e questa
sofferenza provoca nell’uomo una reazione di difesa allo scopo di impedire che
questa perturbazione penetri troppo dentro. L’organismo reagisce per isolare
questi punti colpiti. La conseguenza di tale processo è che col tempo si
sviluppa in quel punto un organo speciale: l’occhio, per esempio, il quale
reagisce peculiarmente ai raggi luminosi. In modo analogo tutti i sensi
dell’uomo sono così costituiti nel corso delle varie ere cosmiche.
Attraverso il dolore generato nell’uomo mediante irritazioni provenienti dal di
fuori, l’essere vivente impara a sentire le diverse regioni del proprio
organismo. E mediante l’impossessarsi della coscienza, l’uomo si riconosce
sempre più come un io che si distingue dal mondo esterno.
Ed è proprio questo io che tenta di stabilire un equilibro al continuo disordine
causato dall’azione proveniente dal di fuori. L’io sa calmare la fame ingerendo
del nutrimento, sa localizzare le ferite limitandole alle parti lese, ecc. E
quando l’uomo arriva con le proprie forze a trionfare di tali azioni
distruttrici, nell’organismo sorge il polo opposto al dolore: il senso della
gioia!
In parole povere: dalla parte della distruzione, il dolore penetra nel mondo;
dall’aver saputo suscitare forze di difesa, si elabora il ristabilimento vitale;
infine, dal trionfo della coscienza su questi processi, nasce il sentimento
della gioia.
Così dal lavoro in apparenza negativo della distruzione, del dolore e della
morte, risulta un’elevazione della coscienza. Perciò ad ogni vittoria che
riportiamo nel corso dell’evoluzione sentiamo di accresce le nostre forze.
Se mi rompo un braccio, cioè se un disordine irrompe nel mio organismo fisico,
il mio organismo, cioè l’eterea attività della mia vitalità tende continuamente
a saldare tale frattura ed a rimettere tutto in buono stato. Se si trova
impedita nel suo compito, il suo compito risulta ostacolato, e l’ostacolo è da
me avvertito come dolore in una sfera ancora più sottile ed eterea (anticamente
la normale vitalità era detta “corpo eterico”, mentre quella sfera più sottile
era detta “corpo astrale” o “corpo del movimento” in quanto rapportabile al moto
planetario e astrale del cosmo esterno).
L’effetto che provoca dolore suscita nell’io un rinforzo di coscienza verso gli
organi e il mondo ambiente: l’io si sente sollecitato a una maggior
individualizzazione. Così il dolore scaturisce dalla continua lotta contro le
forze di morte: l’uomo attraverso la sofferenza acquista un soprappiù di potenza
e di coscienza e il dolore risulta pertanto il nostro educatore nel miglior
significato della parola. Se osserviamo per esempio perché la vergogna ci fa
arrossire, così che il sangue affluisce al viso, mentre la paura ci fa
impallidire, possiamo apprendere che in origine l’uomo era costituito in modo tale che
ogni sentimento di ordine morale aveva la sua ripercussione perfino nel fisico.
Ecco perché le ultime vestigia di queste remote condizioni si manifesta nel rossore
della vergogna e nel pallore dello spavento: si diventa pallidi perché il sangue
durante lo spavento va immediatamente a difendere il cuore, organo del sentire;
quando siamo al volante ad una certa velocità e di fronte a un pericolo dobbiamo frenare bruscamente,
avvertiamo tale spavento nella zona toracica, anzi a partire dall’intestino
fino al cuore: questo avviene perché il sangue si comporta come il veicolo del
nostro io, e sub-consciamente vuole difendere il nostro principale organo del
ritmo vitale: il cuore. Quando invece proviamo vergogna vorremmo certamente in
quell’attimo scomparire dal mondo: ecco perché il nostro sangue diventa
centrifugo ed affiora al viso come rossore. Ma quando la scienza contemporanea
potrà confermare questa realtà del sangue veicolo dell’io, se continuerà a
negare realtà all’io?
