Renato Troncon


Goethe e la filosofia del colore

Appendice del libro “Goethe - La teoria dei colori”

Ed. IL SAGGIATORE, Milano 1981

[A cura di Nereo Villa]

 

PRESENTAZIONE

Ho sostituito il testo in corsivo della seguente Appendice col maiuscolo affinché risulti subito evidente. Quello di Goethe - scrive l’autore, studioso di filosofia estetica - è il primo considerevole moderno esempio di una teoria del colore orientata all’esperienza di esso, alle sue strutture. Reputo lo scritto del filosofo Renato Troncon un valido aiuto per la comprensione dei colori studiati da Johann Wolfgang von Goethe, la suddivisione dei quali (in fisiologici, fisici e chimici) fu poi corretta da Rudolf Steiner attraverso gli esperimenti di Stoccarda del 1919 (R. Steiner, “Impulsi scientifico-spirituali per lo Sviluppo della Fisica. Primo Corso di Scienze Naturali. Luce, Colore, Suono, Massa, Elettricità, Magnetismo”, Milano 2013). Buona lettura!

 

Nereo Villa, CastellArquato, aprile 2017



1. I presupposti della teoria goethiana 

Senza dubbio la TEORIA DEI COLORI di Goethe appartiene ai casi controversi della storia della cultura. Intorno al libro valgono ancora oggi numerosi equivoci, e in parecchi casi si può già ritenersi soddisfatti se il giudizio riconosce al testo una qualche sorta di attenuante. Non è infrequente che l’opera venga menzionata solo con la buona intenzione di giustificare quello che è parso a molti un serio infortunio. Vi è chi ne riassume il senso indicandola come opera PRESCIENTIFICA, come creatura di un poeta che trascinato dal proprio slancio e dal proprio temperamento aveva finito col compromettersi in una poco onorevole contesa con la teoria newtoniana. Nei confronti della TEORIA DEI COLORI si è purtroppo proceduto a smembrarla e a considerarla pezzo per pezzo, quasi capitolo per capitolo. Vi è per esempio chi ne riconosce il contributo dato a una fisiologia dei processi della visione, senza però fare menzione di tutto il resto. Vi è chi, distribuendo diversamente le simpatie, menziona la parte dedicata all’azione sensibile e morale del colore, lasciando la parte che deve apparire probabilmente PROSAICA.

La TEORIA DEI COLORI va in realtà considerata come INTERO, e le domande e le critiche che a essa si rivolgono non possono ignorare i suoi nessi né prescindere dal fatto che in essa vi è una pretesa alla verità intesa in un senso assai particolare.

È il caso di osservare qui in inizio che la riflessione sul colore non è affrontabile senza trovarsi nella necessità di dover prendere importanti decisioni. Si consideri per esempio il problema dell’infinita varietà di sfumature di colore che si presentano in natura, o come risultato dell’attività umana. Ogni discussione sul colore deve, se non rispondere - dal momento che molto diversi sono quelli che una certa teoria ritiene siano problemi rispetto a un’altra - perlomeno prendere posizione DINANZI a ciò, giudicando esplicitamente o implicitamente il grado di importanza della questione.

L’esistenza di così tante tonalità e gradazioni di colore se considerata da un punto di vista pratico, può anche non apparirci un problema. Un arredatore, per esempio, decide di trattare con questa o quella tonalità, e tutte le altre possono non interessarlo. Al contrario possiamo trovare particolarmente interessante, tra i problemi che qui si aprono, la circostanza che, benché siano date innumerevoli sfumature di verde, parliamo di un unico oggetto. Come avviene ciò? Quali sono le caratteristiche di questa situazione? D’altro lato anche questa questione può essere variamente affrontata. Posso per esempio limitarmi ad affrontare il rema delle forme di relazione qui in questione. Supponiamo del resto che io intenda illustrare le relazioni tra i colori servendomi di un sistema spaziale. Posso dire: in questa posizione prego di IMMAGINARE IL VERDE, e lascio uno spazio bianco. Oppure posso dire: in questo punto inserisco un verde tenue, ma prego di immaginare un verde semplicemente, ovvero IL verde semplicemente, quel verde che meglio del verde tenue rappresenta le proprietà del verde. Ma posso anche inserire un certo determinato verde e dire soltanto: questo è IL verde, il verde nel meglio delle sue possibilità e nel massimo della sua efficacia. Questa ricerca di un verde che effettivamente possa entrare nel mio sistema spaziale può essere considerata legittima e produttiva secondo certi punti di vista, improduttiva secondo certi altri. Rappresenta d’altro lato un modo di affrontare il problema della quantità di sfumature presenti in natura che Goethe ritiene di poter abbracciare.

Ma in procinto di costruire il mio sistema spaziale è possibile che io mi trovi dinanzi al quesito se inserire in esso il bianco e il nero, a prescindere in generale dalla capacità di disporre di un bianco e di un nero che posso effettivamente ritenere tali. La domanda può parere artificiosa. Vi sono dei motivi per i quali non dovrei ritenere colori il bianco e il nero? Ma che giudizio dò allora di quelle situazioni nelle quali definisco «incolore» una superficie bianca? Chi ritiene erronea una tale descrizione dovrà da parte sua indicare quali sono le caratteristiche che fanno del bianco un colore. D’altro lato è piuttosto comprensibile la perplessità. Il bianco non è anch’esso una qualità possibile delle cose, con modalità di attribuzione analoga a quella di giallo, rosso ecc.?

Infine un terzo punto: il rapporto della nostra teoria con l’esperienza. Diversa è la fisionomia che una teoria del colore può assumere e, appunto, diverse sono le questioni che una teoria del colore ritiene di dover tematizzare. Il fisico, il pittore, il chimico, lo psicologo, ciascuno dispone di una propria proposta. Si può considerare il colore come oscillazione elettromagnetica, come pigmento, come espressione di funzioni psicofisiche o come elemento di espressione artistica. Ci si può perfino meravigliare che sotto lo stesso nome si possano trattare oggetti così diversi. È evidente che in tutti questi casi verrà di volta in volta considerata una forma particolare di esperienza del colore, un’esperienza possibile in determinati contesti e che comunque non sarà IMMEDIATAMENTE l’esperienza quotidiana del colore, incluse le sue determinazioni storiche e culturali.

Come mette ordine Goethe in quest’ambito di questioni? Di particolare interesse sono le pagine da lui scritte a proposito del problema della nomenclatura del colore. In esse Goethe fissa quattro espressioni principali (giallo, azzurro, rosso, verde) il cui contenuto non è questo o quel colore in questa o quella sfumatura, bensì quanto in quel colore vi è di più generale. Distinte rispetto a queste quattro, che esauriscono l’area del colore, Goethe ne fissa altre quattro (nero, bianco, grigio e marrone), con le quali si danno le indicazioni di chiaro e scuro e quelle dell’«insudiciamento». Quale la ragione di questa distinzione? Il secondo gruppo di espressioni designa qualcosa di diverso rispetto al primo. Questo si indirizza al campo dei fenomeni cromatici veri e propri, il secondo a quello dei fenomeni acromatici. Quando dunque Goethe intende offrire le denotazioni di «insudiciamento», egli riferisce con ciò una caratteristica strutturale e non una caratteristica psicologica: un colore SPORCO è un colore che da un campo tende all’altro.

Rimane per noi aperto un punto: in cosa consiste l’elemento di GENERALITÀ che quelle quattro espressioni indicano? A quali proprietà allude l’espressione «rosso» rispetto a quella «verde»? E quali rispetto a quella «giallo»? Quali proprietà ha l’azzurro? E di quale giallo, di quale azzurro parlo quando accomuno un giallo paglierino con un giallo ocra, o un azzurro Prussia con un azzurro cielo? Mi riferisco a un «modo di dire» o posso effettivamente esibire IL giallo? Questi problemi che Goethe assume orientano anche piuttosto chiaramente la questione dell’atteggiamento di Goethe rispetto al problema dell’oggetto da prendere in esame e alla questione della teoria e dell’esperienza. Esse mostrano che l’oggetto proprio di una teoria del colore è l’esperienza che di esso viene fatta. La teoria deve indirizzarsi a quell’elemento generale che essa contiene.

Sulla nozione goethiana di esperienza val la pena di soffermarsi un poco. Nel proposito di Goethe di dar vita a uno studio sul colore vi sono due motivi, interessanti per il loro contenuto: l’interesse per il problema del COLORITO e la convinzione che la teoria di Newton fosse falsa. Quest’ultima opinione si sarebbe formata in Goethe in seguito alla famosa osservazione attraverso il prisma. Al momento di restituirlo all’amico H. Büttner, dopo aver lasciato lo strumento negligentemente sul tavolo per mesi, Goethe prima di congedarsene decide di servirsene e, rivolto a una parete bianca, vi guarda attraverso. Goethe si attendeva di vedere lo spettro dei colori.

La parete apparve invece immodificata, ancora completamente bianca, senza la minima traccia di colore. Unica eccezione si darà per quel punto dove una zona chiara confinava con una zona più scura. La conclusione di Goethe fu che, affinché il colore sorgesse, era necessario un CONFINE, un margine dove luce e oscurità potevano incontrarsi e dar luogo al colore.

D’altro lato, quanto si mostrò a Goethe attraverso il prisma può spiegare solo la metà del problema. L’essenziale è che Goethe non concepiva una teoria del colore così come la concepiva Newton. La FALSITÀ della teoria di Newton, che avrebbe indotto Goethe a un aspro contrasto con le concezioni di quest’ultimo, non investe solo l’interpretazione di problemi fisici. Quest’ultima è anzi solo una minima parte della questione. L’autentico problema è che Goethe concepiva in tutt’altra maniera la natura dell’esperienza e i compiti della scienza. Bisogna qui considerare, per avviare un chiarimento del contenuto dell’opposizione a Newton, qual era la direzione dei pensieri di Goethe a proposito del problema del colorito.

Goethe scrive che in Italia - in epoca precedente alla rivelazione della falsità della teoria newtoniana - aveva avuto modo di considerare con chiarezza che se si aveva intenzione di ottenere qualcosa rispetto ai colori in relazione all’arte, ci si doveva anzitutto avvicinare a essi in qualità di manifestazioni fisiche, dalla parte della natura. Questo punto di vista è illustrato da una prima sua riflessione in merito alla natura dell’azzurro. Cercando di rendersi ragione del significato della convenzionale distinzione tra colori caldi e colori freddi Goethe concluse che l’azzurro non era un colore, e che doveva la sua «IMPOTENZA» alla parentela con il nero. La particolare struttura materiale dell’azzurro veniva dunque, in questa riflessione, posta alla base della sua azione. Lo studio a cui Goethe darà vita in tema di colori nasce quindi già relativamente caratterizzato nel senso non tanto di costruire una TEORIA DEI COLORI per il pittore, quanto nel senso di voler produrre una scienza che assumesse l’intera esperienza che l’uomo fa del colore, inclusi i suoi diversi momenti e le sue diverse componenti, dalla sua struttura materiale fino alla sua valorizzazione in direzione immaginativa e simbolica.

Così orientato già fin dall’inizio verso uno studio che riguardasse l’interezza dell’esperienza del colore e la sua costituzione, ricerca dopo ricerca, viene definendosi il quadro della sua concezione. Non si trattò del resto di un processo tale da poter essere considerato solo nel suo formarsi esteriore, poiché pochi si mostravano disposti ad accogliere il suo punto di vista, ed ancora meno comprendevano che cosa era realmente in questione.

Il 16 maggio del 1810 uscì infine la sua opera principale tra quelle dedicate al colore. Si trattava di due volumi nei quali erano distribuite una parte didattica, una parte storica intitolata MATERIALIEN ZUR GESCHICHTE DER FARBENLEHRE e una parte polemica in cui venivano puntigliosamente ripercorsi e criticati gli esperimenti dell’ottica di Newton. Vi era aggiunto un sottile quaderno contenente un totale di sedici tavole.

Il tono dell’accoglienza all’opera (1) è appunto tale da confermare quella che in generale sarà l’atteggiamento nei confronti della TEORIA DEI COLORI. Ciò non impedì comunque a Goethe di occuparsi ancora del problema, al quale dal 1810 all’anno della sua morte avrebbe dedicato altri scritti, continuando sempre a considerare la TEORIA DEI COLORI come la sua principale opera di scienziato (2).


2. La natura dei colori e la costruzione del cerchio

La distanza tra Goethe e Newton si misura dunque già nell’assunzione dell’esperienza come di un tutto del quale individuare le qualità salienti. Il principale motivo d’insoddisfazione risiedeva nel fatto che, dato questo punto di partenza, ogni altro stile di considerazione sarebbe parso commettere un capitale errore: discutere dell’esperienza sopprimendone però - come primo passo - le sue caratteristiche. Goethe non fa riferimento solo indiretto a questa sua convinzione. Egli indica molto esplicitamente quella che era l’assurdità della concezione newtoniana della luce nella pretesa che la luce bianca fosse composta di luci più scure, e in generale che quell’elemento indiviso che è la luce potesse essere pensato composto di qualcosa d’altro come raggi, fasci, ecc. Bisogna riflettere con una certa attenzione al senso di questa posizione. Resa più esplicita, essa indica non tanto una generica ribellione intesa a difendere generici diritti dell’esperienza, quanto orientata ad assumere nient’altro che il contenuto dell’esperienza, nient’altro che non fosse contenuto nel suo senso. L’interesse dell’opera di Goethe risiede quindi nell’essere il primo considerevole moderno esempio di una teoria del colore orientata all’esperienza di esso, alle sue strutture.

