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                            I Quaranta belanti                    

                      LA SECONDA STAGIONE

 

Come passa l'inverno un neoskipper? Chi lo sa, forse ce n'è di quelli che tirano la barca in secco e se ne dimenticano fino all'anno dopo, qualcuno se ne dimentica del tutto (incredibile ma in tutti i capannoni ci sono barche abbandonate e i canoni mensili di parcheggio stanno superando il valore delle barche!), qualcuno si da da fare per venderla e comprarsi una cottage sulla Sila, ma qualcuno rimugina sei giorni alla settimana su ciò che deve cambiare per migliorare la barca e poi il settimo va a misurare. Volendo metterci il bompresso basterebbe un puntale di cinquantacinque centimetri. Per un girofiocco lo strallo è di sette mm. Nel pozzetto ci andrebbe un tavolo di m. 1,60 per 0,60. La catena dell'ancora dovrebbe essere allungata e per far questo, occorre un'introvabile falsa maglia. Perché il motore che dovrebbe arrivare a 2.300 giri al minuto fa appena 1.900 quando ci si innesta l'elica? Forse il diametro o il passo sono eccessivi. Si potrebbe sentire Orvea o Radice. Quello che è certo e' che bisogna infilare qualcosa in quel buco che ha lasciato la ruotina a pale del log della Midas rimandato in Inghilterra. Per tirar su un riflettore radar bisogna montare due sagolette sulle crocette. Il fuoribordo da 6 Hp é troppo pesante, bisogna cambiare il vecchio Laros e prendere un motorino più maneggevole. Chissà se ci andrebbero le gruette? Anche un anemometro in testa d'albero sarebbe utile, per curiosità almeno. Così si dice: il vento, era forza sei, ed era forza sei. Se non ci sono bugiardi davanti all'anemometro.

Quello che e' sicuro sicuro é che ci vuole la radio. L'HF no, ridicolo, il CB non da' affidamento, il VHF é quello che ci vuole. Una sfogliata ad un corso di radiotecnica almeno per capire cos'è lo squelch. Meno, male il VHF non splattera. Però ha i suoi bravi quarzi e molti canali. C’é il canale 27 ma non c'entra niente coi 27 megahertz del CB. Comunque l'importante è il canale 16 dove c'é l'ascolto permanente. Quello per chiamare aiuto, insomma.  Compro tutte le riviste italiane e straniere per leggere avidamente le rubriche di fitting.

La corrispondenza con l'Inghilterra si fa sempre più fitta e cominciano ad arrivare i pacchi.  Naturalmente non manco all'appuntamento col salone. Mia madre non capisce: prima ci andavi per vedere quale barca comprare e adesso che ce l’hai? Per scoprire cos'é meglio metterci sopra. Lapalissiano. Sopra sarebbe meglio metterci un marinaio. La madre non lo dice ma brilla in fondo ai suoi occhi. Ma è proprio quello che voglio fare: solo che quel marinaio vorrei essere io. E stendo le carte nautiche: dove si va quest'estate? Chiaro che non vorremo mica passarla girando intorno alle pur belle isole pontine! Si va in Grecia. Questa l'ha detta la Sgnuffi e gliela perdono. Si va in Sardegna! Questo l'ho detta io ma non solleva entusiasmi: ormai la Sardegna é troppo alla moda. Lo sciorinamento della carta relativa davanti agli occhi pieni di sufficienza della consorte per dimostrarle che la costa Smeralda é piccola cosa in confronto allo sviluppo costiero sardo sorte lo stesso effetto di quando cerco di convincere Amarilli che il teorema di Euclide nasconde, segrete bellezze. Decido: si va alle Eolie.

Intanto bisogna comprare anche il portolano 1 B, poi il libro dei Fari e quello dei Radioservizi (dall'Inghilterra mi arrivato un Hitachi radio e radiogoniometro per 19 sterline!!). Da Toccolini a Genova ho acquistato un Novel Standard VHF che mi faccio montare tirando in secco la barca. Disalberiamo e arriva anche I'arnico toscano con bottaccio nuovo e scatoline di resina per rimarginare, le ferite della povera Sgnuffi. Ma il filo dell'antenna non c'è verso di farlo passare dentro l'albero. Il filo guida legato alla drizza di destra mi tira fuori in testa d'albero la drizza di sinistra! Il toscano mette l'occhio al buco.  Nero. L'albero é rivestito di polistirolo e la barra passante delle crocette occlude. Ma una cosa e' certa: mi hanno montato le drizze incrociate. Il toscano si mette una mano sul cuore: a loro gli alberi gli arrivano gia con le drizze dentro! Basta una mezza giornata per sistemare il guaio perché bisogna disrivettare l'incappellatura dell'albero. Al momento di rimettere i rivetti il toscano confessa di avere solo quelli da quattro e la i fori sono per quelli da sei, millimetri ovviamente.

Faccio il giro dei cantieri di Fiumara: fate la carità, quattro rivetti da sei e la rivettatrice. Niente da fare: chi ha il magazzino chiuso, chi ha il magazziniere con la rosolia, chi ha la rivettatrice pneumatica ma non ha i rivetti. Dopo un paio d'ore e dieci chilometri a piedi torno sconsolato: mettiamo i rivetti da quattro e viva la fratellanza nautica.

- Guardi qui, nella giunzione tra tuga e pozzetto,... C'é come una crepa...-

- Oh gli é naturale no? Là é scatolato... - e il toscano mette nocche su nocche e fa un movimento ondulatorio.

- Guardi qui. Qui non é scatolato. Questa é una signora crepa come se ci aveste fatto cadere qualcosa. C’é sempre stata. -

Il toscano guarda la crepina e ci pianta dentro la lama del coltello:

- Non é niente. E' solo il gel. Vede, dottore? Sotto la vetroresina é sana. -

- Però é brutto.

- Adesso la si aggiusta. - 

Ci sono anche delle bolle. Peppe mi ha detto che i cantieri che lavorano coi piedi non hanno capannoni chiusi de poter mantenere una temperatura costante e così per asciugare prima aggiungono del gesso... Il toscano ride:

- Macché gesso. So' fres'acce, dottore, fres'acce. Qualche bollicina gli è naturale, basta che il pennello dia un po' più di gel che quello poi al sole gonfia. Ma si aggiusta. –  poi però si accorge di non avere il gel grigio della coperta ma solo quello bianco per la carena: e gli è naturale!

Dalla Midas nessuna notizia e la Sgnuffi torna in acqua col suo tappo e senza log.

A Pasqua spendo tremila lire di telegrammi per Marple Bridge che è il buco dove deve esserci la Midas: buco perché alla posta insistono, che non esiste, c'é un Marple qualcos'altro e vogliono mandare il telegramma là. Ma insisto anch'io: il telegramma deve andare dove vanno, le lettere che indirizzo proprio all'inesistente Marple Bridge. D'altra parte qui non trovavano neanche Baratti, figuriamoci Marple Bridge! Vinco la battaglia e i I telegramma parte dopo che la telegrammista ha ampiamente declinato ogni responsabilità: la declinazione delle responsabilità é ormai l'unica declinazione in uso nel nostro latino paese. Arriva la telefonata di risposta da Marple Bridge dove ormai devono aver capito che se posso scribacchiare una lettera in inglese non posso proprio parlarlo al telefono e così ne approfittano per impapocchiarmi il cervello. Capisco solo che mi manderanno un nuovo log e un nuovo  speedometer, nuovi nel senso che saranno diversi dal vecchio, insomma modelli nuovi. Il che equivale a dire che i vecchi non andavano. Mi chiedono se voglio averlo in fretta. Dico sì. E casco nella cacca. Perché per "fretta" a Marple Bridge intendono spedizione aerea. E così la scatola tre giorni dopo é a Fiumicino. In dogana.

Vengo avvisato del fatto con un avviso. Prendo la macchina, attraverso la città e mi sciroppo la strada fino all'aeroporto. Ingenuamente vado in un salone tutto sportelli col mio avviso: adesso mi diranno quel che c'é da pagare e buonanotte. Invece la buonanotte me l'augurerà il guardiano al momento di chiudere i magazzini sei o sette ore dopo. Così scopro che bisogna riempire un fascio di moduli, ma che sono stati studiati appositamente complicati in modo che ci si debba rivolgere, agli spedizionieri per compilarli. Gli uffici degli spedizionieri si aprono come gabbie con dentro i piccoli avvoltoi in attesa. In attesa di me. Uno si stacca dal trespolo e atterra vicino a me pulendosi il becco sulle mie spalle: qual'e' il problema?

Sogghigna sui moduli: apparati elettronici? Ah, ah! Adesso che ride mi sembra una iena. Spiegare che si tratta di robetta mandata alla Casa per aggiustamenti é inutile, vorrebbero le bollette d'entrata e quelle di uscita in temporanea. Pagare non basta, bisogna supplicate che l'impiegato ti prenda in simpatia e faccia il suo lavoro. C'é una stanzata di gente che urla:

- Sono penne che mi mandano per i nipotini dal Canada! Non sono oro, sono placcate! -

- Per noi, oro sono! - e il poveraccio, vorrebbe placcare il burocrate al muro ma si morde le mani e paga dieci volte il valore delle penne. Il mio spedizioniere iena riempie i moduli con irrisoria facilita e poi strizza l'occhio al burocrate che alza le mani: ora di pranzo j'e'!

Dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto (lui!) non ci fa vedere il buco ma mette il timbro. Sì, proprio solo pamf e pamf. Un timbro. Prima di pranzo si vede che non poteva timbrare. Adesso posso, andare da un altro che sembra, più importante perché é chiuso in un cubicolo di vetro e urla contro due poveretti snocciolando una follia di articoli e di leggi citati sempre solo per numero e data che annichilisce. Quelli tentano di balbettare qualcosa e quello li caccia letteralmente fuori urlando che non può perdere tempo con chi non conosce le leggi.

Io ho fatto la mia brava Università ma non conosco le leggi. Conteggia sugli scartafacci e deduce che devo pagare 25.000 lire tra diritti e porto. Ma non posso pagare a lui, de- vo pagare allo spedizioniere che poi verserà allo sportello. Nel tragitto, la cifra diventa di lire quarantamila. Non é mica una iena, quelle si accontentano degli avanzi, questo invece morde grosso. Pago le 40.000 che sono quasi un secondo prezzo di tutta la baracca! Piombo a Fiumara e monto il tutto. Funziona! Ma il tubo che regge la ruotina a pale è di diametro un po' più piccolo del precedente e il buco non è più stagno. Il Tevere piscia in barca. evo mettere il tappo e tornare a Roma a cercare un "O" ring un po' più grande.

Se non sapete cosa sono gli "O-ring" andate maluccio: sono quegli anelli elastici neri che servono per rendere stagne le torce e un'infinita' di altre cose, compresi gli imbecilli che cambiano la misura dei log come se io potessi adesso cambiare la misura del buco. Trovo l' "O-ring", lo piazzo. Non funziona più.  No,no . Non funziona più, la povera Sgnuffi soffia i polmoni su quella maledetta ruotina stile Mississippi, gli aghi restano immobili. Ecco il momento in cui penso che forse era meglio andare alla Finder. Ricontrollo i collegamenti coi filetti colorati: sono giusti. I poli delle batterie: giusti. Prelevo dal mio corso pratico di elettronica il multitester e misuro la batteria. Giusta. La corrente arriva, ma il maledetto cosino inglese l'unica cosa che fa girare sono le palle. Quelle mie, naturalmente. E’ormai evidente che si profila una seconda stagione senza log e senza speedometer. Ho già visto che non é drammatico, ma fa rabbia.

La rabbia si scioglie al sole d'aprile. E’ora di mollare il fetido Tevere e il centro Petrini e far vela per l'azzurro mare del Circeo. Commendatore, il conto!  Bene, gente, son 327.000 lire del 1973!!! Ci hanno aggiunto perfino il mezzo mese che non passerò qui, il varo e I'alaggio che pur mi era stato promesso gratuito e perfino settemila lire di spesa per il montaggio del frigorifero che nella sua veloce corsa verso la Sgnuffi l'aveva finalmente raggiunta durante l'inverno. Così non chi mi vendette la barca senza frigo ha pagato a me una penale, ma io a loro. Perbacco, con l'aria di farmi un favore mi vogliono togliere le ventisettemila lire Non sia mai detto! Si paga fino, all'ultima lira per superiorità innata. Se fossi una donna chiederei al commendatore di toccarmi le tette come disse quella turista tedesca all'albergatore ladro:

- A me quando mi fregare piacere anche che tocchino tette! - Okay. Si parte e si fa una croce: là, mai più.

La Sgnuffi spancetta di nuovo in acque salse e lo fa con gioia, a vele spiegate, senza dar problemi. Inutile provare lo speedometer: dice che siamo immobili come montagne.

Il porto del Circeo é quasi deserto. Deserto di Peppe, comunque. Si attracca con bella manovra in perfetta solitudine. Le barche sono ancora poche, la stagione non é ancora iniziata. La barca di Von Palafitten dondola chiusa al suo stabile ormeggio orlata tutta di un bellissimo muschio verde. Il Bagatelle di Alfredo non c'é, ma so che lo porterà in piena estate.

Una fila di weekend sulla Sgnuffi in attesa delle grandi vacanze. Le carte nautiche si ammucchiano, nel controarmadio che mi sono costruito apposta. Sono carte del sud: dal Circeo fino alla Sicilia.

Ormai é deciso: si partirà dal Circeo per Ponza e poi di là il grande balzo: Ustica! Una settimana per godere l'isola e poi le Eolie: dieci giorni e poi via per Cetraro, Maratea, su fino a Capri e Ischia e poi Ventotene e Ponza. Un mese preventivato: tutto luglio.

Ma intanto un weekend ci riserva ancora qualche piccola sorpresa: partiamo dal Circeo verso le sei, a bordo ci siamo tutti più Floriana, inseparabile arnica di Amarilli. Si é fatto tardi e io ho una gran fifa di trovarmi di notte fra quei dentini neri tra Zannone e Ponza, così dò un bel motore nella speranza di farcela prima del buio assoluto.  Ma il sole si tuffa in mare e io sono ancora a cinque miglia dai dentini. Li fisso disperatamente cercando di continuare a distinguerli mentre la notte lentamente me li ingoia davanti. In barca ho un faro, ma è di quelli complicati da montare attraverso la tuga e non mi son mai deciso a forarla. Meno buchi e meglio é. Adesso che so non avrei fatto quello del log e anche l'ecoscandaglio l'avrei usato da dentro.

Ho una mia teoria per evitare gli scogli quando si sa che ci sono: cercare di andargli ben vicino, vederli ed evitarli. Così faccio e il dentone che spunta poco lontano da Gavi si alza davanti alla prua con una precisione che mi fa compiacere con me stesso. Un colpetto di ruota e lo si evita. La Sgnuffi mi dirà che l'ho sfiorato, dieci centimetri al massimo, ma la Sgnuffi ha il senso dello spettacolo: ci sarò passato a più di mezzo metro. Ormai so com'é quest'acqua e vado sciolto. Sciolto fino a quando la miriade di luci della rada di Ponza non comincia a confondermi le idee. Tre rossi, uno verde che lampeggia. Porca miseria: ci sono due canali più scuri, qual'é quello giusto? Devo passare davanti allo scoglio Ravia e non dietro. Ma mi sento girare la testa: gli sto davanti o dietro? Motore in folle. Ognuno dice la sua meno Floriana che, pallida, si sta domandando se la sua amicizia per Amarilli valga davvero tanto. Ma io non mi muovo di là finché non mi raccapezzo o finché non vedo qualcuno entrare in rada.

A uno che naviga può sembrare incredibile: la bocca della rada di Ponza è grande come quella di un gigante che sbadiglia, eppure rimango lì venti minuti buoni a imprecare contro di me, finché mi ricordo di avere a bordo il libro dei Fari. Comprato, pagato, ficcato da una parte e buonanotte. Che marinaio da nevose vette! Dal prezioso libro apprendo che sullo scoglio Ravia c'è un fanale verde che lampeggia. Adesso è tutto addirittura cretino ed entro in rada con un sospiro di sollievo.

Qua il porto è sempre pieno. Ormeggio in seconda fila davanti a piccole barche da pesca. Così il mattino dopo ci svegliano i brontolii dei pescatori che ci chiedono se è quello il modo di ormeggiare. Li guardo intontito dal sonno: che ci sia davvero un altro modo? Ma quelli a spintoni si son già fatti largo e se ne vanno a pieno motore. Torno a dormire ma ormai non riesco più a riprendere il filo. Aspetto il bollettino dei naviganti: tutto, bene. Metto il caffè sul gas e il suo profumo é l'unica cosa in grado di svegliare tutta la doppia, curva pericolosa che ho sposato: voi suonerete, le vostre trombe, noi ci berremo i nostri caffé.

E così non sono neppure le dieci che gia siamo davanti alle belle scogliere di Palmarola. In barca c'e' puzza di benzina. Questa é bella, ma se vado a gasolio? Eppure la puzza è troppo nota per essere confusa. Tutto l'equipaggio più Flo ammette, che si sente una fortissima puzza di benzina. Comincia l'annusata generale per stabilirne la provenienza, intanto, ho messo in folle per tranquillità e la Sgnuffi come sente il folle si mette a sculettare come una mignotta. Noi ormai ci siamo anche abituati ma la povera Flo comincia ad impallidire visibilmente mentre il volto assume le caratteristiche " panda" coi cerchioni neri intorno agli occhi. Ma ecco la causa della puzza di benzina! Il tappetto in plastica del serbatoino del 4 PH che ho condannato in pozzetto, con una cima si é allegramente crepato e la miscela sta infilando, con calma il foro autovuotante e va a mare. Meno male che il pozzettone è autovuotante! Ecco un caso certamente non previsto dal progettista in cui i buchetti realmente inutili per vuotare il pozzettone dalle eventuali ondate, che lo riempissero diventano spaventosamente utili per far sgocciolar via la maledetta benzina. Tappo rotto, motore dritto. Ma Punico posto, in cui può star dritto é sullo specchio di poppa del canotto che mi tiro a rimorchio. Un rimorchio cortissimo che porta a prua del canotto, a due dita dalla poppa della Sgnuffi ma che significa comunque trasbordo e tempo. Tempo di sofferenza per la povera Flo che non si lamenta ma fissa con nostalgia le immobili rupi che distano poche centinaia di metri. Nuovamente, ingoiando disperata il rigurgito, penso che ripensi se l'amicizia per Amarilli valga davvero tanto. Sistemato il motorino dal tappo debole, si ormeggia e porto a terra i pargoli. Come Flo riesce ad arrampicarsi sulle rocce il colorito le torna e ha subito fame. Una fame da Flo: una fila di panini viene divorata con perfetto ritmo. Entrano nella bocca di Flo come in una catena di smontaggio.

Pinne e maschera e straccio " Favilla". Il favilla é quella specie di spugna rinforzata con paglia di ferro. Mi immergo e dò un'occhiata alla carena. Muschietto ce n'é gia e nei quadroni bianchi lasciati dagli artisti toscani la dove la barca poggiava sull'invasatura ci sono gia denti di cane. Vero é che quest'anno non ho dato l'antivegetativa: dopo il salasso subito per il ricovero invernale chi ce li aveva più i soldi per farlo? E allora, polmoni, olio di gomito e favilla. Fare la carena in apnea è un ottimo esercizio per iniziare una stagione di pesca sub dopo un'invernata di macchina per scrivere. Comunque un paio d'ore dopo, mentre la testa mi gira, la carena é accettabile. Denti di cane neppure uno, muschio quasi scomparso, tranne proprio sotto il chiglione dove la vetroresina e' così grezza che il favilla si rompe e non scivola.

Ma devo farlo bene perché tra pochi giorni la Sgnuffi e il suo valoroso equipaggio partiranno per la grande grande traversata: Ponza-Ustica miglia 133. Previste quindici ore di navigazione di vera altura, ben fuori tra l'altro delle venti miglia per cui é per ora abilitata la barca. Ma l'ingegnere della Multimare dice che presto sarà omologata anche per altura e se lo dice lui si pué andare.

Mi monto una seconda bussola nel pozzetto, su un supporto inox che sembra, una. colonna per una ruota esterna e invece serve soltanto a reggere la bussola e un bel tavolo ro- tondo per mangiare fuori. Il tavolo é stato pittato dalla Sgnuffi bionda che é brava anche col pennello. Ai quattro punti cardinali ci ha dipinto, le facce, di quattro razze diverse: N esquimesi, E cinesi, S negri, W pellirosse. Bello. Il tavolo è formato da due mezzi cerchi che stanno stivati nell'armadio quando non servono. Il problema é tenere ben uniti quei due mezzi cerchi quando si vuole mangiarci su.

Entriamo in agitazione una settimana prima della partenza fissata per il 29 di giugno. La Sgnuffi é avvolta da liste per le provviste e io da liste di fabbisogno tecnico e di sicurezza. Con un gran dolore tiro fuori 360.000 lire per una zattera autogonfiabile Pirelli di quelle a valigia floscia. E’una di quelle cose che si devono comprare e sperare di aver buttato i soldi e di non doverla usare mai. Poi razzi rossi e pistola Very, giubbotti salvagente e cinture e carrettate di Simmenthalmente buona alla Standa. Una mezza quintalata di pasta, cento litri di. succo di frutta, una cassa di birre, tre casse d'acqua minerale che opportunamente segate entrano perfettamente sotto le cuccette del quadrato. Le casse segate, mica le bottiglie. E poi tonno, alici, verdure liofilizzate, tutta la lista dei medicinali del " Il medico a bordo" dal Valontan alle bende gessate per la riduzione delle fratture. Preparativi da transoceanica insomma. Ho l'impressione che per noi le centotrentatrè miglia di Tirreno siano più lunghe del giro del mondo in contropelo. La povera Sgnuffi si lascia caricare come un mulo (tutte e due, questa volta!) e comincia a scendere di un dito sotto la linea del galleggiamento. Pieno di nafta trecento litri più due taniche di scorta (alla faccia del purista!) e pieno di fatica per tutto l'equipaggio.

La notte del 28 l'equipaggio riposa per l'ultima volta in letti immobili su pavimenti ancorati alla roccia del Circello. Ma l'ansia della grande traversata rende quel "riposa " un modo di dire. All'alba tutti in piedi. Riassaporo quell'antico senso dimenticato, delle gite in montagna di quand'ero ragazzo. Quel senso di anticipazione che fa gonfiare il cuore dell'ansia di andare e della paura di non tornare. Allora era un mare immobile di aguzze rocce strapiornbanti a riempire il cuore, adesso l'immagine montagnosa delle onde fotografate da Adlard Coles e incluse in fondo al suo bellissimo libro. Siamo tutti un po' troppo, allegri per mascherare quel vuoto che a tratti riempie lo stomaco. La faccia perplessa di Peppe solleva qualche battuta spiritosa che solleva nuova perplessità.

Quello che é detto é detto. Ponza e poi Ustica. Peppe dice che non ha acqua per i serbatoi. Infatti il volenteroso rubinetto abusivo gocciola tiepido. Si aspetta, intanto bisogna finite di stivare mangime e vestiario. La Sgnuffi bionda tira fuori le sue liste e comincia a spuntare (l'ho istruita con letture durante le notti di inverno e lei ha preso molto sul serio il compito di cambusiera ma rifiuta il titolo che le suona troppo vicino a quello odiato di casalinga). E’ troppo tardi quando spunta fuori che non ha segnato in quali gavoni sta ficcando Ia roba spuntata e cos! ogni volta Ia preparazione del menù diventerà una specie di caccia al tesoro. Ma si sa, sbagliando si impara.

Amarilli e Costantino dopo aspro litigio han deciso quali saranno le loro cuccette e i loro gavoni in modo da poter Ia- sciare sempre le une e gli altri in uguale totale disordine. Con pacchi, borse e Simmenthalmente buona fino alle caviglie, nel caldo del mattino vien voglia di bere una birra. La cassetta è sotto A sacco blu dei maglioni. No, non c'é. La Sgnufli scruta con aria accusatrice Ia bussola da rilevamento che sta al posto della birra. Ah, a prua, in fondo al gavone, sotto i pelati. Nel gavone di pelati ci sono solo io, quando mi ci infilo con Ia testa, ma non quel gavone lì, l'altro. Sospiro attingendo alla pazienza: si dice gavone di prua a dritta o a sinistra. Il dito della Sgnuffi insofferente si punta sull'altro gavone e ribadisce: quello lì. Attingo ancora e mi infilo in "quello lì". I pelati ci sono. Moltissimi. Ne levo un paio di quintali e tocco il fondo. Del gavone naturalmente.

- Non c'é - ansimo colando sudore. La Sgnuffi mi guarda incredula, piena di stupore. Colto da un dubbio torno a rimirare il grigio fondo in vetroresina del gavone, poi mi alzo di scatto. Pamf! La zuccata a prua Ia prendo sempre quando mi alzo di scatto perché I'altezza d'uomo a prua c'é solo fino a un metro e ottantacinque. Prima ero gia uno e novantatré, adesso sto diventando uno e novantacinque per via della ficozza.. Attingo di nuovo al serbatoio della pazienza e riesco a modulare un normale, quasi dolce:

- Non c'é. - La Sgnuffi sbuffa e avanza mettendo un piede sulla pila dei pelati (quelli in scatola, chiaro!) e rotolandomi fra le braccia insieme a due DeRica. No, su DeRica non si può!

- Dici sempre che tutto deve essere al suo posto! Ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa! E adesso guarda che macello! - muove le penne nel mare delle scatole.

- La birra - la mia voce é ferma e cupa. Con aria di aperto rimprovero e poi di chiara condanna la Sgnuffi mi fissa negli occhi:

- Io l'ho messa lì -.

- No, tu Il non l'hai messa perché non c'é. - 

- Non c'é ma io l'ho messa lì. -   Alzarsi e andare al bar gente, se volete che un matrimonio duri.

- E adesso che hai messo per aria tutte,queste scatole, le lasci così?