D’altra parte il dolore non adempie più come in passato alla sua missione di
avvertimento. O almeno, ciò si verifica solo in parte. La capacità di
soffrire è diseguale a seconda delle regioni dell’organismo
fisico in cui si fa sentire. Il mal di testa per esempio è del tutto diverso del male alle
gambe o negli organi interni. Osservando in profondità questi processi si scopre
che l’uomo reagisce in modo molto diverso alle varie manifestazioni di dolore
nel suo organismo: il mal di denti ci infastidisce o ci rende per lo più irascibili;
se ci tagliamo un dito proviamo
contrarietà per la nostra goffaggine e ciò dispiega una reazione difensiva
naturale da parte nostra. Diversamente, le sofferenze interne dell’organismo
portano l’uomo ad uno stato d’animo disperato o apatico, fatto di impotenza o di
rassegnazione. In verità, l’uomo reagisce nei modi più differenti ai dolori al
capo, alle membra, agli organi interni o esterni. Col mal di denti siamo
collerici, tagliandoci rispondiamo maggiormente col temperamento sanguigno; ai mali
di organi interni, vescichetta biliare,
fegato, reni ecc., piuttosto col temperamento malinconico. Anticamente si
credeva che la coscienza e la facoltà sensitiva fossero condizionate dalla
presenza di reticolati nervosi molto ben organizzati. Poi si scoprì che
nell’organismo esistono zone innervate nelle quali non si manifesta affatto il
dolore. Esistono considerevoli regioni del nostro corpo che non possiedono
alcuna facoltà sensitiva. La scienza le denomina zone d’ottusità dolorifica. I
tessuti costitutivi dei polmoni, del cuore, del fegato, della milza, dei reni
ecc. sono insensibili. Qui l’avvertimento fa difetto. E sappiamo quali nefaste
conseguenze sono da attribuirsi a questa assenza d’allarme, per esempio nei
primi gradi di cancro, o di cirrosi epatica e in altri casi. Siamo dunque da un
lato in presenza di degenerazione o alterazione nella costituzione originaria
dell’uomo, risultato di attività esterne eccessive o deficienti; dall’altro,
sappiamo che più l’uomo possiede un organismo perfezionato e raffinato, più
diventa sensibile alla sofferenza.
I popoli primitivi avevano ed hanno ancora una sensibilità meno acuta. Le note
torture del Medioevo praticate durante il corso dei processi giudiziari, oggi
non potrebbero più essere sopportate, non solo dal criminale sottoposto a tali
tormenti, ma anche dal procuratore di Stato che non saprebbe affrontare simile
spettacolo. Oggi, se un giudice dovesse presenziare agli interrogatori del Medio
Evo, sverrebbe la maggior parte delle volte (cfr. ibid.).
Insomma, più la nostra coscienza e il nostro organismo si perfezionano, più la
nostra sensibilità si acuisce. L’interdipendenza della coscienza e del dolore è
indubbia. Ma anche se la sofferenza è un fenomeno della coscienza, la coscienza
possiede ugualmente la facoltà di attutire il dolore e persino di spegnerlo.
Questi fenomeni si producono per esempio negli stati estatici. Durante momenti
di estrema eccitabilità come durante una battaglia, gravi ferite non suscitano
l’immediata sensazione di normale dolore che è loro propria: la sensazione si
manifesta più tardi, cioè quando la coscienza si rivolge su se stessa.
Quindi da sempre si cerca di dire il contrario di ciò che bisognerebbe dire. Gli
psicologi contemporanei dicono: “Più l’uomo sviluppa coscienza, più il mondo si
colma di dolore”. Ad una simile prospettiva si arriva a concludere che più la
coscienza e lo spirito umano si affineranno, più il dolore, che è considerato il
peggiore dei mali, si intensificherà. Perciò il 19° secolo fece così tante
ricerche per scoprire l’antidoto: l’anestesia.
