| L'unico negozio-bazaar
di Kisar è tenuto dal solito cinese che ne regola incontrastato l'economia. Un
cinese enorme, strabico, avido e diffidente. «
Non c'è benzina a Kisar », mi dice subito bruscamente, masticando un cattivo inglese.
Gli spiego la nostra tragica situazione. Dopo una buona nezz'ora mi sembra che
veda la possibilità di concludere un buon affare: « Ne ho un po' che riservo per
le mie necessità, posso cedertela a 500 rupie per litro. Rimarrò senza fin quando
arriverà la nave da Ambon, tra un mese ». Fa più di 1000 lire, un prezzo da capogiro
per questi luoghi, oltre cinque volte il normale. Il quantitativo che mi offre
poi è è insufficiente. |
Michel mi ha dato tutto quello che
gli resta nella cassa: devo acquistarla a tutti i costi, è l'ultima chance perché
la spedizione riesca a superare la lunga e imprevedibile traversata del mar d'Arafura. Un'altra
ora di snervanti trattative e rimedio 100 litri a 350 rupie, 40 litri a 400 rupie,
2000 rupie per il trasporto, un "reservoir souple" in regalo. Il tutto fa oltre
1500 lire per litro, senz'altro la benzina più cara del mondo! Prima di andare
a dormire, Michel ed io constatiamo di essere alquanto nervosi per la traversata
dell'indomani, l'unico vero problema di navigazione che fin dall'inizio destava
la nostra preoccupazione. Oltre 300 miglia con un solo gommone e un solo motore
da 70 cavalli. | Gli
strumenti di navigazione sono quasi tutti fuori uso. Il log si è scassato appena
fuori Singapore, la radio non ha mai funzionato. Il radiogoniometro si è sfasciato
in navigazione a Flores, il faro d'atterraggio è volato in acqua lungo la costa
di Sumatra. Il motore di scorta da 9.9 Hp è stato manomesso e reso inservibile
dai ladri di Lombock: ce ne accorgeremo solo più tardi, nell'Apsley Strait. Le
luci di bordo hanno smesso di funzionare da tempo. Nessun sestante, solo la bussola
ci sarà di guida. Sappiamo tutto questo ma non ne parliamo: ormai siamo in ballo
e dobbiamo ballare, cercando di tenerci vicendevolmente il morale alto. Alle sei
del mattino seguente, partiamo. Abbiamo deciso di tirare dritto sull'isola di
Melville, senza passare dalle scogliere coralline di Sermata, per ridurre la lunghezza
totale del percorso, pur aumentando la distanza da terra a terra.
Quattro
buone ore sono passate quando sfioriamo il Tg Toet Pateh dell'isolotto di Leti
che gli spruzzi delle onde imbiancano. Di fianco, scorgo le più lontane basse
terre di Moa e Lakor. Michel butta l'ancora a prua: ci fermiamo un quarto d'ora
per fare il punto della situazione. Coraggio,
è ora di andare, si traversa. Rotta 132°, mare di prua che scuote senza sosta
l'imbarcazione e riduce la velocità a 6 o 7 nodi. Da questo momento gli occhi
restano incollati al cerchio graduato della bussola che sovente compie sbalzi
di 20 o 30 gradi; improbo lavoro tenere giusta la rotta. | |
Ogni due ore ci diamo il cambio
alla barra, ma il riposo è fittizio: i colpi sulle onde ci costringono a rimanere
saldamente aggrappati al gommone. La giornata termina, la notte sarà più lunga
e faticosa. Gli occhi, irritati dagli spruzzi, stentano a leggere l'esatta indicazione
luminosa sulla bussola, e allora ricorriamo all'espediente di prendere un allineamento
con una stella. Verso le tre di notte decidiamo di ridurre la velocità di un paio
di nodi per consentire a chi è di riposo di stendersi a prua per riprendere un
poco il fiato. Solamente alle sette del mattino il Selamat, liberatosi del contenuto
di diversi serbatoi di caucciù, inizia a planare. Il mare pare stia migliorando,
arrivano treni d'onde più lunghi e dolci. Già aguzziamo gli occhi: tra poco dovremmo
avvistare terra. Alle 10 ancora nulla. Rifacciamo i calcoli, le stime di velocità
e di direzione e concludiamo: a mezzogiorno apparirà I' Australia. Siamo stanchi
morti, non di rado mi addormento tra un salto e l'altro dello Zodiac. Due o tre
secondi di sonno durante i quali faccio lunghi e complicati sogni. Il risveglio
è brutale, un colpo della timoneria in fronte o sulla bocca; il ciclo poi si ripete
all'infinito. Quando finirà questa dannata tortura? Alle 13 l'orizzonte è sempre
vuoto. Dovremmo già essere arrivati da tempo. Ci guardiamo perplessi. Il Johnson
romba sicuro senza perdere un colpo, questo ci rassicura. Alle 15, mare liscio
come l'olio, a perdita d'occhio. Sull'acqua notiamo grandi chiazze di una polvere
gialla, pare sabbia o polline portato dal vento. Non dovremmo essere lontani.