Questa sua originalità dinanzi alle teorie fisicalistiche - e in generale a riflessioni pratiche o poetiche sul colore - sembra però forse a qualcuno non venire mantenuta proprio nel momento in cui l’analisi deve attuarsi. Ci riferiamo alle perplessità destate dalla distinzione dei colori in fisiologici, fisici e chimici. Come va interpretata questa distinzione? Vedremo nel seguito quanto peculiare essa sia, e anche in che senso, per lo stile con cui procede a una definizione della natura del colore, possa essere definita come una fenomenologia empirica.

Avvio di un chiarimento dell’apparente inconseguenza goethiana va trovato nella nozione del vedere presente nella TEORIA DEI COLORI. Goethe definisce il vedere come il trovarsi della retina, contemporaneamente, in circostanze diverse e opposte, a ciò costretto dalla luce e dall’oscurità. Luce e oscurità, isolatamente prese o congiuntamente prese che siano, operano ciascuna in maniera specifica. Ognuno di questi due poli dispone l’occhio in due differenti stati, provocandone o la massima recettività (così opera l’oscurità) o viceversa la massima insensibilità e tensione (così opera la luce).

L’osservazione è facilmente giustificata semplicemente passando da un locale fortemente illuminato a un locale buio. Nel caso di un trasferimento troppo rapido o effettuato senza permettere all’occhio di adattarsi, si rende impossibile la visione, almeno per un certo periodo di tempo.

D’altro lato, il comportamento dell’occhio che abbiamo appena descritto, il suo rapporto di dipendenza inteso come suo condizionamento da parte della luce o dell’oscurità, non cambia in relazione a superfici bianche o nere. Rispetto a queste ultime è opinione di Goethe che la rétina si comporti nella stessa maniera. Se per esempio indirizziamo lo sguardo a una superficie bianca fortemente illuminata l’occhio, abbagliato, rimarrà accecato per un certo lasso di tempo. Questo comportamento è interpretato da Goethe osservando che luci e superfici bianche implicano il massimo di tensione dell’occhio, oscurità e superfici nere il massimo di distensione. L’affinità in questione non è del resto limitata alle superfici bianche e nere. Dinanzi a una superficie grigia l’occhio si comporta come se si trovasse in un ambiente moderatamente illuminato. Ed esiste anche un’affinità, e dunque un analogo rapporto di dipendenza, con il comportamento dell’occhio rispetto a superfici colorale. Ciò rappresenta già, allo scopo di una definizione del colore, un primo risultato. Questa regolarità nel comportamento dell’occhio fissa infatti una prima relazione tra i colori, anche se assai generica: due colori presentano un diverso valore di luminosità e tuttavia il primo può, relativamente a un terzo colore, assumere la funzione del secondo. Il grigio può così occupare il posto del bianco dinanzi al nero, o del nero dinanzi al bianco, il giallo sta dinanzi al nero come vi stava il bianco, e l’azzurro sta dinanzi al bianco come vi stava il nero: l’occhio reagisce in tutti questi diversi casi in maniera sostanzialmente analoga.

L’esperienza delle immagini e del contrasto successivo presentata da Goethe può essere decisiva, nel senso di una determinazione dei rapporti tra i valori di luminosità del colore. Con essa emerge per intero l’attività dell’occhio: non solo il condizionamento, quale abbiamo fin qui visto, e non solo la dipendenza dell’occhio ma anche l’adattamento inteso come reazione, come attività. Il processo di accomodazione dell’occhio, quale qui Goethe studia, mostra di essere un processo produttivo. Si tratta di un’esperienza, come molte delle altre presentate nella sezione fisiologica, già nota prima di Goethe, della quale però l’interessante è il ruolo e il significato che a essa Goethe attribuì. Goethe la illustra con un semplice esempio. Si guardi una finestra su cielo grigio e luminoso, e quindi si distolga lo sguardo indirizzandolo a una superficie grigio chiara: la struttura lignea che ne sostiene i vetri apparirà chiara, lo spazio con a sfondo il cielo chiaro apparirà scuro. La spiegazione, ancora avanzala a titolo ipotetico come la precedente, considera che la parte della rétina sulla quale il cielo luminoso agisce è sottoposta a un forte stimolo, cosicché la superficie grigia finisce di necessità con l’apparire scura, e viceversa la parte sulla quale si proietta l’incrocio è nella condizione di massima recettività e percepisce la superficie grigio chiara accentuandone diciamo, la chiarezza. Nucleo di questa spiegazione appare però essere, quale che sia l’esatto decorrere degli eventi sulla rétina, per i quali Goethe si rifà alla dipendenza dell’occhio dalla luce, soprattutto il genere della sua attività, soprattutto la forma di essa. Quest’interpretazione viene cioè precisata osservando che l’occhio mostra qui la tendenza a un’opposizione, a muoversi tra chiaro e scuro, in un certo senso unendo gli opposti. In effetti al chiaro viene sostituito lo scuro, e allo scuro il chiaro. Un’interessante variazione dell’esperienza delle immagini successive è costituita dall’uso di immagini colorate che daranno luogo a un decorso analogo a quello precedente. Goethe osserva che mantenendo un pezzo di carta colorata dinanzi all’apertura della camera oscura, e quindi guardando su una superficie bianca, si vedrà un altro colore, secondo la seguente legge: il giallo richiama il violetto, l’arancio richiama l’azzurro, il porpora richiama il verde. Ciò si potrà ricavare anche dal cerchio dei colori, congiungendo con dei diametri ciascun colore con il colore a esso opposto nel cerchio. In questo caso, anzi, il cerchio non fa che generalizzare la relazione di opposizione tra i colori. L’esperimento può essere ancora a sua volta variato, ottenendo lo stesso risultato. Si può guardare per un certo tempo attraverso un vetro colorato cosicché, una volta levato quest’ultimo, l’ambiente circostante apparirà ricoperto da un velo del colore complementare al colore del vetro. Oppure è possibile produrre il fenomeno simultaneamente: se si guarda un pezzo di carta gialla su una superficie bianca, questa viene ricoperta da una tinta violetta, effetto che risulterà ancora più evidente quando si disponga un pezzo di carta bianco su di una superficie gialla. Infine è ancora possibile compiere l’esperienza disponendo un pezzo di carta di un certo colore su una superficie bianca e quindi, levatolo, osservare come nel momento in cui il colore richiamato va a occupare lo spazio vuoto, sulla carta si distribuisca la tonalità del colore opposto. Il nucleo fondamentale di queste esperienze rimane lo stesso, e ci può aiutare a determinare meglio la primitiva relazione tra i colori che abbiamo prima trovato, e può anche renderci più trasparente il reale contenuto della fisiologia a cui Goethe fa riferimento. Riteniamo molto poco verosimile che si possano interpretare queste considerazioni come fisiologicamente orientate, nel senso proprio dell’espressione, nel senso moderno di essa. Il tema è qui senz’altro il processo di accomodazione dell’occhio inteso da un lato come condizionamento, dall’altro come attività e tuttavia, in ragione di esso, l’attenzione di Goethe si indirizza ad aspetti che non coincidono con quelli di una fisiologia. È facile osservare che egli si orienta secondo una via o maniera di spiegazione che non è quella causale, rivolgendosi piuttosto ad aspetti di ordine formale. Si consideri il passo in cui Goethe scrive che l’occhio è costretto ad una sorta di opposizione e riequilibrio, e che con ciò mira ad un intero. Goethe intende dire che, per esempio, il rosso richiama il verde, ma i1 verde risulta da giallo e azzurro, i quali richiamano l’uno il violetto e l’altro l’arancio. A parte il pur essenziale aspetto di dettaglio in questa osservazione è notevole che dopo aver rapidamente avanzato un’ipotesi, come già in precedenza, Goethe non trova interessante tanto l’attività di azione e reazione dell’occhio, quanto i nessi che nel contesto di essa hanno luogo tra le immagini, tra i loro valori di luminosità, tra questo e quel colore. Questi nessi non vengono dunque trattati come eventi di ordine psico-fisiologico. Siamo senz’altro del parere che sarebbe assai difficile immaginarsi queste considerazioni sul colore a prescindere dalle sue osservazioni sull’occhio, ma d’altro lato principale argomento è qui il nesso di opposizione tra valori o posti, di cui le immagini successive sono un esempio: a interessare Goethe sono le proprietà del fenomeno. Più che disporre di controlli relativi all’esattezza dell’ipotizzato comportamento della rétina rispetto a una teoria, facendo da essa dipendere l’interpretazione del nesso di opposizione fra le immagini, Goethe mostra la regola di quel comportamento e di quel nesso. Interessante per lui, nel contesto dei rapporti tra luce e oscurità da un lato e l’occhio dall’altro, è la forma di unione che nell’occhio ha luogo tra due elementi fenomenicamente opposti quali il chiaro e lo scuro. In conclusione potremmo dire, liberamente riformulando: che la causa sia questa o quella, accade che nell’occhio il chiaro richiama lo scuro e viceversa, e in generale che il colore che possiede il valore di luminosità maggiore richiama il colore che possiede il valore di luminosità minore e viceversa: sono le strutture dell’OPPOSIZIONE e del RICHIAMO quanto veramente qui conta.
Le proprietà e i nessi appena visti - i due momenti dell’opposizione e del richiamo - sono un aspetto che merita da parte nostra una particolare attenzione. In ragione di essi non solo un colore richiama l’altro ma di più e soprattutto in virtù di questo nesso tutti i colori vengono richiamati. Quando Goethe dunque osserva che il rosso richiama il verde, osserva contemporaneamente che vi è una relazione tra i valori chiari e i valori scuri: il colore più scuro richiama il colore più chiaro e il colore più complesso richiama il colore più semplice (un fondamentale richiama per esempio un complementare e viceversa). La relazione è tanto più notevole in quanto attraverso il nesso tra due elementi vengono a loro volta richiamati tutti gli altri. Abbiamo così che ciascun colore non è senza tutti gli altri, e che data per esempio un’opposizione tra due colori, l’insieme è subito presente. L’articolazione di casi relativi all’esperienza dell’occhio nei confronti della polarità luce e oscurità conduce così al rinvenimento nell’esperienza di un’interrelazione, di un insieme nel quale un elemento dà luogo a tutti gli altri, dunque dà luogo a un intero vivente. Il risultato dell’analisi è dunque la forma di un fenomeno, l’indicazione di una qualità.

Possiamo forse a questo punto rispondere alla domanda lasciata aperta e solo in parte soddisfatta: come va intesa la distinzione tra colori fisiologici, fisici e chimici? I fenomeni che Goethe raccoglie sono i fenomeni del contrasto successivo, del doppio contrasto, della mescolanza derivata da quest’ultimo effetto, infine i fenomeni del contrasto simultaneo. Sono i fenomeni che appunto definiscono il vedere e il cui essere è altamente instabile e momentaneo, la cui insorgenza è relativa all’occhio e non ad altro. Se queste erano le caratteristiche del fenomeno anche nella tradizione, dalla quale Goethe prende spunti e suggerimenti, diversa è però l’interpretazione che egli sostiene a questo proposito. Quando Goethe si serve di questa espressione vi esclude ogni accento relativistico. Un’interpretazione di tal genere è di PRINCIPIO fuori questione e ancor più ogni interpretazione in direzione patologica. Il contenuto di questa nozione di relatività viene invece indicata da Goethe stesso con le due espressioni di INCOSTANZA e DIPENDENZA dal soggetto. Questo genere di manifestazioni di colore dipende cioè interamente dal soggetto, e in questo senso esse sono instabili. I colori fisiologici sono cioè privi del carattere di costanza e di indipendenza posseduto per esempio dal colore di una superficie, al di là delle sue variazioni - questione che spetta alla sezione chimica - o dal colore che prende il cielo al tramonto, - questione che spetta alla sezione fisica. I colori fisiologici risiedono dunque unicamente nell’occhio, la loro esistenza dipende dall’occhio ovvero, in altre parole, non possono essere accompagnati da tesi di oggettività. Essi né registrano una proprietà delle cose, come è il caso dei colori chimici né, come si può dire dei colori fisici, possiedono un referente esterno, per quanto instabile.

La posizione di Goethe diviene allora interessante per i seguenti motivi. In primo luogo questo puro carattere soggettivo non è imporrante ai fini dell’analisi: i risultati che si ricavano dall’analisi di questi colori non vengono influenzati da questa caratteristica. Se cioè le manifestazioni soggettive di colore sono instabili, altrettanto non lo sono i principi che le riguardano. Questi ultimi sono anzi propri di qualsiasi manifestazione cromatica, di qualunque genere essa sia. I colori fisiologici rappresentano semplicemente un punto di vista dal quale guardare al colore: l’esperienza di essi, quella scientifica inclusa, non è un’esperienza del casuale, bensì del necessario e sono del resto, per Goethe, il fondamento dell’intera teoria, dal momento che in essi si esperisce la circostanza che un fenomeno cromatico è fondamento dell’altro. Essi si sollevano così PER l’uomo fino all’altezza dell’uso estetico. L’occhio da un lato, la luce e l’oscurità dall’altro: questi i termini del nostro discorso fin qui. Come si svolge il discorso per fenomeni di genere diverso?