Sono già nel pozzetto e mi volto per una battuta sferzante: peccato.Inciampo nella cassetta della birra e volo ad abbracciare la colonnina della bussola: 60° Est.

- Eccola la tua birra! - esclama la Sgnuffi additandomi al mio autodisprezzo. Vado, ugualmente al bar mentre il serbatoio della pazienza lampeggia in riserva.

A mezzogiorno l'acqua non é ancora arrivata al rubinetto di Peppe, partire senza acqua nei serbatoi proprio non si può e a Ponza l'acqua é razionata e non ci si può contare.

Gli interni della Sgnuffi (quella coi gavoni) cominciano a riprendere le linee note emergendo a poco a poco di pacchi di semolino, i tubetti dei dentifrici e il baraccano azzurro ricamato oro che secondo la mia estrosa metà é assolutamente indispensabile in crociera. Tanto vale pranzare. Un attimo di terrore passa nei grandi occhi della signora mentre il suo sguardo trascorre sui gavoni chiusi e pieni di mistero. Sorride solo quando intravede la dozzina di pacchi di pane in cassetta: pane e salame, un allegro spuntino. Si cucinerà a Ponza, stasera.  I giovani hanno bisogno di incoraggiamento e sentenzio che il pane è squisito e il salame insuperabile. Ho la vaga sensazione di essere autobiografico ma mastico in silenzio. Peppe dice che l'acqua non arriva. Lo dice sorridendo, quasi ammiccando: ci offre una valida ragione per rimandare la partenza. Ma io so che quando si deve partire e un po' morire non si può rimandare. Chi rimanda é perduto. Io sono partito da Biella sradicandomi dalla mia adolescenza a mezzanotte di un lontano ferragosto sull'onda dell'entusiasmo di una notte di danze. Io, Peppo Sacchi e un comune amico ci siamo, ficcati su una Balilla del '34 e abbiamo, dato, gas con le valige legate sul portapacchi e madri piangenti e sfazzolettanti sotto gli antichi androni. Tre chilometri dopo stavamo raccogliendo camicie e calzini nei prati di Candelo per via di una brusca frenata che aveva letteralmente scardinato il portabagagli. Alla ventilazione dell'idea di tornare indietro per ripartire l'indomani, risposi con le storiche frasi "Tiremm'inanz" o "Roma o morte!". Se fossi tornato, quella notte con una bracciata di camicie, gente, adesso sarei un cupo direttore della Banca Sella.

Ecco perché sono disposto a riempire i seicento litri del serbatoio di vino potabile piuttosto, che rimandare la partenza. Ma non c'e' bisogno di tanto, vedendo l'incrollabile, fermezza dello skipper e qualificandola per incoscienza (abbandonare quarantamila lire mensili di comodo ormeggio per il mobile sconfinato Tirreno non e' forse follia?) Peppe ammette che si può far acqua all'autoclave della CAM. Quelli la pompano dal loto serbatoione. Questo significa disormeggio e riormeggio cento metri più in là. Ma nulla mi può fermare ed eseguo con congrue sgassate. Finalmente la manichetta si infila nel ventre della Sgnuffi (quella col serbatoio, ovvio!) e piscia dentro seicento, bei litroni d'acqua tiepida, dolce e potabile. Sul quadrante, della storia scoccano le ore 15.40 quando tra urla di augurio e di saluto la Sgnuffi volge impettita la poppa alle banchine per affrontare l'ignoto. Forse anche sulle banchine di Palos qualche secolo fa echeggiò I'augurio marinaro: in culo, alla balenaaaa!

Ma la balena non ci sta perché comincia il ballo a un miglio dal porto. Infervorato nei preparativi, preso dai controlli pignoli che tutto fosse in ordine, deciso a partire col pieno di frascati, non ho più alzato occhio al cielo dalla mattina e alla mattina il cielo era sereno e il mare calmo. Cosa diavolo sarà successo mentre cercavamo la birra o ci storcevamo nei gavoni per riempire i buchetti in fondo con le cose che certamente saranno poi le prime a servire, non lo so, fatto sta che il cielo è nero e il mare arruffato. L'anemometro comincia a dire forza sei quasi dritto di prua e gli schizzi sollevati dall'impatto dei miei sette nodi a nafta lavano la barca come un battesimo di sale. Fortuna che non sono superstizioso, altrimenti dovrei dedurne che Nettuno non vuole.

Il tragitto fino a Ponza diventa un supplizio di quattro ore abbondanti. Decido di usare il mio VHF e chiedo il meteo a Roma Radio: colpi di vento con attenuazione dei fenomeni. La radio ha una grande importanza anche psicologica. Quella voce tranquilla che afferma col tono della certezza che si tratta di un colpetto di: vento che non dura, rende tutto più facile a bordo. Avendo, davanti l'intero Tirreno, a noi un colpetto di vento ci deve fare un baffo. Deve.

E arriviamo arruffati a Ponza nella. gloria di un tramonto che é riuscito a scavarsi un buco tra i nuvoloni. Ormeggio in seconda fila e poi "permesso permesso" passeggiando sulla coperta di uno sloop per arrivare in banchina.

- Uh povero Picchio povero Picchio povero Picchio! - il grido di dolore che si leva tra le barche allineate in banchina mi fa voltare di scatto. Dove c'è il pappagallo Picchio ci deve essere il Bagatelle.

E infatti c'è. Alfredo ha ospiti (come sempre) ma il tempo per una stretta di mano c'è. Come va? 'Programmi? Dico: andiamo a Ustica. Una lucetta divertita passa per un attimo negli occhi di Alfredo che certo ricorda le mie magre della stagione precedente, poi sorride e mi avverte: se vedi sabbia e cammelli vuol dire che sei fuori rotta. 

Picchio svolazza dentro la sua gabbia strillando: aiutoo! Aiuutoo! Forse sbaglia a calcolare un saltello perché manca il bastoncino del trespolo e finisce comicamente a mucchietto sul fondo della gabbia. Soffia indispettito e impreca: stronzo! Sarà un pappagallo, ma sembra proprio un cristiano. Il bollettino della notte avverte che il Basso Tirreno mosso. Se lui è mosso io resto fermo, poco ma sicuro. Sento su di me gli sguardi umidi e fiduciosi di tutto 1'equipaggio e voglio essere sor Prudenzio in persona. Domani faremo un giretto intorno a Ponza che ne vale sempre la pena. Una giornata di relax in attesa del gran salto, con una pescatina all'imboccatura di Chiaia di Luna dove riesco a vedere delle belle spigolone e a prendere niente.

Il cielo è  chiaro e il mare quasi calmo. Forse domani si parte. Stavolta l'ormeggio e' in terza andana e per andare in banchina devo adoperare il canotto. Senza remi e senza motore, ma tirandomi nella selva di cime tese sull'acqua a varie altezze. All'andata tutto va bene: io e la Sgnuffi ci destreggiamo a dovere, spingendo, il canotto sull'acqua scura e sollevando le cime per passarci sotto. Il piccolo incidente ci capita al momento di tornare a bordo con le provviste: presa ormai troppa confidenza col giochetto, dò un gran strattone ad una cima e il canotto parte veloce verso la bianca poppa della Sgnuffi in vetroresina, troppo veloce. Una bastarda cima tesa a quaranta centimetri dal pelo dell'acqua sega lo spazio appena sopra i tubolari. In quello spazio ci siamo io e la Sgnuffi a sangue caldo. Mi aggrappo disperatamente alla cima bastarda, colpisco senza volerlo la mia metà con un gran cazzotto e spingo ancora più avanti il canotto con i piedi. Il canotto giunge con bello slancio contro la poppa della barca madre mentre io e la Sgnuffi, completamente vestiti piombiamo con gran tonfo nelle scure luride acque del porto.

La Sgnuffi affonda tenendo eroicamente sollevato fuori dell'acqua il borsetto con dentro il denaro per tutta la crociera. Gran tonfo, gran pubblico. Sghignazzate lungo tutto il bellissimo anfiteatro vanvitelliano. Sghignazzate sopratutto da una barca piena di cafoni che disgraziatamente si é ormeggiata accanto alla mia. Dico, cafoni ma forse erano peggio: già al loro arrivo sottolineato da bestemmie e parolacce da far nascondere il capino sotto Pala al povero Picchio, arrivo in velocità con sgassate tremende e risacca da mezzo metro, li aveva additati a] disprezzo generale, poi il rito della discesa a terra, Una, due, tre, quattro donne vistosamente truccate stampano assurdi tacchetti sul tek dei disgraziati che servono da passerella. Poi cinque, sei sette... Qualcuno fa capolino dalle tughe e si scambiano sguardi divertiti: che sia una pensata per fregare la legge Merlin? Un casino galleggiante che funziona fuori dalle acque territoriali... Certo i tre uomini che scendono Paria dei pappa ce l'hanno proprio tutta. Mentre io e la Sgnuffi facciamo la doccia nel pozzetto per lavarci di dosso l'acqua del porto, quelli continuano a scendere, finché per un passo falso uno dei pappa piomba in acqua. Tonfo ancora maggiore, pubblico ancora più grande. Sghignazzate sopratutto da parte delle sue donne. Riemerge rosso come un papavero e infila una dopo l'altra una collana di bestemmie e volgarità da far rabbrividire la scorza del più rude marinaio. Io strizzo la mia canottiera con estrema dignità, sorriso sulle labbra, a sottolineare che si può cadere nelle stesse acque ma restate totalmente diversi.

Il bollettino della notte annuncia: alte pressioni livellate, calmi tutti i mari italiani. Previsione per le prossime dodici ore: nessuna variazione. E come se ci avesse detto: o domani o mai più. Ultimo controllo alle carte nautiche e spremitura di Car dea: Ustica é una piccola isola in mezzo ad un grande mare. Per avere più probabilità di centrarla meglio arrivarci di notte. A Punta dell'Omo Morto c'é un faro che tira più o meno 15 miglia. Sbagliare di 15 miglia su 133 mi sembra difficile. Allora considerando una velocità sui sette nodi vorrei arrivare  nel raggio del faro di notte ma in modo che poi venga giorno mentre vado a terra per entrare nel porto col sole. Faccio i conti alla rovescia: per vedere il faro tra le 03.00 e le 04.00 devo partire da Ponza alle 11.00. Sono più o meno diciannove ore, di navigazione totale, ma dopo sedici ore dovrei già vedere il faro di Ustica.

Puntuale come un cronometro alle undici di mattina mi lascio Ponza alle spalle. Prua per rotta vera 178*. Per prudenza la calcolo per 175' (e' da quella parte che c'é l'Italia!) poi controllo, la bussola di rotta con quella sistemata in pozzetto e che non dovrebbe avere deviazioni notevoli. Ci sono dieci gradi di differenza, così si governa per 165'.

Il mare é immobile. Una lieve brezza forza due soffia da ovest e drizzo la randa, senza spegnere il motore. E'  I'andatura preferita dalla Sgnuffi che fila via col borbottio del motore tracciando una bella riga dritta, una riga che spero congiungerò Ponza con Ustica. Presto Ponza annega nella foschia e siamo soli: mare dovunque deserto. Adesso non c'é più modo di controllare il punto nave. E pensare che l'ora seguente a quella del corso di navigazione di Cardea era di navigazione astronomica. Ma allora pensavo di navigare di secca in secca con lo sguardo fisso sul fondo del mare e non perduto tra le stelle. Ma ho il radiogoniometro. Tiro fuori l'Hitachi e giro la manopola su LW: fischia che é un piacere. Levando gas il fischio diminuisce. Eppure il motore diesel non dovrebbe interferire, nella Mercedes non lo fa. Forse é I'alternatore? Riesco a beccare un PAL dell'aeronautica ma c'é un altro segnale che interferisce più il fischio, quindi col fischio che posso cercare il nullo. Spengo l'Hitachi e mi attacco al VHF. Se Napoli Radio mi dice la sua portata massima posso farmi un'idea. Ma c'é un mucchio di gente che chiama Napoli sul canale 1é, forse a qualcuno Napoli risponde ma noi sentiamo solo chiamate. Al- la mia non risponde e chiamo e richiamo per un paio d'ore.

Non mi resta che segnare una crocetta ogni ora lungo la linea di rotta segnata sulla carta, tra una crocetta e I'altra una distanza di sette miglia. Mai punto più stimato del mio ha sporcato una carta nautica moderna: o fanno tutti così? Mi tornano in mente quelle navi pazzerelle di Cardea che andavano a zig zag per il Mediterraneo cambiando continuamente velocità senza motivo e che sapevano sempre perfettamente dove si trovavano e dove dovevamo poi trovarle anche noi con i nostri esercizi. "Mu" dove sei? Delta-qualcosa a che servi adesso?

Posso solo sperare nella bussola e far crocette come un bambino. Il Tirreno é immenso. Ore e ore di Tirreno calmo come un lago senza mai vedere altro che acqua e cielo. Non una nave, una barca, un sospetto di costa. D'altra parte la mia rotta tira giù dritto su Ustica mentre l'Italia si scansa sulla sinistra con l'ampio golfo calabrese. Dietro a Ustica, come una sponda di sicurezza l'ampia Sicilia. Cala lenta la notte. Una lunga agonia di luce che i nostri occhi strizzati cercano di prolungare ancora. Non c'e' luna, e' luna nuova. Il buio diventa denso. Il cielo si riempie di stelle. Bello da mozzare il fiato. Ma quella coperta nera che preme sul vetro della tuga mette apprensione. Spengo la luce interna, perfino quel- la della bussola rende l'esterno più penetrabile. Ma non c'è più niente da vedere: e' come un volo cieco. Davanti alla prua c'é di nuovo tutto il mistero degli antichi navigatori. Eppure in quel buio assoluto qualcosa sembra riprendere le sue dimensioni dentro l'animo: é la Terra, il Mondo come si diceva una volta, che riallarga i suoi confini. Quel piccolo ridicolo Tirreno visto con l'occhio di chi con un jet lo attraversa nel tempo di fare colazione torna ad essere un signor mare. In questo buio grandi sono le ombre del passato: davanti alle prue c'era dipinto un occhio, vorrei averlo anch'io sulla prua della Sgnuffi. Davanti alle loro prue non c'erano portolani nè libri dei fari. C'era solo una vaga idea di costa che nascondeva pericoli ancora peggiori di quelli del mare.Allora gli Uomini erano pochi, il mare grande e pulito. Poi abbiamo cominciato a pisciarci dentro in troppi.

Lascio la ruota al mio molleggiato secondo ed esco a prua ben aggrappato allo strallo, lascio che il vento tutto apparente, mi gonfi la camicia. Qualche fosforescenza accende la notte ma il gran piatto sotto la pancia stellata é assolutamente nero. Navighiamo ormai da quattordici ore e non si é mai visto anima viva. Sgomenta e solleva insieme: c'é ancora spazio, gente, c'è ancora spazio se si può sentirsi così isolati. Chiamo col VHF a destra e a sinistra ma non risponde nessuno. Forse sono fuori portata per tutti. Simpatica questa radio se uno si trovasse con le palle a mollo all'improvviso! Eppure basterebbe impiantare le antenne trasmittenti sui cocuzzoli più alti dei monti e il Tirreno lo si dovrebbe coprire tutto.

Alle ore 02.00 la Sgnuffi bipoppica avvista una luce a dritta. Non può essere Ustica per varie ragioni: primo e' troppo presto per averla già così a dritta, secondo e' una luce fissa. Fuori il binocolo: e' una nave! Laggiù, come in fondo ad tin imbuto nero, c'é una nave. Ma ecco, a prua spaccata, una luce che lampeggia fioca nel buio! No, per averla proprio di prua bisogna accostare per 155°. Un gioioso senso di compiacimento riempie i miei capillari, mollo la ruota e vado in cuccetta. Dico al biondo secondo di puntare dritto sul faro. Nei giro di tre ore ci saremo sotto e si sarà fatto giorno.

Prima di chiudere gli occhi per un giusto riposo guardo un poco quella fievole luce lontana che lampeggia monotona e uguale. Monotona e uguale? Ma non deve essere monotona e uguale! Eccolo: sul libro dei Fari dice che dopo tre lampetti da 0,2 secondi c'é un eclisse di 8,8 secondi! Tutto il Tirreno buio e laggiù qualcosa lampeggia più o meno ogni cinque secondi, sempre uguale. Bah!Avranno cambiato la frequenza di quel benedetto faro. Che altro può lampeggiare la in mezzo se Ustica é un'isola isolata? Tanto vale schiacciare il meritato pisolo, poi si vedrà. Purtroppo invece si vede quasi subito, anzi si sente.

L'urlo di raccapriccio del secondo, mi fa balzare a sedere battendo la regolamentare capocciata. Una piovra? Un mostro, marino? Il secondo si aggrappa alla leva del gas e la tira in folle. La Sgnuffi placida si ferma cullata da una lievissima onda lunga appena percettibile:

- Andiamo sugli scogli! - pallido il secondo farfuglia indicando una folle lampadina accesa in quell'eternità buia. Una lampadina che si accende e si spegne quieta, immobile, disegnando sull'acqua ferma una scia luminosa. Mi sento rimescolare tutto Cardea: quella lampada sembra proprio fissa su qualcosa che non si vede, forse davvero una scogliera. Accendo l'ecoscandaglio: non segna. 0 abbiamo più di cento metri di acqua sotto o ne abbiamo due centimetri.

Non oso più muovermi. Eppure non possiamo essere già a Ustica, dovremmo aver fatto nove nodi e so che non è possibile. C'é o non c'é la famosa legge della proporzione con la lunghezza al galleggiamento? E allora grazie se ne facciamo sette di nodi! Eppure là davanti il mistero continua ad accendersi e a spegnersi ogni cinque secondi. Mi guardo intorno smarrito. Amarilli con gli occhi gonfi di sonno mi fissa inebetita. Il secondo e' sull'orlo, del collasso per lo shock provato nel vedersi apparire davanti, in piena velocità, quella folle lampadina. Costantino invece se la ronfa a prua, l'ho messo a letto con la promessa che al suo risveglio avrebbe visto l'isola.

Girando intorno lo sguardo smarrito vedo qualcosa sulla dritta: la sagoma buia di una nave. Porca miseria! Una nave, un grosso peschereccio, quello che é, ma immobile, alla fon- da! Non pué essere Ustica e non può essere alla fonda in mezzo al Tirreno a cento metri da un lampadina! Che sia il figlio del capitano Nemo? In risposta ai miei muti angosciosi dubbi, qualcosa lampeggia da quella tolda scura. Una torcia elettrica puntata verso di me si accende e si spegne: ecco, se mi fanno il Morse siamo proprio sistemati! Ho imparato la faccenda dell'Amici Magnaghi ma il Morse no .

Guardo col binocolo: quella nave sta tra il peschereccio, di cui ha la forma e le attrezzature nella parte poppiera, e la nave vera e propria di cui ha le forme e le vetrature nella parte centrale. Non capisco i segnali, non mi resta che avvicinarmi piano piano per mettermi a portata di voce. Ruota a dritta e un po' di gas. I segnali si fanno più frenetici. Insisto, ma adesso quelli si limitano ad agitare disperatamente la lampada. Ci deve essere qualcosa che non li soddisfa nella mia manovra di avvicinamento. Di nuovo in folle e salto fuori. L'aria é immota. Forse ce la faccio se urlo ben bene.

- Per Usticaaaaaa! Da che parteeeeee???? - Mai avrei creduto di fare una simile domanda così autostradale. E quelli mi rispondono agitando la torcia:

- A levante della barca!!!! Si tenga a levante della barca!!!-  Adesso anche la nave sconosciuta si sta muovendo e mi pare che la diabolica lampadina ondeggi lievemente. Dopotutto forse non é sugli scogli.

- A levante della barca!!! Comincio a capire: pescano. Là intorno ci deve essere una gigantesca rete e la lampada ne segnala la fine o l'inizio o qualche parte. A levante della barca. Che vuol dire adesso? Quelli preoccupati della rete mi han detto di stare a levante, oppure vogliono dire che Ustica é a levante? Nel primo caso devo solo allargarmi e riprendere la rotta, nel secondo piegare decisamente per rotta 90°. Decido di fidarmi di me stesso. Mi allargo un poco, e mi rimetto in rotta: 165°.

E’ bello avere fiducia in se stessi, é il principio di ogni successo. Ma anche di tutte le catastrofi. E la fiducia cala ver- so le quattro per finire sotto la chiglia alle luci dell'alba che mostrano un immenso Tirreno bigio privo, crudelmente privo di isole. Sfuggo lo sguardo angosciato del secondo prostrato in cuccetta e fischietto un motivo stonato con aria indifferente. Ma il mio cervello é in subbuglio: é evidente che ho mancato Ustica. L'isola fantasma é nascosta da qualche parte nella mia scia: adesso l'orologio di bordo segna le 07.00 e il secondo sta male. Lo stress, la nottata quasi tutta senza dormire, una specie di blocco allo stomaco fanno soffrite la supersexy che regredisce rapidamente verso una fase infantile in cui si ha bisogno più del papà che del marito. Odino, dove sei? Costantino sbuca fresco, riposato e pimpante dalla sua dormita a prua e gira sul mare uno sguardo acuto, critico e intenditore. Il giro termina su di me:

- Te l'avevo detto papà che avremmo sbagliato l'isola. - Il bello é che l'aveva detto davvero. Mi trovo un sorriso sulle labbra. Il sorriso si spegne al lampeggiare della riserva del carburante. Un'altra cosa che non quadra! lo avevo gasolio per quasi due volte il viaggio! Meglio dare un'occhiata al motore. Forse era meglio non darla: c'é una bidonata di nafta in sentina. Un porco tubino di nylon schizza carburante ad ogni colpo di pistone. Che fare? Cinque o sei belle passate di nastro adesivo che non é adesivo per niente su. quella superficie unta. Poi richiudo. Guardo la randa che sbatte al vento di prua. Se ci fermiamo penzolerà come uno straccio. Non c'é assolutamente vento. Bene per un verso, male se finisce il gasolio.

Riacchiappo il mio Hitachi e tento disperatamente la triangolazione coi radiofari della Marina: ma perché, miseriaccia infame, lo accendono solo per qualche minuto ogni quattr'ore? Forse acchiappo Palermo, forse no . Non ce la faccio in tempo comunque. Oleoso e gigantesco il Tirreno, mi sembra il mare dell'eternità. Forse ci navigherò per sempre come l'olandese volante.

La luce frenetica della riserva si blocca sul rosso fisso. Meglio ficcare in pancia quelle due taniche di scorta. Mi bacerei in fronte per quelle taniche che sembravano così eccessive avendo un serbatoione da trecento litri! Torna la Sgnuffi alla ruota, torcendosi per il mal di stomaco. Io verso i settanta litri di scorta nel serbatoio: male che vada una quarantina di miglia dovrei farle anche considerando la perdita. E adesso al lavoro con la carta nautica.

Che può essere successo? Sono certamente andato fuori rotta, signor de La Palisse! Di quanto?  Acchiappo la bussola da rilevamento e controllo le mie due bussole: questa dice che la rotta tenuta é stata di un bel 190° abbondante! E adesso che si fa? Si crede o no alla terza bussola?  Le due di bordo, dicono 175° e 165°, quella da rilevamento sentenzia 190°! Okay, così imparo a partire senza fare i giri bussola! Va bene, ma adesso che posso fare?

Riprendo la carta e tiro la nuova rotta: se ho camminato per 190° da Ponza a sette nodi per tante ore, adesso so- no in un punto molto al largo di Ustica sulla perpendicolare di Trapani. E se invece l'errore fosse una via di mezzo? Proviamo a tirare la rotta per 180°: ecco, allora sarei meno al largo nel Tirreno ma non é che la cosa cambi molto. Se invece Ustica l'avessi mancata passando, troppo a levante? lpotesi che sembra impossibile, ma ormai tutto può essere possibile e tanto vale tracciare anche una bella rotta 155°: ecco, in tal caso sarei più o meno sulla perpendicolare di Palermo. Adesso la soluzione al mio problema é semplice: trovare un'accostata tale che in qualunque punto io mi trovi fra quelli supposti mi porti nel più breve tempo possibile a toccare terra.

L'accostata é per 140°: accostando di meno, se fossi al punto estremo dell'ipotesi mancherei la Sicilia, accostando di più se fossi al punto opposto mi infilerei nell'ampio golfo calabro allungando di molto il cammino. Ma per 140'°dovrei arrivare in vista della Sicilia e delle sue alte montagne verso le undici al massimo. Comunico all'equipaggio la lieta novella, ma é difficile riacchiappare il morale nei talloni del mio dolce secondo rannicchiato in cuccetta. Meglio prepararle un brodo di pollo Campbell: nei momenti critici pensare allo stomaco é pensare all'anima.

Amarilli alla ruota e io alla cucina. Dieci minuti dopo un fragrante profumino di pollo riempie la cabina. La Sgnuffi ne ingoia quattro o cinque cucchiaiate, sembra andare un po' meglio. Esco a vado a prua fischiettando. Ma giro lo sguardo intorno, nel vasto e solenne orizzonte deserto, reso più vicino dalla foschia. Il sole splende forte in un cielo lattiginoso. Ù mare é innaturale, privo completamente di onde. Il diesel ronfa ma io so che perde sangue ad ogni colpo e mi sembra un. povero animale ferito che arranchi per tirarci fuori dai pasticci.

Ore 10.00: acqua e cielo. Ore Il.00: cielo, e acqua.

Stringo i pugni: ma non finisci mai porcone di un mare? E sono rimasto solo nel Mediterraneo? Forse una piega temporale mi ha rispedito ai primordi, forse la prima cosa che vedrò saranno piroghe scavate nei tronchi o fatte di giunco e sulle scogliere selvagge arderanno i fuochi degli accampamenti. 0 forse ho sbagliato di nuovo tutto e davvero vedrò sabbia. e cammelli... Cardea, dove sei?