Sono 30 ore che siamo in navigazione.
|
Se non atterriamo prima di notte, che
facciamo? Le coste dell'isola di Melville sono basse e sabbiose, come quelle della
vicina Bathurst, non vi sono né fari né luci di paesi. Sono due isole selvagge,
abitate solo da una colonia di aborigeni, separate tra di loro dallo stretto di
Apsley. Terre inospitali, paludose, caratterizzate da lunghe spiagge orlate di
mangrovie interrotte solo da impercorribili estuari di torrenti. Dovunque sabbie
mobili, coccodrilli, zanzare malariche. Scambio con Michel qualche idea. Potremmo
continuare a navigare nella notte a bassa velocità, scandagliando ogni tanto il
fondale, fino a quando, in prossimità della costa, non accenni a risalire; allora
ci si potrebbe ancorare e attendere il nuovo giorno. Michel
è piuttosto dell'idea, se veniamo sorpresi dal buio, di calcolare un punto stimato
e quindi navigare nella supposta direzione di Capo Fourcroy, verso sud-ovest.
Doppiata la Rochy Point troveremmo infine la guida del faro di Fourcroy. Insieme
decidiamo di continuare per la nostra rotta alla massima velocità fino a sera,
poggiando se mai di qualche grado sulla nostra sinistra. |
Sono alcune ore che noto di
fronte cumuli di nuvole di forma del tutto differente da quelle che fasciano l'orizzonte
tutt'intorno. Nuvole gonfie e vaporose, bianchissime, si sollevano dal mare per
alzarsi in mucchi compatti. Potrebbero essere il segno sperato della terra, causate
dalla differente umidità. È il tramonto. Il disco ovalizzato del sole si appiattisce
sull'indefinita linea dove mare e cielo si confondono, poi scompare lasciando
all'aria lo sfumare dei colori che annunciano la sera. Bassa sull'acqua si leva
a prua un velo leggero di nebbia. L'elica solleva turbini di spruzzi e traccia
sulla superficie del mare un solco diritto. La foschia si dissolve un poco. È
quasi buio quando ci appare la terra, l'Australia. Incredibile, non abbiamo sbagliato
di un grado, non cinque miglia d'errore. C'infiliamo nell'Apsley Strait col buio.
Dieci miglia su acque da lago poi a sinistra, sull'isola di Melville, vediamo
con emozione brillare le luci dell'unico punto abitato. È la missione di Garden
Point. Scendiamo a terra barcollando, tra nugoli di zanzare e mosche della sabbia.
Non vediamo nessuno.
Sono passate
36 ore da quando abbiamo lasciato l'Indonesia, lo sperduto isolotto di Kisar.
È la notte dell' 11 settembre. Nel buio, come un'apparizione di fantasmi, arrivano
gli aborigeni, a frotte, da ogni parte, neri nel nero. Solo quando'ri dono, il
biancore dei denti indica dove sono! Uno fa: "bulubulubulu", l'altro risponde:
"gudugudugudu". « Dio santo che razza di lingua - dice Michel - c'intenderemo
poco. Saranno per caso cannibali? ». Incredibile,
adesso si rivolgono a noi in inglese perfetto, s'informano del nostro viaggio
con curiosità: in confronto a ciò che eravamo abituati in Indonesia ci appaiono
molto discreti. Come sono venuti, dopo un quarto d'ora spariscono nella notte. | |
Passeremo una notte memorabilmente
atroce, mangiati vivi dalle microscopiche mosche scure della sabbia; quelle rosse,
poi, più grandi e altrettanto voraci, si attaccano come sanguisughe e succhiano
da maledette. Un'umidità pazzesca penetra nei più reconditi snodi del nostro scheletro,
un freddo polare ci fa battere i denti e ci costringe a raggomitolarci con le
ginocchia sullo stomaco. Il giorno dopo, vado a chiamare qualcuno che mi aiuti
a mettere il Selamat in acqua, il mare è disceso tre metri più in basso. Ora li
vedo bene questi famosi aborigeni, capelli crespi nerissimi, larghi nasi trilobati,
occhi piccoli, mobilissimi, venuzzati di rosso: carnagione nera senza pietà. Camminano
piegati leggermente in avanti, le lunghe braccia pendono lungo i fianchi: i ventri
capaci denotano che la birra scorre a fiumi a Garden Point. Ridono e scherzano
in quel loro strano, primitivo linguaggio fatto da dittonghi ripetuti all'infinito;
assai gentilmente si fanno in quattro per darci una mano, ma sottovalutano il
peso del Selamat e sono costretti a chiamare numerosi altri compagni.