Se l’analisi dei colori fisiologici si svolge nel contesto del comportamento dell’OCCHIO rispetto alla luce e all’oscurità, nell’ambito dei colori fisici il contesto sarà altrimenti determinato. Quelli che Goethe definisce colori fisici dovranno il loro insorgere non più all’azione e determinazione della luce e dell’oscurità rispetto all’occhio, bensì rispetto a un altro genere di mezzi. Su ciò è fondata la circostanza che i colori «fisici» possiedono un altro genere di caratteristiche, riassunte da Goethe in una nozione di STABILITÀ. Il tema della seconda sezione della TEORIA DEI COLORI sarà dunque leggi e condizioni di questo genere di colori, ovvero sarà la forma in cui in questo caso la polarità è e viene specificata. Il riferimento a mezzi, in generale l’uso di un apparato minimo nel quale il prisma tiene una parte importante, può far nascere una perplessità analoga a quella precedente: il riferimento a una fisica del colore deve essere considerato come un riferimento inconseguente?

In realtà anche relativamente a questo punto l’impostazione della questione è lontana da quella della scienza naturale e dalla FISICA, da quella newtoniana in particolare. La dimensione di questa distanza, e le sue ragioni, può essere indicata da un passo della parte polemica: «La teoria... che sosteniamo... si occupa anche della luce bianca. Nell’ambito di essa, per dar luogo a manifestazioni di colore, ci si serve anche di condizioni esterne. A queste ultime si attribuisce tuttavia valore e dignità, non si pretende di sviluppare colori dalla luce e si cerca piuttosto di mostrare in modo convincente che il colore viene a un tempo originato dalla luce e da ciò che le si contrappone» (in: Matthei, 1955). Newton sviluppa il colore dalla luce, e le condizioni che sono opposte alla luce hanno la funzione semplicemente di animarne la costituzione interna, «affinché essa venga in questo modo dischiusa» (ivi). In contrasto con questa posizione, Goethe sostiene che non è la rifrazione della luce come tale che dà luogo al colore, ma piuttosto, anzitutto, la rifrazione di «un’immagine». Le condizioni per la comparsa del colore, sulle quali ritorneremo precisando cosa si intende con immagine, sono quindi almeno DUE. Secondo Goethe, dunque, l’aspetto condannabile di Newton risiede essenzialmente nella circostanza che le «condizioni» di cui egli parla non costituirebbero una parte del risultato. Secondo Newton nell’unità, nella luce, vi sarebbe una molteplicità (il colore), secondo Goethe questa molteplicità risulta invece da una DUALITÀ (luce e oscurità) che viene determinata o specificata da una serie di condizioni. Qui, accolto o meno che sia, il presupposto del discorso goethiano è comunque chiaro: una molteplicità risulta posta dalle proprie parti, dai cui nessi, a diverso titolo e con diverso metodo, deve essere dedotta. La scienza ha come compito di mettere in rilievo le diverse modalità nelle quali un momento di una molteplicità definisce e qualifica altri momenti di quella molteplicità. Il CHIARO per esempio richiama lo SCURO e ciò vale come una definizione di un certo genere di manifestazioni di colore. Si vede bene quanto distante sia dunque la nozione di mezzo qui presente da quella di «strumenti artificiali» attraverso i quali soltanto, secondo il parere di Goethe, la fisica moderna pretende di riconoscere ciò che la natura è.

Un esempio della maniera di intendere i compiti della cromatica rispetto a colori di quel grado limitato di oggettività quali possono essere i colori atmosferici in genere, può essere fornito dall’esame dei fenomeni di colore che sorgono quando la luce - rispettivamente l’oscurità - passa attraverso o viene osservata attraverso un mezzo torbido incolore. Ci troviamo nell’ambito dell’attenuazione di un’azione luminosa, fenomeno che apparteneva già all’attività dell’occhio, e che qui appartiene a quella di un mezzo incolore qualsiasi. Si guardi per esempio una fonte luminosa intensa e incolore, oppure una luce crepuscolare, attraverso un mezzo sufficientemente torbido, quale può essere un vetro non interamente trasparente. La luce, con questo procedimento, apparirà gialla. Se la torbidezza del vetro aumenta, il giallo si tinge di rosso, passando infine - aumentando la densità del mezzo in questione - in un rosso rubino. L’oscurità appare invece anzitutto azzurra, quindi sempre più chiara e pallida quanto più il mezzo diventa torbido, divenendo invece l’azzurro sempre più scuro e saturo quanto più il mezzo diviene trasparente, trasformandosi in un violetto al grado minore di torbidezza.

La natura e il significato di questa semplice osservazione risulta dall’esperienza seguente, che ne costituisce una variazione in virtù della quale compiamo un deciso passo verso la definizione di ulteriori caratteristiche del colore. L’esperimento viene articolato esaminando attraverso il prisma prima delle strisce di carta bianca su fondo nero, e quindi delle strisce nere su fondo bianco. Sarà del massimo interesse vedere in che modo - rispetto alla sezione fisiologica - si articolano qui i rapporti tra chiaro e scuro e quindi, in generale, tra i colori. Si disponga quindi una striscia di carta bianca, sufficientemente ampia, su un fondo nero e, sempre servendosi di un foglio nero, se ne diminuisca la superficie ricoprendo a poco a poco la striscia. Viceversa si può spostare verso l’alto un foglio di carta bianco coprendo così progressivamente un foglio di carta nero, anch’esso sufficientemente ampio, disposto su un fondo bianco. L’esame della manifestazione è assai interessante. Giallo e azzurro, arancio e violetto sono gli estremi che si distendono ai bordi inferiori e superiori dell’immagine in ambedue le osservazioni.

Quando la manifestazione si riferisce a una striscia di carta abbastanza sottile da permettere la riunificazione dell’orlo superiore con il margine inferiore abbiamo, quando il fondo è nero e la figura è bianca, che l’orlo giallo superiore e il margine azzurro inferiore si riuniscono, dando luogo al verde. Si collochi invece una striscia nera su fondo bianco, e si proceda come in precedenza indicato, restringendo progressivamente l’estensione della striscia: l’orlo violetto, quando questa sia sufficientemente stretta, vi si estenderà sopra e si incontrerà con il margine arancio, dando così luogo al porpora.

Il processo a cui abbiamo assistito ha un’importanza pari a quella del RICHIAMO e dell’OPPOSIZIONE e in generale della interrelazione reciproca tra i colori (la tendenza a un intero). In quest’ultimo caso un certo nesso tra chiaro e scuro costituisce quanto connette un colore con l’altro. Nel caso che abbiamo invece ora visto otteniamo una definizione più precisa del colore, in rapporto a luce e oscurità. Nell’esperienza dei mezzi torbidi otteniamo una definizione del giallo e dell’azzurro. Il primo si qualifica come il colore più prossimo alla luce, il secondo come il colore più prossimo all’oscurità. Dal giallo e dall’azzurro ha origine un movimento, un progressivo SCURIRSI che dà luogo a due serie, a due lati. Il nesso tra valori cromatici chiari e valori cromatici scuri, meno luminosi, che ricavavamo dall’analisi dei fenomeni cromatici soggettivi, viene a precisarsi in rapporto alla costituzione di questa serie, in ciascuna delle quali i valori progressivamente più scuri - si consideri il cerchio - si trovano verso l’alto. D’altro lato, l’osservazione attraverso il prisma integra la serie che così si costituisce, determinandola meglio in virtù dell’aggiunta di importanti elementi. Il cerchio dei colori rappresenta, procedendo verso l’alto, non solo la diminuzione di luminosità del colore e il suo progressivo scurirsi, ma anche l’ascesa della forza cromatica di ciascun colore.



Schema dell’intensificazione cromatica



Goethe ebbe a presentare una prima sintesi della questione osservando che stendendo successivi strati di gomma gutta (un giallo-arancio) o di azzurro di Prussia (molto vicino al violetto), la tinta risultante diviene sempre più carica e satura, senza però che un progressivo scurimento coincida con un progressivo aumento di energia. Se però quei due colori vengono mescolati ha luogo un aumento di energia e anche un pronunciato scurimento: il colore risultante è più scuro e tuttavia più intenso degli altri colori. Nella TEORIA DEI COLORI è dunque definita una riunione in una duplice direzione. Giallo e azzurro, i rappresentanti della luce e dell’oscurità nell’ambito del colore, possono congiungersi verso il basso, neutralizzandosi e dando luogo al verde, oppure possano riunirsi verso l’alto, in quanto possiedano una qualità rossiccia, e il risultato è il rosso intenso o porpora. In questo processo viene a generarsi propriamente il cerchio dei colori. In esso troviamo ulteriore ragione di quel disporsi dei colori in cerchio: non solo le strutture dell’opposizione e del richiamo vi vengono illustrate, ma anche quella della riunione, che essenzialmente si realizza relativamente alla dimensione della forza (da non confondersi con qualità e luminosità) del colore.

Le due esperienze presentate, quella relativa ai mezzi traslucidi e quella relativa a mezzi torbidi ma trasparenti, che rispettivamente occupano la prima e la seconda parte dei colori diottrici, vengono riportate da Goethe al concetto di IMMAGINE, che permette di saldare la discussione sui colori stabili o relativamente stabili a quella sui colori soggettivi. Vedremo, in breve, l’importanza dei fenomeno dei mezzi torbidi. Abbiamo sottolineato che le immagini sono il presupposto delle manifestazioni prismatiche, così come queste ultime non sono in definitiva altro che immagini e, in generale, uno dei presupposti della cromatica di Goethe. Con il problema delle immagini entriamo anzi in una fase assai delicata che può essere vista in quanto possiede un valore di chiarezza diverso rispetto al suo ambiente. Con quella espressione Goethe indica anzi ogni configurazione che risalti rispetto alle altre del proprio ambiente, e dunque si riferisce alla condizione fenomenologica minima del vedere: la percezione di contrasti.

Le immagini vengono distinte da Goethe in primarie e secondarie: le primarie sono tutte le manifestazioni che vengono suscitate nell’occhio e tali da confermare l’effettiva esistenza di un oggetto esterno. Le secondarie sono quelle che permangono nell’occhio quando l’oggetto non è più realmente ed effettivamente dato, e sono derivate dalle primarie. Esempio ne sono le immagini successive, e in generale tutta la trattazione dei colori soggettivi ha a che fare con immagini secondarie. In questo senso immagini primarie sono anche quelle che si presentano SENZA MEDIAZIONE alcuna al nostro occhio, mentre le immagini secondarie possono anche essere considerate come immagini indirette, che raggiungono il nostro occhio non direttamente ma in virtù della mediazione operata da un qualche mezzo quali, oltre l’occhio, possono essere per esempio le immagini rinviate da uno specchio, e di questo genere sono anche le immagini doppie riflesse da vetri o in genere superfici riflettenti e trasparenti poste le une sopra le altre. Ciascuna superficie riprodurrà lo stesso oggetto dando luogo a un’immagine doppia. Infine, ad ulteriore specificazione, è possibile considerare l’immagine primaria come una sorta d’immagine principale e l’immagine secondaria come una sorta d’immagine attigua. La discussione dei colori fisiologici offre in questo senso un’essenziale testimonianza. Nel caso dell’effetto di irradiazione accadeva propriamente, secondo l’interpretazione di Goethe, che un’immagine, in certe condizioni, veniva accompagnata da una sorta d’immagine attigua. Goethe osserva che se un fenomeno del genere si verifica a occhio nudo, tanto più esso si verificherà «quando tra l’occhio e l’oggetto si ponga un mezzo che abbia la proprietà della densità».

Questo parallelismo tra quanto avviene nell’occhio e le immagini prodotte dal prisma non si arresta qui. Se consideriamo la questione delle manifestazioni di colore che accompagnano le immagini doppie, troveremo che la loro fondazione dipende ancora dai fenomeni incontrati nell’ambito degli esperimenti effettuati con schermi traslucidi. Ciò è quanto dire che ciò che avviene in essi costituisce lo URPHÄNOMEN nell’ambito di tutte le manifestazioni di colore.

Si consideri, p. es., quanto Goethe scrive a proposito dell’esperimento con lenti concave o convesse, appunto mezzi al grado minimo di torbidezza. Gli effetti provocati dalle osservazioni attraverso quelle lenti, veniva descritto da Goethe osservando che muovendo il chiaro in direzione dello scuro sorgeva l’azzurro; muovendo lo scuro in direzione del chiaro sorgeva il giallo. Il chiaro «sopra» lo scuro dava l’azzurro, lo scuro «sopra» il chiaro dava il giallo. Faceva come terzo, la sua comparsa il rosso, in quanto giallo e azzurro si distendevano sul nero prendendo appunto un aspetto rossiccio. Nell’esperienza compiuta a proposito dell’osservazione di un’immagine bianca e luminosa attraverso (quindi: dietro, sotto) mezzi traslucidi produceva il giallo, un’immagine scura attraverso (quindi ancora: dietro, sotto) gli stessi produceva l’azzurro. Rispettivamente un aumento e una diminuzione producevano nel primo caso il rosso, nel secondo il violetto. E, di passaggio, osserviamo che altrettanta corrispondenza esiste tra il decorso di colori che accompagna l’attenuarsi di un’impressione luminosa sulla rétina. Queste esperienze confermano dunque l’eccezionale importanza della torbidezza nella TEORIA DEI COLORI, sottraendola d’altro lato a ogni nesso meccanicistico e collegandola anzi a un’idea di ATTIVITÀ e TRASFORMAZIONE operata da un mezzo.

