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Allocuzione  al Presidente della Repubblica Luigi Einaudi del cittadino onorario di Cuneo Dante Livio Bianco in occasione della consegna di ricompensa al Valor Militare a sette partigiani - 18 settembre 1948

  

Signor Presidente,
   Non può essere senza ragione, senza significato, che la prima visita del Presidente della Repubblica alla città dei sette, anzi degli otto assedi, sia stata fatta per consegnare ai partigiani le ricompense al valor militare. Questa cerimonia, resa tanto solenne dalla partecipazione  del primo cittadino d'Italia, si ricollega così, idealmente, alla grandiosa manifestazione dell'8 giugno dell'anno scorso, quando alla città venne conferita la medaglia d'oro per il ruolo, da essa gloriosamente sostenuto, di roccaforte,  di base di operazioni e di capitale del partigianato. Allora, con la decorazione del gonfalone cittadino, attraverso la città e la provincia di Cuneo se ne onoravano i figli, generosi, tenaci, instancabili combattenti per la libertà. Oggi, consegnando queste medaglie, attraverso le persone dei morti e dei vivi che sono stati decorati, Lei, che impersona l'Italia, ha reso omaggio al valore di tutta una terra e di tutta una gente.
   Perché, se mai vi fu guerra di popolo, guerra capita o sentita, voluta o condivisa, combattuta o sostenuta da tutti (o da quasi tutti), guerra piena di ragioni e di interessi per i più vari ceti sociali che concordemente vi contribuirono, è la guerra partigiana che per venti duri mesi, ininterrottamente, corse quel «Piemonte del Piemonte» che è la provincia di Cuneo.
   Qui, dove la vergogna dell'8 settembre, con i generali in fuga e l'esercito in dissoluzione, ancora non aveva avuto il tempo di consumarsi, e già i volontari, con Duccio Galimberti e Giovanni Barale alla testa, accorrevano alle armi, raccogliendosi in quelle montagne da cui il nostro partigianato doveva trarre la sua ispirazione, la sua forza, il suo stile.
   Qui, dove non si aspettarono ordini dall'alto, che non sarebbero mai venuti, dove ogni uomo, a un certo punto, senza regolamenti militari, senza costrizioni d'autorità, senza messaggi ufficiali, si trovò di fronte unicamente alla propria coscienza o al proprio istinto: e scelse la sua strada, e la prese, e la percorse sino in fondo.
   Qui, dove le «teste quadre» solitamente sono la regola, e le «teste calde», se pur ve ne sono, l'eccezione: eppure, nella svolta risolutiva dell'8 settembre, le «teste quadre» seppero essere anche «calde», e lanciarsi con impeto in una guerra che esigeva anche, e in sommo grado, entusiasmo e fantasia.
   Crollava lo Stato, e l'ombra della distruzione e dello smarrimento si stendeva dappertutto: ed ecco i figli di Cuneo ripiegarsi, rinchiudersi in sé, e , con impegno profondo, con la più salda tenacia, trovare in se stessi, nelle loro memorie e nelle loro tradizioni, nelle loro virtù e nei loro ideali, nella storia e nel paesaggio della loro terra, la forza del cuore e dell'ingegno che fece di essi gli artefici della più bella resistenza, cioè un esercito combattente e una repubblica in movimento.
   Signor Presidente, Lei che tanto bene conosce la storia del Piemonte, ricorderà la fiera risposta data da Vittorio Amedeo II agli emissari di Luigi XIV i quali gli spiegavano come le condizioni del suo esercito gli togliessero ogni possibilità di resistere alle potenti armate d'oltralpe: «Batterò col piede la terra, e ne usciran soldati d'ogni banda». Ebbene, l'8 settembre, e in seguito, a Cuneo e intorno a Cuneo avvenne proprio così: i soldati, cioè i partigiani uscivano da ogni parte, perché qualcuno aveva battuto col piede la terra; ma non era stato un sovrano, re o principe che fosse, bensì una forza più alta e maestosa, quella che si chiama la coscienza civile, la vocazione nazionale, il senso dei valori supremi, quella essenziale virtù insomma, che, magari sotterranea ed invisibile per lungo volgere di anni, erompe nei momenti decisivi, e spinge un popolo a non mancare nell'ora del dovere storico.
   E nessuno meglio di Lei, Signor Presidente, può penetrare e comprendere l'anima ed il carattere di questa resistenza cuneese, di cui oggi sono stati decorati alcuni fra i mille e mille campioni: l'anima ed il carattere, cioè di una guerra che non fu solo un cumulo di episodi militari, ma qualcosa di organico, di intimamente legato al genio ed all'indole della popolazione, alla stessa composizione della società, e direi persino ai luoghi ed alle cose; l'anima ed il carattere di una lotta dove si trovarono uniti il valligiano della montagna e il contadino della pianura, il prete di campagna, l'operaio della fabbrica, l'artigiano, il professionista; lo studente, il commerciante della città, e l'ufficiale disgustato del vecchio esercito; d'un moto solidale in cui il concorso, il valore, il sacrificio di ogn'uno si illumina  del concorso, del valore del sacrificio di tutti.