Laggiù... sì, laggiù c'é qualcosa a tre punte, sulla sinistra! Una nave! Urlo la notizia e mi precipito alla ruota. Accosto sperando di tagliarle la rotta. Passano minuti di tensione: la nave ingrandisce: é un cargo diretto verso sud: forse a Palermo? 0 a Trapani? o addirittura a Tunisi? Dipende ovviamente da dove siamo. Suono la sirena: tre colpi brevi, tre lunghi, tre brevi. Un S.O.S. in piena regola. Niente. Il maestoso cargo conti- nua a fumare la sua rotta. Ci saranno sì e no trecento metri di distanza quando il cargo ci sopravanza.

- I razzi! Spara i razzi! - urla frenetico il secondo. Un attimo di esitazione: non c'é pericolo immediato. Mi sento ridicolo a sparare i razzi. Ma la sofferenza della mia bionda metà mi convince: per lei siamo 'in pericolo immediato! E quel che conta è quello che sembra e mai ciò che è. Ciò che è, penso, non lo sappiamo mai. Schizzo fuori con la Very, ci ficco dentro un razzo rosso e sparo.

Tuuuuut! Bel tiro. Una perfetta vistosa traiettoria rossa accende il cielo grigio unendo la Sgnuffi e il cargo. Niente. Provo con la radio. Niente. Pam! Secondo razzo. Quel bastardo di un cargo si allontana come se niente fosse e passando ci saluta con un colpo di sirena!

Pam! Pam! Altri due razzi rossi. Ho la netta impressione che quel figlio di puttana che comanda l'ignobile nave abbia fatto aumentare la velocità e ci lascia dietro a ballonzolare disperatamente nelle onde di scia.

Mi gonfio di rabbia: potremmo avere a bordo un moribondo per quel che ne sanno quei vermi! Non riesco a leggere il nome della nave, altrimenti potrei almeno denunciarla.

Metto la prua nella scia e la bussola mi dice 210°. Che si fa? Si segue la scia? A risolvere il problema spunta all'orizzonte la sagoma di una nuova nave diretta in senso opposto. Non può scappare facilmente: mi ci pianterò proprio davanti! Sirena, razzi e megafono e radio. Ci punto addosso. Hanno una bandiera americana dipinta su un fumaiolo. Passo la ruota alla Sgnuffi e salto a prua con la pistola Very, deciso a piantarle un razzo nella pancia pur di fermarla. Aspetto di essere a cento metri: porca miseria com'è grande e come fila! Fuoco! Il razzo sembra caderle proprio sull'alto naso. Urlo alla Sgnuffi

- Valle addosso! - e ricarico la Very. Mi sento un pigmeo contro un gigante ma sparo di nuovo dritto sul ponte che ci sovrasta. Stavolta forse ho infilato l'alloggio del comandante ed evitiamo la collisione per una ventina di metri. La grande nave americana passa oltre, quasi rovesciandoci per l'onda di scia. Imprecando, riprendo la ruota e la Sgnuffi raccoglie energie e megafono e si accoccola a prua cominciando a lanciare inutili appelli alla grande nave che se ne va .

La riserva riprende follemente a lampeggiare: la perdita di gasolio deve essere maggiore del calcolato. Acqua e cibo ce n'è, il pericolo, non é immediato e anche a sbagliare la Sicilia il Mediterraneo è un mare chiuso: a terra si arriva per forza. Bisognerà però aspettare il vento. Ma per la Sgnuffi é come se fossimo su una zattera in mezzo al Pacifico. Sento la sua paura come una cosa concreta. L'unico tranquillo è Costantino che osserva la grande nave che si allontana e commenta:

- Io dico che non si ferma. -

Mi volto a guardare: un momento, non c'é più schiuma dietro alla grande nave! E ora si è messa al traverso! Si é fermata! Viro e le punto addosso una seconda volta. La nave ferma: il suo nome adesso, e' ben leggibile: TEESFIELD.

Decine di marinai buttano lungo la grande fiancata di acciaio una quantità di scale e di reti per il soccorso naufraghi: forse pensano che saliremo a bordo. Ma io voglio solo sapere dove cavolo siamo. Forse si arrabbieranno quando, sapranno, che li ho fermati per così' poco... Ma intanto come faccio a farglielo sapere? Avvicinandomi al gigante in acciaio scopro che dopotutto un po' d'onda. c'é e che se mi affianco romperò le crocette, provo con la radio. Sento il fruscio dell'onda por- tante:

- Pronto! Pronto! Sono il barchino che vi sta girando intorno. Mi sentite? -

Niente. La grande sagoma della nave mi é parzialmente nascosta dalla Sgnuffi accovacciata che.urla nel megafono qualcosa che non riesco a capire. Non so come fare. L'onda mi sposta lentamente e tutta la gigantesca bandiera a strisce e stelle pittata sul fumaiolone ripassa nel mio campo visivo. Un'illuminazione: vuoi vedere che quella gente parla inglese? Mi faccio, coraggio e:

- Can you hear me? –

- Oh yes, Sir. - Forte e chiaro.

E’ da quel dì che vado dicendo che l’inglese è essenziale alla nautica. Dovrebbero inserire le domande di aiuto nei programmi di esame, visto che si fermano solo le navi di lingua inglese.

- My instruments are wrong. Where are we? -  Continuo a chiedere dove siamo per tutto il Tirreno e in tutte le lingue, se lo sa il comandante Cardea, incanutisce.

- Just a moment, please. - Cambia la voce e la radio dice:

- Latitude thirty eight... - Io ripeto per sicurezza e la mia pronuncia deve sollevare dubbi nell'ufficiale di rotta statunitense perché chiarisce:

- Ten, twenty, thirty... one, two, three, four, five, seven, eight: thirty eight, do you understand? – Capisco, capisco. Segno affannosamente sulla carta: Lat. 38°17' e Long. 12°44'.

Faccio scorrere le squadrette e trovo un punto vicinissimo alla Sicilia, proprio sopra la punta ovestdell’isola. Eppure non c'è terra in vista. Mi faccio ripetere il tutto. Con pazienza da abbraccio l'ufficiale americano sconosciuto mi conferma e aggiunge:

- ...Six miles to "chepousanvitoeu"...

E’ il mio massimo sforzo linguistico: questo "chepousanvitoeu" riesco a localizzarlo in Capo S. Vito. Six miles! Sei miglia! Ma è incredibile. L'ufficiale americano con pazienza inesorabile conferma:

- Six miles from chepousanvitou. -!

- Thank you! Thank you! –

Mi metto in rotta per Capo S. Vito: rotta vera 150°. Adesso mi fido solo della bussola da rilevamento. La grande nave rimette in moto le eliche sollevando schiuma e drizza la prua verso nord.  Allarmata, la Sgnuffi la indica e urla:

- Gli Americani se ne vanno! - 

Annuisco. Ma l'allarme diventa terrore nei grandi occhi scuri del secondo che mi ripete temendo che non abbia capito il tremendo messaggio:

- Gli Americani vanno viaaaa! - 

- Guarda che gli Americani se ne sono, andati nel '45... - Non capta il mio sottile umorismo e insiste: 

- Andiamogli dietro! Andiamo con loro!-

Non resta. che tornare al caldo brodo ristoratore accompagnato da suadenti carezze. Sarebbe inutile spiegare al secondo che quelli vanno via a venti o venticinque nodi e riattraversano, il Tirreno mentre noi tra un'ora saremo a terra. Anche la fiducia ha un limite e la Sgnuffi ha oltrepassato quelli assegnatimi come skipper. Meglio ripararsi in quelli assai più vasti dell'amore, sorridere e dare ordini ad Amarilli e Costantino per prepararsi all'approdo.

- Ma se non si vede niente! - esclama. il superlogico Costantino.

- Non si vede ma c'é. Pronti coi parabordi. Un barlume di incerta fiducia torna negli occhioni cigliati del secondo che mi guarda calmando il ritmo del respiro. Ma quando il suo sguardo si volge a poppa e vede perdersi nella foschia la cara sagoma della Teesfield c'é in esso un senso così acuto di nostalgia e di doloroso distacco che se il capitano della nave lo vedesse sono certo che tornerebbe indietro.

Navighiamo ancora per venti minuti in quello che sembra uno Stige senza sponde, poi, come per un incantesimo appare nel rapido sollevarsi di un impalpabile sipario il massiccio di un monte. E col monte, la macchia chiara delle case e una linea ben segnata di costa. Dal nulla a sotto costa nel giro di pochi minuti.

Io sono certo che Colombo ben sapesse di non voler fare il giro della Terra e che lo disse solo per far colpo e avere il finanziamento per l'impresa, tuttavia una qualche commozione dovette certo riempire il suo tirato cuore genovese quando dalla coffa giunse il grido: Terra! Terra! Adesso anch'io sapevo che la davanti da un momento all'altro sarebbe sorta dall'acqua la Sicilia ma le grida di giubilo dell'equipaggio tutto mi fanno salire un groppo in gola. Mai come in questo momento so che il bello del navigare e' arrivare in porto. Un solo rimpianto: la bella Ustica é perduta per sempre, troppo piccolo scoglio per la troppo grande inesperienza di me marinaio. Manovro puntando, in costa e intanto leggo il Portolano. Poche righe su S. Vito: porticciolo in costruzione con massi affioranti in banchina e scarsi fondali. Sconsigliato, l’approdo.

Esito. Il porto più vicino è Castellamare del Golfo: poche miglia ma troppe per chi ha attraversato un oceano sconosciuto, Tuttavia sarebbe stupido finite piantati su un masso dopo tanto viaggio. Occhi e binocolo non risolvono: un segno di scogliera corre parallelo alla costa. Sarà il molo di sopraflutto? 0 quattro sassi messi in fila a protezione della spiaggia? Sono sempre più del parere che un pallone, una manica a vento, qualcosa che segnali l’ingresso dei porticcioli durante il giorno sarebbe veramente comodo. A piccola velocità e con un occhio, all'ecoscandaglio, che mi da' sei metri di fondale, continuo ad avvicinarmi.

Cinque metri. Quattro. E ancora non si riesce a capire dove sia A porto. Tre metri. Rallento ancora e sto quasi per rimettere prua al largo ma A lampeggio della riserva mi ammonisce di non farlo. C'e' un uomo su una barca a remi, forse pesca. Mi accosto al minimo e per la terza volta chiedo indicazioni di tipo autostradale:

- Dov'è il porto?-   L'uomo ha il volto scuro segnato di rughe e di sole. Tende una mano nodosa verso la scogliera. - Dove si entra? A destra o a sinistra della scogliera? –

Il pescatore risponde qualcosa portato via dal vento e poi si mette ai remi remando con forza verso terra. Credo proprio, che voglia guidarci. Così è infatti. Superata la diga di sassi ne appare una seconda su cui si intravede una gru al lavoro e finalmente seguendo il mio Caronte entro nell'ampio, bellissimo specchio del porto. Tre volte quello di Ponza, cinque volte quello del Circeo. Una banchina in costruzione lunga almeno trecento metri. Una trentina di pescherecci sui dodici quindici metri, nessuna, assolutamente nessuna barca da diporto all'infuori di alcuni motoscafini col fuoribordo.

Caronte ci chiede, una cima. Gliela butto e la porta a remi in banchina. Dai pescherecci qualcuno ci saluta sorridendo. Altri scambiano, frasi cantilenate con la nostra guida che intanto, ci sta tirando in banchina a forza di braccia. Caronte si interrompe, risponde e poi molla la cima e torna ai remi. Ci fa segno, di spostarci, ci grida che "è più megghiu di là" e ci tira di nuovo in banchina in un altro punto.

Un motoscafino ci volteggia intorno e un signore ci saluta con un cenno della mano poi attracca e va a dare una mano al pescatore. Butto l'ancora e vengo tirato con la poppa a sfiorare la pietra piatta della banchina. Salto a terra pieno di gratitudine. La prima mano che trovo da stringere quella del signore col motoscafo:

- Grazie. Grazie infinite. Mi chiamo Gastaldi. –

- E io Castaldi. –

Scoppiamo a ridere per la buffa coincidenza. Fatto e' che io ho comunque una gran voglia di ridere perché saltello su solida roccia e per un momento, un momento solo in quella lunga mattina, avevo perso la speranza di poterlo ancora fare.

Vorrei dare due biglietti da mille a Caronte ma quello gia si sta allontanando facendo forza sui remi. Lo chiamo e mi dice che non vuole niente, che quello, non è il suo mestiere perché fa il pescatore. L'ha fatto solo per favorirci. Metto via il denaro con un senso di vergogna. Purtroppo vengo da un posto dove i favori si pagano. Tutto l'equipaggio salta in banchina. Sgambetta felice. Siamo stanchi e abbiamo fame. Sono ormai le 12.30. Guardo la barca così spalancata e piena di cose: l’idea di dover mettere via tutto e chiudere mi sembra spaventosamente faticosa adesso.

- Potete lasciare tutto così - mi previene Castaldi -Qui non tocca niente nessuno. –

E per incoraggiarmi mi indica il suo motoscafo che ha lasciato, ormeggiato di prua, pieno di mute, pinne e fucili. Nell'aria c'è una nenia araba e il profumo di pesce arrosto. L'acqua del porto é limpidissima e ha favolosi riflessi smeraldini la dove lambisce la lunga spiaggia rosata di corallo. L'erta montagna sembra una gigantesca sentinella verde e ocra tesa nel blu perfetto del cielo. Vuoi vedere che valeva la pena di sbagliare la rotta?

Il gentilissimo signor Castaldi ci scorta nel deposito frigorifero del pesce poco oltre il piccolo ristorante che sorge alla radice del molo per scegliere il pesce che vogliamo mangiare. La scelta cade su un gigantesco dentice e mezz'ora dopo siamo da Marannina. Gloriosa insalata preparata dalla signora Marannina e favoloso dentice arrosto. Vino bianco secco locale buonissimo.

Ci guardiamo in faccia tutti e quattro. La Sgnuffi dondola su quelle acque di smeraldo, la schiuma dolce del mare bacia la linea rosa della spiaggia proprio davanti al terrazzo ombroso su cui stiamo mangiando. Qualcosa si scioglie dentro di noi: l’esame è finito. Nonostante tutto é finito bene. Adesso siamo proprio in crociera di piacere. Il primo proposito è quello di fermarsi "per un po' " e goderci l’angolo di paradiso su cui ci ha spinto il Fato.

La signora Marannina ci presenta un conto di diecimila lire. Non caro per Roma, ma mi sembra caro per l’angolo di paradiso. In ogni modo pago e il secondo proposito è quello di riprendere a cucinare in barca. Le scorte in denaro stanno calando perché adesso bisognerà fare aggiustare il tubicino del motore e rifare il pieno di nafta. L'angolo di paradiso non ha distributori al porto. Bisogna attraversare il paese e poi sciropparsi un chilometrone assolato lungo una bella strada asfaltata che serve da zona riposo ad alcuni buoi: ognuno davanti la propria casa, proprio come vecchie signore. La strada ha un nome ma qui tutti la chiamano la strada delle vacche. Tiriamo i piedi in qualche modo fino al distributore per sentirci dire che quello dell'Agip é chiuso e che quello dell’Esso il gasolio ce l’ha però dobbiamo andare a prendercelo con le taniche. Non ci resta che trascinare gli stanchi piedi all'ombra di un bar e succhiarci una favolosa granita di limone.

La Sgnuffi dai fianchi ben torniti non passa inosservata e ho paura che siano più le sue grazie che l’innato senso di ospitalità dei siciliani a renderci tutto così facile e piacevole: un appuntato dei carabinieri si dà da fare e ci trova un meccanico per il motore, un biondo Titta offre auto e taniche per il fabbisogno gasolio. Faccio il pieno. Il meccanico viene, guarda il tubicino di nylon e lo sfila. Lo taglia oltre il punto in cui si è bucato e lo ricollega al motore. Al mio stupore sorride: quello è il tubo di riflusso del carburante non bruciato, lo fanno più lungo del necessario perché man mano che si fora lo si può semplicemente scorciare. E io che pensavo fosse un guasto grave! Sotto l’occhio vigile dell'appuntato il meccanico rifiuta ogni compenso. Riesco solo a fargli bere una birra.

Intorno a noi i pescatori cantano e rammendano reti. Uno viene ad offrirci una granceola che lui chiama rancio fellone ma poiché la granceola é ancora viva, la Sgnuffi dal cuore tenero impetra per la sua libertà. Tutti ci colmano di attenzioni. E’ ben certo che non e' ancora arrivato il turismo di massa. Decliniamo inviti a cena e apriamo la Simmenthalmente buona.

Più tardi passiamo davanti a Marannina per andare a prenderci un'altra di quelle squisite granite al limone e la simpatica donna ci chiama stupita: come mai non siamo andati a mangiare? Sorrido alla buona donna: se io potessi permettermi diecimila lire di pranzo a mezzogiorno e altre diecimila la sera probabilmente sarei uno dei tanti stupidi stesi sulla Costa Azzurra o similia. Stavolta lo stupore e' tutto tondo sul volto di Marannina che esclama:

- Ah, ma io ho visto, che siete arrivati con la barca e allora... Ma perché non me l’avete detto? Domani venite, venite che per il prezzo si aggiusta! – Viva il candore, Marannina! Il giorno dopo, pranzo luculliano dall'antipasto di mare alla frutta siciliana per seimila lire. Grazie Marannina!

S. Vito é un piccolo centro e si diventa subito amici della gente. Ci invitano di qua e di la', ci portano a visitare i bellissimi dintorni. Dall'alto del monte si gode un panorama da favola. La Sgnuffi comincia ad avanzare l’idea di comprare un pezzo di terra. Sento che é ora di riprendere il mare. Anzi enuncerei la SECONDA REGOLA: quando il secondo il contadino ammira, molla la cima e l’ancora ritira. Butto sul tappeto l’idea di partire ma sollevo un coro di protesta: é così bello, qui! Domani, dopodomani forse, un giorno o l’altro...

Tanto, vale infilare maschera e pinne e fare una pescata. Fondali bellissimi, un testone gigantesco di pesce spada a mezz'acqua su una secchetta a testimoniarmi irridente quello che contiene quel mare. Fondali stupendamente fioriti e pescetti. Sembra che ci sia una secca favolosa fuori la punta del capo. Ci provo a nuoto memore delle mie spinnate, della madonna. Ma c'é una corrente tremenda. Dopo un paio d'ore di lotta mi lascio portare a riva.

Sono sei giorni che siamo fermi in porto, Le amicizie sono più strette. La cucina di Marannina sempre più succulenta. I corteggiatori della Sgnuffi sempre più insistenti. Il secondo dopo Dio stabilisce d'autorità: domani si parte! Ascolto, con cuore di pietra le proteste dell'equipaggio: non mi lascio commuovere dalla promessa di un risotto speciale per l'indomani preparato, con sette qualità di frutti di mare offerto da Marannina, resto insensibile alla squisita cortesia dei pescatori che rientrano, all'alba a motori spend spingendo su giganteschi remi per non svegliarci, faccio orecchie da mercante all'offerta di vini liquorosi gustabili in un paesino vicino, resisto perfino alla prospettiva di una pescata per domenica prossima in compagnia di un esperto che deve arrivare da Palermo. Domani si parte!

Il mattino si presenta nuvoloso. Un po' di scirocco spira nel porto. L'equipaggio scruta il cattivo presagio meteo: bisogna certamente rimandare. Mollo le cime e tiro su l'ancora. C'é muso a bordo. Ho tirato, sulla carta una rotta che attraversa il golfo puntando su Terrasini, ma i péscatori sconsigliano: con lo scirocco meglio non provarci. Se proprio vogliamo partire meglio tenerci sotto costa e puntare, su Castellamare del Golfo. Accetto, il consiglio: sento che l'importante é partire per non fare la fine di Ulisse con Calypso. Alla rovescia naturalmente, perché Calypso me la porto via con me e gli "ulisse" li lascio a terra. Metto in moto. I pescatori si raccolgono sulla prua delle barche per l'ultimo saluto. Una voce ci raggiunge andando contro lo scirocco che sta rinforzando:

- Che Iddio vi protegga! -

 E’una benedizione, gente, ma gridata da un pescatore proprio mentre state uscendo da un porto col vento che rinforza ha uno strano suono. Ma il mare è appena increspato e Castellamare è a quindici miglia. Che può mai succederci?

Succede che dopo un'ora e mezza di navigazione tranquilla lo scirocco si mette a soffiare deciso. Giù la randa! Mare di prua ripido e improvviso. Eppure qui lo scirocco é vento di terra. Ma lui sembra non badarci e vien giù dalla costa come se avesse preso lo slancio su mille miglia di mare aperto. La Sgnuffi sbatte sull'onda con cupi rimbombi mentre gli schizzi si alzano verso le crocette. Nel cielo corrono, nuvoloni bassi velocissimi che spuntano da dietro la dentata sagoma della costa. Col. binocolo inquadro in fondo al golfo un abitato, rannicchiato in una piega di un monte. C'è una specie di castello sul mare: Castellamare del Golfo. Da qui sembra che sia partita Cosa Nostra alla conquista dell'America. Rabbuffato dalla polvere dello scirocco sembra un paesino senza pretese.

Entriamo, nel porto accolti da folate fortissime che ci portano nuvole di sabbia a bordo. Sotto il castello c'é un mo letto, uno più grande ripara uno specchio d'acqua alla dritta. Giganteschi pescherecci sono ormeggiati a grandi gavitelli. Ormeggiati alla ruota e ora hanno la prua rivolta contro il paese. Molo e terrapieno sono deserti. Manovro avanzando e sorpasso alcuni gavitelli cercandone uno libero. Ma il cattivo tempo deve aver bloccato agli ormeggi tutta la flotta. Scorgo un omino che cerca di camminare contro vento, tenendosi il cappello calcato in testa con una mano e comincio ad urlare cercando di avere consiglio. L'omino si ferma, mi guarda, poi mi fa grandi cenni che interpreto come l'indicazione di andare con la poppa in banchina in quel punto. Butto l'ancora e tento la marcia indietro ma così facendo offro il fianco allo scirocco, che vince la mia elica e mi traversa. Tento rabbiosamente di tornare in rotta ma di nuovo la vince il vento. Decido di aspettare l'attimo, tra una raffica e l'altra e poi parto: bruuuum! La Sgnuffi indietreggia, sparata ma a dieci metri dalla banchina la catena dell'ancora va in tensione e mi blocca. Urlo:

- La catena! Molla tutttooo! -  Ma il secondo, capelli schioccanti al vento come una bandiera, mi grida che la catena é tutta fuori. Cinquanta metri di catena, eppure mi sembra di non averne coperti più di trenta all'indietro. L'omino urla di dare catena. Intanto, la Sgnuffi si traversa di nuovo per una nuova incredibile raffica che mi riempie la bocca di terra. Sembra di essere nel Sahara.

Urlo all'omino di non avere altra catena e mi accingo a salpare l'ancora per ripetere la manovra. Marcia in avanti. La Sgnuffi si muove ma ecco che un gigantesco peschereccio sta ruotando e come un iceberg si sta lentamente avvicinando. Metto timone e fuggo come posso. D'un tratto la Sgnuffi si blocca. Sgasso tutto, l'elica schiumeggia a poppa ma la barca non si muove di un metro. Sembra inchiodata. Un incubo! Che cosa può trattenere la mia barca mentre la grossolana cupa massa del peschereccio la sta per urtare? Chiamo il secondo che si precipita spaccandosi l'alluce sul diabolico bordo d'ingresso e abbranca la ruota con un ululato che fa concorrenza alla voce del vento. Costantino a prua si arma coraggiosamente del mezzo marinaio e si mette in posizione di lancia in testa in attesa dello scontro col gigante. Mi grida:

 - Lo fermo io il pescheregio! -

Salto anch'io a prua: la catena è in trazione! Qualcosa ha bloccato la catena sul fondo! Non abbiamo più libertà di manovra! La Sgnuffi dall'alluce gonfio accelera rabbiosamente: ma è inutile, la salda catena da otto millimetri ci blocca quasi a perpendicolo sul fondo. Bisognerebbe filare per occhio: che poi vuol dire tagliare la corda, mollare l'ancora e scappare. Ma non c'é tempo anche perché gli intelligentoni del cantiere hanno bloccato la catena intrecciandola su se stessa a gomitolo e fermandola poi con del fil di ferro, e io ancora più intelligentone di loro non ho sciolto questo folle nodo che adesso mi costringe ad aspettare l'impatto col mostro. La grande prua di legno del peschereccio gia mi sovrasta. Pianto il mezzo marinaio della pancia del mostro e spingo con tutte le mie forze: assolutamente ridicolo combattere la forza del vento che preme sull'altra fiancata. Anche il povero Costantino gonfia i suoi muscoli e il suo sforzo non é dopotutto più ridicolo del mio. Lentamente il peschereccio, urta la povera Sgnuffi. Un impatto ingannevolmente dolce, senza peso ma con tutta la massa del mostro. Acqua scende nelle mie vene, un senso di rassegnazione: adesso si schianta tutto e domani si piglia il treno. La battagliola anticorodal tubolare della Sgnuffi è la prima a sostenere la schiacciata e si piega mollemente verso l'interno come se fosse fatta di vischiosa pasta da torrone, poi il bottaccio urta sul fianco del peschereccio. Data la svasatura del peschereccio il suo bottaccio é alto sulla mia testa. La mia povera barca frena l'urto, la catena si tende con un agghiacciante suono nella cubia. Poi tutto si ferma. Attimi atroci. la la Sgnuffi. Lentamente il peschereccio scapola la Sgnuffi.L'alta prua scorre sulla barca,sfiora i paterazzi senza toccarli e infine continua il suo giro spinta dal vento. Anche la Sgnuffi ruota sulla catena ma con diverso vettore, dovuto probabilmente alla diversa massa e al diverso braccio di rotazione che la catena le consente. Controllo la battagliola: i candelieri hanno una lieve inclinazione verso l'interno del passavanti ma i supporti sono .sempre perfettamente fissi: che collaudo! Questo sI che é stato un lavoro fatto bene. Adesso sono sicuro che quei candelieri reggeranno l'urto di qualsiasi tempesta.