I colori fisici non esauriscono tuttavia, date le loro caratteristiche, l’interezza delle manifestazioni di colore. Oltre il gruppo di fenomeni soggettivi e quasi-oggettivi rimangono le manifestazioni di colore capaci di effettiva permanenza, tema appunto di una «chimica» del colore. Con quest’ultima passiamo quindi dallo studio delle immagini secondarie e attigue a quello delle cosiddette «immagini primarie ». Con colori chimici Goethe intende perciò riferirsi ai colori dei corpi prescindendo da particolari effetti che essi abbiano a generare nel nostro occhio o da fenomeni che potrebbero prodursi sulle superfici, come fenomeni attigui (riflessi e altro): i primi riguarderebbero i colori fisiologici, i secondi i colori fisici. I colori cosiddetti chimici concernono dunque i colori che sono, indipendentemente da una loro azione sull’occhio o un altro mezzo o da una conseguente più o meno momentanea modificazione. Una teoria del colore che trascurasse l’esperienza dei colori oggettivi, ovvero quell’esperienza che riteniamo possieda un referente esterno, sarebbe dunque incompleta. Il che, dal punto di vista di Goethe, costituisce un motivo critico in più rispetto a Newton.

Delle manifestazioni che vengono qui indagate cambia dunque se non la sostanza perlomeno il contesto. l termini entro i quali esse si dispongono cd entro il quale esse si specificano è ora segnato dall’opposizione acidi-alcali, e non più da quella luce-oscurità. Il nesso tra le due esiste, secondo Goethe, ma certo non spetta a noi ora occuparcene. È più interessante osservare che il compito che Goethe fissa allo scienziato è qui quello di mostrare le modalità essenziali di determinazione e specificazione di questa polarità: scopo dell’analisi sarà anche in questo caso la determinazione della BILDUNG, della conformazione dinamica di quest’ambito di manifestazioni. Secondo lo stile caratteristico di tutta l’opera ciò non significherà indagare la materialità del colore in quanto tale: Goethe non porrà i problemi in termini di pigmenti, né parlerà del colore indirizzandosi in primo luogo a processi chimico-fisici. Le considerazioni pratiche devono in vero presentarsi, ma solo allo scopo di assicurare un contesto al problema.

In questo senso la nozione forse più interessante dell’intera sezione, che sgombra il terreno da molti equivoci e illustra le caratteristiche della chimica goethiana, e non solo di essa, è quella relativa alla distinzione tra DINAMICO e ATOMISTICO. Con essa Goethe intende esprimere la differenza tra orientamento alle relazioni (tra i colori o altro) e rilievi orientati al separato o al singolo. L’atteggiamento atomistico prescinde dal fatto che ogni dato non è in realtà che momento di un intero e che si tratta, dunque, di un momento di relativo arbitrio e astrazione. L’atteggiamento dinamico assume invece le qualità dei complessi come proprie di essi e non come riducibili alle loro parti isolate: è l’atteggiamento nel quale ci siamo fino a ora disposti insieme a Goethe. Il concetto di intensificazione cromatica, che abbiamo visto descritto da Goethe come una sorta particolare di ombreggiamento e saturazione del colore, precisa il senso dell’orientamento al qualitativo. Goethe menziona un’interessante esperienza: se si riempie un vaso graduato di porcellana bianca con un liquido giallo, esso diviene sempre più rosso negli strati più prossimi al fondo; se in un altro simile recipiente si versa del liquido azzurro, il fondo mostra un colore violetto. Questo risultato viene interpretato da Goethe considerando che una proporzione quantitativa produce sui sensi un’impressione qualitativa.

La impostazione generale del problema permette dunque a Goethe di assumere problemi e questioni che sono senz’altro di interesse per il pittore, come del resto già in precedenza le tematiche trattate erano interessanti anche da un punto di vista esterno a quello propriamente sostenuto da Goethe. Andare oltre questo modo di interpretazione sarebbe un errore. In questo senso i titoli che vengono dati a ciascun capitoletto sono da Goethe posti a indicare non altro che l’ORIZZONTE dell’esperienza, quello che essa può e non può esperire. Così apprendiamo che il colore deriva anche in natura dal bianco e dal nero presentandosi più frequentemente dal lato attivo che dal lato passivo, così come mostra un esame dei fenomeni nei quali interviene un fenomeno d’INTORBIDAMENTO. Altrettanto il colore aumenta la sua forza cromatica più frequentemente dal lato attivo che dal lato passivo, raggiungendo un vertice nel rosso. Così le considerazioni sulle OSCILLAZIONI del colore, sui casi in cui un fenomeno cromatico PERCORRE l’intero arco delle manifestazioni di colore, sulla TRASMISSIONE e sulla MESCOLANZA mostrano a quali eterne e costanti regole il colore - la nostra esperienza di esso - è subordinata.

Queste due ultime regole dei fenomeni cromatici oggettivi sono particolarmente interessanti. La mescolanza (reale o apparente) indicherebbe innanzitutto una situazione atomistica, dal momento che si tratta di fenomeni di natura empirica e pratica. Goethe sottolinea tuttavia la presenza di un elemento di regolarità: il colore è un valore d’ombra, e a questa realtà - valida per ogni e qualsiasi genere di manifestazione cromatica - neppure la mescolanza o la trasmissione possono sottrarsi. Un ulteriore motivo di unità di principi cromatici è rappresentato dalla tendenza di Goethe a riportare il fenomeno della mescolanza reale a quello della mescolanza apparente, e in generale a riassorbire il fenomeno della trasmissione in quello della mescolanza ottica. In questo modo i casi qui presenti sono riavvicinati a quelli delle precedenti sezioni in particolare alla sezione fisiologica. La questione della trasmissione del colore, sia essa reale o apparente non mancherà del resto di contenere interessanti e più generali implicazioni per la tecnica pittorica, che Goethe utilizzerà nelle ultime sezioni. Avremo cosi osservazioni sul fatto che un colore è più o meno luminoso a seconda della sua trasparenza, ovvero a seconda del suo rapporto con il fondo, che potrà esaltare o deprimere la quantità di luce propria di qualcuno. A quest’ultimo punto si ricongiunge anche ciò che si può leggere sulla PRIVAZIONE. Anche per i fenomeni relativi si tratterà anzitutto di riaffermare la circostanza che il colore possiede un elemento luminoso. La privazione ha così luogo in quanto la luce o altro sottraggano il colore.

Questa morfologia dei colori oggettivi non può certo considerarsi completa se limitata solo a queste considerazioni. Il colore non è né per l’uomo qualcosa di muto e indifferente, né per la natura. Il primo trova in esso una quantità di significati, vi trova l’espressione palese e segreta a un tempo di ciò che vi è di più universale ed essenziale, ma anche la seconda in esso si esprime e in esso si rivela. Così una parte integrante delle considerazioni svolte è rappresentata dal tentativo di sviluppare una morfologia del colore non solo nella sua generalità, come fin ora accaduto, ma anche in rapporto e come segno di processi naturali più profondi. Ci si potrà accorgere dalla lettura delle pagine corrispondenti che è qui operante un motivo tipico di tutta la TEORIA DEI COLORI. Si tratta della circostanza che i colori si rendono tanto più complessi quanto più complesso è l’ente. Né dunque lo spazio dei colori e le sue regole sono regole prime di un’idea GERARCHICA - il rosso, come si vedrà, è il colore più degno - né le sue considerazioni di morfologia della natura fanno a meno di accenti che potremmo considerare come un’accentuazione eccessiva di quegli ordini e di quei sistemi di relazioni che vengono individuati. Goethe osserva che creature che ancora occupano un gradino elementare della scala degli enti presentano un colore a sua volta elementare. Gli uccelli per esempio mutano con la forma anche il colore, secondo una legge che orienta la distribuzione del colore sulle penne. Tra i colori delle forme superiori di vita animale non troveremo dunque più colori elementari. L’asserzione centrale è che le macchie sul pelo di un quadrupede hanno un nesso con le sue parli interne. Quanto più una creatura è «nobile », tanto più gli elementi che la compongono sono elaborati. Essendo i mammiferi - e quindi a maggior titolo gli uomini - delle creature complesse, che presentano una stretta connessione tra esterno e interno, non potrà esserci deroga per l’eventualità di un nesso tra colore e parti interne. Il colore degli animali superiori NON PUÒ essere un colore elementare.

Attiriamo l’attenzione a questa distinzione tra ELEMENTARE e COMPOSTO. Con questa distinzione Goethe intende designare un momento che appartiene alla NATURA del colore, ma che è di significato anche per una morfologia in generale. In particolare a quella distinzione e a tutte le particolarità che .fin qui abbiamo visto valere siamo rinviati trattando della sua azione sensibile e morale, della sua azione simbolica: qui come là siamo rinviati alla natura del colore.

La conclusione di questa parte dedicata alla definizione della natura dei colori e alla costruzione del cerchio ci riporta a quello che era il problema principale per Goethe: un’indagine del complesso dei motivi che si intrecciano nell’esperienza del colore. Ogni colore ha ricevuto una determinazione rispetto agli altri dunque, secondo il modo di pensare goethiano, rispetto alla LUCE e all’OSCURITÀ. Sappiamo che esse non possono mischiarsi. Il colore sorge cioè non dalla loro mescolanza - di principio impossibile - bensì solo ai loro confini. Ciò è tanto vero che bianco e nero mescolati insieme producono grigio, ma non colore. Il miracolo della loro riunione è invece realizzato soltanto dall’occhio, o dal prisma, oppure dal calore del fuoco. Il colore nasce dunque TRA la luce e l’oscurità, dalla tensione tra essi e dalla determinazione di questa tensione. La teoria dei mezzi torbidi è appunto formulazione di questa concezione: il chiaro tocca e si sovrappone allo scuro, lo scuro tocca e si sovrappone al chiaro. Sorgono così giallo e azzurro, le manifestazioni di colore ai confini tra bianco e nero, i rappresentanti della luce e dell’oscurità nell’ambito del colore dai quali il cerchio origina.

È del resto chiaro che in questo modo non si è definito solo un processo di natura e il cerchio che abbiamo ottenuto non rappresenta solo l’illustrazione di un fenomeno naturale. Si rifletta a come POLARITÀ si presentano come punti estremi e fattori della nostra vira e del nostro intero essere. Si consideri come, per diverse che possano essere, queste tensioni hanno tuttavia molto in comune tanto da poter tutte essere indicate con un + o un -. Così, se luce e oscurità non possono mischiarsi dal momento che l’una esclude l’altra, altrettanto non lo possono bene e male, e così vita e morte. Non significa forse la presenza dell’un termine l’assenza dell’altro? E cosi anche le regioni intermedie tra quelle tensioni originarie hanno l’una qualcosa di affine all’altra. Se il colore abita la regione intermedia nella quale luce e oscurità s’incontrano, e dove l’occhio sfrutta in pieno le sue capacità, anche l’uomo abita la regione dove entrano l’una in contatto con l’altra. E cos’è appunto la verità che gli uomini cercano decifrando i simboli del mondo, se non, come Goethe si esprime, non-luce e non-ombra, se non semplicemente CREPUSCOLO?


3. Il simbolismo del colore

Le ultime tre sezioni della TEORIA DEI COLORI ritornano al problema che ne costituisce non tanto l’avvio esterno, quanto l’avvio logico: l’azione sensibile e morale del colore (3), di cui la distinzione in colori «caldi» e colori «freddi» costituiva un esempio di prima definizione.

Il baricentro di tutta la questione può essere indicato nella nozione goethiana di SPECIFICAZIONE e DETERMINAZIONE del colore. Un’interpretazione della sua azione sensibile e morale non può fare a meno di quelle due idee. Ci è noto, e il cerchio dei colori ne è illustrazione, che il colore si dispone tra luce e oscurità, e ciascuno in un nesso preciso rispetto all’altro: «il colore percorre sempre una strada». Espressione di questa sua specificità è contenuta nel § 696 dove si dice che i fenomeni cromatici si definiscono secondo due lati, presentando e articolando in coppie un’opposizione che si può in generale «designare» con un + e con un -. Il senso delle espressioni è qui importante: Goethe non ritiene di proporre una possibile interprerazione del colore rispetto a un’opposizione e in generale rispetto a specifiche coppie di opposti, ma di esprimere la sua natura quale essa è. Il movimento che origina da ciascun polo, da quello positivo e da quello negativo, esprime quello che i colori SONO.

La problematica qui in questione può essere portata alla luce semplicemente ponendo la questione della LEGITTIMITÀ di una definizione ottenuta mediante una successione di opposizione così costruita. Vi è e di che tipo è il fondamento che sta alla base di essa? Si tratta effettivamente di una definizione, di una espressione di quello che il colore è, come Goethe ritiene? Si consideri per esempio la disposizione della coppia respingere-attrarre (§ 696). Non si potrebbe forse invertirla disponendo l’attrarre dal lato del Più, e il respingere dal lato del Meno? Questa proposta porrebbe trovare maggiore o minore consenso ma l’essenziale è che essa sarebbe tuttavia POSSIBILE. Si potrebbe perfino osare di proporre il passaggio dei termini dalla colonna del Più a quella del Meno, e viceversa, senza per questo commettere, PROPRIAMENTE un errore. Come dobbiamo interpretare questa possibilità? E come dobbiamo invece interpretare la circostanza che essa, sostanzialmente, per Goethe non si dà?