La prima anestesia con etere fu trovata e praticata nel 1847. Nelle epoche
precedenti, l’uomo era obbligato a sopportare le più crudeli operazioni senza
anestesia. Ovviamente non voglio criticare questo metodo chirurgico, che è una
delle invenzioni più importanti della scienza. Però, va rilevato il fatto che da
allora anche il problema della sofferenza psichica, cioè immateriale, è
considerato dal solo punto di vista fisico e non secondo il suo aspetto
immateriale. In altre parole, questo problema è ancora insoluto. Oggi i
cosiddetti tossici, i cocainomani e/o i cultori del suicidio hanno tutti la loro
ideologia basata sui testi di Freud, Nietzsche, Camus, i cui contenuti sono
incitamenti a non pensare, dato che l’unico pensiero utile all’uomo sarebbe
quello di risolvere il problema della sofferenza attraverso il suicidio o la
ricerca dell’erba dell’immortalità… Si noti bene, non dell’immortalità, ma
dell’erba dell’immortalità, dunque di qualcosa di materiale che risolva il
problema immateriale del morire e/o del soffrire.
«Esistono due storie», diceva Honoré de Balzac nella sua “Commedia Umana”: «la
storia ufficiale, menzognera, che si insegna “ad usum Delphini” e la storia
segreta, in cui si rinvengono le vere cause degli avvenimenti: una storia
vergognosa». Ciò che però è davvero vergognoso è impedire, mediante soppressione
dell’io, la conoscenza di questa seconda storia o “storia segreta”.
La soppressione dell’io non è altro che la sua crocifissione incominciata
duemila anni fa e che continua oggi, come se il materiale figlio del padre
materiale, in ebraico “bar abbà”, o speciale (cioè relativo alla specie
animale), fosse più importante del figlio dell’uomo, l’immateriale io
dell’umanità che si emancipa liberandosi dai legami e dai condizionamenti della
specie animale.
L’eterno ritorno non è altro che un aspetto dell’eterea vitalità (detta anche
corpo vitale o eterico dall’antroposofia moderna) insegnata da Platone sulla
base di tutte le cose aventi un loro contrario, consistente nell’altra faccia
della medaglia chiamata mortalità fisica. La realtà dell’apocatastasi è infatti
immateriale come il suo oggetto: l’io umano, anch’esso immateriale.
Se però si vuole
continuare a crocifiggere l’immateriale, non ci si può poi lamentare alla Camus,
che la vita è una schifezza, o alla Osho, che predica sostanzialmente il non pensare
(come se fosse possibile sfuggire al pensare). Affermava per esempio Osho: «[...] l’immediato è
la sola cosa che esiste. Il momento immediato è l’unica realtà che esiste. Per
quanto piccola, è la sola realtà». Ma non è vero. Se il momento immediato fosse
l’unica realtà che esiste, allora non avrebbe alcun senso leggere o scrivere la
frase “il momento immediato è l’unica realtà che esiste” perché per quel senso,
così come per il senso di ogni fare umano, è necessario tanto un sapere, che è
“padre” del fare, per esempio fare una torta seguendo una ricetta, quanto un
fare, che è “padre” del sapere, per esempio sperimentare nuovi intervalli
musicali! Dicendo no al pensare si confonde la filosofia col bestialismo
materialistico pratico di chi crede che il “qui ed ora” sia solo mangiare, bere,
defecare, cioè vita animale o della specie. Non si tratta di sottostare alla
specie ma di essere individui che si emancipano dai legami della specie.
Predicare il non pensare è come suicidarsi o fare continuamente uso di droghe
mistiche, ideologiche o materiali, non accorgendosi che perfino per drogarsi
occorre sperimentare il pensare.
