All’equinozio di primavera cadeva per il mithraismo la nascita del mondo e il suo futuro rinnovarsi alla fine del Grande Anno. Il mito narrava che in questo periodo, pur se riluttante, Mithra aveva ucciso per ordine del Sole un toro focoso per ordine del Sole,
affondandogli il coltello sacrificale nel collo. Ma lo spirito maligno Ahriman aveva cercato di contrastare il sacrificio-creazione mandando contro l’animale tutte le sue creature immonde per avvelenare in lui la fonte della vita: lo scorpione, che lo aveva punto ai
testicoli, cercando di divorarli, la formica e, secondo alcune interpretazioni, anche il serpente. Ma grazie al cane, simbolo, nel contesto, delle forze benefiche - che gli aveva leccato la ferita neutralizzando i veleni maligni, il toro riuscì a generare dal suo corpo
tutte le erbe e le piante salutari: dal midollo il grano, che spuntò sulla coda in forma di spiga, dal sangue la vite, e infine, dal seme, raccolto e purificato dalla Luna, gli animali utili. Quando la sua missione creatrice e salvatrice fu compiuta, il dio suggellò
la sua amicizia con il Sole in un banchetto nella Caverna Cosmica, dividendo con lui la carne del toro: quel banchetto costituiva il modello dei pasti rituali dove i fedeli, ornati di maschere che indicavano i sette gradi iniziatici, servivano il capo della
confraternita. La vita del cosmo sarebbe stata segnata dalla lotta tra le forze del bene, guidate da Mithra, e quelle distruttive, guidate da Ahriman, sino alla fine del Grande Anno. Allora sarebbe riapparso un toro annunciando l’ ”apocalisse”, mentre Mithra
sarebbe sceso nuovamente sulla terra separando i buoni dai malvagi, e immolando l’animale divino. Poi, mescolando il grasso del toro al vino, avrebbe offerto lo haoma, bevanda di immortalità, ai giusti che sarebbero risuscitati con i loro corpi mentre sarebbe caduto
dal cielo un fuoco che avrebbe annientato Ahriman e la sua armata di malvagi; e da quell’istante il cosmo avrebbe goduto di una felicità perfetta.
Il mese di aprile simbolo della primavera, fu dedicato ad Afrodite che era venerata in tutta la Grecia quale dea della bellezza e dell'amore. Nel primo calendario romano, questo mese era il secondo dell’anno; Romolo lo avrebbe battezzato aphrilis, poi mutato in
aprilis, ispirandosi al greco aphròs, la spuma delle onde fecondate dallo sperma di Urano da cui nacque Venere o, meglio, Afrodite, alla quale venne poi appunto equiparata la dea romana. “Si pensa - commentava Macrobio - che il criterio seguito da
Romolo sia stato di chiamare il primo mese con il nome di suo padre Marte e il secondo con quello della Madre di Enea, Venere.” Ma questa etimologia è fantasiosa e risale ai tempi augustei. Lo stesso Macrobio osserva che in epoca arcaica non vi era alcun giorno
dedicato alla dea in questo mese, e che aprile deriva in realtà dal verbo aperire, aprire, nel senso che dopo l’equinozio primaverile il mare si apre alla navigazione, e la natura comincia a sbocciare. “Analogamente ad Atene lo stesso mese aveva nome anthesteriòn
(= dei fiori) poiché in quel periodo tutto fiorisce”. Ciò non esclude l’asserzione di Verrio Flacco secondo cui si stabilì successivamente, nel primo giorno del mese, un sacrificio celebrato dalle matrone in onore di Venere.
Munichione
era il decimo mese dell'anno attico (compreso fra il 15 aprile e il 15 maggio).
Munichie
erano le feste in onore di Artemide, celebrate ad Atene il 16 del mese di Munichione.