Si riconoscerà che, da un lato, è piuttosto difficile considerare la distinzione proposta da Goethe in due campi come una dimostrazione in senso stretto. Ciò risulta difficile non solo rispetto a quanto proposto da Goethe, ma in generale rispetto a tutte le determinazioni che come quella goethiana aspirassero all’assolutezza. Come si fa per esempio a dimostrare che il nero è il colore della morte? Vi è una procedura e una teoria in merito? Quando quella circostanza può essere considerata un fatto o quando può essere riportata a un sistema di fatti? Vi potranno piuttosto essere una teoria e delle procedure per dimostrare che la proposizione «il nero è il colore della morte» è - sotto certe circostanze - valida, in quanto descrive il fatto che presso certi popoli il nero è considerato il colore della morte. Del resto è certo che nella proposizione «il nero è il colore della morte» - prescindendo da un suo valore fattuale - l’attribuzione del nero alla morte non può essere tematizzata cosi come lo può l’attribuzione del nero alle ali del corvo. Il primo genere di attribuzione è orientato in un senso piuttosto diverso rispetto al secondo. La struttura del senso delle due proposizioni è completamente distinta, quando pure la forma linguistica sia la stessa. Rendere esplicite le differenze qui in causa non spetta a noi ora, ma è evidente che se del problema voglio occuparmi dovrò procedere tenendo conto - ci esprimiamo qui un po’ genericamente - che il nero non «appartiene» alla morte così come «appartiene» alle ali del corvo: del resto, forse non si tratta dello stesso nero.

D’altro lato Goethe non considera il problema sotto il punto di vista che abbiamo voluto ora segnalare. Se egli non pensa a una dimostrazione in senso rigoroso, neppure ritiene di trovarsi dinanzi a un problema che richiede un particolare trattamento DI PRINCIPIO diverso rispetto a quello morfologico generale. Quei due generi di proposizione sono invece per lui molto vicine tra di loro nella TEORIA DEI COLORI i fenomeni cromatici sono fin dall’inizio accompagnati ai valori simbolici e immaginativi, al punto che la natura fisiologica, fisica e chimica del colore va considerata come l’altro lato di una medaglia che già porta impresse su una faccia dei valori e motivi d’immaginazione. L’autentico punto della questione - della massima importanza rispetto a un’interpretazione della nozione di simbolo in Goethe - è dunque che Goethe in questo avvicinamento dei due tipi di attribuzione finisce col restringere l’ambito degli elementi dci quali tener conto allo scopo di un’interpretazione del problema, pensando che un’unica scienza sia chiamata a quell’indagine. Esprimendoci con più chiarezza: del ruolo di elementi che potremmo chiamare genericamente soggettivi, quali criteri storici, culturali, ecc. Goethe non tiene conto nella sua definizione della natura sensibile e morale del colore. La natura dell’azione sensibile e morale del porpora non viene ricondotta - ed è dubbio che veramente si possa procedere in questo modo - a un contesto che a noi oggi appare extra-cromatico ma, pur intendendo ciò in senso ampio, alla sua natura cromatica semplicemente. Uno stile diverso di considerazione sarebbe a Goethe sembrato equivalente all’introduzione di criteri RELATIVISTICI e al tradimento di un momento di oggettività che egli intendeva invece a tutti i costi difendere. Ravvisando dunque - come noi sappiamo bene - nella molteplicità dei fenomeni che accompagnano il colore un unico e identico nucleo, un unico nesso a tutti comune, Goethe non ha fatto altro che perseguire questa sua idea con la massima coerenza. Il cerchio dei colori non rappresenta dunque solo relazioni di ordine STRETTAMENTE cromatico, ma anche di ordine più ampio, di ordine simbolico e immaginativo in generale.


Il punto fondamentale della disamina dell’azione sensibile e morale del colore consiste dunque in una tecnica di messa in mostra, compiuta con passione e precisione descrittiva, della genesi dei colori oppure, se si preferisce, dei loro nessi. Si tratta di un lavoro COMPARATIVO e ANALOGICO, in cui dal complesso dell’esperienza del colore, dal viluppo di momenti immaginativi e da quello di momenti materiali viene sviluppato e distinto ciò che di per sé è solo EMBRIONALMENTE distinto. Dal momento che, appunto, il colore si trova sempre accompagnato da certi valori, e che non si può parlare di un prima e un dopo dell’esperienza del colore non si tratterà certo di ricorrere a ragionamenti sottaciuti, a meccanismi deduttivi che si DISTENDONO sull’impressione del colore.

Lo strumento dell’ANALOGIA è in quest’ambito lo strumento in cui Goethe fa il più frequente ricorso. È anzi importante osservare, allo scopo di un completamento di guanto abbiamo detto, che Goethe non va in questo caso alla ricerca delle caratteristiche di un’esperienza immaginativa in generale, ma di quelle di un’esperienza immaginativa del colore. Se ciò da un lato qualifica con sempre più evidenza il compito di Goethe come un saggio di fenomenologia empirica, giustificazione ne è - dal punto di vista goethiano - che nell’esperienza del colore tutti i diversi momenti sono compresenti. Si pensi a quanto detto a proposito della circostanza che i colori - secondo la concezione di Goethe - sorgono là dove chiaro e scuro si incontrano a un margine: si vedrà che lo URPHÄ NOMEN dei mezzi torbidi, che questo incontro ai margini esplicita, non riguarda solo la nascita materiale del colore, ma anche la sua nascita cosmica in quanto figlio di due forze cosmiche.

Il modo più proprio per affrontare il problema è dunque per Goethe quello di considerare la disposizione di ciascun colore tra i due poli incommensurabili della luce e nell’oscurità. Ciascun colore si dispone tra quelle due forze e porta con sé, in sé impressa, la propria natura materiale, sensibile e morale. Si tratta dunque di risalire alla struttura dei colori quale si desume dalla loro posizione nel cerchio, e quindi di individuarne l’ANALOGON sensibile e morale. Potremmo parlare di traduzione dal piano materiale a quello immaginativo: si tratta di una indicazione esatta se però aggiungiamo che per operarla non vi è bisogno di codice alcuno. Gli esempi e le considerazioni goethiane non lasciano dubbi. Il giallo è per esempio il colore più prossimo alla luce, il giallo-rosso ne rappresenta un’intensificazione e il rosso-giallo un ulteriore passo verso l’alto, cosicché si assisterà a un crescendo anche sul piano dei riscontri a cui ciascun colore dà luogo. «Dolcemente stimolante» è il giallo, più attivo il giallo-rosso mentre, infine, all’inquietudine dispone il rosso-giallo. L’azzurro sarà per parte sua un «nulla eccitante», in quanto porta con sé una luce, ma appartiene alla serie dei colori del Meno. Se dunque ci spostiamo ora dall’azzurro in direzione del rosso, secondo quanto possiamo attenderci, l’azzurro-rosso accentuerà la contraddittorietà propria dell’azzurro, che raggiungerà la punta massima nel genere particolare d’inquietudine indotta dal rosso-azzurro. Dal punto di vista FORMALE si noterà chiaramente il parallelismo tra l’intensificazione verso l’alto e il crescendo a cui - in qualità di riproduzione sul piano morale - esso dà luogo. Come ci si può forse accorgere, Goethe non prescrive questa o quella determinata valorizzazione, ma indica piuttosto, per ciascun colore, la direzione di essa. Ciascun lato del cerchio viene cioè determinato da attributi generali, nella cui relativa indipendenza, l’uno nei confronti dell’altro, c’è il territorio di libertà lasciato al soggetto: così per esempio i colori del lato del Meno « dispongono a uno stato d’inquietudine, di tenerezza e nostalgia».

La questione del simbolo, dell’allegoria e degli usi mistici del colore è vista da Goethe sotto questo stesso punto di vista. L’ISOMORFISMO tra i diversi piani dell’esperienza umana del colore, e l’essere tutti un unico momento del fenomeno cromatico è quanto giustifica usi di quei tre generi. L’UNITÀ del fenomeno cromatico e della esperienza di esso è quanto indirizza anche la questione di come un simbolo deve essere fatto per trasmettere il suo messaggio. Secondo una certa visione posso per esempio essere incerto circa il significato da dare a un certo colore usato, appunto, in funzione simbolica, Questa stessa posizione potrebbe essere indicata osservando che potrei trovarmi in imbarazzo sul come interpretare un uso extra-cromatico del colore, In realtà secondo Goethe un effettivo uso simbolico del colore non è un uso EXTRA-CROMATICO di esso. Quando dunque si lascia agire il colore SECONDO LA SUA NATURA, senza l’intervento di codici d’interpretazione esterni a esso, si può cogliere il significato di un colore con altrettanta immediatezza e certezza con la quale si stabilisce il suo grado di chiarezza rispetto a un altro colore.

In conclusione Goethe esclude possibilità di valorizzazione immaginativa e simbolica del colore che non partano direttamente dal fenomeno cromatico (4), dalle sue strutture. E ciò secondo la particolare prospettiva di chi si arma contro una concezione dell’attività simbolica dell’uomo che non si incontri nello stesso tempo con la natura e il mondo, a essi ricongiungendosi.

Possiamo a questo punto ritenere di avere elementi sufficienti per giudicare la natura del ricorso al momento teorico che Goethe propone al pittore. Scopo dichiarato ne è la agevolazione del raggiungimento degli scopi propri all’arte. Principio ne è l’influenza sensibile e morale che il colore esercita, e in generale il complesso della sua natura. Anche in questo caso è la peculiarità della visione goethiana che è stata all’origine delle critiche rivolte a questa parte della TEORIA DEI COLORI. Goethe dirà esplicitamente che la composizione dei colori e, in generale, l’intero problema della colorazione dipendono dalle finalità dell’artista, ma dirà anche che, seppure egli non sia costretto nella posizione dei suoi fini dalla circostanza che questo o quell’accostamento (5) sviluppi questa o quell’azione, egli deve tuttavia avere nozione di ciò. Una nozione dei principi essenziali della teoria è indispensabile al pittore che voglia raggiungete i propri scopi, come in generale gli sono anche indispensabili nozioni tecniche. D’altro lato principi e cognizioni tecniche acquistano la loro esatta dimensione e proporzione se inseriti in una teoria o e animati da un’intenzione. È quindi «lo spirito che rende viva ogni tecnica», ed è mediante un uso CONSAPEVOLE che sarà ottenuto un accordo tra tutte le parti di un dipinto, tra «luci, ombre, sfumature, toni autentici e coloriti caratteristici».

Del resto il problema è veramente questo: stabiliti scopo e principio dell’azione del pittore, rimane tutto sommato ancora aperto il modo in cui questo scopo si salda con quel principio. Potremmo dire che nella TEORIA DEI COLORI di Goethe rimane aperto il problema della natura della libertà dell’artista. Questo problema è stato di solito frainteso attribuendo a Goethe l’intenzione di proporre all’artista l’armonia come fine estetico. L’armonia è piuttosto per Goethe CARATTERE che il colore deve possedere, relazione che il colore deve avere con gli altri colori se un qualsiasi fine deve essere raggiunto. Sono quindi da respingere fraintendimenti in questo senso. Nella realtà di una più attenta considerazione del testo si deve piuttosto osservare che autentico spunto critico può essere trovato nella circostanza che i principi di una teoria dell’impiego in funzione estetica del colore non sono diversi da quelli di una teoria del colore semplicemente. I temi di quest’ultima sono IMMEDIATO fondamento anche della prima. Non vi sono distinzioni né di principio né di orizzonte. Assunto concettuale è ancora e sempre il medesimo: l’esperienza del colore è sempre una, indipendentemente dai contesti nei quali si realizza o forse perché questa indipendenza è in realtà un momento fittizio. In questo quadro la libertà dell’artista sembra di ordine più quantitativo che qualitativo. Vorremmo quasi osservare che al pittore viene tolta la capacità di dare vita a un linguaggio cromatico che originariamente non è compreso nell’esperienza comune del colore. Si tratta quindi probabilmente di ripartire da un lato dal problema dell’azione sensibile e morale del colore, dall’altro di tenere su un piano di autonomia la disamina del problema del colorito, e di assumere nella pienezza delle sue componenti formali e storiche la capacità che ogni artista ha di creare e innovare anche l’esperienza del colore.


4. Teoria ed esperienza

Il punto di partenza concettuale della TEORIA DEI COLORI è rappresentato dalla questione delle illusioni ottiche. Per avere un’idea di quali fenomeni vengono indicati da quest’ultima espressione, è sufficiente riconsiderare qualche caso tra quelli discussi da Goethe a proposito dei colori fisiologici, e per i quali in generale Goethe si serve dell’espressione «soggettivo». Si potranno così rammentare l’effetto di irradiazione o alcuni casi delle ombre colorate. Del resto, frequenti in tutti gli ambiti della nostra esperienza, le illusioni sembrano trovare riscontro soprattutto nell’ambito delle manifestazioni del colore, delle quali anzi paiono costituire una caratteristica assolutamente propria: sembra che trattando con il colore ci si sbagli di frequente. Di che errore e di che situazione i tratta? Si tratta di situazioni nelle quali qualcosa SEMBRA che sia così e così, mentre SAPPIAMO che tale non è. Consideriamo per esempio un caso di contrasto simultaneo. Guardiamo un quadrato grigio su fondo rosso e un quadrato dello stesso grigio su fondo verde: non sembra lo stesso grigio, eppure so, e uniformando il fondo ne ho una conferma, che si tratta dello stesso colore. D’altro lato potremmo spingerei fino a chiederci quale fondamento ha in questo caso il nostro sapere. Abbiamo dei buoni morivi per considerare come reale il secondo caso? La domanda può rivelarsi di difficile risposta e il colore potrebbe sembrarci governato, a questo punto, da un assoluto relativismo, e noi potremmo ritenerci nell’impossibilità di fissare un punto fermo. La nostra percezione del colore sembra essere preoccupantemente fallace.