Ogni pensiero, nello svilupparsi, passa nel mondo interiore umano e diventa
un’entità attiva, associandosi e combinandosi con una forza di reintegrazione
cosmica. Tale attività sopravvive come intelligenza, operante per un periodo più
o meno lungo, in proporzione all’intensità originale dell’atto interiore che la
genera. Così, un pensiero buono si perpetua come una forza attiva e benefica;
quello cattivo come sua forza contraria, così che l’uomo popola continuamente la
sfera o la corrente del pensare (noosfera) con un suo proprio mondo, affollato
dalla discendenza della sua vita immaginativa, dai suoi desideri e dalle sue
passioni; una corrente che reagisce su ogni organismo sensitivo o nervoso con
cui è a contatto, a seconda della sua dinamica intensità. Il buddista la
chiamerà il suo “skandha”, l’indù le da’ il nome di “karma”, il cattolico quello
di “provvidenza” (in riferimento all’apocatastasi di At. 3,21, il cui
significato etimologico è “restaurazione”, nel senso di “reintegrazione di ciò
che fu disintegrato” e di “reintroduzione nel conforme di ciò che fu deforme”).
L’uomo può sviluppare queste forme-pensiero consapevolmente o emetterle
inconsapevolmente. Nella misura in cui queste sono chiaramente comprese, con
tutto ciò che ne deriva, le incertezze riguardanti molti problemi
dell’esistenza, compresi quelli economici, in gran parte spariscono, e si
afferra il principio che governa l’azione del karma in ogni transazione sociale.
Ed ogni apocatastasi monetaria diventa un bene nella misura in cui la si conosce
nelle sue dinamiche. Se invece non la si vuole conoscere non ci può poi
lamentare dei propri “vorrei ma non posso”.
Dunque anche se il rapporto fra il medico e la sofferenza si è profondamente
trasformato attraverso la storia umana, il quesito rimane aperto perché il
problema della sofferenza immateriale non può risolversi con la materia, ma solo
col pensare.
Anticamente si considerava la sofferenza come legata allo stato di peccato, più
tardi alla grazia e alla purificazione. La maggior parte dei rimedi nel Medioevo era data dagli ordini monastici. I filosofi del XIX secolo e soprattutto
Schopenhauer, insistettero sull’aspetto pessimista di questo enigma:
l’infelicità e la sofferenza dal punto di vista quantitativo oltrepasserebbero
ogni altra impressione. Di conseguenza il mondo sarebbe cattivo e meriterebbe di
scomparire. Ma tali considerazioni filosofiche hanno la loro sorgente
nell’intelletto, dato che l’esperienza conferma che nel subcosciente la gioia di
vivere ha sempre il sopravvento. Negli strati più profondi dell’essere, una
saggezza maggiormente perfetta ci assicura del valore della vita, anche se
l’intelletto superficiale non mira che alla sovrabbondanza di piacere e di
sofferenza.
Che ogni esperienza dolorosa faccia sbocciare una qualità superiore appare già
nei regni naturali inferiori allorché, per esempio, in seguito a una puntura
alla mucosa di una conchiglia, si forma una bella perla. Nel medesimo senso la
tragedia greca era strutturata in modo che nel momento della rappresentazione,
quando il dolore raggiungeva il parossismo, una potenza più alta era invocata e
appariva dinnanzi allo spettatore.
Di fatto, non può esistere gioia, allegria o estasi che non abbia le proprie
radici nella sofferenza. Rifiutare i contrasti, rifiutare il dolore rispetto
allo star bene, significa non augurarsi la bellezza, la grandezza, il rapimento,
la bontà, ecc. L’attuale armonia del cosmo è fondata sulla base di quei
contrasti. Il bello, il sublime nell’universo sorge su tali contrasti.
L’uomo non può acquistare una nuova relazione con l’esperienza del dolore se non
superando l’intellettualismo. Ci si deve innalzare al di sopra del pensiero
intellettuale mediante il pensare vivente, che ha la sua base nella vita o nel
cosiddetto corpo eterico o vitale. Ma questo pensare vivente non penetra così
facilmente nell’organismo e nelle membra dell’uomo come il pensiero comune. Un
esempio di pensiero comune è “voglio alzare il braccio”, in cui si esprime
appunto un “vorrei”, che in verità è solo un’intenzione, un “vorrei ma non
posso”, scambiato per “volontà di potenza” o per l’“erba voglio”.