Nell’antica Roma, dopo l’equinozio primaverile si svolgevano, in aprile, le
Adonie
, le feste della resurrezione di Adone, popolari anche in Grecia, dove però la loro data variò durante i secoli dalla primavera all’estate. Il rito si ispirava a un mitologema di cui esistono varie versioni. La più diffusa narra che Afrodite aveva
nascosto in una cassa un bimbo bellissimo, Adone, nato da Mirra, affidandolo a poi Persefone, regina degli Inferi, la quale colpita dalla sua grazia non volle più restituirlo. La disputa fu risolta da Zeus il quale decretò che Adone avrebbe abitato con Persefone per
metà dell’anno - il semestre autunno-inverno - e per l’altra metà con Afrodite. Un’altra versione dello stesso mito narra che Adone doveva vivere un terzo dell’anno con Persefone, un terzo con Afrodite e un terzo da solo. Ma un giorno funesto un orso o un
cinghiale, epifania chi dice di Ares, chi di Efesto geloso, lo uccise. Infine, secondo una tarda ed edulcorata versione del mito, dal sangue del giovinetto sbocciò un fiore vermiglio, l’anemone, che “dura pochissimo”. Ma nel grande santuario fenicio di Astarte a
Byblo dopo le lamentazioni sulla sua morte se ne celebrava la risurrezione e l’ascensione al cielo. Connessi ai riti in onore del dio erano i cosiddetti giardini di Adone: ceste o vasi pieni di terra in cui si seminavano grano, orzo, lattuga, finocchi e varie specie
di fiori. Il calore del sole primaverile faceva germinare le piante le quali, non avendo radici, appassivano altrettanto rapidamente e dopo otto giorni venivano gettate, insieme con le statuette del morto Adone, in mare o nelle sorgenti, affinché aiutassero il
rinnovamento della natura. Ebbene, fino all’inizio del nostro secolo le donne siciliane e calabresi seminavano, prima del periodo pasquale, grano e lenticchie in piatti che tenevano nella penombra, innaffiandoli ogni due giorni. L’Adone fenicio adorato in tutta l’area
mediterranea era in realtà un dio babilonese e sirio, Tammuz, al quale i fedeli si rivolgevano chiamandolo Adon, ovvero Signore. Tammuz doveva dimorare negli inferi per sei mesi all’anno, come fa il sole quando si trova al di sotto dell’equatore celeste. Dopo i
pianti rituali per la sua morte, si festeggiava, a primavera, la sua risalita alla luce, quando egli si ricongiungeva con la dea Ishtar, analoga, nella funzione, all’Afrodite greca. Tammuz diventò in tutto il Medio Oriente il dio della morte e della risurrezione: lo
ricorda anche il profeta Ezechiele, quando lamentava che persino le donne di Gerusalemme si lamentavano per la sua morte all’ingresso del tempio che guardava a settentrione. Questa divinità penetrò pure nel mondo ellenistico non solo con il nome di Adone, ma anche
con quello di Pan perché Tammuz era detto “il Pammegas”, ovvero “l’universalmente grande”, “il sommo”; sicché nell’età imperiale il Pan classico assunse anche, per analogia fonetica, le funzioni di Tammuz. Così si spiegherebbe, secondo il
Reinach, il celebre racconto di Plutarco nel “Tramonto degli Oracoli”, dove lo scrittore greco narra che Thamus, il pilota di una nave in rotta fra la Grecia e l’Italia, udì per ben tre volte una voce chiamarlo dall’isola di Paxos: “Thamus, Thamus, Thamus”.
E quando egli infine rispose: Che vuoi?, la voce ordinò: Quando giungerai nei pressi di Paxos, annuncia che il grande Pan è morto! In realtà Plutarco riferiva una versione confusa dell’avvenimento. Quella voce non chiamava l’ipotetico pilota Thamus, che
probabilmente aveva un altro nome, bensì gridava secondo il rito: Tammuz, Tammuz, Tammuz, il Pammegas, è morto!
Nel mese successivo all’equinozio primaverile si celebravano ad Atene anche le
Grandi Dionisie
, in onore di Dionisio Eleuterio, ovvero “Liberatore”. La statua di Dioniso, il dio morto e risuscitato, veniva trasportata a un tempio dell’Accademia in una processione durante la quale si mostravano simulacri di falli in processione. Quell’ostensione
di falli simboleg-giava il mistero della sua presenza e creatività. Gli iniziati coronati di fiori, invece, si abbandonavano a una gioiosa ebbrezza, considerata una possessione divina.