In questo senso, esemplare e oltremodo significativa è la difesa che Goethe invece compie dei nostri sensi in casi analoghi a questo. Dinanzi a un’accusa di inaffidabilità, egli addirittura afferma che, quando vi è errore, esso non è compiuto dai sensi ma dall’intelletto: i nostri sensi affermano la verità anche quando sembrano sbagliare. Il concetto di illusioni ottiche è quindi per Goethe un concetto nullo, perché la percezione porta sempre direttamente sulla realtà. Potrebbe per esempio essere ritenuto paradossale che un lontano edificio fuori della mia finestra appaia più piccolo di una scatola che ho sul tavolo. In realtà con ciò i sensi - pur contraddicendo la REALTÀ - ci informano di essa. Con questo argomento Goethe propone di considerare di principio non dissimili dalle altre tutte quelle manifestazioni instabili e temporanee, tutte quelle situazioni alle quali si nega l’EFFETTIVITÀ. Direttamente tramite esse apprendevamo p. es. quali regole guidano la manifestazione del colore, il principio che il chiaro può essere solo attraverso lo scuro, e quest’ultimo solo attraverso il chiaro. D’altro lato anche la questione dei difetti visivi è recuperata a vantaggio di una interpretazione della norma. Il senso della posizione goethiana è che un caso nuovo che si presentasse, e comunque una mancanza, indicano quali sono le regole dell’esperienza, che anche nel caso eccezionale rimangono sempre le stesse. L’aspetto notevole qui, che contraddistingue la teoria del colore di Goethe rispetto alle altre è allora che, qualunque esperienza del colore venga fatta, essa presenterà caratteristiche analoghe: sia essa soggettiva o pienamente oggettiva, o patologica, essa porta secondo Goethe direttamente sulla realtà dei fenomeni cromatici.

Questo punto di vista sulle illusioni è essenziale per comprendere esattamente il rapporto di Goethe con Newton. Senza dubbio, nella considerazione di Goethe, la fisica newtoniana distrugge e smentisce quello che l’esperienza da sempre sa, e ciò costituisce un primo - ed essenziale - motivo critico. Eppure, se al di là dell’esperienza vi fossero questioni sulle quali la fisica può avanzate i suoi diritti il giudizio cadrebbe meno severo. In realtà l’esperienza non è solo organica unità di una scienza che ne deve rispettate le caratteristiche e che al suo oggetto si deve adeguare. L’esperienza FONDA anche la teoria che la deve descrivere: la morfologia a cui Goethe pensa, e alla quale egli lavora non lascia al di fuori di sé spazio per considerazioni indipendenti, per una fisica matematica non vi è - secondo Goethe - posto nelle scienze naturali (6).

La questione del rapporto tra soggetto e oggetto offre una generalizzazione di quanto siamo andati dicendo. Abbiamo già visto che l’occhio si incarica di portare alla luce - contemporaneamente costituendolo - quello che il colore è del resto anche oggettivamente, sia da un punto di vista fisico che chimico. La situazione può essere descritta nel modo classico, osservando che nel soggettivo vi è la via di accesso all’oggettivo, e che d’altro lato l’oggettivo viene effettivamente costituito e dunque viene a conoscersi nel soggettivo. Condizione dell’uso estetico del colore è per esempio che esso sia vivente per l’uomo. Vi è dunque in sostanza una produttività da parte del soggetto, anche se limitata alle manifestazioni soggettive del colore e non a quelle oggettive: del resto in esse l’occhio agisce in maniera analoga a quella di un qualsiasi altro mezzo, confermando che rapporti quantitativi danno luogo a modificazioni qualitative.

D’altro lato il colore, al pari di qualsiasi altro fenomeno naturale, non è immediato oggetto di chiara e indiscutibile rivelazione, cosicché è pur sempre necessario un metodo per estrarre dalle esperienze elementari e isolate ciò che peraltro esse in un certo senso già contengono. II problema del metodo corrisponderà dunque allo sviluppo di un linguaggio, di un simbolismo che non introduca divisioni tra oggetto e oggetto, ma anzi ne assuma tutte le FORME DI RAPPORTO (7), proponendosi di renderne evidenti il nucleo e le sue caratteristiche. Il cerchio dei colori è appunto illustrazione di quest’ultimo aspetto, e in questo contesto vanno interpretate le diverse costellazioni di concetti (POLARITÄT, MITTEL, STEIGERUNG, URPHÄNOMEN 8). Ciascuno di essi deve rispondere al principio della fedeltà al fenomenico, al reale o, il che è lo stesso, all’esperienza.

Quest’ultima nozione richiede qualche attenzione da parte nostra, più di quanto in generale non si sia fatto nella letteratura a proposito della TEORIA DEI COLORI. Un esame delle argomentazioni goethiane porta alla conclusione che ESPERIENZA è nozione assai ampia, né strettamente psicologica né strettamente trascendentale ma piuttosto disposta tra le due, ad occuparne un non ben determinato territorio intermedio. La nozione di esperienza indica qui tutte le possibili relazioni tra il soggetto e l’oggetto, che Goethe, sulla base di un criterio di corrispondenza o non-corrispondenza alla realtà, si preoccupa di ordinare in tre rubriche. Così costruita la nozione è notevolmente più ampia di quanto non lo sarebbe nell’uso odierno. Si tratta di un concetto di fenomenico che tende a coincidere con il concetto di reale. La scienza del colore del resto non è che il portare alla luce il nucleo di questa originaria identità, affinché infine il vero coincida con il reale e viceversa. L’ampiezza di motivi (simbolici, culturali, ecc.) con cui la questione del colore è impostata dipende appunto dalla circostanza che nel mentre il soggetto svolge la sua azione esso si incontra con l’universo intero. È quindi esatto che nella TEORIA DEI COLORI tema sono i caratteri dell’esperienza che l’uomo fa del colore, ma è anche vero che - in virtù di quella identità - tema è contemporaneamente la natura del colore. La teoria a cui Goethe pensa riesce a essere così scienza della natura e dello spirito, scienza dell’intero: una posizione senz’altro particolare nell’ambito delle teorie del colore.

In questo senso le costellazioni di concetti prima menzionate hanno bisogno di qualche chiarimento. Il quadro d’insieme della questione è illustrato nella VI sezione, là dove viene presentato lo schema di organizzazione della molteplicità dei fenomeni naturali. Tutto ciò che si presenta come fenomeno naturale rinvierebbe a una scissione originaria, capace di comporsi, o a unione originaria, capace di scindersi: «Dividere ciò che è unito e unire ciò che è diviso è la vita stessa della natura». Il colore è un buon esempio di questo svolgersi. Abbiamo da un lato la luce, dall’altro l’oscurità. In sé esse sono indifferenti e indeterminate, in equilibrio; si introduca un termine medio (l’occhio, il prisma, il colore) e si otterrà la manifestazione, anzi una molteplicità di manifestazioni; se ne accostino gli estremi valori (nel nostro caso il giallo e l’azzurro) e si avrà una riunione: in forma di neutralizzazione (il verde) o in forma di progresso, di elemento terzo e nuovo (il porpora).

Da quanto detto è abbastanza chiaro che quell’elemento neutro che è la polarità non è esperibile, semplicemente perché non è ancora DETERMINATO. Pretendere di cogliere la luce IN SÉ o l’oscurità IN SÉ sarebbe una pretesa strana, poiché quanto ci appare è in ogni caso determinato e non può che essere tale. Questa circostanza potrebbe indurci a credere di trovarci dinanzi a un’eccezione al proposito goethiano di una scienza della natura che parla la stessa lingua dei fenomeni. In realtà si tratta di considerare il RUOLO di quella nozione. Vi è infarti da dire che un uso vero e proprio di essa non lo abbiamo mai fatto. Si pensi solo alla circostanza che per poter agire luce e oscurità devono essere già determinate, devono essere IMMAGINI più chiare o più scure e che. altrettanto, tutte le esperienze della TEORIA DEI COLORI sono condotte con l’ausilio di immagini.

La circostanza può essere spiegata dicendo che nell’idea di POLARITÀ Goethe GENERALIZZA quegli elementi che poi, di fatto, entrano nell’esperienza in una relazione reciproca. La polarità luce-oscurità presenta - e ciò è tutt’altro che in contrasto con le esperienze storiche del simbolismo della luce e dell’oscurità - astratti e indeterminati, in un’assoluta INDIPENDENZA l’uno dall’altro, quei termini che sempre CONCRETI e DETERMINATI, e l’uno connesso e commisto all’altro di fatto si manifestano. Naturalmente è difficile fissare lo STATUS di un simile concetto, ma potremmo dire che si tratta di una sorta di a priori con il quale si fissano quelle tendenze che occorrono come contenuto del molteplice, effettuando una sorta di fondazione.

Conferma di questo rapporto tra molteplicità e polarità viene dalla centralità che nella TEORIA DEL COLORE ha il problema dei valori di chiarezza. Basti pensare alla distinzione tra + e -, tra colori caldi e colori freddi, nonché alla definizione del giallo e dell’azzurro per ricavarne conferma. Ancora più convincente è che la questione dell’aumento della forza cromatica del colore, il problema indicato da Goethe con STEIGERUNG, è strettamente legato a quello dell’iscurimento del colore, e che lo stesso fenomeno originario non è altro che - secondo Goethe - un’esperienza di quest’ultimo genere.

Un discorso in un certo senso analogo va fatto anche a proposito della nozione di MEZZO. I mezzi di cui parla Goethe sono di principio degli esperibili, a differenza della polarità che di principio tale non è. D’altro lato però, ed è il punto interessante, sbaglieremmo a considerarli come qualcosa di materiale in un senso vicino alla fisica. La loro proprietà è la torbidezza, una caratteristica paragonabile a quella di un quadrato bianco (l’estrema trasparenza) che progressivamente ingrigisce fino a divenire interamente nero (l’opacità): in questo schema la torbidezza occupa un qualsiasi punto tra quegli estremi. Se dunque la polarità indica una generalizzazione, seppure particolare, di elementi dell’esperienza visiva, non è ciò di meno il caso a proposito della nozione di mezzo.

Le considerazioni fin qui svolte hanno probabilmente, dunque, maturato una valutazione critica e della nozione di esperienza e della nozione di teoria. È piuttosto evidente che con ESPERIENZA Goethe finisce anche con l’indicare quanto noi, intitolando questa parte conclusiva, abbiamo chiamato TEORIA. La TEORIA DEI COLORI è di principio un’ESPERIENZA dei colori. L’oggetto della teoria è l’esperienza, ma i due momenti tendono a sovrapporsi e confluire. Se ciò dovesse sembrare troppo forte, si consideri come l’esperienza SCIENTIFICA è quanto ricaviamo dall’esperienza ripercorrendola allo scopo di ricavarne il TIPO. Quest’ultimo a sua volta non è esattamente un concetto, ma è piuttosto una connessione di esperienze, ovvero un’esperienza resa esplicita nei suoi nessi con le altre esperienze e dunque resa esemplare: il nucleo di POSSIBILITÀ di qualsiasi esperienza del colore. Il fenomeno originario che così ricaviamo appartiene dunque agli occhi dello spirito, in quanto questi, in un certo senso, prolunghino gli occhi dell’esperienza. L’esperienza che noi facciamo oggetto di studio è l’esperienza propria di ciascun soggetto empirico, e lo strumento della teoria è principalmente il vedere. D’altro lato è molto probabile che - scontata la circostanza che Goethe intende offrirci un modello dell’esperienza - egli ce ne offra uno di genere assai particolare. Si impone qui alla nostra attenzione il problema del contesto (fisiologico, fisico, chimico), nel quale Goethe svolge la sua analisi. In effetti risulta molto difficile pensare a ciascuna delle sezioni della TEORIA DEI COLORI senza delle cognizioni di fisiologia, di fisica o di chimica. Essa, sotto questo punto di vista, assomiglia sì a una fenomenologia, ma a una fenomenologia di natura EMPIRICA (9).

Del resto è molto probabile che nessuna teoria del colore sia indipendente dalla risposta implicita o esplicita che sia, alla questione della relatività del colore. Vorremmo in queste pagine conclusive mostrare come, partendo da Runge (10) e accogliendo le osservazioni che Wittgenstein (11) ha dedicato al tema del colore, si possano sviluppare certi suggerimenti goethiani pur andando al di là del loro orizzonte scientifico. Alla base delle osservazioni di Runge vi è un modo essenzialmente diverso di assumere la relatività del colore, in breve: un altro modo di considerare la teoria.

Dinanzi alla questione dei colori che andavano inseriti nel cerchio, Runge non parte dai colori prismatici come colori originari, così come Goethe aveva fatto, ma propone di assumere i colori come momenti ideali e astratti, figurandoli al massimo di una forza cromatica che nessun pigmento permette di raggiungere. Con ciò Runge intende, anzitutto, «mettere ordine» nell’esperienza, servendosi non di un metodo tipizzante, ma di un metodo che, utilizzando momenti astrattivi, arrivi ai tratti essenziali dell’esperienza del colore. I colori di cui egli parla sono, per sua stessa indicazione, dei punti matematici. L’indicazione tradisce lo scopo: non si tratta di indicare dati di fatto, ma regole. Certamente, l’astrazione a cui Runge pensa, e che noi troviamo notevolmente interessante, non ha a che fare con una generalizzazione di dati empirici. Ci troviamo piuttosto ancora sul terreno scelto da Goethe della definizione di un intero mediante le sue stesse caratteristiche, senza però lo sviluppo di esperimenti che riproducano la nostra esperienza del colore.