Il pensare vivente riorganizza invece interamente l’umano e penetrando in esso,
genera spesso nel suo essere dolori immateriali, come in passato le ferite
inflitte dal raggio luminoso si accompagnavano a sofferenza mentre l’occhio si
andava formando.
Superando simili prove
l’uomo potrà, in un’evoluzione futura, diventare pienamente organo di
percezione. Alla base di ogni percepire o di ogni vita sensibile vi è sempre una
leggera sofferenza ed affinché l’uomo possa diventare compiutamente organo
sensibile, è necessaria una fase penosa d’esperienza.
Una simile metamorfosi mediante graduale elevazione di coscienza non agisce solo
nella vita terrena dell’uomo, ma anche nella vita immateriale del suo io
riguardante la realtà delle ripetute vite terrene (apocatastasi, appunto). Ogni
uomo porta nella propria animata attività interiore (detta anima) impulsi
volitivi che giacciono in lui come germi e che non giungono a svilupparsi
durante una sola esistenza. Questo fatto provoca in noi il sentimento di
ostacolo, o di un’esperienza penosa che altrimenti, cioè senza la realtà dell’apocatastasi,
rimarrebbe incosciente. Dato che l’attuale corpo fisico non si addice al germe
di volontà superiore che giace in noi, il corpo fisico impedisce continuamente
al germe di volontà di farsi valere, e questo ordine di cose, in quanto
riconosciuto, rappresenta dolore.
Il germe di volontà,
trattenuto, è liberato da questa costrizione solo dopo il trapasso. La prima
fase del trapasso è detta purgatorio o kamaloka, e qui, mancando il corpo
fisico, tutto è privazione, tutto è ostacolo. Nella fase seguente, quando l’io
si è svincolato da ogni richiamo verso l’esistenza terrestre, l’insieme delle
forze si trova liberata e accede ad un’attività libera: l’io sperimenta questo
nuovo stato come beatitudine assoluta. Le tradizioni religiose hanno conservato
all’umanità la conoscenza di questi fenomeni che determinano la vita dopo la
morte, parlando della beatitudine.
Dunque, i dolori e le sofferenze suscitano un’intensificazione delle forze
interiori e, in una prossima vita, sono quelle che si metamorfosano in energia
volitiva. All’interno dell’uomo, come in un secondo essere, vi è sempre
contenuto un essere reale: l’uomo del fare (volere in atto) che, mediante
immateriale disciplina, si sviluppa coscientemente.
Anticamente l’uomo cercava di raggiungere questo scopo mediante discipline
sviate: l’ascetismo, la macerazione, l’autofustigazione, il cilicio, ecc.
Principalmente l’asceta metteva a riposo l’attività di alcuni organi
abitualmente addetti a funzionare: il risultato era un sovrappiù di forze
disponibili. Questo sovrappiù di energia era sentito come beatitudine da questi
asceti, e poiché la forza repressa genera dolore, l’energia accumulata era
sorgente di felicità. Non usufruendo del fisico, queste forze utilizzate
dall’interiorità provocavano innanzitutto tale sensazione di beatitudine. È per
questo che in taluni ordini del Medioevo c'era l’abitudine di mantenere il corpo
fisico in uno stato di completa immobilità, per liberare così vera vitalità e
vera motilità dell’io. In certe persone di quelle epoche, queste condizioni
erano già preordinate dal loro destino. Così Savonarola, il monaco del Medioevo,
aveva dalla natura un corpo malaticcio, ma viceversa riusciva a trarne forze
d’entusiasmo con le quali trascinava i suoi concittadini. Lo stesso può dirsi di
Schopenhauer per i tempi relativamente moderni. Ma tutte queste pratiche di
ascetismo portarono e continuano a portare a un raffinato egoismo, a un
rapimento voluttuoso. Ecco perché questa via ascetica può essere considerata
oggi come un percorso poco raccomandabile: l’asceta impoverisce solo il suo
corpo fisico; al contrario, lo scienziato del futuro indagando su queste cose
dovrà riconoscere la meraviglia di questo edificio corporeo e lo fortificherà.
