Signor Presidente,
Non può essere senza ragione, senza significato,
che la prima visita del Presidente della Repubblica alla città dei sette, anzi
degli otto assedi, sia stata fatta per consegnare ai partigiani le ricompense al
valor militare. Questa cerimonia, resa tanto solenne dalla partecipazione
del primo cittadino d'Italia, si ricollega così, idealmente, alla grandiosa
manifestazione dell'8 giugno dell'anno scorso, quando alla città venne conferita
la medaglia d'oro per il ruolo, da essa gloriosamente sostenuto, di roccaforte,
di base di operazioni e di capitale del partigianato. Allora, con la decorazione
del gonfalone cittadino, attraverso la città e la provincia di Cuneo se ne
onoravano i figli, generosi, tenaci, instancabili combattenti per la libertà.
Oggi, consegnando queste medaglie, attraverso le persone dei morti e dei vivi
che sono stati decorati, Lei, che impersona l'Italia, ha reso omaggio al valore
di tutta una terra e di tutta una gente.
Perché, se mai vi fu guerra di popolo, guerra capita o sentita,
voluta o condivisa, combattuta o sostenuta da tutti (o da quasi tutti), guerra
piena di ragioni e di interessi per i più vari ceti sociali che concordemente vi
contribuirono, è la guerra partigiana che per venti duri mesi,
ininterrottamente, corse quel «Piemonte del Piemonte» che è la provincia di
Cuneo.
Qui, dove la vergogna dell'8 settembre, con i generali in fuga e
l'esercito in dissoluzione, ancora non aveva avuto il tempo di consumarsi, e già
i volontari, con Duccio Galimberti e Giovanni Barale alla testa, accorrevano
alle armi, raccogliendosi in quelle montagne da cui il nostro partigianato
doveva trarre la sua ispirazione, la sua forza, il suo stile.
Qui, dove non si aspettarono ordini dall'alto, che non sarebbero
mai venuti, dove ogni uomo, a un certo punto, senza regolamenti militari, senza
costrizioni d'autorità, senza messaggi ufficiali, si trovò di fronte unicamente
alla propria coscienza o al proprio istinto: e scelse la sua strada, e la prese,
e la percorse sino in fondo.
Qui, dove le «teste quadre» solitamente sono la regola, e le «teste
calde», se pur ve ne sono, l'eccezione: eppure, nella svolta risolutiva dell'8
settembre, le «teste quadre» seppero essere anche «calde», e lanciarsi con
impeto in una guerra che esigeva anche, e in sommo grado, entusiasmo e fantasia.
Crollava lo Stato, e l'ombra della distruzione e dello smarrimento
si stendeva dappertutto: ed ecco i figli di Cuneo ripiegarsi, rinchiudersi in
sé, e , con impegno profondo, con la più salda tenacia, trovare in se stessi,
nelle loro memorie e nelle loro tradizioni, nelle loro virtù e nei loro ideali,
nella storia e nel paesaggio della loro terra, la forza del cuore e dell'ingegno
che fece di essi gli artefici della più bella resistenza, cioè un esercito
combattente e una repubblica in movimento.
Signor Presidente, Lei che tanto bene conosce la storia del
Piemonte, ricorderà la fiera risposta data da Vittorio Amedeo II agli emissari
di Luigi XIV i quali gli spiegavano come le condizioni del suo esercito gli
togliessero ogni possibilità di resistere alle potenti armate d'oltralpe:
«Batterò col piede la terra, e ne usciran soldati d'ogni banda». Ebbene, l'8
settembre, e in seguito, a Cuneo e intorno a Cuneo avvenne proprio così: i
soldati, cioè i partigiani uscivano da ogni parte, perché qualcuno aveva battuto
col piede la terra; ma non era stato un sovrano, re o principe che fosse, bensì
una forza più alta e maestosa, quella che si chiama la coscienza civile, la
vocazione nazionale, il senso dei valori supremi, quella essenziale virtù
insomma, che, magari sotterranea ed invisibile per lungo volgere di anni, erompe
nei momenti decisivi, e spinge un popolo a non mancare nell'ora del dovere
storico.
E nessuno meglio di Lei, Signor Presidente, può penetrare e
comprendere l'anima ed il carattere di questa resistenza cuneese, di cui oggi
sono stati decorati alcuni fra i mille e mille campioni: l'anima ed il
carattere, cioè di una guerra che non fu solo un cumulo di episodi militari, ma
qualcosa di organico, di intimamente legato al genio ed all'indole della
popolazione, alla stessa composizione della società, e direi persino ai luoghi
ed alle cose; l'anima ed il carattere di una lotta dove si trovarono uniti il
valligiano della montagna e il contadino della pianura, il prete di campagna,
l'operaio della fabbrica, l'artigiano, il professionista; lo studente, il
commerciante della città, e l'ufficiale disgustato del vecchio esercito; d'un
moto solidale in cui il concorso, il valore, il sacrificio di ogn'uno si
illumina del concorso, del valore del sacrificio di tutti.