| Davanti
a noi, adesso, si apre l'Apsley Strait, che abbiamo deciso di percorrere per evitare
il lungo costeggiamento dell'isola di Bathurst, Rocky Point, Gordan Bay, Capo
Fourcroy. L'acqua calma
e verdastra non lascia intravedere il fondale, se non quando è veramente troppo
basso, e la navigazione non risulta semplice, se non si vuole sfasciare sui coralli
il Selamat. I numerosi
corsi d'acqua popolati da alligatori che, come profondi fiordi, si aprono ora
alla nostra sinistra su Melville, ora a destra su Bathurst, formano nell'Apsley
Strait banchi di sabbia, fango e ghiaia che, con la bassa marea, si trasformano
in trappole. | Già,
perché .ora l'elica del Johnson solleva piccole madrepore e alghe colorate, dove
lo stretto si restringe in corrispondenza a larghi "mangrovie swamps"•. La costa
che ho modo di osservare a pochi metri mi spaventa per la sua isolata immobilità,
nessuno probabilmente vi ha mai messo piede. L'intricata foresta paludosa, l'assenza
di vita, se si eccettuano zanzare e mosche, l'assoluta mancanza di frutta, bacche,
fiori, ne farebbero una - terribile prigione in cui ogni tentativo di fuga risulterebbe
vano. Senza un filo
d'aria, vibrante di calura di giorno, fredda e fradicia d'umidità di notte. Continuiamo
col motore al minimo, scandagliando di frequente con la gaffa, ci teniamo sulla
sinistra ove pare che il fondo si stia rialzando. Vediamo la costruzione dell'unico
posto abitato dell'isola di Bathurst, sulla punta vicina al Medine Inlet, una
missione ancora attiva. Descriviamo un amplissimo cerchio per evitare le secche
che bianchi frangenti c'indicano, passiamo oltre un isolotto di sabbia e usciamo
dallo stretto con vento fresco e maretta che bagna, nell'azzurro delle acque libere.
Ci rimangono una cinquantina
di miglia. A 'due miglia da Darwin il motore si ferma e non vuoi saperne di ripartire:
sarà l'ultima panne? Michel sbianca in volto: « Dannazione, proprio adesso ci
molla il fidato Johnson? Ma questa è una beffa! ». Smontiamo
le candele, puliamo i filtri: è solo intasato dall'indegna benzina del cinese
di Kisar. Che gli prenda, un colpo! Michel
approfitta del breve arresto per estrarre un'abito pulito e discretamente stirato,
che da 4000 miglia conserva nella sacca per l'occasione: vuole arrivare come un
gentleman che sbarca da un lussuoso yacht. Dio come gli sta largo, ora si vedono
gli otto chili che ha perduto! E, come veri gentlemen inglesi, ci scambiamo i
complimenti più ossequiosi. « La barra a te Michel per il grande arrivo, sei il
capo spedizione! ». « No Massimo, tocca a te, io sono crew'sul Selamat, ne sei
tu il capitano! ». Terremo
una mano ciascuno sul volante; le bandierine belga e italiana vengono spiegate
sull'alberino. In breve, siamo tra le barche alla ruota di fronte a Darwin. Accostiamo
a uno sloop e domandiamo dov'è il porto: lì c'è solo una spiaggia lunga e poco
riparata..« Là dietro è il porto commerciale, non esistono "marina" a Darwin -
dice l'australiano - ma da dove venite? ». Gli indichiamo il mare aperto verso
Nord-Est con un gesto vago della mano. Perplesso, forse-crede che lo stiamo prendendo
in giro, bofonchia: « Crazy people bloody hell! », si sfrega gli occhi, io spingo
in avanti con decisione la' monoleva, Francine ci sta aspettando sul molo. L'incontro
avviene a otto metri verticali di distanza, ne sono responsabili la marea, che
sulla costa ovest passa i 45 piedi, e l'addetto alla dogana del porto, che ci
impedisce di sbarcare prima del controllo dell'ufficiale sanitario. Hanno
una paura matta, in Australia, delle malattie dell'Indonesia e, dopo un serrato
interrogatorio, ci obbligano a buttare a mare tutta l'acqua dolce di bordo. Nel
frattempo Francine dall'alto, lascia cadere cosce di pollo, su cui ci buttiamo
voracemente, e lattine di birra gelata. | |
Ce l'abbiamo fatta, mon vieux!
E'finita, on a reussi ... E se qualcuno vuole proporci qualche altra impresa,
mari solitari o infiniti deserti, ghiacciai, montagne, fiumi, foreste vergini,
sono qui pronto, con Michel, con Ciccio, con Louis e con Marco. Basta avvisarci
una settimana prima ... Massimo
Maggia - 1977 Il
racconto originale è stato pubblicato a puntate nei numeri di maggio, luglio,
ottobre 1978 e gennaio 1979 di Mare 2000). |