La danza dei mostri continua. Adesso é il peschereccio di dritta che sembra volerci investire. Ruota pigro verso di noi, ci arriva con la poppa e quaranta centimetri dalla prua. E riprende la danza con quello di sinistra: ci sfascerà sadicamente un po' alla volta. Piombo sotto coperta e mi blocco con le mani tese verso lo sportello che dà accesso al gavone della catena: l'hanno avvitato! L'hanno avvitato! Amarilli urla qualcosa. Mi affaccio e vedo trascorrere quell'infame legnaccio da pesca a venti centimetri dalla battagliola. Stavolta il gioco del vento ci é stato benigno. L'omino assiste solitario,da terra alla nostra battaglia. Urla di tanto in tanto di recuperare I'ancora. Trovo il tempo per gridargli che I'ancora non viene più su, che siamo bloccati. Fa un gesto di disperazione e capto il senso di una frase dialettale: se la catena é finita sotto uno dei corpi morti ci vorrà un palombaro per liberarla!

Un palombaro? Muta, pinne e maschera e giù nell'acqua torbida ma non troppo, del porto. Altro che corpo morto! La catena dell'ancora é avvolta intorno ad una formazione rocciosa del fondo. Una strana formazione a forma di fungo. La catena ci gira sotto, incastrata nelle crepe per due volte. L'ancora giace libera e tranquilla ad una quindicina di metri. Il fondale e' di una diecina di metri. La sommozzata già impegnativa quando, si debbano, fare sforzi sul fondo. Mi faccio scoppiare i polmoni ma non ce la faccio a liberare la catena da quell'abbraccio. Mi devo dare per vinto. Per fortuna anche il vento comincia a dar segni di stanchezza e le nuvole di sabbia cominciano a depositarsi.

Si avvicina una barca con due uomini ai remi. Spiego con parole mozze dall'affanno la situazione: se mi danno una cima e dell'aiuto forse ce la faccio. Sono venuti apposta e hanno una bella cima. Ritorno sul fondo, con la cima e la lego al primo giro, della catena. Riemergo e dico di issare: i due tirano e io mi rituffo. L'abbraccio si sta allentando. Dura più di un'ora il mio su e giù prima di liberare la barca. Quando finalmente l'ancora é libera i due dalla barca mi consigliano di attaccarmi ad un gavitello, anche se & c'é un peschereccio ruoteremo insieme e senza danni.

Quattromila lire per I'aiuto e torno a bordo deciso a seguire il loro consiglio e magari imbragarmi fianco a fianco al peschereccio in modo da essere ben sicuro di ruotare insieme, ma il vento si é fatto brezzolina e forse basta agganciarsi al gavitello. Così sono quasi le 15.30 quando a bordo del pram atterriamo sulla spiaggetta del paese.

Come S. Vito si presenta accogliente, Castellamare ha l'aria chiusa, diffidente. Le prime case, scrostate dal mare, ricordano antichi depositi. Grandi porte di legno marcio sbarrate. Una saracinesca arrugginita chiusa. Forse è l'ora e il brutto tempo a dare alle cose quest'aria lugubre. Non c'e' nessuno sulla spiaggia che é attraversata da un rigagnolo maleodorante. Taniche in pugno inizio la salita al paese con il codazzo dell'equipaggio dopo aver vinto la paura di lasciare il pram incustodito. Dopo duecento metri, il primo bar. Bar, drogheria, spaccio tutto in una cosa; ma che ha acqua minerale, gelati per i pargoli e sopratutto il figlio della padrona ha un distributore di gasolio. Come sto imparando essere buona abitudine, il distributore non solo non è mai al porto ma è sempre nell'entroterra oltre l'abitato. Vocazione marinara degli italiani. La signora scorge il mio sguardo disperato e telefona al figlio: verrà lui con la vespa a prendere e a riportare le taniche piene. Grato, stanco, e stressato, mi abbiocco su una cassa e mi scolo una aranciata. 

Cena a bordo e notte più o meno insonne nel terrore del vento e della ripresa del ballo coi peschereccioni sempre in dolce movimento intorno a noi.

Di buon mattino, senza rimpianto da parte di nessuno, lasciamo, il porto, di Castellamare e facciamo rotta su Terrasini. Altre quindici miglia, ma stavolta senza patemi. C'é un venticello appena teso da est che increspa il mare. La buriana di ieri sembra lontanissima.

Anche l'arrivo a Terrasini pone il solito, problema di riconoscimento del porto, ma dato il bel tempo e l'arrivo parallelo alla costa la cosa non solleva problemi. Discorso diverso dentro al porto. Anche qui c'é un gran molo di sopra- flutto non ancora terminato che si tende nel mare per qualche centinaio di metri ma, quello di sottoflutto é rimasto, molto più indietro e così non chiude lo specchio acqueo che anzi é ben mosso per il levantino che lo infila in pieno. Come Castellarnare appariva deserta, Terrasini ci appare affollata: un carnaio. Il molo di sopraflutto ha un paio di strati di pescatori con la canna, la spiaggia in fondo, é assolutamente invisibile perché nascosta dai corpi dei bagnanti. Ciurme di bambini schiamazzano sulla riva.

-Tutto a dritta c'e' il porto vecchio ma una draga ferma campeggia proprio nel mezzo della piccola imboccatura. Dentro il porto, una ventina di pescherecci ormeggiati appiccicati gli uni agli altri. Un notevole odore di merda stagna sulle cose.

Avvio la Sgnuffi un centimetro alla volta verso l'imbocco, tra, draga e sopraflutto: saranno cinque metri d'acqua al massimo di larghezza e l'ecoscandaglio urla due metri sotto la chiglia, due metri che stanno tragicamente calando. Qualcuno dal molo si sbraccia. Metto in folle ed esco in coperta:

- Lì va in secca! Si attacchi la al corpo morto! Laggiù in rada! Quel corpo morto é mio e regge barche da trenta tonnellate!-

Guardo il gavitello che ballonzola sull'onda all'imbocco di quella che per ora é una specie di rada, all'altezza dell'estremità del sopraflutto. Sono molto incerto: la si balla, é evidente. Sarà dura passarci la notte. Ma quello insiste e penso che tutto sommato valga la pena di fare come dice. Poi scenderò a terra col pram e vedrò come sistemarmi per la notte. Marcia indietro per levarci dal budello e poi manovra a "U" verso il gavitello. La Sgnuffi polposa si sdraia sulla prua e aggancia con mano sapiente l'occhiello del gavitello ma poi devo correre io a tirare altrimenti la deriva le stacca le braccia. Cima per doppino nell'anello, cos! sarà più facile liberarci e poi a terra. Il canotto si arena di prua tra le gambe grassocce di un signore intento a sgranocchiarsi una pizzetta di cinquanta centimetri di diametro. Sotto ombrelloni, teloni stesi, ombrelli da pioggia tutta l'umanità si é data appuntamento per un banchetto al sacco, anzi alla carta oleata. Quelle belle cartacce unte dei tempi della mia giovinezza, qui imperano come raramente ho visto. Lasagne, fritture, pentole gigantesche di zuppe di pesce, fornelli da campo, vino, birra, canditi, donne intrippite e gloriosamente giunoniche, uomini sorridenti in atteggiamenti sultaneschi, nugoli di bambini schiamazzanti con palette, palloni, cerchietti. E su tutto, assolutamente puro, l'odore di merda. Due bambini di due o tre anni decidono immediatamente che lo scopo della loro breve vita è quello di riempire il canotto di buona sabbia sicula e ci si mettono con rabbioso impegno invano brutalmente contrastati da Costantino e da Amarilli, mentre la tornitella Sgnuffi gira uno sguardo smarrito alla ricerca di qualche centimetro di spazio per posare le sue par.ti migliori. Anch'io non mi raccapezzo: da dove arriva tutta quella gente? Non certo dalle poche case che sorgono alte, sul ciglio della scarpata del porto vecchio. La spiegazione ci viene data col gelato al bar della spiaggia: é domenica. E’ gente di Palermo. Ormai Mondello è troppo affollata e così vengono fino a Terrasini. Il cameriere lo dice serio e con un vago orgoglio paesano. Lascio, l'equipaggio a difendere il pram e tento, di fare il giro della spiaggia per arrivare al molo del porto, vecchio. La sabbia finisce in un melmoso acquitrino, anche questo in- vaso da, tende e ombrelli piantati sugli isolotti più asciutti. Qui adesso l'odore di merda é al culmine dell'essenza.

Analizzo I'acquitrino e ne cerco la causa. Uno sconosciuto terrasinese tira lo sciacquone del suo cesso in una qualche casa del paese ed ecco piombare per gravita lungo la scarpata il distillate, prodotto dei suoi lombi. Vedere per credere: fogna a caduta libera. Liquidi e liquami immelmiscono mille metri quadri di florida erba, perfettamente felice, come i fognanti sotto gli ombrelloni, e poi scolano lenti e solenni nel porto vecchio. Per un curioso gioco di correnti quello che entra nel porto vecchio sembra non poter più uscire. Sono certo che a scavarne il fondo si potrebbe trovare la merda di Polifemo. Anche qui I'acqua ha riflessi smeraldini, però senza trasparenza. Quel verde smeraldo denso delle cose organiche in disfacimento. Saltello nella palude come un ibis e raggiungo il moletto deciso ancora a cercare ormeggio. Non c'é posto. Qualche marinaio aspira con voluttà il profumo di casa e mangia pane e alici. Incontro il proprietario del gavitello che mi sorride:

 - Meglio non venire qui dentro. Ho visto, dei bambini a bordo. - Perfetto, da segnalare all'Istituto, Idrografico della Marina: Terrasini, porticciolo vietato ai minori.

- Grazie davvero - adesso capisco. Però li si balla tremendamente. 

Il mio interlocutore guarda la Sgnuffi che sballottola e scalpita come un cavallo da rodeo tenuto per la cavezza e si stringe nelle spalle:

- Vento di bel tempo gli é. Prima di notte spiana. -

Riattraverso la fumigante palude e trovo ll'equipaggio di- sperato, il pram pieno di sabbia e di croste di frittata. In coro unanime mi supplicano di ricondurli a bordo.

Obbedisco, e dopo pochi minuti li lascio, aggrappati ai tientibene nel folle ballo della Sgnuffi che alternativamente si traversa all'onda e poi le gira la prua, strattona e si traversa di nuovo. Il levante di bel tempo sembra ancora più fresco e qua e là si levano spumine candide sulle guglie liquide del mare. 

Decido di fare una sommozzata sul lato esterno del sopraflutto. Attraverso lo specchio d'acqua a mio rischio e pericolo sia per i motorini che per i miliardi di cocchi che devono pur esserci là a mollo anche se l'acqua é appena torbida. Ho in pugno,il mio nuovo fucile Drago comprato a Roma alla Casa del Pescatore e che ancora non ha sparato un colpo. Come mi affaccio, sulla frana esterna del sopraflutto sgrano gli occhi dentro la maschera: spigolone pascolano in gregge, saraghi aquiloneggiano dentro e fuori le caverne lasciate dai massi e dai sassi buttati alla rinfusa. Una sommozzata dentro un passaggio e pam! centro un gran sarago pizzuto di almeno due chili. L'asta lo passa da parte a parte, urta contro un sasso e si sfila di prepotenza rimbalzandomi indietro. Il sarago trapassato va a trapassare da qualche altra parte con un guizzo. Guardo l'arpone: da buttare, ottimo ormai come cavatappi. Per fortuna, ne ho portato un altro nella manica, della muta. Butto il vecchio e innesto il nuovo. C'é troppa potenza nel fucile e mi viene in mente, che il bravo Mario me l'ha caricato col compressore: deve aver sbagliato il conto delle atmosfere. Seconda sommozzata e pam! una spigolona da tre chili. All'ultimo momento ho cercato di colpirla in modo che l'arpone dietro al pesce non trovasse roccia e così non trova nemmeno il pesce e va a schiantarsi due metri più in la strappandomi quasi di mano il fucile. Fine del secondo arpone e della pescata a Terrasini. Decisamente le acque sicule non mi portano fortuna nella pesca.

La cena a bordo mi ricorda una vecchia comica di Chaplin: basta un piatto per due persone. Una forchettata io e poi la barca pensa a far scivolare il piatto davanti alla Sgnuffi che mi siede di fronte, una cucchiaiata a lei e il piatto torna indietro. Decido di calare un'ancora di poppa per costringere la barca a tenere la prua al mare. Carico la CQR sul canotto e poi una gran remata per buttarla appena sopravento. Adesso comincia ad andar meglio ma il vento di bel tempo soffierà uguale per tutta la notte così anche da Terrasini nessuno lamenta la precoce partenza. Penso con un brivido di orrore che se avessi dato ascolto al Portolano questi sarebbero stati i porti in cui avremmo dovuto riposarci dopo il nostro folle volo da Ponza.

Alle ore Il.00 siamo al traverso di Punta Raisi. Costeggiamo, il famigerato aeroporto chiuso da un'erta montagna. Alle Il.45 siamo al traverso- dell'Isola delle Femmine e alle 13.00, attraversata la baia di Mondello, attracco a Punta Celesi.

Punta Celesi é un club velico un po' snob e ha un moletto attrezzato con acqua in banchina e posso ormeggiare di poppa e mettere la passerella. Il colpo d'occhio sulla baia 'e gradevole, I'accoglienza non festosa ma gentile. Faccio amicizia con il marinaio di un grosso motoryacbt che é subito felice di parlar male del padrone delta barca e stavolta mi sembra con ragione poiché nei giorni seguenti Io vedo attendere invano qualcuno per tutto il giorno e tornare poi la sera al porto di Mondello sull'altro lato delta rada. Così la sua vita estiva: al mattino parte da Mondello e viene a Punta Ce lesi, aspetta fino alle 16.00 e poi, se non si vede nessuno dei proprietari, torna a Mondello. Mi racconta, che quando i proprietari decidono di andare in un posto di mare, non viaggiano sulla barca ma con I'aereo, o if treno o I'aliscafo e gli ordinano semplicemente di seguirli con la barca e poi attendere da qualche parte. Raramente salgono a bordo e se Io fanno é per prendere il sole. Tutto questo con sedici metri di barca e 2000 HP di diesel. Un supermaterassino, insomma.

Mondello è sempre affollato data la vicinanza con Palermo. Non c'e' più niente di interessante per degli esploratori come noi: solo gelati da mille lire a coppa, vigili, traffico, caos come a Roma.Le solite taniche vanno, a farsi riempire al più vicino distributore a un paio di chilometri dal club che d'altra parte è velico.

Amarilli e Costantino però si divertono, l'acqua è pulita e ci si tuffa dalla barca. Ci sono altri ragazzi, legano. Raccontiamo le nostre disavventure all'annoiato marinaio in eterna attesa dei padroni e lui ci propone di presentarci un ingegnere per fare finalmente i famosi giri bussola. E così che l'indomani facciamo conoscenza col simpatico Mimmo Carcò. Andiamo ad ancorarci davanti al porto di Mondello e cominciamo a trafficare con le due ancore e un corpo morto. Mimmo piazza la sua attrezzatura di rilevamento e l'equipaggio si disloca intorno alle due bussole per leggere le indicazioni al momento dello stop;

Va tutto bene per i punti cardinali perché non c'é vento e la manovra é facile. Gli errori bussola sono clamorosi e difficilmente azzerabili. La curva di deviazione saré sinuos'a. Ma per i quadrantali le cose si complicano perché si leva il vento. Le cime spelano le mani e Mimmo tira con noi nel tentativo di virare la prua contro il vento. Una sudata che dura fino a pomeriggio inoltrato. Poi si fa conoscenza più stretta davanti ad una bottiglia e a una trancia di pesce spada mentre Mimmo disegna la curva per le due bussole.

- Adesso - mi dice - vai tranquillo. Con le bussole che avevi é strano che non sia finito in Spagna. -

La serata é allegra, Mimmo ci porta a visitare Palermo e poi a mangiare a Mongerbino. Domani si parte e mi tocca nuovamente sentire il coro di proteste tipo S. Vito. E', soprattutto Amarilli  che insiste e si accendono furiose discussioni familiari sui meriti delle spiagge solitarie e su quelli delle spiagge alla moda.

Da Mondello a Cefalù sono trentacinque miglia. Voglio riprendere il vecchio programma che dopo Ustica  prevedeva le Eolie  e Cefalù mi sembra il punto più logico della costa per poi attraversare verso le Eolie.

Partiti alle 09.00 da Mondello, alle 14.45 siamo davanti all'imponente abitato di Cefalù. Sfoglio il Portolano: parla di due porti, uno vecchio e uno in costruzione. Io come al solito non vedo né l'uno né l'altro. Mi avvicino lentamente al paese costeggiando una lunga bella spiaggia punteggiata di bagnanti. Intravedo qualcosa che potrebbe essere un porto anche se, assomiglia maggiormente ad un imbarcadero. All'unico moletto lungo cinquanta metri sono ormeggiati due o tre barcarozzi.

E' un posticino,angusto angusto che mi sembra di scarso affidamento aperto quasi completamente a ponente. Decido di cercare il porto nuovo. Costeggio il dirupo procedendo verso est ma dopo un quarto d'ora non vedo altro che scogli e poi un mezzo sopraflutto in costruzione oltre il quale non mi pare di scorgere né alberi ne' picchi. Forse stavolta ha ragione il Portolano che consiglia il porto vecchio. Manovra ad "U " e torno a quello che continua a sembrarmi un imbarcadero. Per manovrarci dentro, devo buttare l'ancora a due metri da una secchetta di scogli e poi arrivo con la poppa, in banchina. Come la barca si ferma una dozzina di ragazzini scatenati saltano a bordo come cavallette. Non conoscendo gli usi locali cerco di  sopportare stoicamente. Un ragazzo dalla banchina mi consiglia di andare nel porto nuovo, qui c'e' traversia. Sospiro: il porto nuovo com'è? Il giovane mi assicura che é ampio, ben ridossato e quasi terminato. Le barche da diporto, van tutte là. Okay. Mollo le cime, accendo il motore, scarico i ragazzini e incarico la Sgnuffi di salpare l'ancora con l'estenuante manovra al verricello. L'abbronzato e godibile secondo si da da fare senza protestare e la barca, tirata dalla catena scivola verso gli scogli. Io domino la situazione con una mano sulla leva del gas pronto ad innestare l'elica. Quando la prua e' a un metro dalla secca, innesto, la marcia indietro e dò un po' di gas. Il motore sale allegramente di giri e la Sgnuffi continua ad avvicinare la candida prua ai neri scogli affioranti. Un attimo di panico. Sgasso ancora e il motore urla tutta la sua potenza ma 1'elica non risponde. Gli scogli neri adesso sono a due spanne. Schizzo fuori, insensibile all'urto inevitabile dell'alluce sul bordo maledetto, e strillo ai ragazzini di prendere la cima che sto affannosamente raccogliendo per darle la più lunga gittata possibile. I ragazzini capiscono al volo il mio dramma e si tuffano addirittura. Butto, la cima la acchiappano e tirano nuotando tutti insieme. La prua sfiora gli scogli e si ritira.

Lentamente la Sgnuffi viene nuovamente tirata con la poppa in banchina. Smonto il telecomando. Tutto, sembra a posto. Alzo i paglioli del pozzetto: la linea d'asse dell'elica si e' sfilata dall'invertitore riduttore e ne dista una bella spanna! Non ha potuto, sfilarsi del tutto sparendo in mare con I'elica e lasciandomi un bel buco, in pancia perché l'elica si e' incastrata nella pala del timone che si e' trovato, di fronte. Stavolta il guaio sembra proprio serio. Altro che tubicino, di riflusso! Per l'ennesima volta la brava Sgnuffi si é rotta dentro ad un porto! Si rompe, si rompe, ma non ci lascia in pericolo.

Mentre alcuni ragazzini si impossessano del pram e del; motorino per giocare (come dir loro di no dopo l'opera di salvataggio?), Carmelo va a chiamare un meccanico. Carmelo é un giovanotto che fissa affascinato la Sgnuffi (ma non la barca, che scoperta, il secondo!) dal momento, che siamo arrivati. Il meccanico arriva e si infila a testa in giù. La rialza pallido: può aggiustare la cosa ma non la che si balla. Bisognerà farci rimorchiare nel porto nuovo che é più ridossato. Poi sarà un lavoro di qualche ora. Questo sarà il secondo rimorchio per la Sgnuffi (quella in vetroresina, chiaro!) dopo quello offertole da Alfredo.

Carmelo ci dice di aspettare suo padre che deve tornare con la paranza e infatti di h a poco, reggendo il timone come un re lo scettro, un. uomo con bella linea di pancia guida. nel porto una paranza fresca di vernice.Il rimorchio é complicato dal fatto che la Sgnuffi non governa totalmente perché l'elica. incastrandosi nel timone lo ha bloccato.Ma la bravura del re della paranza é pari alla presenza e con un ultimo strappone ci manda a smorire dolcemente a pochi centimetri dalla banchina ampia e ben ridossata del grande porto in costruzione.Tutto sorriso sotto la coppola, gonfiando ancora di più la pancia, il re della paranza mi grida:

- Che ne dice della manovra, capetano? - Che ne devo dire? Un capolavoro.

- Sempre addisposizione, capetano!

Premio con diecimila lire padre e figlio, veramente preziosi in questa brutta circostanza e poi arriva il meccanico che comincia a smartellare sotto pagliolo. Alza la testa, sudato, e chiede:

- Chi gliel'ha fatto l’allineamento? -

Sospiro. Credo siano stati i miei amici artisti toscani. Smartella un'altra mezz'ora, poi vuole una punta da sette del trapano da usare come chiavetta di fissaggio. Ho i miei dubbi sulla riparazione così artigianale ma il meccanico cefaluese mi assicura che posso dormire sonni tranquilli. Adesso basta mettere l’olio nell'invertitore che si é vuotato. Sfoglio il libretto istruzioni datomi insieme al motore AIFO Fiat 804-M. Si deve mettere olio in tre o quattro posti ma di olio per l'invertitore non parla assolutamente. E io che mi sono attenuto scrupolosamente alle istruzioni del libretto!

Due mesi dopo dovrò convincere l’incredulo ing. Violani della filiale di Roma che sfoglierà davanti a me lo stesso libretto dovendo poi convenire che si tratta di una marchiana mancanza. Evidentemente fino ad oggi le decine di migliaia di motori AIFO vendute per barche sono finite tutte in mani espertissime, di gente che ben sapeva che bisogna cambiare l’olio al riduttore invertitore anche senza leggere i libretti! Sono il primo ignorante a cui l’AIFO vende un diesel. Pazienza, meglio, primo che ultimo. Versato un etto di olio idraulico speciale nel riduttore posso provare. Metto in moto e l’elica gira. Tutto sembra a posto. Ringrazio e pago la ventimila.

Le riserve di denaro liquido sono quasi arrivate al cuoio del portafogli, ma Cefalù è bella e bisogna sostare un poco. Scarpiniamo fino al paese lungo il paio di polverosi chilometri di tracciato stradale che ci separa dall'abitato, aggravati, con borse piene di bottiglie, vuote di acqua minerale e angustiati dal pensiero del ritorno quando le dette bottiglie saranno piene. Cefalù non é un paese ma una cittadina e c'é tanto di comizio nella piazza davanti alla cattedrale normanna: un pittoresco oratore accusa misteriosi personaggi di misteriosi maneggi: politica strettamente interna che coinvolge la giunta, il sindaco e l’eventualità, mi pare di capire, di una gestione commissariale. Il tono del discorso non mi sembra nuovo e a fianco del miniduce c'é una miniclaretta che poi declama giulivi versi propri: politica sempre più interna ma per me straniero, divertente.

Cefalù é bella ma noi siamo stanchi e carichi come muli con l'equipaggio che si lamenta per la soma riprendiamo la via del ritorno. E già buio e in barca troviamo un ospite. Avevamo lasciato una cassetta di pere in pozzetto e il nostro ospite se le sta sbafando in velocità rigirandosele una dopo l'altra con le deliziose zampine. L'urlo di Amarilli che ha attraversato per prima la passerella disturba il grassoccio ospite che squittendo sceglie una poco onorevole fuga dopo aver zigzagato pazzamente nel pozzetto. La Sgnuffi smentisce categoricamente che sia il topino di Civitavecchia dell'anno scorso cresciuto e ingrassato con le provviste di bordo. Questo é un signor topo con tanto di coppola. In fondo, é buon segno: topi a bordo, nessun pericolo di naufragio. Lo sanno tutti che i primi a scappare sono i topi e se viene nelle orecchie dei nostri soloni della nautica una famiglia di sorche tra le attrezzature obbligatorie di salvataggio per la navigazione oltre i tre, metri dalle spiagge non .ce la leva nessuno. Pigramente lasciamo scivolare sulla nostra pelle abbronza- ta due o tre giornate cefaluesi. Facciamo gite col. canotto scoprendo deliziose spiaggette. La pesca sub é per me la solita delusione. Pure qui quelli che sanno pescare, pescano. Pesci e buoi, paesi tuoi. Pescano anche i pazienti appassionati della canna. Pazienti perché Costantino non da tregua: sosta pensoso accanto ai più bravi con la sua cannetta in pugno e comincia dolcemente:

- Che cosa metti per pescare?

Il pescatore sorride alla faccetta paffuta e simpatica del mio prodiere: pasta fatta col pane e un po' di formaggio. L'ingenuo pescatore ributta l'amo in acqua e subito I'amo di Costantino lo segue a due centimetri di distanza. Il pescatore tira su un cefalotto e Costantino tira su l'amo lucido e pulito. Ci pensa un poco mentre il pescatore prepara una pallottolina di impasto e poi:

- La mia pasta si scioglie. - Il pescatore sorride ancora conquistato dalle fossette di quel bambino così serio che ributta l'amo proprio sopra il suo.

- Forse é troppo bagnata. - Il pescatore tira su un altro cefalotto e Costantino tira su l'amo lucido e pulito. Una ruga dritta segna precoce la fronte del mio prodierino pondera a lungo e poi sentenzia:

- Non é troppo bagnata. Guarda. - Il primo sospiro dilata il plesso solare del pescatore che deve toccare con un dito la pasta che si é preparata Costantino.