La paura di essere e/o di vivere proviene dalla “non conoscenza”, dalla mancanza
di sapere. Il dolore procede dall’impotenza, cioè dal fatto di sentirsi esclusi
dalle cosmiche attività ordinatrici con le quali l’uomo è un tutt’uno (“Prima
che Abramo fosse io sono”; Gv 8,58).
Trionfare sulla paura e sul dolore sarà dunque il compito logo-dinamico di ogni pensatore del futuro (http://youtu.be/w59qO5iotwU).
Anche l’uomo più infelice - ovviamente se non vorrà suicidarsi - imparerà, poco
a poco, a penetrare coscientemente nelle forze di volontà, di crescita e di
ricostruzione interna. Mediante ciò riuscirà a liberare, mediante il solo
osservare la realtà e senza alcuna pratica ascetica, l’io dal corpo.
Non si può capire qualcosa della vita se non la si osserva.
“Come nelle
oscillazioni del pendolo vi è un attimo di stasi, in cui il pendolo appare
sottoposto alla legge di forza d'inerzia - cioè per una frazione di secondo pare
non muoversi né verso sinistra né verso destra - così nel nostro stesso processo
respiratorio, abbiamo un punto di stasi, un punto “zero”, che non è inspirazione
né espirazione, ma che non pregiudica, per questo, la nostra vita, bensì la
rende possibile” (Nereo Villa, “Numerologia biblica. Considerazioni sulla
Matematica Sacra”, Ed. SeaR, Reggio Emilia 1995, cap. 5°).
Sempre più nell’investigatore scientifico del futuro si opererà una tale
ricostruzione della sua natura eterica e delle forze della sua interiorità
attiva, che il pensare, il sentire e il volere diverranno ciò che in realtà
sono: forze indipendenti. E raggiungeranno una vita cosciente autonoma.
Ma l’investigatore
usufruirà di tali forze soltanto se egli stesso ne avrà preso la risoluzione,
così che ristabilirà da sé l’armonia fra queste tre facoltà dell’anima, in modo
che si sviluppino energie superiori e una coscienza maggiormente elevata.
La vittoria sulla morte e la sofferenza sono perciò un percorso di conoscenza.
Ecco il motivo per cui l’“io sono” ha veramente sofferto sulla croce e non ha
soltanto attraversato dei dolori simbolici, come alcuni falsi maestri
insegnarono e insegnano.
Non dobbiamo dunque sentirci abbattuti dall’immagine dell’“io sono” in agonia
sulla croce, né dalla sua sofferenza. Occorre piuttosto che l’uomo riconosca che
la sua esistenza sulla terra è necessariamente legata all’esperienza del dolore,
perché la radice del dolore è il legame che ci unisce alla materia.
Nei tempi pre-cristiani, Buddha insegnava che l’uomo doveva abbandonare questo
mondo di dolore perché sede del male. Tale principio esclusivo fu superato con
l’insegnamento, e mediante l’azione dell’“io sono”, il quale insegna appunto il
modo di fortificarsi attraverso la sofferenza ed a rinascere da essa. È
necessario che l’uomo moderno comprenda che accettare questa via nel pensare,
nel sentire e nel volere è più sano che fiutare cocaina. Bisogna che l’uomo
giunga a stabilire dei rapporti del tutto nuovi con le esperienze della paura e
della sofferenza, attraverso cui passa la sua anima. Ed è quanto ci deve
esortare nei tempi presenti, specie riguardo a quello che noi vogliamo compiere
in quest’epoca, per assicurare la salute dell’avvenire umano.
Vita schizoide per mancanza di epicheia di Nereovilla
Bibliografia:
R. Steiner, La scienza della libertà, in “La filosofia della libertà”.
Günther Wachsmuth, “La missione del dolore”.