Le
Delfinie
erano feste celebrate in gran parte della Grecia, soprattutto a Delfi, Atene e Miceto, in onore di Apollo, protettore dei naviganti. Si tenevano il giorno 6 del mese di Munichione.
Eros
, il dio dell’amore nella mitologia greca, è il violento desiderio fisico che spinge Paride verso Elena, Zeus verso Hera e fa tremare le membra dei pretendenti di Penelope. Una concezione più raffinata di questo Eros che tocca lo spirito non meno che
il corpo, appare nei poeti lirici dei secoli VII e VI a.C. Poiché la sua potenza è pericolosa, egli è rappresentato scaltro, crudele e intrattabile. In Anacreonte e nelle pitture vascolari percuote l'innamorato con un'ascia o con una frusta (= deltion). Eros
sopravviene improvviso come un vento e scuote le sue vittime; su alcuni vasi e gemme è raffigurato mentre rapisce una fanciulla. Eros ama giocare, ma i suoi trastulli sono la frenesia e la disperazione. D'altra parte simboleggia tutte le attrattive che suscitano
l'amore. E' giovane e bello, cammina sui fiori, e le rose sono "la pianta di Eros", della quale egli si fa corona. E' dolce e rallegra il cuore. Saffo ne riassume l'essenza con l'epiteto "dolce-amaro". Già Esiodo mette Eros in rapporto con Afrodite.
Insieme con Himeros e con Pothos, Eros è costantemente il compagno di Afrodite, ma può accompagnare qualunque divinità ovunque si tratti di una storia d'amore, ad esempio come amfitales (fanciullo con entrambi i genitori vivi) al matrimonio di
Zeus e di Hera. Esiodo, sebbene lo descriva, in termini quasi identici a quelli di Omero, come il dio che "scioglie le membra e reca danno alla mente", egli ne fa anche, insieme con la Terra e il Tartaro, il dio più antico, onnipotente sugli dèi e sugli
uomini. Partendo da questa idea di Eros come principio cosmico, Parmenide lo incluse nel suo sistema; forse come la forza che spinge l'uno verso l'altro i contrari? I poeti ellenistici perpetuarono la concezione più scherzosa di Anacreonte e cantarono i tiri giocati da
Eros ai mortali, le sofferenze di coloro che tentano di resistergli e le punizioni che riceve per i suoi misfatti. In queste gesta hanno una parte importante il suo arco e le frecce, menzionati la prima volta da Euripide. Egli diventa una figura di genere,
antropomorfizzata. Spesso troviamo più Eroti. Quest'uso ha origine dal fatto che i Greci non distinguevano nettamente fra la passione d'amore e il dio che la simboleggiava; entrambi potevano moltiplicarsi. Importante il rapporto di Eros con Psiche. Eros aveva alcuni
culti antichi ed era assai venerato individualmente. Rappresentò sempre il dio dell'amore, suscitato sia dalla bellezza femminile sia da quella maschile: da qui le sue immagini nei ginnasi, il suo culto da parte del battaglione sacro di Tebe e l'altare eretto ad Atene
dall'amante di Ippia. Come dio della fertilità, era celebrato nell'antichissimo culto di Tespie, e nel culto in comune con quello di Afrodite sulle pendici settentrionali dell'acropoli di Atene. A Tespie, Eros era rappresentato da un'immagine aniconica; nel santuario
ateniese sono stati rinvenuti simboli fallici. In entrambi i culti si celebravano pubbliche feste: quelle di Tespie erano chiamate Erotidie. La festa ateniese era celebrata nel mese primaverile di Munichione. A Filadelfia gli adoratori si chiamavano Eroti, dal
nome del dio. Nelle arti figurative Eros tende a ringiovanire: da giovinetto abbastanza sviluppato nel periodo arcaico, egli si trasforma in fanciullo nell'arte classica e in putto scherzoso nell'età ellenistica.
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