   Proprio questa è la ragione della imponenza e della diffusione del partigianato nella nostra provincia. In altre regioni esso poté svilupparsi più in una parte e altrove meno, poterono esserci delle aree neutre, degli spazi bianchi: qui invece non un palmo di terreno ne fu immune perché dappertutto batteva l'onda della guerra, sospingendo o richiamando le forze combattenti.
   Eppure, nonostante tutte le sue peculiarità locali, nonostante tanti e così intimi vincoli con la provincia, il partigianato cuneese non ebbe assolutamente nulla di provinciale. E come un secolo prima il Piemonte aveva portato nella vita italiana una nota rigorosa di modernità, un accento nuovo europeo, così adesso la provincia di Cuneo prima e più di ogni altra si apriva ai motivi internazionali della lotta antifascista, al sentimento di una solidarietà europea, di una fratellanza fra i popoli superiore a ogni angustia nazionalistica: si apriva alla idea che non si combatteva per i confini o per puro onore patriottico, ma per i più alti valori umani e civili, per il bene supremo della libertà e per la generosa ragione della giustizia.
   E perciò mi sia consentito rilevare che quella amicizia italo-francese di cui tanto oggi si parla, prima ancora che attraverso i rapporti fra diplomatici o le trattative fra governanti fu ritrovata e ristabilita proprio sulle montagne di Cuneo, coi memorabili accordi promossi nella primavera del 1944 da un figlio di Cuneo, Duccio Galimberti: e fu suggellata solennemente col sangue sparso dai partigiani di qua e di la delle Alpi: col sangue dei partigiani italiani caduti in Francia, come Arrigo Guerci e Giuseppe Scagliosi, che oggi sono stati decorati e che morirono combattendo in Val Tinea e in Val Vesubia; col sangue dei partigiani francesi caduti in Italia come il prode Lulù del cui nome ancora risuonano e sempre risuoneranno le langhe che lo videro combattere e morire.
   Questo, nei suoi tratti essenziali, il volto del partigianato cuneese: volto schietto, nobile, forte, immagine vera di quella Italia per la quale abbiamo combattuto: una Italia moderna, pulita, seria, fatta di uomini liberi, nemici della retorica e capaci di ideali.
   E se anche l'Italia di oggi non è quella che abbiamo sognato e per la quale sono morti i migliori fra noi; se i partigiani mutilati o invalidi e le famiglie dei caduti ancora attendono la liquidazione delle loro pensioni; se è possibile che pubblicamente ed indisturbatamente siano qualificati volgari assassini e membri di quel Comando Regionale Piemontese che ha avuto nel nostro Duccio Galimberti un animatore ed un esponente esemplare; se in troppe occasioni i reggitori del nostro paese dimenticano quel che persino nel trattato di pace ci è stato riconosciuto dagli stranieri, ossia l'apporto preminente e decisivo della Resistenza per la riabilitazione dell'Italia dopo l'infame ventennio fascista; se, dunque, tutte queste cose, e tante altre simili possono riempire l'animo di sdegno, di amarezza e di delusione, tuttavia i partigiani cuneesi non depongono la fede, e fanno loro il sostanzioso motto dello stemma cittadino: FERENDO!
   Infatti la terra di Cuneo è terra di fedeltà: ed è una fedeltà che perdura saldissima, come fedeltà a quegli ideali di libertà e di democrazia che ci hanno guidato nella lotta, come fedeltà a quello che Francesco Ruffini, con anima forse presaga, chiamava bellamente «impeto di liberazione».
   Anche Lei, Signor Presidente, è legato a questi ideali, a questa lotta, a questo impeto di liberazione: e non solo per il suo antico antifascismo di cui è stato maestro a tanti fra noi sin dal tempo della scuola, ma anche e soprattutto perché Lei è il capo di quella Repubblica per la quale tutti i partigiani, direttamente o indirettamente, consapevolmente o inconsapevolmente hanno combattuto. La Repubblica è uscita dal travaglio della guerra partigiana e dalla gloria della vittoria partigiana di cui la provincia di Cuneo fu splendida protagonista ed artefice: perciò è giusto Signor Presidente, che la suprema dignità della Sua carica e la Sua viva coscienza di figlio genuino della terra cuneese si siano insieme congiunte nel momento di consegnare queste medaglie.
   E se, come Lei ci ha tante volte insegnato, la memoria dei morti e il senso delle tradizioni devono essere lievito di vita e stimolo di fervore operoso, questa cerimonia deve significare, sopra ogni altra cosa, la riaffermazione di una continuità ideale per cui le battaglie, le glorie e i sacrifici di ieri formano l'immancabile premessa e la sicura garanzia delle speranze di un domani migliore.
   Questo è il sentimento, il voto, l'impegno di Cuneo partigiana!