- Già. Non sembra troppo bagnata. Allora é poco lavorata. - Il pescatore ributta in acqua il suo amo e subito Costantino gli aggroviglia la lenza con la sua. Il secondo sospiro del pescatore é più profondo, ma i cefaluesi sono gentili di natura e gli sorride:

- Perché non butti un po' più in là? – Il pescatore tira su un cefalotto e Costantino l'amo lucido, e pulito. Un amaro sogghigno stira le labbra del mio mozzo formato pocket:

- E’ lì che ci sono i pesci. – Il pescatore guarda Costantino incerto, ma il piccolo assolutamente serio. Allora il pescatore sposta il sedere di un metro: I

- Va bene. Allora prendi tu il mio posto. -

Costantino si siede millimetricamente al posto già scaldato dal bravo pescatore e butta l’amo. Il pescatore tira su un bel cefalotto. Costantino tira su l’amo lucido e pulito e guarda con astio il pescatore:

- Si sono spostati. -

- Chi? –

- I pesci. Adesso sono lì. – E spietatamente il simpatico frugolo si sposta di nuovo addosso al pescatore. Vedo il terminale sensibilissimo della canna del pescatore scosso da un lieve tremito e so che non é la toccata di un pesce ma il primo segnale di aperto nervosismo. Ma il pescatore si comprime ancora e da un buffetto al simpatico pescatorino, proprio la dove verosimilmente vorrebbe colpirlo con uno sganassone:

- Ecco, guarda, prendi un po' della mia pasta. I pesci stanno dappertutto. - Costantino accetta di buon grado l'offerta della pasta ma contesta la risposta:

- Non dappertutto. Dove abito io prima c'erano e adesso non ci sono più. –

- Dove abiti? –

- A Roma. - Il pescatore tira su un cefalotto e Costantino tira su l'amo lucido e pulito.

- Il mare di Roma non ha più pesci? -

- Non il mare, io dico nel parco. C'é una vasca grande grande, prima c'erano i pesci e adesso no. - Il pescatore preferisce tacere mentre Costantino gli butta l’amo sopra il suo.

Nel giro di un'ora Costantino è rimasto padrone della banchina: nessuno gli ha resistito e lui continua a nutrire i cefali del porto buttando in acqua palline di pasta che dovrebbero celare l'infernale trappola dell'amo, che i cefali coscienziosetti lucidano e puliscono con cura prima che il piccolo grande pescatore si decida a tirarlo fuori dall'acqua.

E’ notte fonda e tutti dormiamo il sonno del giusto lasciandoci cullare dal sensuale ancheggiare della Sgnuffi, quando una voce soffiata dalla banchina penetra nelle nebbie del mio cervello di skipper che tiene sempre un lobo sveglio:

- Capetano... - sussurra la voce - Capetano! -

C’é solo uno che mi chiama "capetano" ma quando arrivo in pozzetto l'unico lobo sveglio é ancora sempre quello di prima e tutti gli altri continuano a dormire. E' buio, come il punto più scuro del medioevo. Il cielo é nero come il mare. Spalanco le palpebre, le richiudo: nessuna differenza. Nero dovunque. Ma la voce cortese proviene dalla banchina:

- Capetano, lo tempo é malo... si deve allontanare dalla banchina almeno di una decina di metri...-

Nel buio comincio a individuare la sagoma di una specie di grossa anfora panciuta. Non é un'anfora, é il re della paranza. Lentamente, stiracchiandosi e sbadigliando, mi si sveglia un altro lobo. Biascico qualcosa in risposta, qualcosa che deve provenire dai lobi addormentati perché non me la ricordo. Mi siedo sulla panca del pozzetto e comincio con le dita intorpidite ad allentare le cime alle gallocce con la vaga intenzione di dar cima e allontanare la poppa dalla banchina. La grande anfora in banchina e' immobile. Posso sentirne la perplessità. Sento qualcuno che si muove dietro di me, forse il secondo ha svegliato i suoi lobi e si sta affacciando. L'anfora dice:

- Buonasera. - Io continuo a trafficare con la cima pensando che abbia salutato il mio secondo. L'anfora gira su se stessa e si allontana di un passo ma poi si ferma e si rigira con la parte panciuta verso di me:

- Ma capetano, lei mi capisce quando parlooo? -  Un'occhiata alle mie spalle mi mostra il biancore vuoto del pozzetto in tutta la sua forma: allora quel buonasera era tutto per me.  Mollo metrate di cima e mi affretto a rassicurare il mio gentile interlocutore

- S', sì, certo. Devo allontanarmi dalla banchina perché viene il tempo malo. -  L'anfora sembra rinfrancata:

- Sì, lo tempo é malo. Tra un'ora arriva lo scirocco e qui é pericoloso. Alzato apposta mi sono, per avvertirla, capetano...-

Beh? adesso sono sveglio ma non so proprio che dire. Chi lascia il caldo del letto alle due di notte per andare ad avvertire uno sconosciuto, a due chilometri da casa che " lo tempo é malo? ". Grazie, grazie, grazie. Ma sembra, poco. Proprio poco. L'anfora se ne va dondolando, sui fianchi, ombra maestosa della banchina. Finalmente i lobi del secondo si sono svegliati percé spunta in pozzetto:

 - Lo tempo é malo e qui bisogna prendere, delle precauzioni. - Mollo metrate, anche della seconda cima d'ormeggio e la Sgnuffi subito si allontana dalla banchina tirata dall'ancora a prua. Recupero metrate di catena. E’così buio che è difficile vedere i segni sulla catena. Adesso l'ancoraggio non sarà troppo corto?

Ad una cinquantina di metri dalla prua della Sgnuffi c'é una gran boa circolare. Forse mettendo una cima Ià... Salto sul canotto e prendo la cima più lunga che posseggo. Forza coi remi. Un refolo, caldo, arriva nel porto: ecco lo scirocco! Rema, rema! La cima si snoda, tutta e mi trovo a tre metri dalla boa con la cima della cima in pugno. Porca miseria! Tiro, ma ovviamente l'unico risultato é quello di far partire all'indietro il canotto. Tra l'altro sono in mutande e ho il sedere a mollo nella guazza che si é raccolta sul fondo del pram che non ha paglioli. Rinuncio alla boa e punto sulla poppa di un peschereccio: in fondo anche legata la la Sgnuffi dovrebbe essere sicura. Accosto e lego, poi mi tiro verso la Sgnuffi e risalgo, a bordo con le mutande da cambiare. Teso la cima, adesso sembra a posto.

Via le mutande e dentro al sacco a pelo. I lobi si riaddormentano mentre qualche raffica calda fa vibrate la barca. Ma il lobo, dello skipper continua a rimuginare: quella cima testa nel buio fra la mia barca e il peschereccio non costituirà pericolo grave per qualcuno che creda di poter passare in mezzo?

Il lobo rompicoglioni sveglia di nuovo gli altri e mi ritrovo nudo a prua a meditate. La cima si é allentata e fa una pancia sott'acqua: forse é ancora peggio così. Sicuramente qualcuno, la acchiapperà con l'elica. La teso di nuovo: adesso é a mezzo metro sul pelo dell'acqua: se passa uno con un barchino si trova decapitato e a mollo. Rientro e comincio, a rovistare alla ricerca di una torcia elettrica a lampeggio arancione che avevo comprato e ficcato al suo posto... da qualche parte. Nel gavone sotto la mia cuccetta non c'é. Forse é sotto quelle dei due pipoli che ronfano a prua. I loro lobi sono ancora tutti concordi nel ronfare, e non avvertono alcun senso di responsabilità.

Amarilli la giro a paratia, sollevo il materasso e scoperchio il gavone: ci. vorrebbe la torcia per far luce dentro. Ma é la torcia quello che cerco. Tasto cordami dappertutto. Qui non c'è. Costantino lo metto a pagliolo e sollevo il materasso scoperchiando il gavone: qui c'é la roba sub. E allora c'é anche la torcia sub.  Con quella sarà più facile trovare l'altra. Il tonfo soffocato mi dice che Amarilli si é girata ed ha infilato il sedere nel gavone rimasto spalancato come una botola traditrice.  Ma i lobi tengono duro e anche piegata in due Ia brava Amarilli continua a soffiare il suo sonno regolare. Trovo Ia. torcia sub e Ia accendo: ricomincia Ia ricerca, mentre un refolo caldo alita di nuovo sulla barca. Apro tutti i gavoni, scoperchio lo scoperchiabile, Ia maledetta lampada non si trova. Il secondo mi guarda a lungo. Sudato riemergo dalla sentina e con Ia coda dell'occhio scorgo un riflesso arancione provenire dall'esterno.

- Cos'è? - chiedo rauco. Il secondo sorride compiaciuto:

- Ho pensato che quella cima tesa poteva essere pericolosa e così ho legato a prua una lampada. Sai quella che lampeggia arancione, no? –

So. So e taccio. Una raffica calda passa sul mio corpo sudato mentre a prua controllo, Ia cimetta con cui il dolce secondo ha assicurato Ia lampada che lampeggia sulla cima tesa evidenziandola. Adesso mi sembra di aver pensato a tutto: scirocco, soffia! Rientrano le lampare. Uno spettacolo. Il porto, si accende di bagliori azzurri. Chiazze di luce che scendono fin sul fondo rendendo le barche immagini fatate sospese in qualcosa che non ha limiti precisi.

Scirocco, soffia! Niente. Tutti siamo in attesa del tempo malo. E quello, dispettoso, non viene. L'alba mi trova col lobo sveglio e gli altri sonnecchianti

- Avete ballato questa notte, capetano? - e scruta il cielo, percorso da nuvoloni scuri che si vanno però diradando.

- Eh! - esclamo e poi mi sembra che il mio discorso sia troppo corto e aggiungo. - Un po'! -

- Qui quando soffia lo scirocco si va in banchina, capetano... - e fa con la mano il gesto dell'urto. Non si può deludere uno cosi gentile e dirgli che é stata una notte calma.

Lunedì 16 luglio alle ore 10.10 lasciamo il gran porto di Cefalù puntando verso il mare aperto. E’ la prima volta dopo l'avventura che ci ha condotto in Sicilia. Ma adesso abbiamo le bussole sistemate da Mimmo e le bocche di Vulcano, meta della riga tirata sulla carta, distano solo 5é miglia. Tuttavia c'è un po' di tensione in barca quando sparisce la terra alle nostre spalle e ci troviamo tra cielo e mare.

Dopo un paio d'ore di mare calmo comincia ad alzarsi un vento di NE che alza il mare alla svelta. Colpa del sonno duro, stamattina ho mancato il bollettino, meteo delle 06.24 della RAI e il tentativo di parlare con Palermo radio sorte lo stesso effetto, di quello di parlare a suo, tempo con Napoli radio.

In ogni modo chiamo, a intervalli di dieci minuti. Sul sedici sento motonavi, petroliere, carghi, che chiamano, il porto, c'é uno yacht spagnolo, uno yacht francese. Palermo Radio non risponde a nessuno, o almeno io non sento risposte. D'un tratto irrompe nel canale l'incredibile voce di Roma Radio che pur si trova dall'altra parte del Tirreno:

- Qui Roma Radio. Palermo rispondi! Non senti che ti chiamano, in dieci da due ore? - Finalmente la voce palermitana risponde a quella romana:

 - Sono, solo qui, come minchia faccio a rispondere a tutti! -  Ecco spiegato in chiari termini il silenzio radio. Per non affaticare l'operatore di Palermo desisto per una ora dal chiamare, mentre il mare sale e ricomincia il ballo. Il cielo si é coperto di nuvoloni e la tensione a bordo sale perché stavolta tra cielo e mare siamo in burrasca. A tratti le onde lavano i vetri della Sgnuffi. La randa é tutta tesa e tenta di frenare un poco il ballo. Quando richiamo Palermo risponde subito. Vuole sapere chi siamo e gli dico, il nome della barca. Sbuffa l'operatore e mi gracchia di compitare coi nomi di città. Qui lo frego perché ho appiccicato a paratia le parole dell'alfabeto internazionale. D'un fiato dico:

- Lima Alfa Sierra Golf November Uniform Foxtrot Foxtrot India!- C’è una pausa di imbarazzato silenzio, poi la voce palermitana sbuffa e ammette:

- Una minchia capii! Più piano per favore! - 

- Se preferisce con i nomi di città... - rimesto nella piaga.

 - No! - ruggisce. E io soave ripeto più piano i vari Lima Alfa eccetera. Stabilito che siamo un panfilo denominato la Sgnuffi abbonato alla SIRM senza numero internazionale perché la pratica é ancora in corso, posso chiedere se mai ci siano state chiamate per me. Infatti avevo detto a mia madre che per comunicazioni urgenti poteva chiamare Palermo Radio e io poi avrei richiamato, tanto sul VHF mai ho sentito leggere una lista traffico. Che poi sarebbe la lista di chi cerca qualcuno in mezzo al mare e vuol farglielo sapere affinché richiami.Il palermitano mi giura che non ha mai sentito il buffo nome del mio panfilo. Chiedo il meteo e anche stavolta sembra che siamo in mezzo ad una sventolata da nulla.

Per documentare giro un po' di otto millimetri ma poi proiettato a casa sembrerà proprio una sventolata da nulla. Ha ragione quel mio amico operatore, quello che ha girato Odissea Nuda, a dire che una bella burrasca in mare ancora non l’ha ripresa nessuno e vorrebbe ficcarsi con un catamarano in un forza 9/10 oceanico con le macchine da presa sigillate in coperta in punti strategici. Infatti al cinema il mio mare almeno cinque sembra un bonario tre virgola qualcosa.

Ma ecco apparire spaccate di prua le bocche di Vulcano. Che non sono le bocche del dio greco ma lo stretto tra l'isola di Vulcano e quella di Lipari: Mimmo sei un dio! Che bussole, gente! A sinistra si sollevano le nubi per mostrarci la sagoma lontana di Filicudi e un sospetto conico di Alicudi. La sagoma di Salina invece é azzurro scuro oltre quella di Lipari. Beccheggiando come dannati ci infiliamo nelle bocche e viriamo un po' sulla sinistra per farci spingere meglio dal vento. Infatti ci spinge meglio: da un gran cazzotto al fiocco che comincia assurdamente a garrire e poi lentamente scende lungo lo strallo come una sbatacchiante bandiera di resa. Per dieci secondi resto a fissare attonito il fiocco che scende prima di realizzare. Schizzo fuori lasciando, la ruota ad Amarilli e ignoro le stelle che per un attimo punteggiano il mio cielo dovute all'urto inevitabile dell'alluce sul famigerato bordo che ho fatto rialzare. Costantino mi sgambetta dietro. Gli urlo di tornare dentro, ci mancherebbe anche di dover fare adesso la manovra bambino a mare.

Mi ricordo il carabiniere dall'aria furbetta che aveva buttato il salvagente nel piscio del Tevere il giorno dell'esame esclamando 

- Uomo a mare! - e la mia perfetta manovra di allora col barchino fuoribordato. Se Costantino mi cadesse in acqua adesso saprei ripescarlo in tempo? Il pensiero mi fa rabbrividire mentre il fiocco mi schiaffeggia ripetutamente: ho proprio paura che non ce la farei. Con rabbia smanaccio il fiocco cercando di domarlo. La scotta frusta le mie gambe, gli schizzi me le lavano ma ho passato un braccio intorno allo strallo e non posso essere facilmente sbalzato via. Pesto il fiocco, lo tengo giù come posso e il mio sguardo va in alto, lungo lo strallo: il grillo della drizza sta percorrendo gli ultimi centimetri verso la testa dell'albero. Perduto lassù  fino a migliore occasione.

Sgarroccio il fiocco e stringendolo in una bracciata torno cautamente verso il pozzetto. Non vedo dove metto i piedi ma sto bene attento a non urtare con l’alluce che già mi duole orribilmente il bordo bastardo. Alzo bene il piede e lo scavalco, poggiandolo sul gradino. La Sgnuffi beffarda sculetta e pamf! sbatto sul bordo lo stinco dell'altra gamba: livido e sangue, mica una botta da niente. L'imprecazione che mi sfugge spinge la Sgnuffi oltre le bocche nella rada di Lipari dalle acque ridossate e placide.

Il solito problema dell'attracco. E’ consigliato Sottomonastero, ma io vedo traghettoni e basta. Poi scapolando una gigantesca prua nera appare un cinquanta metri di banchina con quattro velieri e un motoscafo. I fondali sono subito di un paio di metri scarsi e per mettermi con la poppa alla banchina devo andare a ficcare la prua. sotto le palafitte del ristorante Mistral sfiorando sassoni coperti da mezzo metro d'acqua. Sembra. un ancoraggio perfetto: negozi a due passi, acque immobili. L'equipaggio si tuffa subito nelle boutique per turisti dando un altro duro colpo alla liquidità di bordo, che purtroppo non ha nulla a che vedere con l’acqua in sentina.

La sera poi si cena al Mistral serviti da perfetti camerieri che ci rimpinzano con leccornie da diecimila complessive. Giusto prezzo però data la sontuosità e la squisitezza del menu. Sicuro adesso di sacchi ce ne vorranno duecento per mangiarci in quattro, ma nel beato luglio 1973 "austerity" era una parola sconosciuta confusa tra austerely e Austin sui vocabolari inglesi. Ed Euro era solo un venticello.

Epe gonfie e pasciute, in pace col creato e le creature, rientriamo a bordo, percorrendo i dieci metri dieci che ci separano da cotanto ristorante e comincia il ballo. Un'incredibilmente moscia onda al traverso investe il fianco della Sgnuffi. E’ il suo punto debole: toccata là dà inizio ad un moto pendolare sempre crescente. Le cime di poppa levano nella notte il loro monotono canto di usura. Ne tengo d'occhio una che sembra sul punto di rompersi e annoto mentalmente che ne devo comprare un'altra: poca cima, poco marinaio. Ma anche: pochi soldi, poca cima coi prezzi che corrono.

Anche la catena a prua é soggetta ad energici strappi e la Sgnuffi rotondetta va a controllare. Al ritorno in pozzetto, chissà, inciampa forse nella scotta del fiocco e piomba con tutto il suo dolce grazioso peso sul bel tavolo rotondo da lei pittato. Crack! Il tavolo si spezza nelle due metà costituenti, si schiodano i longheroni e il secondo finisce in strana posizione urtando, con violenza il mignolo e l’anulare della zampina destra. L'ululato sale nella notte chiara.

Passerò la notte con un occhio alla cima consunta che geme e si assottiglia e l'altro ai ditarelli della moglie che geme e si gonfiano. Lunga é l’azione di convincimento che i salsicciotti bluastri non significano dita rotte ma solo travaso per distorsione. In ogni modo devo segnare sul libro di bordo che il secondo non può più camminare.

All'alba ho gli occhi gonfi io. Non appena aprono i negozi mi tuffo lungo la main street di Lipari in cerca di corde. Che dolci sovrapprezzi, gente! Se andate a Lipari sperate che non vi si rompano i legacci delle scarpe o dovrete scegliere tra l’andare scalzi e l’andar pelati. Io pelato lo sono già in tutti i sensi e tento di convincere una vecchia panettiera a darmi per tremila lire una cordaccia di qualche porcheria che sega le dita. La vecchia si ostina a pesare la mezza matassa e a chiedere seimila lire. Poi alla fine chiudo a cinquemila col pianto nel cuore. Erano le ultime. Adesso devo trovare una banca fiduciosa per cambiare un assegno.

C'é una banca lungo la main street ma non é fiduciosa manco per niente. Mi guardano gli impiegati in cravatta e camicia con aria di aperto sospetto. Piedi nudi infilati in sandali di plastica da quattrocento lire, braghe di tela consunte e sporche, maglietta pietosamente stazzonata, barba non rasa da due giorni, occhi gonfi in cui deve essere rimasto fotografato un nodo, tra la cima consunta e le dita gonfie dei piedi del mio secondo. Dico che sono arrivato con la barca e ho finito i soldi. Quelli pensano che abbia attraversato il Mediterraneo a remi fuggendo da qualche ergastolo. Si rifiutano perfino di telefonare alla mia banca di Roma nonostante la mia offerta di pagare la telefonata.

Per fortuna trovo la Cassa di Risparmio e, fatto esperto dalla precedente esperienza, entro sorridente e gioviale. Mi appoggio al banco e dò un colpetto all'impiegato:

- Che sventolata ieri eh? Stavo tra Cefalù e Vulcano con il mio yacht e mi ha strappato il fiocco. Ho dovuto dire al nostromo di dare motore e filare. Ah, devo cambiare un assegno... – Non aspetto consensi, é ovvio che chi ha un nostromo ai suoi ordini é sicuro di vedersi accettato un assegno. E infatti, cambiano centocinquantamila senza batter ciglio.

Torno a bordo allegro con cima e grana e si parte per dare una prima occhiata in giro. Rifaccio le bocche, calme adesso e mi infilo, nel bellissimo porto di ponente di Vulcano, che poi non e' un porto ma una rada molto chiusa,pittoresca. Ormeggio alla ruota senza problemi e data la tranquillità delle acque decido di ripescare la drizza del fiocco finita in testa d'albero. La cosa più semplice sarebbe salire a prenderla. Non ho il bansigo ma ho una scaletta di corda che ho fabbricato con le mie mani. Però io non ci entro col sedere e poi chi mi tira su? C’è chi si tira su da solo ma sta da qualche altra parte. Guardo Amarilli che mi fissa spaurita. Il biondo secondo si offre mettendo bene avanti le, ditarelle, bluastre del piede destro. Scartata. Costantino si offre con tutta la sua incoscienza. Scartato. Amarilli non si offre: tocca a lei. La tireremo su. usando mantiglio e drizza della randa. Non c'é pericolo! Ma il pallore della primogenita mi induce ad un discorsetto sul tipo di quello dei capitani che cercano volontari: se non vuoi andare, non andarci, però se non ci vai non potremo più usare il fiocco e forse un giorno rimpiangeremo amaramente questo. Amarilli sempre più pallida balbetta che ci va .

- Senti, noi ti tiriamo su, però in qualsiasi momento, se senti di non farcela diccelo, che ti tiriamo giù.

Si fa issare fino alle crocette, poi il suo sguardo vaga sul mare e nonostante le mie esortazioni a guardare solo in alto guarda invece in basso. E’ la fine. Molliamo lentamente drizza e mantiglio.

- Sei stata bravissima lo, stesso. Non ti Preoccupare, inventerò qualcosa.. - Tecnica di consolazione necessaria.

L'acqua e' calda e trasparente, metto in libertà l'equipaggio e comincio a meditare guardando la punta dell'albero che disegna cerchietti lassù contro il cielo. Io più il mio braccio facciamo almeno, due metri e mezzo. Il mezzo marinaio è lungo un paio di metri. Che altro c'e': il bastone del tendalino quasi tre metri. Troppo ce ne vuole: ah, la, canna da pesca di Costantino! Dovrei arrivarci. Mentre l'equipaggio sguazza beato intorno alla barca io comincio il folle montaggio, legando e sovrapponendo i pezzi. Quando, dondolante e insicura innalzo nel cielo, I'incredibile asta arrivo proprio all'altezza di punta d'albero. Ma tenere quel po' po' di bastoni col braccio teso in alto é già difficile, tenerli fermi quasi impossibile.

Mi fa male il collo e strizzo, invano gli occhi per tentare di scorgere che fine abbia fatto il grillo, che deve essere incastrato contro la puleggia che porta la drizza dentro I'albero cavo. Il sole sbrilluccica sull'anodizzato oro e poi e' troppo, lontano. Calo il bastone a tre stadi e mi precipito a prendere il binocolo. Metto a fuoco ed esploro: eccolo, là! Il grillo é bloccato contro la puleggia e mostra le gambe divaricate oscenamente senza più il pernetto passante. Questo e' successo allora: sotto lo sforzo della sventolata ha ceduto, il grillo evidentemente sottodimensionato. Ma adesso pescarlo é davvero un problema: l'unico occhiello é quello lasciato dal pernetto passante, non più grande di qualche millimetro. Provo con una molletta da bucato assicurata ad una lunga cimetta e poi tenuta aperta da, una seconda molletta fissata sulla canna da pesca. Innalzo I'accrocco e i bagnanti cominciano a seguire con un certo interesse. La mano mi trema, mi sembra di aver portato la molletta al punto giusto. Strappo e.. viene giù tutto sulla mia testa. Risus abundat in ore stultorum. Vorrei poterlo scrivere nel cielo, sopra gli sghignazzanti stesi sulla sabbia.

Devo pensare un'altra cosa. Una pesca vera e propria. Monto un'ancoretta sulla cima della canna e tento di nuovo. Fatica tremenda. Sudore che cola, mano che trema. Mi sembra di avere agganciato e tiro: I'ancoretta resta su da qualche parte e la canna scende sbilenca perché le legature cominciano ad allentarsi.

Il risus abundat più che mai. Ma io sono testardo. Assicuro in punta alla canna un amo da otto. Lo lego e lo fermo con del nastro adesivo. Riprendo la pesca. Appena un'ora e quaranta dopo, al centoseiesimo tentativo, I'amo incoccia l'anello lasciato dal perno passante e tra il silenzio di tutta Vulcano tiro giù il grillo e la drizza appresso. Io sento intorno a me la marcia trionfale dell'Aida mentre solennemente recupero la drizza.

Dopo tanta pesca aerea, un po' di quella sub per riposare. Ho sentito parlare delle cernie di Vulcano, perfino Mike Bongiorno le pesca. Per me c'é solo un gronchetto da un paio di chili. Meglio di niente.

Gronchetto in umido e pastasciutta a bordo mentre cala dolce la notte e ci raggiungono le musiche del night psichedelico che tinge di cangianti colori le rocce sulle nostre teste.