Proprio questa è la ragione della imponenza e della diffusione del
partigianato nella nostra provincia. In altre regioni esso poté svilupparsi più
in una parte e altrove meno, poterono esserci delle aree neutre, degli spazi
bianchi: qui invece non un palmo di terreno ne fu immune perché dappertutto
batteva l'onda della guerra, sospingendo o richiamando le forze combattenti.
Eppure, nonostante tutte le sue peculiarità locali, nonostante
tanti e così intimi vincoli con la provincia, il partigianato cuneese non ebbe
assolutamente nulla di provinciale. E come un secolo prima il Piemonte aveva
portato nella vita italiana una nota rigorosa di modernità, un accento nuovo
europeo, così adesso la provincia di Cuneo prima e più di ogni altra si apriva
ai motivi internazionali della lotta antifascista, al sentimento di una
solidarietà europea, di una fratellanza fra i popoli superiore a ogni angustia
nazionalistica: si apriva alla idea che non si combatteva per i confini o per
puro onore patriottico, ma per i più alti valori umani e civili, per il bene
supremo della libertà e per la generosa ragione della giustizia.
E perciò mi sia consentito rilevare che quella amicizia
italo-francese di cui tanto oggi si parla, prima ancora che attraverso i
rapporti fra diplomatici o le trattative fra governanti fu ritrovata e
ristabilita proprio sulle montagne di Cuneo, coi memorabili accordi promossi
nella primavera del 1944 da un figlio di Cuneo, Duccio Galimberti: e fu
suggellata solennemente col sangue sparso dai partigiani di qua e di la delle
Alpi: col sangue dei partigiani italiani caduti in Francia, come Arrigo Guerci e
Giuseppe Scagliosi, che oggi sono stati decorati e che morirono combattendo in
Val Tinea e in Val Vesubia; col sangue dei partigiani francesi caduti in Italia
come il prode Lulù del cui nome ancora risuonano e sempre risuoneranno le langhe
che lo videro combattere e morire.
Questo, nei suoi tratti essenziali, il volto del partigianato
cuneese: volto schietto, nobile, forte, immagine vera di quella Italia per la
quale abbiamo combattuto: una Italia moderna, pulita, seria, fatta di uomini
liberi, nemici della retorica e capaci di ideali.
E se anche l'Italia di oggi non è quella che abbiamo sognato e per
la quale sono morti i migliori fra noi; se i partigiani mutilati o invalidi e le
famiglie dei caduti ancora attendono la liquidazione delle loro pensioni; se è
possibile che pubblicamente ed indisturbatamente siano qualificati volgari
assassini e membri di quel Comando Regionale Piemontese che ha avuto nel nostro
Duccio Galimberti un animatore ed un esponente esemplare; se in troppe occasioni
i reggitori del nostro paese dimenticano quel che persino nel trattato di pace
ci è stato riconosciuto dagli stranieri, ossia l'apporto preminente e decisivo
della Resistenza per la riabilitazione dell'Italia dopo l'infame ventennio
fascista; se, dunque, tutte queste cose, e tante altre simili possono riempire
l'animo di sdegno, di amarezza e di delusione, tuttavia i partigiani cuneesi non
depongono la fede, e fanno loro il sostanzioso motto dello stemma cittadino:
FERENDO!
Infatti la terra di Cuneo è terra di fedeltà: ed è una fedeltà che
perdura saldissima, come fedeltà a quegli ideali di libertà e di democrazia che
ci hanno guidato nella lotta, come fedeltà a quello che Francesco Ruffini, con
anima forse presaga, chiamava bellamente «impeto di liberazione».
Anche Lei, Signor Presidente, è legato a questi ideali, a questa
lotta, a questo impeto di liberazione: e non solo per il suo antico antifascismo
di cui è stato maestro a tanti fra noi sin dal tempo della scuola, ma anche e
soprattutto perché Lei è il capo di quella Repubblica per la quale tutti i
partigiani, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente
hanno combattuto. La Repubblica è uscita dal travaglio della guerra partigiana e
dalla gloria della vittoria partigiana di cui la provincia di Cuneo fu splendida
protagonista ed artefice: perciò è giusto Signor Presidente, che la suprema
dignità della Sua carica e la Sua viva coscienza di figlio genuino della terra
cuneese si siano insieme congiunte nel momento di consegnare queste medaglie.
E se, come Lei ci ha tante volte insegnato, la memoria dei morti e
il senso delle tradizioni devono essere lievito di vita e stimolo di fervore
operoso, questa cerimonia deve significare, sopra ogni altra cosa, la
riaffermazione di una continuità ideale per cui le battaglie, le glorie e i
sacrifici di ieri formano l'immancabile premessa e la sicura garanzia delle
speranze di un domani migliore.
Questo è il sentimento, il voto, l'impegno di Cuneo partigiana!