Si prenda in esame la possibilità di spostare un colore in direzione dell’altro. Vogliamo per esempio costruire una serie che va dal rosso in direzione del giallo. Il compito sembra realizzabile servendosi dell’arancio. Non ci serviremmo dell’azzurro, o del verde, del violetto o di altro. Si noti anzitutto che questa possibilità ha poco a che fare con le nostre eventuali cognizioni relative a pigmenti. Possiamo non sapere nulla di pigmenti e tuttavia comprendere perfettamente l’invito a costruire una serie del genere. Qui la questione non è quella di sapere quale arancio eventualmente risulti dalla mescolanza con quale giallo e con quale rosso. Si tratta invece della esistenza o meno nella nostra nozione di rosso e giallo di una possibilità del genere. Se dunque riceviamo l’invito a spostare il rosso in direzione del giallo, possiamo richiamare un certo arancio, o scegliere tra dei fogli colorati.

In questo modo, in una maniera analoga a quella di Runge, possiamo costruire tutto il cerchio, semplicemente assumendo - secondo l’espressione di Runge - tre colori finiti, indipendenti (rosso, giallo, azzurro) e proponendosi il problema di sceglierne altri tre che costituiscano il passaggio tra di essi. Ne risulterà dinanzi a noi il cerchio dei colori, così come lo conosciamo, e tuttavia derivato per un percorso diverso.

Come qualificare meglio, rispetto all’esperienza, questo concetto di astrazione? Quali problemi nasconde? Nella lettera che Goethe inviò a Runge nel 1806, e che Goethe fece stampare insieme alla TEORIA DEI COLORI Runge, riferendosi appunto al nostro problema del tendere di un colore in direzione di un altro, scrive che chi avesse intenzione di raffigurarsi un arancio azzurrino o un verde rossiccio, pretenderebbe qualcosa di analogo all’immaginarsi un vento del nord proveniente da sudovest. Questo limite prescritto allo spostamento di una qualità di colore in direzione dell’altra riceve, secondo Runge un’illustrazione dal cerchio dei colori. In sostanza, attenendosi a esso, non vi è per esempio passaggio dal verde in direzione del rosso, nel senso che non è possibile che io immagini un rosso che pur restando tale assuma una tonalità verde, mentre posso figurarmi un rosso che, restando tale, assuma una tonalità gialla, dunque lievemente aranciata. Quello che dunque sembra risultare è che un concetto di «spostamento in direzione di» non ottiene interpretazione a proposito del rosso o del verde. Al concetto di rosso manca sotto questo punto di vista una parentela con il concetto di verde. In connessione a ciò il concetto di colore secondario riceve - secondo uno stile assai diverso da quello goethiano centrato sulla esperienza concreta delle immagini successive - un’interpretazione rispetto a certi colori, ma non rispetto a certi altri: il rosso, per esempio, non rappresenta il passaggio dal giallo all’azzurro, né dal violetto all’arancio; il violetto è invece interpretabile come il passaggio dall’azzurro al rosso, dunque come colore secondario, e così sono anche interpretabili arancio e verde.

L’analogia di questi risultati con quelli goethiani, e l’impiego di una nozione di contenuto dell’esperienza non deve trarre in inganno riguardo le diversità di questo orientamento rispetto a quello di Goethe. Si noti come, per il caso del giallo che tende al rosso assumendo una tonalità arancio, Goethe si fonda non sulla nozione di giallo, ma sull’insegnamento che le esperienze prismatiche impartiscono. Queste considerazioni non ricevono infatti validità dal fatto che alla loro base vi sia un qualche dato di fatto. Una nozione della TEORIA DEI COLORI può comunque qui essere riutilizzata: ogni colore è quello che è data la sua posizione rispetto agli altri colori. Questa posizione, più accentuatamente di natura logica in Runge e ancor più in Wittgenstein di quanto non lo sia in Goethe prescrive ed esclude, definisce delle possibilità e ne bandisce delle altre. Il cerchio funziona dunque come illustrazione del campo di possibilità di ciascun colore, almeno rispetto a questo o quell’aspetto. Così per esempio nel cerchio trova definizione il concetto di passaggio da un colore primario a un altro.

Con l’astrazione quale mezzo di indagine del colore non vogliamo però definire cosa il colore sia. L’esperienza del colore è una esperienza dalle forme molteplici e dal contenuto assai vario, come il lettore attento già avrà ricavato dalla TEORIA DEI COLORI. La tecnica dell’astrazione mira solo all’esplicitazione delle tendenze della nostra esperienza elementare del colore. Piuttosto che una morfologia o una psicologia si può intravvedere il problema di una logica (12) del colore. Questo riferimento a una «logica» aiuta forse nella comprensione della questione e ci riporta, attraverso Goethe e la sua idea di nessi tra i colori, all’idea di Runge di una teoria che mette ordine nell’esperienza.

* Desidero ringraziare il D.A.A.D. di Bonn per il concreto appoggio che ha consentito, con la concessione di una borsa di studio presso la cattedra di Filosofia tenuta dal Prof. Manfred Riedel della Università di Erlangen, l’esecuzione di questo lavoro. Ringrazio inoltre il Dr. Wolfgang Irler e, in modo particolare, il Prof. Giovanni Piana dell’Università di Milano, per l’interesse mostrato nel corso dell’intera ricerca.

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NOTE

(1) Un anonimo recensore, nel luglio del 1810, ebbe a scrivere parole che avrebbero trovato spontanea corrispondenza in particolare negli ambienti più direttamente legati alla scienza del tempo. Le riportiamo qui per la loro emblematicità e per indicare la base anche delle parziali rivalutazioni di questa o quella sezione della TEORIA DEI COLORI: «Il nome dell’autore di Goethe attira come è facile immaginare, l’attenzione del pubblico tedesco. Goethe è famoso come poeta, e ora si annuncia come fisico, come scienziato della natura… Nondimeno molti... già all’uscita di questo libro erano dell’opinione che la scienza non ne avrebbe ricavato alcun vantaggio. Era noto che egli non si intendeva per nulla di matematica, ed anche che non era un fisico pratico. Era nota la sua appartenenza a una scuola che appunto non brilla per la perspicuità e la determinazione delle sue proporzioni; infine l’autore stesso ci aveva dato nella sua Ottilia un saggio dello stile con cui egli tratta oggetti fisici. In conformità a ciò era quasi prestabilito che la nuova teoria dei colori sarebbe rata romantica, poetica e per nulla prosaica, e che noi non avremmo potuto aspettarci altro che una spiegazione, travestila nell’artificioso linguaggio dcl trascendentalismo, delle note manifestazioni di natura» (in: LA, sez. II, vol. 4, pag. 208 sgg ) Il giudizio riportato rappresenta senz’altro una estrema semplificazione dei temi offerti da Goethe nel suo saggio.
D’altro lato anche certe importanti rivalutazioni forse non sempre riescono a cogliere la sostanza autentica della questione. Heisenberg, per esempio, ravvisa due diversi stili di considerazione nei lavori di Newton e di Goethe. Nel primo si tengono rigorosamente separati elementi soggettivi e oggettivi in vista di una considerazione del mondo scientifica, nel secondo quegli elementi vengono invece mischiati. La perdita di questa unità è andata a detrimento della scienza e, secondo il suo parere, vi è da augurarsi che questo iato possa essere superato. Heisenberg sembra però restringere troppo il valore e il contributo dato dalla TEORIA DEI COLORI al superamento di questo divario. Non è cioè esatta, e neppure redditizia, la considerazione da lui compiuta degli scritti goethiani come scritti destinati al pittore. La TEORIA DEI COLORI di Goethe non è appunto teoria del colorito.
In realtà il problema fa perno sul senso dell’orientamento goethiano ai momenti qualitativi dell’esperienza, e in generale sull’importanza che egli attribuiva alle questioni soggetto-oggetto nella fisica.
Si cfr. Heisenberg, 1949; Benn, 1932; Callot, 1971; Born, 1963; Helmholtz, 1917 e infine Glockner, 1924. Quest’ultimo dedica alcune classiche pagine alla TEORIA DEI COLORI e alla fisiologia. Anche Gogelein, 1972, nell’ultima parte del suo testo prende in esame alcune importami interpretazioni degli scritti scientifici di Goethe.

(2) Gli scritti relativi alla TEORIA DEI COLORI costituiscono la parte più cospicua degli scritti goethiani, per quantità raggiunti da nessun altro. Faust e Farbenlehre egli considera come i compiti della sua esistenza. In una conversazione con Eckermann ebbe a dichiarare quale era il suo personale atteggiamento rispetto alle sue decennali ricerche. Goethe disse: «Io non mi inorgoglisco di tutto ciò che come poeta ho prodotto. Insieme a me hanno vissuto eccellenti poeti, altri ancora migliori hanno vissuto prima e altri ve ne saranno dopo di me. Sono invece orgoglioso del fatto che, nel mio secolo, sono il solo che conosce il giusto nella difficile scienza del colore, e nutro perciò una certa coscienza della mia superiorità rispetto a molti» (Eckermann, 1948, pag. 235). Non si può tuttavia dire che da questi studi Goethe abbia ricavato i maggiori riconoscimenti. Malgrado la collaborazione e la concordanza di pareri di amici e grandi figure del tempo, si pensi solo a Schiller e Schelling, Goethe si sentì ed effettivamente isolato nello sviluppo del suo lavoro.
Si veda sull’argomento Matthei, Entstebungsgeschichte, in: LA, sez. II, val. 4, pagg. 233-258. Inoltre: Vorlander, 1923 e Menzer, 1957.

(3) Che questo fosse il punto di partenza delle teorie del colore dell’epoca è mostrato anche da una lettera del 1802 di Philipp Otto Runge (1777-1810), nella quale è fissato e riconosciuto il valore simbolico e il significato cosmico del colore: «Il colore è l’arte ultima che è sempre mistica e che mistica deve sempre rimanere... A base di essa sta per intero il simbolo della trinità: luce - oppure bianco - e oscurità - oppure nero - non sono colori, la luce è il bene, l’oscurità il male (mi riferisco ancora alla creazione). Non possiamo comprendere la luce e l’oscurità, non possiamo comprenderla, poiché agli uomini è stata data la rivelazione e poiché i colori sono venuti al mondo: azzurro, rosso e giallo. La luce è sole che non possiamo guardare ma, quando esso si abbassa verso la terra e l’uomo, il cielo si arrossa. L’azzurro ci ispira un certo rispetto, ed è: il padre; il rosso è ordinariamente il mediatore tra la terra e il cielo; quando ambedue scompaiono sopraggiunge di notte il fuoco, cioè il giallo e il consolatore che ci vengono inviati. Anche la luna è soltanto gialla» (Runge, 1965, val. I, pag. 17; citato anche in Jensen, 1977).
Queste considerazioni sono del massimo interesse anche per la comprensione del tema in Goethe, chiarendo quale fosse in clima romantico il puma di partenza per queste riflessioni.

(4) Questa è la cognizione che guida Goethe anche nello sviluppo dell’analisi in direzione dell’uso estetico del colore. Per quanto riguarda i tipi di accostamento possibili tra i colori, in un dipinto, rimandiamo senz’altro alle tavole 10-14.

(5) Itten, sulla base della divisione del cerchio in dodici parti, propone diverse possibilità di legami di accordo e in generale di accostamento tra i colori. In analogia con la musica abbiamo delle proposte di ACCORDO. Il principio di composizione è rappresentato dalle figure geometriche che risultano congiungendo di volta in volta tre, quattro, cinque, sei colori. Un accordo a due sarà per esempio rappresentato da un diametro che congiunge due colori opposti. Si avrà invece un’armonia fondata su un accordo a tre «quando si scelgano nel cerchio tre colori la cui forma di relazione è un triangolo equilatero» oppure, sostituendo uno dei due colori componenti un accordo a due con i colori ad esso vicini nel cerchio, dando così luogo a un triangolo isoscele. Anche in questo caso il principio avanzato è evidentemente quello della totalità, come anche in Goethe.
La concezione di Itten presenta tuttavia un motivo che non è di origine goethiana, ma va fatto risalire a Schopenhauer. Itten scrive che «due fattori determinano la forza di azione di un colore: la sua intensità luminosa e l’ampiezza della sua superficie». Inutile dire che, tra questi due fattori, esiste un nesso d’interdipendenza, nel senso che variando un fattore deve variare anche l’altro. Itten svolge quindi un metodo che ritorna al pensiero fondamentale di Schopenhauer, secondo il quale l’unione di colori puri complementari possiede sempre lo stesso valore di chiarezza.
Diversa la posizione di Frieling, il quale scrive che «armonia è ordine» e che armonico, per esempio, è l’arco se esso è chiuso: «Se invece esso è aperto in un luogo, ciò ci disturba in quanto disarmonico». In generale, «armonia è sempre la realizzazione di un ordine superiore». La questione di una armonia dei colori è esemplificata in Frieling - come già Goethe aveva in parte tentato di fare - sulla base della musica. Escludendo qui le considerazioni tecniche, ricordiamo comunque che Frieling considera inutile definire certe composizioni di colore come armoniche o disarmoniche. Ciò in quanto bisogna considerare l’elemento temporale del colore, 1’«azione drammatica» di esso (FARBDRAMATIK), la sua «melodia» che può essere sviluppata anche dalle opposizioni: un accostamento «disarmonico» può essere sciolto in una più alta unità e quindi, posto in un ordine, può agire armonicamente.
Qui Frieling fa riferimento a Goethe: armonia è ordinamento secondo poli-opposizioni che si integrano. Se dunque armonico è, secondo l’accezione goethiana, ciò che contiene totalità, muta qui il contesto di applicazione di questa nozione. Una composizione di colori ha cioè evidentemente un contenuto cromatico ma si specifica di volta in volta rispetto all’uomo, a un oggetto, allo spazio ecc.: comunque rispetto a «un terzo».
In Albers, 1963, il problema dell’armonia viene considerato nella maniera più autonoma, tra quelle dette, rispetto a Goethe. Albers critica quei sistemi dei colori per i quali certe costellazioni all’interno di un sistema formano una armonia. Ci limitiamo a osservare che, proprio perché il colore appare non solo in infinite NUANCES, ma anche in dipendenza da una quantità di altri elementi, una cosa è il COMPLEMENTARE di un colore, il colore che si produce come immagine successiva, e un’altra è il COMPLEMENTO di un colore. Questo dipende dal sistema nel quale il colore viene ordinato. Il rapporto tra questa concezione e la questione teoria del colore e prassi pittorica viene brevemente esposto nella nota 9.
Si veda Itten, 1965, e Schopenhauer, 1920. Inoltre Frieling, 1956 e 1977, e Albers, 1963.