Siamo rimasti in rada noi e un velierino francese. Decido di passare la notte in quel paradiso invece di andare a dondolare a Sottomonastero. Però mi sposto per prudenza pi,é a ponente dove attraccati ad alcuni gravitellini ci sono dei motoscafi ricoperti con teli. Se li han messi lì vuol dire che e' il luogo più riparato. Un ricchissimo paio di palle! Alle due di notte, la Sgnuffi freme. Poiché non vengo a raccontare qui i fremiti della Sgnuffi supersex, alludo evidentemente a quelli della barca.La Sgnuffi freme perché una mano di vento ha frugato fra. le sartie con prepotenza. Freme il vascello, freme il capitano. Esco a vedere. C’é calma assoluta di vento. Troppo assoluta. Si sente intorno che qualcosa trattiene il fiato prima di soffiare con forza.

Tonf ! Tonf

Qualcosa urta spudoratamente i fianchi della Sgnuffi. Nel buio accendo una torcia: uno sfacciato barchino sbatte la poppa. Frrrr! Una raffica, calda di vento fa tremare Pacqua e spinge più forte il barchino contro il fianco della Sgnuffi. Scendo sul ca- notto per cercare di vedere quale dei due abbia arato e trovo la cima del barchino aggrovigliata alla catena dell'ancora con tutto il gavitello. 

Il cielo si oscura all'improvviso. Un nuvolone lo sta riempiendo. Per liberarci del barchino bisogna salpare l'ancora. Le raffiche di vento cominciano a susseguirsi sempre più frequenti. Guardo il veliero francese che si dondola al centro della rada, addormentato con la lucina a prua di fonda. Quello skipper sembra assai poco preoccupato del peggiorare del tempo ma e certo più esperto di me e forse conosce bene l'uscita dalla rada costellata di scogli che gia non si vedono pi,é nel- la notte diventata molto più nera. 11 secondo si sveglia e arriva zoppicante a prua: che si fa?

Dal momento che bisogna levare l'ancora tanto vale filarsela a Lipari, ci sarà l'onda molle al traverso ma nient'altro. Sono d'accordo a metà, nella rada di Lipari c'é un altro approdo molto più ridossato di Sottomonastero, é il Pignataro. Arrivarci di notte per la prima volta non sarà piacevole ma neanche passare la notte a guardare le cime che cigolano lo e'.

Così si decide: via per il Pignataro.  Lasciamo, la splendida rada di Vulcano e attraversiamo le bocche nere come la pece col cuore in gola. Il vento adesso é forte, vagamente libeccio tra sud e ovest. Ma a tratti sembra girare quasi a maestrale, in ogni modo a Lipari saremo al sicuro.

Tre quarti d'ora dopo mi avvicino al Pignataro. Due fioche lampadine sulla banchina e la sagoma di navi militari. Quando metto in folle comincio a scarrocciare forte. Ridò elica. Non sari una manovra facile, la banchina è alta e non c'é nessuno per passargli una cima. Poi vedo un grosso, gavitello bianco e rosso, libero. E’ sormontato da un gigantesco anello. Urlo alla Sgnuffi di acchiapparlo col mezzo marinaio e ci metto la prua sopra. La Sgnuffi si distende a prua e protende il gancio.

- Preso! - 

Cerco di dare un colpo indietro per fermare I'abbrivio ma una raffica di vento contrasta la manovra. La barca tende a procedere. Sparisce oltre la prua la testa bionda del secondo, poi si inarca evidenziandosi il fatal fondo di schiena. Il povero secondo é costretto a far forza sulle ditarelle gonfie e mugola di dolore ma eroicamente non molla. Corro a prua a darle una mano. Agguanto il mezzo marinaio e tengo forte. Il grosso gavitello sfrega sulla fiancata e sento la catena che lo collega al corpo morto raschiare la chiglia per tutta la lunghezza, ma non lascio la presa e strappo quasi il galleggiante dall'acqua. La barca,domata, si ferma.

- Una cimaaa! - urlo strozzato e il secondo zompetta al mio fianco e me la passa. Assemblea plenaria di tutte le mie forze: passo la cima nell'anello del gavitello e mollo. La barca, guidata dalla briglia indietreggia verso la bancbina. Assicuro la cima al bittone di prua: e' fatta! Per evitare strani giri vado a -terra col canotto a passare una cima di poppa e alle quattro posso riprendere il sonno del giusto. Il gran vento, soddisfatto, si riposa con me. E all'alba tutto é tranquillo e sereno: beato quel francese che se l'é saporitamente dormita nella bella rada di Vulcano. Qui I'acqua puzza.

Con sole e mare piatto veleggio di nuovo verso Vulcano: stavolta Porto di Levante. Mi ancoro nell'ampia rada nei pressi delle solfarole sottomarine. Dietro a noi viene ad ancorarsi un due alberi in legno nero. Bella barca. Si chiama Lupo di Mare. Mi immergo col fucile: le bolle di gas che salgono dal fondo marino hanno sbiancato tutto: alghe, pesci e rocce. Strano paesaggio da fantascienza. Persino il tordone che infilzo è candido. Sara buono? Pesce bianco al sugo: ottimo. Mi preoccupa l'eco scandaglio che rimanda infinite eco: che sarà successo? Gli vado a dare una guardata: non é niente, solo non c'é più. La testa del transducer, quella delicata che non bisogna neppure disincrostare per non rovinare, non c'é più. Intorno sul veto di muschio che già ricresce in carena, i segni delta catena del corpo morto di Pignataro. Avevo detto agli artisti toscani che la testa dell'ecoscandaglio mi sembrava troppo sporgente, ma ormai era bello e fissato e a loro, parere andava bene così. In effetti e' andato bene finché non ha incontrato la catena.

La sera setaccio Lipari paese ma nessuno sa che cos'é un ecoscandaglio. L'ausilio elettronico a bordo si va sempre più riducendo. Ormeggia sulla nostra sinistra un Euros 41, sono in sei sulla barca, vengono direttamente dalla Costa Azzurra. L'occhio del francese valuta  il Multi stupito:

- C'est drole! - esclama di tanto in tanto. Lo lascio stupirsi per un po' e poi gli spiego l'arcano di tante somiglianze nei dettagli tra la mia e la sua barca: la mia la fa la Multimare, la sua la vende. L'osmosi di pensiero é evidente.

Alla mia destra si ancora un Ockelbo col tettoino di te]a. Ne sbuca una. coppia giovane e bruciacchiata dal sole. Si fa amicizia, lui é di Biella come me (piccolo il pianeta!) e i due si sono sciroppati una galoppata di cinquecento miglia su quel barchino pieno sopratutto di benzina per i due fuoribordo, navigando spesso abbrancati ai tientibene e senza possibilità di difendersi dal sole. Forza dell'amore: la signora riesce ancora a sorridere sotto i segni delle bruciature di terzo grado! La coppia piemontese ha fatto quasi le nostre stesse rotte ma non ci siamo mai incontrati. Facciamo insieme alcune considerazioni: i porti del meridione sono completamente vuoti di barche da diporto. Per esempio adesso nella rada di Li- pari ci sono otto imbarcazioni da diporto e ben tre Isono francesi, eppure siamo nella seconda metà di luglio. Mo. dove so- no le trecentomila barche dichiarate dall'UCINA? Evidentemente ben stipate su cinque file a Portofino et similia. Popolo di navigatori!

E’ bello chiacchierare con i nuovi amici seduti in pozzetto con un whiskettino in pugno. Si parla di sub, dei ritrovamenti archeologici di Lipari che sono costati la vita a due archeologi tedeschi un paio di anni prima, si parla di barche, dei costi e della voglia di farsene una. più grande, più barca Si parla di ferrocemento e mi dicono di essere amici di quel due coniugi di Torino che si sono fatti I'Aletes completamente da soli ed é roba di quattordici metri e fischia. Ci vogliono tante cose per una simile impresa: il coraggio per iniziarla, la costanza per continuarla (mesi, anni!) e la certezza di essere ben decisi a rompere con la vita "normale", perché quando uno si fa una barca così dopo deve viverci sopra e farne la propria casa, diventare un meraviglioso abitante dei mari e ricavare da vivere dalla barca. stessa: ed e' proprio que lo che stanno facendo i proprietari dell'Aletes! Loro troveranno sulla loro strada i quaranta ruggenti, noi non siamo ancora pronti e abbiamo le nostre gatte da pelare qui, nei quaranta belanti!

Sognare e' bello, navigare realmente presenta anche fastidi. Ma in fondo uno naviga anche per essi. Un gioco, uno sport, qualcosa con cui misurarsi. E allora misuriamoci con questa bella foschia che alle undici di mattina ci avvolge come ovatta al largo di Panarea la bella. A tentoni arrivo a S. Pietro: non in piazza S. Pietro, ma allo scalo di Panarea, la gemma. Sarà il grigio, sarà l'aspettativa delle cose troppo decantate ma per noi Panarea é un po' una delusione. L'acqua è limpida ma non più che in altri posti non inquinati

Il calendario annuncia il giorno 20 di luglio, la digressione non voluta sulle coste sicule ci ha portato via giorni non previsti. E ai primi di agosto c'e' un sequestro di persona che mi aspetta: devo scrivere la sceneggiatura di quel film che il produttore vuol chiamare "Milano odia, la polizia non può sparare". Almeno una capatina a Roma la dovrò fare. Sacrifichiamo Salina, Filicudi e Alicudi e facciamo vela per Stromboli.

Poiché l'unico porto delle Eolie è a Lipari, chi può fa la gita a Stromboli in una sola giornata tornando poi a Lipari per passare la notte. Ma noi dobbiamo poi attraversare e andare in Calabria, un simile avanti indietro non ci attrae. Tenteremo: se il mare é buono dormiremo a Stromboli, altrimenti si vedrà.

Stromboli vale la crociera.  Ci si arriva piccoli piccoli sul mare e ci sente sovrastati da quell'immenso cono di carbone che fuma e brontola minaccioso. Giriamo in silenzio intorno al gigante: la sciara di fuoco è come una gigantesca lacrima che scivola verso il mare di un blu così violentemente scuro che non sembra di acqua. Uno schioppo come di fucile. Un masso si stacca e piomba in mare sollevando un alto spruzzo. Polifemo ha scagliato li sua prima pietra! Elica, gente! Se il gigante si sveglia del tutto saranno dolori. E' la prima volta che avverto nella natura un senso autonomo di religione. Qualcosa che sarebbe religioso anche senza la paura dell'Uomo. La piccola bianca Sgnuffi si agita come può e gira intorno al colosso di nero lucente e sull'altro versante 'un po' di verde attenua la primordialità del paesaggio. Poi le casette bianche e il campanile aguzzo di un paesello.

Buttiamo l'ancora a Scalo Scari, a una trentina di metri dalla riva di nerissima sabbia. La catena va tutta giù ma l'ancora sembra fare presa. Scalo Scari è scalo perché qualcuno ci fa scalo. Potrebbe chiamarsi benissimo Spiaggia Scari o Mare Aperto Scari o anche semplicemente non chiamarsi proprio perché in realtà non c'é nulla da chiamare. Ho paura di quest'acqua scura ma anche ne sento il fascino. E con un po' di batticuore che mi immergo con pinne e fucile.

Sotto un paesaggio incredibile: come sopra la sabbia nera, quaggiù é candida. Come sopra è grezza, quaggiù e' finissima. Scendo sul fondo nuotando verso l’isola perché sotto la Sgnuffi si spalanca un pauroso, precipizio nero senza fine. Sui quindici metri plano lentamente in una conca candida: qua e là massi erratici interrompono Ia liscia monotona della dolcezza quasi collinare. L'orizzonte e' vicino perché le colline precipitano nel nero assoluto dopo qualche decina di metri e io volteggio senza peso con Ia straordinaria acutissima sensazione del dejà vu. Di colpo capisco: la luna! Armstrong e soci che ballonzolano in quelle morbide polverose, bianche conche punteggiate da macigni e con il nero dell'orizzonte cos! vicino da dare l'impressione di uno scenario montato in un teatro di posa. Vengo su a prendere aria con dispiacere e subito mi reimmergo. In quella sabbia candida una forma scura e piatta volteggia come un piccolo aquilone per poi appoggiarsi e sparire nella polvere del fondo. Una sogliola! Nuoto con calma e cerco di riscoprirne i bordi: incredibile, come sappiano sparirti davanti agli occhi. Sfioro con l'arpione Ia sabbia. Un guizzo veloce, una planata e di nuovo Ia sogliola e' scomparsa. Tengo fisso quel punto: sulla sabbia non c'é assolutamente niente. Sicuramente niente. E’ stupido sparare. Ignoro il cervello e sparo. La sogliola infilzata in pieno guizza intorno all'asta. Un altro aquilone volteggia tre metri più in Ià. E poi un altro sull'orlo dell'abisso. Sono in un mare di sogliole! E’ una caccia facile, troppo facile, una volta capito il trucco. Per renderla più divertente decido di cercare di prendere le sogliole solo al volo e non quando sono posate sulla sabbia. Anche cos! non è difficile, però e poiché in barca siamo in quattro decido di fermarmi a quattro sogliole. Uccidere per mangiare é primitivo. Uccidere per il solo gusto di farlo, é sport da gentiluomini e se uno acchiappa una barca e va in giro per i mari è proprio perché un certo tipo di gentiluomo gli fa schifo. Una volta a pagliolo le mie quattro sogliole diventano rombi: o almeno ci provano. La mia esperienza in pesci piatti è alquanto scarsa e questi poi sono neri come tutto e' nero qui a Stromboli ad eccezione dei fondali lunari.

Oltre la spiaggia di carbone luccicante scorgo un gran cubo di cemento munito di un grosso anello: deve essere una specie di corpo morto o una sintesi di banchina. Scendiamo a terra remando, col pram e ci informiamo. Un vecchio pescatore sputa saliva nera sulla sabbia tipo inferno: sono quei di Lipari che mettono in giro la voce che le barche possono sostare solo da loro, così i turisti vanno tutti a spendere Ià. A Stromboli vengono solo a vedere le poi tornano a Lipari. Ma é una bugìa nera!

Per esempio lì, a Scalo  Scari, si può stare sempre e benissimo a meno che si alzi il vento. Sputa nero e poi precisa: il vento da scirocco. E poiché oggi non é tempo da scirocco ci si può passare la più tranquilla delle notti: basta ancorarsi vicini a terra e passare una cima dalla poppa all'anello che gia avevo visto. Torno in barca e prendo la cima. Intanto arriva l'aliscafo con grande sciacquio e scarica frotte di turisti che storcono la bocca disgustati perché la sabbia nera incrosta i loro virginei piedi.

Rimando a terra il secondo con la cima della cima e subito trova due volenterosi che si arrampicano fino al grande anello per assicurarla la'. Io ho salpato l'ancora, non tutta, me la porto a ciondoloni appesa ad una quindicina di metri di catena. Aspetto che tocchi e mi avvicino alla spiaggia. Ho quasi la poppa all'asciutto e ancora non tocca! Devo buttare più catena, tutta la catena e finalmente mi sembra che abbia preso. Costantino mi riporta il canotto remando da professionista e così anch'io posso scendere a terra. Il  canotto deve per forza essere abbandonato sulla spiaggia se vogliamo fare un giro per I'isola.

La stradetta che si arrampica verso il paese si intrufola in mezzo a strane piccolissime case bianche che fanno un gran contrasto con tutto il nero delle rocce. Anche il verde degli alberi é un verde più scuro che altrove. In alto, nel cielo sereno, il gran pennacchio del vulcano. Scendono e salgono la stradetta dissestata stranieri di tutte le razze. Italiani pochi: probabilmente perché é un'isola troppo severa, troppo faticosa, che sporca di nero. Ma è di gran lunga la più bella isola delle Eolie. L'unica vera gemma dell'arcipelago, l'unica terra che veramente é difficile trovare altrove.

Ceniamo a base di frittata di pesce e beviamo malvasia. Non malvasia di quella che si può comprare dappertutto, ci spiega la donnetta che ce lo mesce nei bicchierozzi, ma il " suo "  malvasia ricavato dalle "sue" uve lasciate appassire nella "sua" vigna prima di vendemmiare. Peccato che alla fine ci spari anche il "suo" prezzo che é certamente adatto più al forte marco tedesco che alla debole lira delle mie tasche.

Torniamo sulla nera spiaggia che é buio e ci aspetta una sgradevole sorpresa: il canotto é ancora là ma senza remi. C'é ancora gente che si aggira nel buio della spiaggia. Il secondo occhio di lince e fianchi da blocco stradale scopre e affascina una guardia di Finanza che unisce alla nostra la sua personale costernazione. Dichiara solennemente che fino all'anno precedente mai nulla spariva dalle spiagge nere di Stromboli. Ammette avvilito che la scomparsa dei nostri remi é la terza scomparsa che viene denunciata. La Sgnuffi occhioni dolci scodinzola e incalza: l'isola è piccola, i remi si devono trovare! La guardia sospira, allo scodinzolamento del bikini nell' ovatta nera della notte stellata e certo non pensa ai remi. Poi costretto a far mente locale dall'inflessibilità del secondo cerca invano di spiegare alla mia dolce cocciuta meta che remi da canotto anche nella piccola Stromboli ce ne saranno almeno cento paia e che sono tutti indistinguibili. Minacciando di spargere la voce e di bloccare la corrente turistica verso l'isola, la superbikinata risale immusonita nel canotto senza remi e io mi aggrappo alla cima che ci lega al masso e tiro riportando la famigliola verso la panciuta Sgnuffi. Sono appena a bordo quando dal buio una voce chiama: e' la guardia di Finanza. Raggiante un agente agita qualcosa: un paio di remi!

RIsalto nel pram e via di nuovo lungo la cima. Mi passa i temi: chissà, qualcuno li ha trovati sulla sabbia. nera, o forse il ladro terrorizzato dalle minacce del mio secondo in due pezzi, ha deciso di restituire il maltolto. Tornano i remi e torna L'armonia a bordo. Satolli e anche un po' brilli,. stivando una bottiglia di malvasia per i giorni futuri, Possiamo, abbandonaci in cuccetta sotto il cielo più stellato del Tirreno. La .Sgnuffi e praticamente ormeggiata in mare aperto eppure passiamo una delle nottate più placide della crociera.

Il mattino preme con la nebbia dell'alba. Spanno i vetri e guardo fuori. Il mare é sempre calmo, Strombolicchio si eleva come un fallo titanico dalla nebbiolina che già si disperde verso l'alto ai primi raggi del sole. Il bollettino dei naviganti é idilliaco. Si salpa per l'Italia. Prua sulla costa. Dopo lunghe consultazioni di portolani maggiori e minori, decido di puntare su Cetraro e per trovarlo far rotta su capo Bonifati.

Sono le 07-00 precise quando alzo la randa e metto in moto il diesel. Il vento é quasi inesistente. Rotta vera 37°' e rotta bussola, dopo la sapiente compensazione dell'amico Carcò, 32°'. Abbiamo davanti 55 miglia di Tirreno. Sole e mare calmo. Senza vento, tutto a motore con la randa che sbatte anche se tesata a ferro. Tanto vale ammainare. Ecco una traversata dove mi compiaccio per la scelta della barca: se avessi dovuto andare solo a vela sarei fermo come un chiodo.

Sono passate da poco le quattordici quando, dritto di prua, come in un esercitazione perfettamente riuscita si delinea Capo Bonifati con la sua torretta quadrata. Bene, capo! Stando alla carta dell'Idrografico Cetraro é a sud del capo di qualche miglio. Cos! correggo la rotta accostando per rotta bussola 40°. Si delinea chiara la linea costiera morbidamente ansata e dietro le alte montagne calabre. Comincia, binocolo sugli occhi, la solita ricerca dell'approdo. Faccio scorrere lentamente il binocolo lungo la costa: sabbia, sabbia, sabbia. Casette, casette, casette. Ombrelloni, ombrelloni, ombrelloni. Ma questo cavolo di porto dove si é cacciato?

Quelli che legiferano in materia di nautica da diporto. é noto che fanno venire ai naviganti due palle come mongolfiere: bisognerà sacrificare quelle di uno skipper per innalzarle sui moli dei mimetici porticcioli del sud? Il Portolano dice che tra Acquappesa e Intavolata c'é una cospicua macchia bianca nella quale si riconosce una scarpata di pietra a sostegno di una strada serpeggiante. Ed effettivamente mi serpeggia un dubbio inquadrando una delle tante scarpate col binocolo: così se quella é Acquappesa non é Cetraro. Ma allora Cetraro dov'é?

Dice il Portolano: cospicuo l'edificio di una colonia a sud del paese. Il poveraccio che ha scritto la frase deve essere passato da queste parti col Duce a palazzo Venezia. Allora le uniche cose cospicue erano gli edifici delle colonie. Adesso di cospicuo c'é che un mare di villette e casette sempre uguali ha stupendamente uniformato migliaia di chilometri delle nostre belle coste e bisognerà cominciare a studiare una segnaletica litoranea per chi si accosta dal mare. Bei cartelloni vistosi con frecce e scritte come: SIETE A 40°15' Lat. N e 160°02'E e poi PER 'X' 3 mg. COSTEGGIANDO VERSO NORD.

Continuo, a tenere rotta perpendicolare alla linea di costa: solo avvicinandosi di più ho speranza di capire qualcosa. Quando sono a duecento metri dalla spiaggia e già nel binocolo inquadro le gambe delle belle ragazze stese al sole mi convinco che la porti non ce ne sono. E allora accosto parallelo alla costa diretto verso nord, alla ricerca del porto che deve pur esserci vicino a Capo Bonifati. L'urlo terrorizzato della Sgnuffi mi fa rallentare. Mi affaccio e scorgo sulla mia destra, a pochi centimetri dalla barca, la macchia scura di un grande scoglio sommerso da una metrata d'acqua sì e no. La Sgnuffi continua a strillare: siamo in mezzo agli scogli! Rallento ancora e sento un sudorino freddo mentre uno scoglione coperto da mezzo metro d'acqua mi lambisce la chiglia. Sulla prua tutto l'equipaggio sta discutendo: Amarilli dice che c'è acqua, almeno due metri sugli scoglioni. La Sgnuffi e Costolo urlano che ce n'é una spanna. La tremenda verità è più dalla parte del secondo: ho portato la barca in mezzo a dei bastardi scogli sommersi. Nemmeno uno mette fuori la testaccia di pietra per avvisare del pericolo. Se ne stanno tutti proditoriamente sotto il pelo dell’acqua.

Metto la Sgnuffi alla ruota e faccio, sgombrare la prua. A velocità ridottissima guido a cenni la Sgnufli tra le macchie scure degli scogli. E’un supplizio di dieci minuti. I dieci minuti più lunghi della crociera. Il pericolo, più grande corso finora. La Sgnuffi galleggia ancora per puro caso. Se prendevo di petto uno dei primi scogli addio barca. Certo la spiaggia non era lontana e difficilmente saremmo morti, ma sarebbe certamente morta in noi la passione dello yachting. 0 no?

Fuori da quelle bastarde chiazze nere, allargo ancora un poco e punto, verso un gozzo da dove due signori stanno, pescando. Accosto e pongo la domanda ormai consueta:

- Il porto dov'é? -

Uno dei due mi indica un punto della costa. Guardo e non vedo niente. Ma lui insiste: non si vede ma c'è.  Devo far rotta verso quei grandi serbatoi che si scorgono contro il fianco della montagna: sono serbatoi di nafta e un giorno quando il porto sarà finito serviranno appunto le barche. Sulla fiducia dell'indicazione, rotta sui serbatoi. Fiducia ben riposta: insieme ai serbatoi si va delineando, una riga grigia che forse é una scogliera. Il Portolano va sempre letto, poi però ricordarsi che non è la Bibbia con la quale spesso condivide solo l'antichità delle annotazioni.

Quindi leggo di Cetraro e ammiro il pianetto del 1961 che mostra una specie di filamento sassoso scolante da un'insenatura sabbiosa tutta aperta al mare senza banchine e senza profondità.  Ma poiché Cetraro era uno degli scali previsti in inverno già mi ero procurato il piano del porto che l'Idrografico vende per 600 lire e che é completamente diverso da quello gratuito inserito nel Portolano: là si vedono due bei moli che cercano di chiudere un ampio specchio d'acqua. Però dentro c'è acqua solo per le barchette di carta dei piccoli cetraresi: m. 0,40 .... 0,60 .... 0,20... li chiamano metri ma questi sono centimetri gente! C'è solo un piccolo passaggetto con acqua più alta di un. metro e forse si potrà accostare nei primissimi metri del sottoflutto. Con grande attenzione e patema infilo il naso della Sgnuffi nel porticciolo in cui, il Portolano raccomanda fervidamente quelli che proprio si ostinano a voler entrare devono continuamente scandagliare. Io scandagliare non so, ed ecoscandagliare non posso per via di quella benedetta boa del Pignataro.

Poi vedo un ragazzo che dall'alto del molo si lancia nell'azzurro e dopo perfetta carpiata giù a capofitto nell'acqua verde chiaro.Certo venti centimetri d'acqua non possono essere a meno che quello sia uno del circo Togni abituato a tuffarsi in una botte. Puf, puf, puf! Entro nel porto. Tutti siamo spencolati fuori bordo per tentare di scorgere la sabbia traditrice che da un momento all'altro ci imprigionerà la chiglia. Dal molo alcuni cannisti ci osservano divertiti. Rallento e chiedo:

- Quanta acqua c'é qui?- Uno, risponde con un gesto vago:

 - Cinque o sei metri!

Portolano maiale! Do' un po' di gas e metto la prua verso il centro del porto, poi vado a marcia indietro ad ormeggiarmi in banchina. Gran bella comoda banchinona: sono l'unica barca in tutto il vastissimo porto. Proprio come se il porto fosse mio. Belle bitte, begli anelli per facilitare l'ormeggio e spaziosissimo il marciapiede in banchina protetto poi da un ulteriore muro in cemento. Abbiamo appena finito la manovra di attracco che una seconda barca si affaccia alla bocca del molo. E'  il due alberi in legno dipinto di nero che già abbiamo ammirato a Vulcano: il "Lupo di Mare". Compie una tranquilla manovra e viene a mettere la poppa a due metri dalla nostra. Mi avvicino in banchina per prendere la prima cima. Sul veliero, sono in due, buttano e ringraziano.

Adesso nel porto siamo in due ma il Porto continua a sembrare un'opera assurda: non c'é una casa intorno, solo scoscese ripe. Il paese di Cetraro è a dodici chilometri. Dodici chilometri di strada in salita che certamente renderanno a Cetraro i turisti nautici rari come... no, come mosche no perché qui abbondano, ma insomma rari. Enormi i serbatoi di carburante: forse qui faranno attracco le petroliere, chissà. Due distributori in banchina che ancora non funzionano ma certo funzioneranno e probabilmente saranno molto utili per gli accendini dei cannisti seduti sui moli. Due baracche sul fondo del Porto: una è una specie di pescheria e l'altra fa ombra ad un rudimentale bar frequentato dagli operai del cantiere. E poi, preziosissima, una fontanella che ha la strana particolarità di buttare acqua. Perché in tutti i porti toccati, tranne Cefalù, non mancano quasi mai le fontane, manca soltanto l'acqua.

Sontuosa cena con ricca spaghettata della Sgnufli e Simmenthalmente buona cucinata in modo originale, e solo la fantasia inesauribile del mio popputo secondo può ancora trovare modi originali per una scatoletta dopo quasi un mese di crociera. Ma il bollettino delle 23.00 e' un vero bollettino di guerra: avviso di burrasca forza 8 in arrivo dalla Sardegna. Si prevede peggioramento su tutti i Tirreni alti, bassi e medi. Il moto ondoso in rapido aumento. Colpi di vento da maestro.

Siamo a Cetraro e ci resteremo. Anche se qui c'e' solo l'acqua. Dovremo mangiare senza pane perché nessuno mai si sciropperà dodici chilometri per una pagnotta. Si prevede un soggiorno forzato poco gradevole.

Nanna profonda e indisturbata. Al mattino esco al sole delle 08.00 e guardo il grande specchio portuale deserto. Deserto? Ma guarda, quelli del Lupo di Mare non hanno avuto paura del bollettino! Hanno salpato! Effettivamente fuori dal molo il mare é placidamente calmo. Ma io ho fede nei bollettini e preparo una tranquilla colazione per quattro poi annuncio che si passerà la giornata in placidi lavori di bordo: prima cosa, si andrà alla fontanella a riempirci la pancia d'acqua.

Il secondo canticchia e inizia un bucatino, mentre io e il resto, dell'equipaggio portiamo la barca alla fontanella e cominciamo l'operazione acqua. Di tanto in tanto il mio sguardo va al mare aperto che luccica calmo sotto il sole: ma dov'é la burrasca? Comincio, ad armeggiare con le carte e il compasso: ma via, da qui a Maratea sono 31 miserabili miglia! Roba che col motore al massimo le posso fare in quattro ore e mezza! Che deve succedere in quattro ore e mezza con un mare che sembra d'olio?

Quando mi stacco dalla fontana per lasciare il posto ad una paranzella che è arrivata nel frattempo, ho gia deciso e invece di tornare in banchina volgo la prua verso il. mare aperto. La Sgnuffi resta. con la bocca aperta e la vaschetta col bucatino in mano. Ma poiché io sono il. secondo dopo dio e lei è soltanto il secondo dopo di me non può fare altro che chiudere la bocca e posare la vaschetta rimandando il bucatino.

Per due ore la prua della Sgnuffi fende un mare plumbeo e animato da una onda lunga dall'apparenza quasi vischiosa. Siamo in vista dell'isola di Dino quando un brivido sembra scuotere la barca. Un lungo brivido, strano che certamente ha provocato il vento eppure non mi 6 sembrata una raffica. Al largo intravedo la sagoma ormai famigliare del Lupo di Mare e vedo che scioglie tutte le vele allargando ancora la rotta verso ovest. Lassù ci devono essere veri marinai per una simile manovra con un avviso di forza otto in arrivo!

Io dirigo sempre più teso verso Maratea. L'onda lunga e vischiosa diventa dura di colpo e si innalza. L'anemometro comincia ad oscillare sul tre-quattro. Poi la prima scoppola che lo porta a sei. E torna indietro ma si stabilizza a cinque. E’ vento fresco di NW, maestrale in piena regola. Me lo immagino sbucare fischiando sul golfo del Leone, investire le martoriate coste di ponente di Corsica e Sardegna e poi con un bel fetch piombare addosso alla povera inesperta Sgnuffi che arranca disperata verso Maratea.

Spranghiamo gli oblò,chiudiamo anche la porta dopo aver tesato la randa che porta con forza schiacciando la Sgnuffi contro l'onda sottovento e impedendole di ballare troppo. Ma il mare ci arriva letteralmente addosso: nel giro di quindici minuti siamo in mezzo alla burrasca e al ribollire di schiuma. Al traverso, di Janni il ballo, comincia a mettere in moto il pentolame. Il secondo e l'equipaggio sopravvivono aggrappati alle cuccette del quadrato.

Come al solito strabuzzo gli occhi nel disperato tentativo di individuare il porto di Maratea. L'anemometro si é inchiodato sul sei e finché prendo il mare al mascone si tonfa ma non mi sento in pericolo, però so dal pianetto del porto di Maratea che dovrò prendere le onde al traverso per entrare. La lettura del Portolano consiglia di stare a 50 metri dal fanale di sopraflutto. Le montagne che sovrastano Maratea sono coperte di nubi e così quel bel cristone che so torreggiare su una vetta non é visibile. Gli spruzzi e il sale rendono opaco il vetro e il tergicristallo disegna belle incisioni di sale. Testa fuori allora. Ma per vedere bene mi servono gli occhiali e gli occhiali fanno subito la fine del vetro e senza la possibilità del tergicristallo. Adopero gli occhi acuti del secondo e viene avvistato un muraglione e delle case. Il muraglione sembra chiudersi contro la ripida scogliera. Eppure io so dal pianetto che la bocca del porto è rivolta a sud, cioè da questa parte. Bisogna avvicinarsi. Bisogna accostare! Le ondate che ci investono sbattono poi contro la scogliera con tuoni di cannonate e pizzi di schiuma che si innalzano per una decina di metri. Bisogna aver fede nei pianetti! La bocca del porto deve essere là, follemente là vicinissima alla scogliera!

Rallento e passo la ruota al secondo: voglio ammainare la randa. Mollo la drizza e vien giù tutto: il boma batte sulla tuga rumorosamente. Il mantiglio si è sfilato e ha mollato. Acchiappo il boma e imbrago la randa disperatamente mentre il boma mi porta a spasso con violenza sulla tuga. La cima del mantiglio mostra l'ignobile causa del guasto: non era stata fatta l'impiombatura! Il mantiglio passava dall'anello in testa del boma e poi era ripiegato su. se stesso e soltanto innastrato!!! Un bel nastro rosso che io credevo celasse una buona impiombatura al punto di averci affidato la pelle della povera Amarilli quando l'ho tirata su fino alle crocette!

Due brividi mi corrono lungo la schiena: uno di paura per quello che poteva succedere (per quanto avessi anche attaccato una drizza di sicurezza) e uno di rabbia contro il bastardo che ha sistemato in quel modo il mantiglio.. Se fosse successa una disgrazia giuro che l'avrei trovato e gli avrei spezzato la schiena a calci.

Acchiappo la cima del mantiglio e la passo di nuovo nel boma, lego con un buon nodo da ancorotto rimandando l'impiombatura a tempi migliori. La scogliera e' paurosamente vicina. Urlo alla Sgnuffi di allargare. Il mare ci investe con più rabbia per il fondale meno profondo. Piombo in quadrato e frantumo l'unghia dell'alluce destro contro il consueto maledetto bordo, ma non ho tempo per sentire quel dolorino: prua al mare, gas! Si allarga e intanto vedo la bocca del porticciolo: boccuccia, budello, trappola. Sarà un fatto psicologico ma quel pertugio quasi radente la scogliera bombardata dai cavalloni mi sembra accuratamente studiato per provocare naufragi.

Per un attimo considero l'idea di procedere. Mi han detto che a Sapri han fatto un porto che ancora non é segnato sul Portolano ma che è sicuro con ogni tempo. Ma là, oltre il pertugio, c'e' una selva di alberi di fortunati skipper che certo staranno,al bar a succhiarsi un drink gelato con la cannuccia. Anch'io voglio stendermi al loro fianco e commentare la drammaticità di questo momento. Però il momento dura ancora. Il secondo, legge il Portolano, e avverte pallido: 

- Dice di tenersi a cinquanta metri dal fanale del molo. -

Cinquanta metri! Ma dove sono, cinquanta metri? Ma se saranno dieci sporchi maledetti metri! Non di più mi sembra largo lo sfintere del porto di Maratea. Decido e avverto stentoreo tutto l'equipaggio:

- Tenetevi gente che si entraaaaa! -

Prua verso lo sfintere. Splasssssc! La prima ondata al traverso ci corica verso terra ma subito la Sgnuffi schizza sulla chiglia offesa e il riflusso la sbatacchia a sdraiarsi verso il mare. Sono al massimo dei giri. La barca sembra ancorata, presa dal flusso e dal riflusso delle ondate, poi schizza in avanti. Buuuum! Ancora un'ondata proprio in pieno: oddio! La punta dell'albero tocca il moletto striminzito che parte dalla radice delle scogliera a stringere ancora di più lo sfintere. Non lo tocca, é solo una specie di saluto, cerimonioso. E poiché il mio albero é gentile con tutti subito saluta la punta del molo di sopraflutto con eguale cerimonia. Così, dopo avere sfiorato le testate dei due moli, la Sgnuffi schizza nelle acque appena ondulate del porto. Metto in folle, stressato. L'equipaggio sciama in coperta. Butta fuori i parabordi, ammira il porticciolo, col grande piazzale e le casette vezzose ancora non finite. Fondali abbondanti e molte barche all'ormeggio, per lo più motoscafi e motoryacht. Dalla banchina ragazzi con maglia recante il nome di Maratea ci fanno cenni di avvicinamento. Giù l'ancora e manovra. Poppa in banchina. Ma la banchina é alta sul livello del mare e ornata da bittoni incredibilmente giganteschi. Su uno di essi siedono due grasse signore coi loro figli. Sembrano bitte per la Leonardo. Preferisco ormeggiarmi agli anelli infissi in banchina e poi col canotto dirigo verso l'unica scala che incide l'alto bordo di pietra per permettere ai cristiani di salire sul piazzale. Un bel piazzale e in fondo un bar discreto e un negozio che vende tutto, fuorché la frutta. Purtroppo il paese è lontano e irraggiungibile a stanche gambe piene di mare e ad allucioni gonfi di sbatacchiamenti. Ma il drink con la cannuccia e le gambe stese sotto il tavolo, quello non me lo leva nessuno.

Ed è appunto, mentre sto sorbendo che vedo la sagoma snella del Lupo di Mare pararsi davanti allo sfintere schiumoso del porto. Mi gusto l'entrata del veliero: anche lui saluta le due testate dei moli prima di trovarsi in acque più riparate. Il veliero viene ad ormeggiarsi proprio accanto alla Sgnuffi. Mi avvicino sorridendo: mi sembra quasi che siamo gli unici italiani che navighino per il basso Tirreno in questo luglio. Anche i due uomini del veliero mi salutano con un cenno. 

- Si fa la stessa strada, eh? - mi dicono.

- Stamattina ho visto che voi eravate partiti nonostante il bollettino e mi son fatto coraggio partendo anch'io! - I due si guardano con muta e reciproca accusa:

 - Te l'avevo detto di sentire il bollettino! - dice uno

- Non I'avevate sentito!? Porca miseria! Aveva detto forza otto in arrivo! -

I due sgranano gli occhi: altro che bel vento! Perché quando han sentito le prime raffiche si son detti: bel vento! E hanno, spiegato le vele. Una veleggiata favolosa che per poco non spezzava tutto. Adesso si ride. Loro non sapevano, e io che sapevo mi son messo in mare incoraggiato dalla loro ignoranza. Si ride per poco. Il vento continua a rinforzare: é adesso un lungo, fischio continuo che cresce di tono nelle raffiche. La scogliera subisce un bombardamento continuo: le onde esplodono nelle caverne scavate dal mare facendo tremare le montagne.

Non si ride più perché tutti stiamo guardando quanto va succedendo: le ondate che si spezzano con ferocia contro la ripida scogliera a strapiombo vengono riflesse con gran forza dentro il porto. Ad ogni botto, un'onda riflessa più alta. La nostre bar- che cominciano a ballare. Tesano le catene delle ancore come cavalli imbizzarriti. Il riflusso spinge la poppa della Sgnuffi a sfiorare l'alta banchina di pietra. Costantino urla il pericolo. Io recupero della catena e mollo due metri di cima a poppa. Ma l'ondata successiva ignora le mie misure e riporta la poppa a sfiorare la pietra. Recupero, altra catena e mollo nuova cima.

Il mare ingrossa ancora. Simile ad un sottile sottomarino si infila ancora nel porto una barca a vela. E’un barca vecchia strettissima e lunga con grandi slanci a prua e a poppa. Entra. Traversandosi, sdraiandosi, sommergendosi, ma entra. A bordo c'é una giovane coppia di sposi: sono stati sradicati dalla burrasca dall'ancoraggio della Molpa, presso Palinuro. Sono stanchi ma felici di essere in un porto che sembra sicurissimo chiuso com'é da ogni lato. Ormeggiano e scendono a terra per ristorarsi. Mi tocca saltare come un grillo sulla barca che danza in modo folle nonostante le cime che cercano di tenerla. Non mi ricordo il nome della barca ma viene subito soprannominata "la ballerina". Tento di tesare il cavo dell'ancora, ma non viene in forza. Tira, tira, viene su l'ancora! Anche Filippo, uno dei due skipper del Lupo di Mare, viene in soccorso. La Sgnuffi la aggancia col mezzo marinaio per evitare che ci sbatta contro, un ragazzo col canotto tenta di riportare l'ancora. al centro del porto.

Il ballo di risacca si fa sempre più pauroso. Arrivano macchinate di skipper e di marinai a spostare i motoryacht verso il centro, del porto allontanandoli dalla banchina. Ma il centro del porto come tutti i centri é puntiforme e non potrà mai ospitarci tutti. I bravi ragazzi in maglietta osservano allegramente che se il mare aumenta ancora bisognerà uscire per salvare le barche. Uscire!?  Passare attraverso quell'intestino retto, quello sfintere ribollente, sfiorare le cannonate e poi trovarsi in quel caos di acqua? Povera Sgnuffi, il gallo non ha cantato per la terza volta ma io piuttosto ti saluto e prendo il treno.

Il ballo aumenta. La Sgnuffi va avanti e indietro e Lupo di Mare indietro e avanti. Le crocette si sfiorano pericolosamente. Pinne e maschera e muta. L'acqua del porto è torbida di sabbia ma non sporca. Seguendo la catena arrivo alla mia imitazione di Danforth posata sulla sabbia del fondo. La sollevo e cerco di portarla oltre alcuni macigni che stanno tre metri più in Ià. Fatica da Sisifo! Faccio mollare un po' di catena mentre Filippo dalla banchina puntella la poppa col mezzo marinaio per evitare che sbatta. Porto la catena sul fondo con sommozzate continue e infine riesco a spostare la mia imitazione di Danforth rifilatami come autentica.

E' ancora Filippo, robustissimo, che viene in mio aiuto. Agguanta i remi e fa forza: lo scalmo di plastica Pirelli si spezza come plastica qualsiasi della peggior marca. Il canotto defluisce sull'ondata di risacca. Provo col motorino: quattro cavalli non bastano per vincere la risaccuccia del porto, mentre insulti atroci si levano al cielo all'indirizzo dello sconosciuto lazzarone che ha progettato il porto trappola.

Siamo Ià dentro e non possiamo starci, non possiamo andarcene! Arrivo a buttare la CQR usando un canotto rigido. Adesso sono afforcato con due ancore ad angolo acuto ma il mare ignora tutto e la Sgnuffi continua ad essere portata indietro di metri e metri fino alla banchina per poi ripartire con violenza incredibile richiamata dalla grande tensione della catena e del cavo, piombato. Come elastici di una fionda si tendono schioccando le ci- me di poppa. Scendere in banchina è adesso un gioco di alta abilità: usare il canotto é pericoloso perché le barche fanno avanti e indietro come giganteschi pistoni che potrebbero spiaccicare canotto e malcapitato contro i massi squadrati della severa banchina. E allora ci si mette all'estrema poppa e si attende: quando l'onda innalza la poppa e la spinge verso la banchina si coglie l'attimo culminante del moto per balzare a terra. Una frazione di secondo di ritardo e si è perduti.

Cala la notte e cala una pioggia della madonna. Ma lo skipper non può stare dentro:l'avanti e indietro della barca è davvero pazzesco. Le cime schioccano paurosamente. Ed infine il primo schianto: una cima di nylon da diciotto millimetri che aveva sollevato ironia al Circeo per la sua esagera

Dal piazzale macchine accendono i fari: altre ne arrivano. Vengono a godersi lo spettacolo di quei pazzi che resistono su quelle barche sollevate, inclinate, spinte avanti e indietro, che sbattono, urtano, si sdraiano, si impennano in una sarabanda infernale.

Dal Lupo di Mare mi passano una cima: ci leghiamo di prua e poi io ne passo un capo alla "ballerina" che si leghi anche lei. Forse ondeggiando in massa... Crash! Le crocette! La mia crocetta ha incocciato in quella di maestra di Lupo di Mare e gli ha divelto il paravele. Ci stringiamo di più, cercando di incastrare la mia unica crocetta equidistante dalle due di Lupo di Mare.

Passa la notte a cambiar cime, a controllare, a sperare. Viene il giorno ma il ballo continua. Continua il maestrale. Solo la pioggia dà requie. Pallidi, con occhi cerchiati e stomaco contratto, facciamo tutti il salto da poppa atterrando più o meno bene in banchina abbracciati al bittone triposto.

Da lì osserviamo il gran ballo, della Sgnuffi: pazzesco pensare che siamo stati là sopra per tutta la notte! La prua a tratti si alza verso il cielo, resta un attimo, sospesa e poi schianta giù mentre la poppa si inclina a quarantacinque gradi innalzandosi di un paio di metri prima di schiantare con movimento avvitante dal lato opposto. Il colpo d'occhio sulle barche é grandioso: ognuna ha un suo movimento, un suo passo di ballo. Non sembrano affatto ricevere tutte la stessa onda. La "ballerina"ritma un fantastico shake scodettando venti volte al minuto con grazia e leggerezza. Lupo di Mare danza un potente tango figurato invertendo con grazia e possanza la sua marcia tra ancora e banchina, banchina e ancora.

Un motoryacht di dieci metri sta ritmando invece un vorticoso walzer al centro del porto con furiosi giri concentrici e doppi passi. Sambe e rumbe sono saltellati senza respiro dalle barche più piccole, mentre una vecchia paranza appesantita d'acqua si inchina al ritmo di uno spirou. Mentre io, il secondo e Amarilli decidiamo per le sedie del bar, Costantino si arma di canna e lenza e va a torturare un paio di signori che ha scorto sul molo. Sto finendo il mio cappuccino quando un grido di vittoria risuona argentino sovrastando acuto il rombo del mare:

- L'ho preso! L'ho preso! L'ho preso! - Costantino corre attraverso il piazzale con la canna e la lenza in pugno: all'amo guizza qualcosa lungo una dozzina di centimetri.- L'ho preso! Papà! Papà! Ho pescato! Un un cefalo! Quel signore mi ha detto che è un cefalo! L'ho preso là, vicino al pescberegio! -

Mettersi adesso a spiegargli che si dice peschereccio sarebbe ignorare tutto della psicologia infantile. Ci toccherà tornare a bordo, perché Costantino vuole assolutamente pranzare col "suo" cefalo al sugo.

Alberto, l'altro skipper del Lupo di Mare, mi invita a una pescata per distendere i nervi. Io lo capisco: andare sott'acqua, in un mondo di silenzio e di immobilità, lasciare per un poco la follia che c'è sopra è davvero come un sonno ristoratore.

Pinneggiamo verso la testata del molo di sopraflutto. Arriviamo nella zona del ribollimento. Schiuma fino a cinque metri di profondità. Forse qualche cefalo, ma la forza delle ondate è troppa e bisogna impegnarsi completamente per non farsi scagliare sui massi della base del molo. Mi sposto qualche metro al ridosso, e mi immergo. A dieci metri c'è una strana conformazione, come un portale inca. Due enormi massi verticali reggono un lastrone orizzontale alla Stonehenge. Oltre la gran porta, un buio misterioso. Mi affaccio: qualcosa di scuro, di enorme mi volteggia sul vetro della maschera spinneggiandomi sul naso. La cernia più grossa della mia vita! Non mi sono neanche ricordato di avere il fucile! Riemergo eccitato. Chiamo Alberto e torniamo sotto in due. Varchiamo il portale: dentro ci sono quattro corridoi. che si perdono nel buio. Li esploriamo fino alla prima curva uno dopo l'altro: il cernione deve essere nel suo boudoir più interno. Poi a terra ci diranno che é da tempo che il cernione abita quella tana, ma nessuno riesce a prenderla.

Il folle ballo, di Maratea dura tre giorni e tre notti. Spezzo due cime a poppa e ne riduco una terza al lumicino. Sposto la finta Danforth quattro volte spinneggiando come un pazzo. Sfioro la banchina con la poppa infinite volte in un incubo ossessivo. Nessuno dorme per tre notti. Alla terza sfondiamo la porta di una delle casette ancora non terminate per andare a mettere dei materassini a terra e far dormire almeno i bambini: ma Amarilli e Costantino hanno paura a starci da soli, il secondo sostiene che posso avere bisogno di lei per una manovra improvvisa e io non posso certo lasciare la barca: vorrebbe dire perderla.

Quando all'alba del terzo giorno il vento cala, quelli del Lupo di Mare decidono di partire. Fuori il mare e' ancora grosso ma andrà certo calando. lo guardo le ondate che continuano a frangersi con clangori sotterranei contro le rocce a francamente non me la sento.

Lupo di Mare leva le ancore e affronta lo sfintere. Sballottolato, coperto di schiuma, passa. Corro sul molo di sopraflutto per vederlo in mare. Cavalca le grandi onde con la leggerezza di un puro sangue. Mi viene voglia di andare: mi han detto che a Marina di Camerota c'è un porto serio. Abbiamo un mezzo appuntamento Ia. La mia paura é il pozzettone: se il mio pozzettone si riempie, poi chi lo vuota? Certo, i buchi perché è autovuotante, se Nettuno gli dà un quarto d'ora di tempo tra un'ondata e l'altra. Avevo chiesto all'ingegnere di allargare i buchi, dovevo insistere.

Dopo un paio d'ore passate a rimirare le frange schiumose che si arrampicano su per Ia parete nel disperato desiderio di constatare come siano adesso meno alte, annuncio all'equipaggio abbrutito, Ia decisione di partire. Il desiderio di abbandonare il porto trappola supera Ia paura del mare grosso. Nessuno obbietta. Si salpano le due ancore e metto motore dirigendo, baldanzosamente verso lo sfintere.

Uscire é più facile che entrare. Si tratta certamente di una questione di ottica: dallo stretto andare nel largo, sembra più facile che dal largo infilarsi nello stretto. I salamelecchi dell'albero ai due moli mi spaventano meno perché adesso so che non tocco e che mi raddrizzo. Eccoci di nuovo in mare. Posso far rotta sui cavalloni e anche Ia Sgnufli si comporta bene cavalcandoli con disinvoltura. Il vento adesso è appena tre e tiro su Ia randa. E’ giovedì 26 luglio.

Il VHF tace, Napoli Radio é ancora lontana. Il moto ondoso sventa a tratti le vele che poi si gonfiano di colpo di vento con sonori flop. Sono seduto in pozzetto alla scotta delIa randa e sto addentando un super panino amorevolmente composto dal secondo quando al flop della sventata mi ritr vo un bozzello praticamente fra i denti: tutto l'accrocco che demoltiplica Ia scotta della randa si é staccato dal boma cadendomi sul panino proprio mentre me lo sto infilando in bocca. Il bel panino viene sbriciolato dalla botta mentre io saltello per il vasto pozzetto succhiandomi le unghie crudelmente pestate.

La Sgnuffi strapuggia, stramba e straorza. E boma va da una sartia a quella opposta. Lo acchiappo e divento scotta di randa vivente: solo adesso mi rendo conto della vera forza che un venticello qualunque esercita su una randina come Ia mia di quindici metri quadri! Il boma mi porta a spassoper il pozzetto, devo puntare i piedi a murata per reggere la spinta. Urlo:

- Datemi la scotta!- Costantino mi guarda interdetto: 

- Che cosa scotta?-

- La scotta! la cima! Quella cordaccia lì-!

La Sgnuffi rolla col mare al traverso. Amarilli rotola in fondo al pozzetto con il bozzello in pugno. Il secondo è abbrancato alla ruota nel tentativo di tenere la rotta.

- Prua al ventooo! - strillo mentre le braccia mi si allungano nel disperato sforzo di reggere il boma.

Per caso o per scienza la Sgnuffi mette la prua al vento e la forza del vento sulla randa cala. Posso reggere il boma con una mano e acchiappare il bozzello della scotta della randa: solito guaio! Ancora una volta é saltato il pernetto del grillo! Ingegnere, ingegnere quante volte il tuo nome è stato ripetuto invano su quel mare che si va allungando al largo di Maratea! Imbriglio il boma alla meglio con tre giri di scotta e poi mi precipito a cercare un grillo di ricambio. Sfioro con l'alluce il bordo d'entrata, abbranco la cassetta dei ricambi, la spalanco, acchiappo uno dei bei grilloni da 1.500 lire che avevo comprato a suo tempo e piombo a sostituire quello che ha ceduto. Pochi minuti dopo, siamo di nuovo in rotta. Colto da atroce sospetto vado a prua ed esamino il grillo del fiocco: stessa solfa. Il pernetto è già discretamente storto e pronto a saltare da un momento all'altro. Vorrei sostituirlo subito ma lo stroppo ha un occhiello troppo piccolo per un grillo da 1.500 lire, è proprio dimensionato per quelli da cinquecento lire. Faccio un conto: i grilli così sul Multi sono quattro, ce to che il cantiere ha fatto un bel risparmio! Pazienza: nessuno e' perfetto!