(6) Le idee di Goethe sulla matematica sono naturalmente assai interessanti, e tuttavia in merito si può lamentare una considerevole mancanza di saggi e studi. Dal nostro attuale punto di vista esse possono aiutarci a definire il carattere del metodo usato per lo studio del colore e ad approfondire le ragioni dell’opposizione a Newton. Il contesto nel quale esse trovano esatta collocazione è quello dello sviluppo di una NATURSPRACHE, di un linguaggio conforme a natura. In questo senso Goethe rivendicherà più volte di non aver indagato la natura con l’ausilio della matematica, pur non essendone un avversario. Commentando un brano di D’Alembert, Goethe ebbe a svolgere considerazioni per noi di notevole interesse. Secondo Goethe la matematica può conservare, quando sia fondata nell’esperienza, un valore analitico illustrativo, e solo in questo senso egli si augura, nella TEORIA DEI COLORI il concorso del matematico.
In verità, secondo Goethe, il limite della matematica è intrinseco. Essa si indirizza al momento quantitativo, a tutto ciò che si lascia determinare mediante numero e misura. Il quantitativo in sé - come sappiamo dalla distinzione tra dinamico e atomistico - non esaurisce però il reale, che appare anzi allo Spirito come la tensione di due poli, l’uno qualitativo e l’altro quantitativo. Goethe ritiene anzi che questa intuizione sia presente anche al matematico, sebbene inconsapevolmente, in quanto proprio il tentativo di misurare il quantitativo, il non-misurabile, starebbe alla base della esasperazione del calcolo.
È evidente che in questo caso l’indagine naturale viene a mancare il sua scopo.
Si veda sull’argomento lo scritto di Cassirer, 1924, e “Sulla matematica e il suo abuso”, in Goethe, “Teoria della natura”, Torino, 1958. Inoltre: “L’esperimento come mediatore tra oggetto e soggetto”, in Goethe, Opere, Firenze 1962, vol. V, pag. 34 sgg.; “Newtons Persönlichkeit”, in “Materialien zur Geschichte der Farbenlehre”, HA, val. XIV, pag. 171 sgg.; Pos, 1949, nel cui saggio sono contenute osservazioni sull’affinità tra certi aspetti della concezione della matematica in Goethe e in Platone.

(7) Anche nella “Tonlebre”, nel brevissimo scritto, in forma tabellare, che Goethe dedica al problema di una teoria dei suoni, egli svolge considerazioni orientate in questo senso. Nell’ambito di una teoria del suono troviamo cioè l’intuizione che regole e strutture delle manifestazioni non sono immediatamente riducibili a punti di vista meccanici, atomistici e matematici. Nel suo scritto Goethe nota appunto l’impossibilità di considerare spiegazione effettiva un punto di vista che, come prima cosa, distrugge certi essenziali nessi del suo oggetto. A proposito del suono, tre sono i possibili punti di vista, tutti e tre «fondati» però nell’«esperienza», Si tratta dei punti di vista organico, meccanico, matematico. La distinzione è notevole per più riguardi, per il riferimento a una funzione irrinunciabile dell’esperienza, che al lettore della TEORIA DEI COLORI non potrà che tornare familiare.
È comunque essenziale che gli ultimi due stili di considerazione non possono spiegare il suono nel suo sorgere nella natura né nel suo darsi nell’esperienza. Nel punto di vista meccanico l’attenzione viene spostata sul genere di mezzi, nel punto di vista matematico «i primi elementi del suono sono rappresentati nei corpi più semplici fuori di noi e ridotti a rapporti di numero e quantità». Solo nel primo il mondo sonoro si rivela mediante l’uomo e all’uomo. Goethe scrive che, «considerato nei confronti dell’occhio, l’udito è un senso muto. Solo la parte di un senso. All’orecchio dobbiamo tuttavia attribuire, in quanto essere organico superiore, reazione e richiamo (GEGENWIRKUNG, FORDERUNG); solo attraverso di esse il senso diviene capace di accogliere e di afferrare ciò che gli viene portato dall’esterno». Quest’ultima osservazione conferma ulteriormente il parallelismo con la metodologia della TEORIA DEI COLORI, in quanto anche nell’ambito del suono, trattato da un punto di vista morfologico, è riconosciuta e assunta l’esistenza di strutture e forme. L’omologia tra colore e suono risiede appunto in quest’ultima circostanza.
Oltre ai passi della TEORIA DEI COLORI si veda la traduzione it. della “Teoria del suono”, in: Goethe, “Teoria della natura”, Torino 1958. Inoltre: Dreyer, 1976, che unisce al suo testo interessanti materiali sulla musica e in un’appendice, “Konkordanzen zur Philosophie”, considera brevemente la posizione dei filosofi sulla musica.

(8) L’importanza del concetto di URPHÄNOMEN è indicata dallo stesso commento di Wittgenstein in proposito: « URPHÄNOMEN è quanto Freud credette di ravvisare nei semplici sogni di desiderio. Lo URPHÄNOMEN è un’idea preconcetta che prende possesso di noi» (par. 230, pag. 299). Per indicare la direzione di una simile valorizzazione teorica della nozione, ancora una citazione di Wittgenstein: «La psicologia, quando parla dell’apparire (SCHEIN), pone in relazione l’apparire con l’essere. Noi possiamo però parlare solo dell’apparire, ovvero poniamo in relazione apparire con apparire», Lo URPHÄNOMEN è appunto quanto esibisce la conformazione dinamica, la BILDUNG dell’apparire.
Si vedano su questo tema anche il “Nachwort” di Weinzächer in HA, vol. XIII e le note di Wankmüller, sempre in HA, vol. XIII. Si veda anche in particolare König, 1926, e Weinhandl, 1932.

(9) Le caratteristiche del punto di vista goethiano possono risultare anche da qualche considerazione sul lavoro di Albers, 1963. La sua ricerca è basata sulla discrepanza tra il fatto del colore, la sua conformazione fisica e il suo significato psicologico. Sebbene questo presupposto venga generalizzato e appoggiato a considerazioni orientate in direzione della psicologia della forma, secondo spunti che già Goethe aveva considerato a proposito di una distinzione tra dinamico e atomistico, il punto autentico è quello del contrasto che nell’ambito del colore oppone una situazione percettiva all’altra. Il colore inganna, poiché uno stesso colore si comporta in due modi diversi dati due contesti diversi. L’esperienza del colore è, secondo Albers, relativa a contesti quali forma, grandezza, ripetizione, ordinamento.
Questa impostazione del problema, che riconosce come effettiva, a differenza di Goethe, l’esistenza di situazioni illusorie, comporta una diversa concezione della teoria. Essa perde ogni carattere sistematico, accentuando al massimo caratteri pratico-esperienziali. La teoria non è sistemazione di un sapere definitivo sul colore, che appunto per la sua mobilità e le sorprese che offre di continuo rende di principio impossibili tentativi di questo genere. Scrive Albers che «uno stesso identico colore permette innumerevoli modalità di lettura». La teoria mira dunque unicamente «a sviluppare un occhio sensibile al colore», ai suoi effetti e alle sue dipendenze piuttosto che alle sue leggi.
Anche il problema dei rapporti tra teoria del colore e prassi pittorica viene con ciò a mutarsi e a chiarire meglio il punto di vista di Albers. Egli riesce ad evitare la più rischiosa delle conseguenze alla quale Goethe si espone: la prassi pittorica non applica cioè alcun genere di regole, ma ne sviluppa di volta in volta. L’arte non è ad alcun titolo applicazione, e in generale il teorico non deve impegnarsi nella direzione di teorie, ma di problemi, di suggerimenti. Non si va da un insieme di regole e definizioni ad applicazioni di esse, ma da problemi e da domande rivolte al colore, all’impostazione e alla soluzione di altri problemi. Su Albers si veda Albrecht, 1976.

(10) Nella concezione di Runge l’accostamento di colori complementari agisce armonicamente sull’occhio costituendo - per così dire - due forze relazionate. Due colori fondamentali domandano all’occhio più di quanto possano offrirgli, trattandosi di forze divergenti, ognuna delle quali procede per la propria traiettoria e, quindi, due colori fondamentali agiscono disarmonicamente. Colori prossimi mancano infine del necessario legame generale, e agiscono quindi monotonamcntc.
D’altro lato la posizione di Runge è simile a quella di Goethe anche nei punti seguenti: 1. Runge ha considerato come fondamento dell’armonia la circostanza che i colori che entrano nella composizione effettivamente sono relazionati (è il caso dei complementari); 2. nell’aver escluso dal cerchio dei colori allo stesso modo di Goethe, le tinte neutre (bianco, nero, grigio); 3. nell’aver impostato la questione del colore affacciando un concetto di URVERHÄLTNIS (nesso originario).
La ricerca di Runge in merito ai colori è del resto tutt’altro che qui conclusa e tutt’altro che delimitabile a questi punti. Nel 1807, un anno dopo aver dato notizia a Goethe in una lettera, della sua sistemazione dei colori in un cerchio, Runge descrive infatti una sistemazione del colore nella sfera, tra i poli del bianco e del nero. Oltre a questo segno di autonomia si può anche indicare come assai originale la distinzione tra colori «trasparenti e non-trasparenti» - già indicata nella lettera menzionata a Goethe - che permetterà a Runge di sviluppare in modo personale la sua idea che nel colore divino e umano si incontrano. È molto interessante, anche per il diretto legame con il problema delle concettualizzazioni del colore, considerare che Runge fa risalire i cinque elementi di partenza della sua sfera (bianco, nero, azzurro, giallo, rosso) a una sorta di idealizzazione che deve mettere ordine nell’intuizione.
Su Runge si veda il volume di Jensen, 1977, e di Matile, 1973. Una breve esposizione in: Gericke-Schöne, 1970, pag. 46 sgg.

(11) Il saggio di Wittgenstein sul colore, orientato in direzione di una logica dei fenomeni cromatici, è un testo prezioso anche perché da posizioni di attiva ricerca realizza un confronto, in numerosi punti, con la TEORIA DEI COLORI. È opportuno riportare qualche passo dal testo: «La teoria goethiana del sorgere dei colori spettrali non è una teoria che si è dimostrata insufficiente bensì, propriamente non è in alcun modo una teoria. Con essa non si può prevedere qualcosa (par. 70, pag. 27). Questa considerazione di Wittgenstein conferma quanto da noi detto sull’orientamento fenomenologico della TEORIA DEI COLORI. D’altro lato a Wittgenstein non sfuggì neppure il suo carattere empirico. Che si tratti secondo Wittgenstein di un saggio di fenomenologia empirica può risultare dal seguente passo: «Una cosa era per Goethe incontestabilmente evidente: dalle oscurità non si può comporre qualcosa di chiaro, così come da sempre più ombre non ha origine luce. Ciò si può esprimere in questo modo: se si chiama lilla un azzurro bianco-rossiccio, oppure marrone un giallo nero-rossiccio, non si può chiamare bianco un azzurro verde-rosso-giallino, o qualcosa di analogo. Il bianco non è un colore intermedio rispetto ad altri colori. E ciò esperimenti con lo spettro non lo possono né confermare né confutare. Ma sarebbe sbagliato anche dire: «Guarda un po’ i colori in natura, e vedrai che è così. Poiché sui concetti dei colori non si impara nulla con il vedere» (§ 71, pag. 28). Proprio l’importanza che Goethe accorda al vedere nonostante le premesse su quanto è tenuto nel senso della luce o del colore mostra che con Goethe non ci troviamo sul terreno «logico», ma certo nella direzione a esso.

(12) Per una comprensione filosofica dei problemi aperti dalla TEORIA DEI COLORI risulta utile il volume di Piana, 1979. Questo testo può aiutare a chiarire ed esemplificare che cosa si intenda con «logica» dell’esperienza o con fenomenologia «empirica».