Venendo da sud l'imbocco del porto di Marina di Camerota è ben visibile e accosto senza problemi. A pochi metri .dal molo di sopraflutto spunta dall'acqua una curiosa sovrastruttura: chissà, forse un traliccio per reggere un fanale che non c'è, o i resti di una boa che segnala un bassofondo. Giro al largo per prudenza ed entro nell'ampio e tranquillo bacino portuale. L'ampio giro di banchina è gremito di natanti. Il sud deserto é gia finito, stiamo rientrando nei depositi perenni su tre file. Forse bisognerebbe istituire una specie di parcheggio orario: quando il mare è buono, sosta permessa quattro ore, non di più. Cullandomi in stupide utopie accosto all'ultima barca del-a fila che e' il nero Lupo di Mare. Già Filippo mi fa ampi segni per guidarmi proprio al fianco della sua barca. Però la banchina finisce col Lupo di Mare, il molo continua ma non é più banchinato e c'è pericolo di sbattere contro i grossi massi buttati in disordine alla sua radice. Con oculata manovra riesco ad accostare. La poppa mi resta a quattro metri dal molo ma col canotto é facile e rapido raggiungere la banchina. Le cime di poppa le vado a legare tra le pietre, cercando di ignorare gli strati puzzolenti da letamaio accumulati tra i massi. A Marina di Camerota han fatto un bel porto e adesso devono fare dei bei cittadini insegnando loro che i moli portuali no-n servono assolutamente per lo scarico delle immondizie. Ho appena terminato l'operazione ormeggio che entra in porto un peschereccio gigante e, bello tranquillo, manovra mettendo la poppa in direzione dei due metri di spazio che ho lasciato fra la Sgnuffi e Lupo di Mare. All'estremità della banchina si sta radunando una piccola folla di donne e bambini che salutano i marinai del peschereccione. Qualcuno mi chiede di fare spazio perché dal peschereccio devono scaricare in banchina. Che fare? Un volenteroso già zompetta tra le immondizie per liberare le mie cime di poppa e spostarmele di pochi metri. Mi tocca salpare l'ancora e spostarmi tirato da poppa con le cime da ormeggio. La poppona del peschereccio super si infila agevolmente nella decina di metri che adesso mi separano da Lupo di Mare dalla cui coperta Filippo e Alberto mi fanno segni di rassegnazione.

Sto per mettere in  acqua il canotto quando avverto un colpetto a prua: un barchino mezzo marcio qualcosa che un tempo fu una barchetta a vela, sbataccbia in fiancata, ormeggiato ad un gavitellino. Vado a terra con una cimetta, saltello sulle buste colme di rifiuto e tento di tirare un po' più in là  il barchino. Ma non c'é verso. E' ben ormeggiato al gavitello che tende sempre a tornare sotto la mia prua. Torno a bordo e studio un accrocco col mezzo marinalo: aggancio il barchino e lo spingo via, poi fisso il piede del mezzo marinaio alla rete che ho fra i candelieri. La rete è fitta ma il piede del mezzo marinaio tende a sfondare. Lo avvolgo con buste di nylon e alla fine tiene. Sto osservando con compiacimento la mia geniale soluzione quando un cupo suono di sirena mi fa alzare la testa: un secondo super peschereccio sta tranquillamente manovrando per infilare la poppa nei due metri di spazio rimasti fra ]a Sgnuffi e il primo peschereccio rompiglione.

- Eh no! Qua un po' alla volta mi sbattono fuori dal Porto!-

Il nuovo gigante accosta e da bordo mi urlano di non muovermi. Io non mi muovo ma la mole in avvicinamento è tragica.Dal primo peschereccio, già ormeggiato viene passato al nuovo venuto un cavo che ha il diametro d'un cosciotto della Sgnuffi bionda e viene dato volta sull'argano di poppa. Adesso il secondo gigante avanza macchine al minimo strusciando sui pneumatici da camion che fungono da parabordi del primo peschereccio. Noi siamo tutti a prua della Sgnuffi armati di parabordi ridicoli ometti contro il mostro. Un urlo: il cavo è uscito dall'argano. Un attimo di panico. Il peschereccio allarga verso di noi, ci sfiora mentre noi puntiamo le nostre aste disperati. Bestemmie feroci dell'equipaggio dei due pescherecci e il cavo viene rimesso in tensione appena in tempo. Un centimetro per volta l'immane mostro si allontana di nuovo ma resta alla fine a Poco piu' di mezzo metro da noi. Ci sovrasterà per tutta ]a notte e le parole rassicuranti dei marinai rassicurano poco.  Seratina mondana con passeggio sul lungomare e coppe di gelato offerteci dagli amici del Lupo di Mare.

Il giorno dopo si fa vela per San Marco di Castellabate. Il tempo si è di nuovo ingrugnato e così! passiamo davanti al bel Palinuro con un mare in crescendo e non possiamo, fermarci come previsto per visitare le sue famose grotte.

Sulle secche di Punta Licosa soffia a forza sei e il mare schiumeggia notevolmente. Si balla ma non c'è problema perché ormai siamo abituatissimi e abbiamo trovato i posti dove si devono incastrare gli oggetti per non ritrovarseli in testa ad ogni scrollone: nel lavello si incastrano bene le bottiglie e i termos, occorrerà costruire qualche violino per le bicchieruole che adesso suonano le une sulle altre (i violini non servono per accordare il suono ma per tenerle ferme, infatti si chiamano misteriosamente così quella specie di piccole casseforme in legno per piatti e bicchieri). Sulla cuccetta a pullman si possono lasciare squadrette e compasso e matite. Invece I'Hitachi e la bussola di rilevamentoè6 bene metterli a pagliolo sotto il tavolo pieghevole. Ognuno di questi oggetti (e tanti altri) han trovato il loro posto a forza di farci bernoccoli e lividi ogni volta che si è mosso il mare. Adesso che la crociera volge al termine saremmo quasi pronti per cominciarla. 

Doppio Punta Licosa bene al largo per essere sicuro di andare franco dalle secche e poi accosto, per entrare nel golfo di Castellabate. Il mare mi becca quasi al traverso perfetto e diventa difficile restare in piedi nella pancia ondeggiante della Sgnuffi. Io sto attaccato alla ruota del timone e al massimo mi spello le nocche delle dita sul famoso, spigolo, del mobiletto del cruscotto, però mi spello gli occhi alla ricerca affannosa di questo San Marco di Castellabate. Il giro della costa del golfo si presenta perfetto senza segno veruno di opera portuale. Due agglomerati di case: quale sarà San Marco e quale Santa Maria? Comincio a tirar giù anche gli altri santi per far mazzo. In un ritaglio di fotografia del porto pubblicata sulle pagine di Quattro Ruote Mare vedo che dietro al porto ci sono delle arcate. I cavalloni ci spingono verso terra senza pietà e sento che spesso il timone non governa quand'è preso nel cavo dell'onda.

- Sgnuffi! Qual'è il porco porto? Questo a destra o quello a sinistra!? - grido al secondo che aguzza la vista: equamente sistemate due massicciate si defilano rasenti alla spiaggia sia presso un abitato che presso l'altro. La Sgnuffi indica a sinistra:

- Secondo me il Porto è là! - E questo scioglie il dilemma. Lo scioglie nel senso che dirigo sicuro dalla parte opposta. Mica per spirito di contraddizione ma perché ogni skipper deve sfruttare al massimo le qualità del suo equipaggio e io so bene che il mio secondo unisce ad una acuta vista un incredibile senso dell'orientamento. Incredibile nel senso che sbarella di centottanta gradi precisi. Basta farle fare il giro del palazzo in cui abitiamo da una una dozzina d'anni per confonderla totalmente. (Fu infatti con un trucco, del genere che le feci infilare ignara il Inio appartamento da scapolo ai bei tempi ... ).

Infatti una veletta, si dibatte fra le ondate e poi schizza dietro alla massicciata di dritta: ]a bocca del Porto diabolicamente mimetizzata come sempre, Qua ogni porto è "cosa nostra" e lo trova soltanto chi lo ha costruito, i suoi parenti di primo grado, una signora che si fa di nascosto dal marito e un cefalo da fogna che si lascia guidare dal suo istinto di merda. Queste ed altre vieppiù colorite frasi mi escono dalle labbra mentre mi infilo nella sdentata bocca di San Marco. Lupo di Mare dondola già alla fonda con la poppetta affilata in banchina. Anche qui Filippo e Alberto mi guidano nella manovra e metto la poppa tra una dozzina di maleodoranti cassette di pesce marcio, tre taniche sfondate, una partita di preservativi galleggianti, una ciabatta di quella signora che si fa il costruttore e una partita di bucce di anguria scavate a barchetta dai dentoni dei sanmarchettari.  Colorito mare italiano sul quale mi piace innalzare un cartello con la scritta: PORCO TURISTICO, ma purtroppo nel mare di altre cartacce non si nota neppure. Pazienti pescatori buttano le lenze nei varchi che riescono a farsi prendendo a calci le cassette galleggianti.

Però c'e' acqua. Un rubinetto in banchina con I'acqua. Corro con la manichetta (che non é quella della giacchetta ma il tubo di plastica) per fare il pieno e lo attacco felice al rubinetto. Ma qui il sindaco, o I'assessore o chi cavolo se lo frega di qualcuno, ha avuto una gran pensata: sul rubinetto c'é uno di quei pulsantini: se premi viene acqua. Se molli non viene più. Poiché il rubinetto ha un diametro di un centimetro per riempire i miei seicento litri di cassoni sembra che dovrò passare tre ore e tre quarti a premere il bottone, munito fra I'altro di una molla di contropressione davvero energica. Intorno, i resti di cento marchingegni escogitati dagli skipper per bloccare l'infernale rubinetto in posizione di erogazione: fili di ferro arrugginiti, pezzetti di canna, un mare di minerva spezzati, chiodi, elastici, un preservativo (non é colpa mia se qui li usano più della pillola!) un bossolo di pistola (forse qualcuno nervosetto gli ha sparato dentro) spaghi spaghini e spaghetti, bastoni, forcine, ami contorti e teste d'acciughe. Mancano solo le teste di minchia dei rubinettari locali.

E’ Filippo che riesce a bloccare il pulsante dopo una mia mezza ora di inutili tentativi. Lo blocca con fil di ferro e due pezzi di legno: uno che preme sul pulsante e un altro che girando sul fil di ferro ne moltiplica la pressione. Viva Filippo! Per premio gli dò I'altro capo della manichetta per una bella doccia.

Ahi, ahi! Saltella il povero Filippo sotto il getto dell'acqua che gli arrossa la pelle. Butta la manichetta che investe con uno schizzo Amarilli che strilla e zompetta: ahi! Ahi! . La Sgnuffi sbuca da sotto coperta e agguanta la manichetta:

- Oh finalmente posso farmi una doccia senza sentire brontolare il Pagnucco (io N.d.A.)! - e si gira I'acqua addosso sbarrando gli occhi e lanciando un ululato. Mi avvicino e tocco l'acqua: è bollente! Per un attimo resto perplesso: ecco perché quel pulsante! E io che li avevo insultati! Qui distribuiscono gratis acqua calda e naturalmente si preoccupano che non vada sprecata! Poi il mio sguardo va oltre il rubinetto sui duecento metri di tubo di ferro che corre al sole prima di sparire nella sabbia rovente davanti all'albergo dalle arcate. Acqua calda gratis sì, ma elargita dal dio sole!

- Chi si vuole fare la doccia? Chi si vuole fare una bella doccia calda? - passo con la manichetta di barca in barca perché l'acqua bollente non la posso mettere nei serbatoi e spero che scorrendo si rinfreschi. Dai pescherecci sudati e unti marinai mi guardano senza alcun interesse addentando angurie e scaraventando le bucce in acqua. Dopo un'ora l'acqua continua a scorrere calda. Bisognerà aspettare la notte per fare il pieno.

Cena a bordo dopo inutili tentativi di telefonare al Circeo. Inutili con la radio, inutili coi telefoni a gettoni che ingoiano tutto e non restituiscono più niente.

A bordo del Lupo di Mare ci sono visite. Filippo e Alberto qui sono di casa, queste sono le loro acque abituali. Mi presentano così il "più grande pescatore del mondo", Petracchione conosciuto anche ai CB come Radio Grillo. Petracchione pesca le cernie da un quintale calando sagole da un centimetro con raffi al posto degli ami innescati con polpi interi. Per la ferrata si mette la sagola su una spalla e si piega con violenza in avanti, poi tira su con l'incredibile forza delle sue braccia. Subito dopo la guerra venivano a spiarlo da centinaia di chilometri di distanza, ma Petracchione le sue secche le conservava segrete. Ancora si racconta di una epica sfida tra Petracchione e alcuni magnati del big game fishing presentatisi come i più randi pescatori del mondo. Scommesse da diecimila lire a pesce erano allora pazzesche perché c'erano i pesci ma non le diecimila lire. Adesso é chiaramente tutto all'inverso e le diecimila servono per comprare le esche ma non ci sono più i pesci.

In ogni modo Petracchione contro tutti: porta la barca sulle sue secche e tutti buttano le lenze. I magnati hanno lenze di monofilo di nylon: roba allora quasi sconosciuta e di gran lusso. Petracchione butta canapi ritorti, ma dopo trenta secondi si piega a pagliolo per ferrare. Tira e commenta: questa é una cernia piccola, quaranta chili non ci arriva... I magnati ridono finché il testone immenso della cernia non affiora e Petracchione la sbatte a pagliolo. Adesso, la sfida, va a farsi benedire davanti allo stupore, alla gioia di quei pescatori che mai avevano tirato su e visto tirar su roba del genere. Petracchione acclamato re delta pesca accetta di mostrare il sistema alla moglie di uno dei magnati e anche questa dopo un po' sente la toccata e Petraccbione acchiappa il canapo e, con uno'strattone violento, ferra. Poi ripassa la lenza alla donna affinché recuperi il pesce. La donna tira con tutte le sue forze. Niente. Tira il marito e dice che l'amo si è impigliato in una roccia. Tira Petracchione e senza sforzo sale il pescione. Robetta da trenta chili. Insomma la sera i poveracci tornano in porto abbarbicati sul flying perché il pozzetto e' colmo di cernioni. Il peso massimo é di centoventi chili.

Petracchione sogghigna: qualcosa può ancora tirar su anche oggi se vuole, certo la pacchia di allora é finita per sempre. E sospirando acchiappa un pezzo di monofilo di nylon da cento e lo strappa con un colpo delle mani. Strabuzzo gli occhi: per quel poco di traina che ho fatto so bene la resistenza di un monofilo simile! Filippo ride vedendo lo stupore e mi narra la storia della messa in crisi di una fabbrica di nylon il giorno in cui portarono nei suoi magazzini Petracchione. La richiesta e': un nvlon di quello buono, resistente. Il direttore mostra del buon monofilo da trenta. Petracchione lo acchiappa e dà uno strappo. Il direttore sorride: non vorrà mica rompere il nylon con le mani? Quello gli sega la pelle! Il suo monofilo ha una resistenza alla trazione pari a cento libbre per... Ma sgrana gli occhi: Petracchione ad un secondo strattone l'ha spezzato con leggero schiocco e butta i due pezzi: quel nylon non è buono. Lui ne vuole uno buono. Il direttore gli dà del monofilo da sessanta. Stessa scena. Petracchione scuote la testa: non è buono! Si arriva al monofilo da cento e poi il direttore scappa a bersi un grappino o a nascondersi da qualche parte.

Petracchione intanto parla col CB e usa il suo pseudonimo in barra nautica che è Cirillo Radio. Voci amiche, scambio di notizie. C'è anche un frocetto Volpe Qualcosa che vuole conoscere Petracchione , personalmente... Dio salvi il Re! Come dicono a Buckingham Palace ogni volta che la regina rompe le noci con le chiappe. Tra una storiella e l'altra si fa tardi. Domani Lupo di Mare torna a casa, a Salerno. Noi invece si farà rotta per Amalfi. Così siamo agli addii.

Traversata per Amalfi quasi senza storia con vento di prua e tutto motore. Amalfi e' bella da qualunque parte la si guardi. Civilissima anche nelle pulitissime acque portuali che pure sono molto più frequentate di quelle di San Marco. Segni di antica civiltà anche nella gente. L'ormeggiatore autorizzato e' un signore vestito di un completo candido, al quale non oso dare la mancia perché resto nel dubbio fino alla fine se sia davvero un ormeggiatore o solo un cortese professore di filosofia che si trova a passare per la banchina. Gentile il ragazzo che viene ad offrirci il ghiaccio e sorride quando gli mostro il frigorifero di cui la Sgnuffi quest'anno è munita. Cortese la barista alla quale lascio in deposito il cesto di bottiglie vuote per poi riprenderle piene al ritorno.

La visita al duomo di Amalfi vale tutta la lunga scalinata al sommo della quale si erge. La macchina dentro la chiesa che dovrebbe parlarmi della storia del Duomo ingoia le cento lire e tace: ma qui siamo già in territorio clericale. Mi accodo ad una comitiva di inglesi e ascolto la piatta cantilena della guida. La povera Sgnuffi supersex è dovuta,restare fuori perché un gran cartello avverte che i fedeli possono entrare soltanto se "cristianamente" vestiti. Inutile quindi presentarsi come un povero cristo. Le belle gambe della Sgnuffi che tutti possono ammirare nude e abbronzate per la strada, diventano peccaminose e disdicevoli al di la dei bellissimi portali dell'antico Duomo. Povera Chiesa quanta strada ti resta da fare! La Sgnuffi e i pargoli sfogano il loro malumore comprando ninnoli e souvenir.

Al tramonto ci raggiungono altri tre pargoletti e relativi genitori. Sono fratello e cognata della Sgnuffi che hanno ben filiato e adesso si va tutti a festeggiare con pizze e vino bianco gelato. Domani ho in programma un giro a Capri per poi arrivare ad Ischia per la sera. A Ischia c'é un'altra sorella della Sgnuffi con relativi pargoli. I miei invece sono tutti alpini.

Duilio, che sarebbe il fratello della Sgnuffi che ha ben filiato, decide di tornare a Napoli e scaricare la buona filiazione nonché la brava madre di famiglia e tornare per l'alba del giorno dopo con l'autobus di linea: così potrà accompagnarci nel tratto di crociera. E così è.  Prima di salpare, il professore di filosofia che forse qui fa l'ormeggiatore, ci porge un foglietto in cui la premurosa Capitaneria si informa sul nostro programma. Chissà, forse per dare l'allarme nel caso non arrivassimo a Ischia, o più semplicemente per mantenere un'antica tradizione. Forse il foglietto verrà subito archiviato e dimenticato.

Mare buonino e Capri subito a prua. Capri é il punto debole della Sgnuffi, mica la barca che se ne frega ovviamente, della Sgnuffi a 37°. Sono anni che ci rimpinza di aggettivi: Capri è il più bel posto della Terra, Capri è unica e meravigliosa, Capri è la terra dell'amore, Capri ha colori incredibili, Capri residenza di imperatori, eccetera eccetera eccetera. Capri è stata sopratutto la vacanza dei suoi sedici anni. Sedici anni virginei e romantici, sedici anni come quelli della buona Nonna Speranza, sedici anni così diversi da quelli delle sue coetanee da renderla più vicina a una lettera di Jacopo Ortis o a un lamento del giovane Werter che alla copertina di Playboy di cui pure ha tutto l'aspetto esteriore.

Colma la mia testa, la Sgnuffi ha riversato i suoi aggettivi da liceo classico nelle teste dei pargoli che adesso aspettano questa famosa Capri dall'acqua cristallina e unica dove le barche appaiono come sospese nel nulla e i fiori danno all'aria l'intenso profumo di un sogno d'amore, con un sorriso sarcastico ben fisso sulle labbra. Guardo, le faccette impietose e già colme di sadica maligna gioietta mentre fissano la famosa forma della più famosa isola del mondo e prego tra me: Fatti bella Capri, fatti bella altrimenti oggi sarai bollata per i tempi dei tempi.

Il cielo si abbigia. Il mare ha un colore scuro, poco invitante. Accosto a Capri puntando verso i Faraglioni: voglio dare all'isola tutti i vantaggi arrivando proprio nel suo punto più famoso, più decantato. Ecco, ora i "pipoli" lanceranno esclamazioni di meravigliato stupore e smetteranno la loro aria da supercritici. 

Ma è un brutto giorno per la Sgnuffi. Il cielo musona. I faraglioni dopo aver visto Panaruzzi, Strombolicchi, Formiche, Sconcigli, Canne e Botti per un intero mese si rivelano anche ai miei occhi indulgenti come degli onesti normali scogli vicini ad un'onesta normale costa. Il mare è torbido e le scogliere sono un carnaio. Stalattiti di gambe scolano per ogni dove. Barchini affollano l'orlo dell'isola per l'intero giro.

Amarilli e Costantino si guardano e poi cominciano a storcere la bocca schifati. La povera Sgnuffi si arrampica sugli specchi: oggi e' brutto, oggi c'è troppa, gente, abbiamo sbagliato faraglioni (sì, ba detto anche questo!), l'isola è bellissima dentro, le stradette e le botteguccie, la piazzetta e le verandine fiorite. Ma nulla cancellerà più la smorfia di sarcasmo dalla faccia dei "pipoli" che girano il dito nella piaga: meglio Ponza. Palmarola cento volte meglio. Tutto qui Capri? E così via. lo taccio e guido la Sgnuffi di indifferente vetroresina al periplo dell'isola alla ricerca di un posto per buttare l'ancora e pranzare.

Barche dovunque e grappoli umani sulle scogliere. Amarilli comincia a calcolare come deve essere pulita l'acqua di Capri supponendo che tutte quelle persone facciano cacca e pissi anche soltanto una volta al giorno. La bionda Sgnuffi si è chiusa in sdegnoso riserbo e invoca a tratti la conferma del fratello:

- Dillo tu, dillo tu com'era bella Capri! - 

- Era! Era! Era! - fanno in coro gli impietosi. Devo intervenire col tono burbero del secondo dopo dio per zittirli: si butta l'ancora! Ho spinto la Sgnuffi in un'insenatura dove già vedo all'ancora un bel po' di barche e motoscafi. Giù tutta la catena nell'acqua cupa. Avrà toccato il fondo l'ancora? L'onda ci fa dondolare sensibilmente ma per noi, marinai rotti ormai a ben altri sballottolamenti, la cosa è quasi inavvertibile. Il povero Duilio sbianca e la pastasciutta del suo piatto mostra viso incerto sulla direzione da prendere. Duilio insiste per farla scendere nello stomaco ma quella lotta per tornare dallo stomaco al piatto.

Per non darla vinta a quella stupida pasta, Duilio decide che è bello fare un bagnetto e si tuffa. Bello non è perché l'acqua è fresca. Visto che ormai è dentro gli dico di andar sotto a dare un'occhiata all'ancora. Si immerge e riemerge sbuffando: per quanto ha potuto vedere la catena scende dritta dritta a piombo sotto la prua. Tanto vale tirarla su e andarcene. Tra gli sghignazzamenti dei pargoli, la Sgnuffi in vetroresina volge la poppa all'ingrugnata Capri mentre quella polposetta volge il fondo schiena al colto e all'inclita andandosi a chiudere nella toilette. Quel localino che prima si chiamava gabinetto per non dire la parola cesso che a sua volta era stata inventata per non dire il vero nome del posticino che era cacatoio. Mentre sto tenendo, questa dotta lezione di etimologia fuggiamo da Marina Piccola che intravediamo colmissima di barche e chiusa al traffico, per puntare su Ischia, la verde.

A Ischia la verde c'é il più bel porto del Tirreno. Lo sanno tutti e quindi inutile ficcarcisi dentro. C'é il porto nuovo di Casamicciola che è anche più vicino alla casa della sorella della Sgnuffi. Porto nuovo di notevole vastità con ancora qualche posto libero in banchina. Ormeggio regolare e poppa in banchina. La Sgnuffi ancora traumatizzata dal nostro periplo di Capri non scende. lo, Duilio e pargoli si parte alla ricerca della casa sororale.

Sarà che Duilio é ancora nautopata e si sente rollare l'asfalto sotto i piedi, sarà il sole ancora così caldo, fatto é che sbaglia strada e ci guida verso monte Epomeo. Una scarpinata tremenda con la lingua fuori per la sete. Ansimanti e distrutti arriviamo infine alla casa sororale che poi era a duecento metri dal porto! Ma la sorella non c'é più perché aveva il turno all'ospedale a Napoli (non come malata ma come medico) e c'é invece la moglie del fratello del marito della sorella. Poi arriva anche il fratello del marito della sorella e mi comunica ufficialmente che la mia decisione di ripartire l'indomani per Ventotene é sbagliata. Mi interesso vivamente: perché? Perché Ventotene é molto lontana da Ischia, più di sessanta miglia e non ce la faccio in un giorno. Io so che Ischia è quasi equidistante tra Criiù e Vento-ene e mi ricordo che da Forio, ai bei tempi dell'adolescenza del mio folle felice matrimonio, vedevo perfettamente l'isola stagliarsi come una scatola da scarpe posata sul mare. Timidamente osservo che, a meno di spostamenti dell'ultima ora ma che certo sarebbero comunicati ai naviganti tramite gli Avvisi dell'Idrografico, Ventotene dista da Ischia venti-ventidue miglia. Ma il fratello del marito della sorella della Sgnuffi é assolutamente categorico: Ventotene é lontana, molto lontana. Non mi resta che tornare subito in barca a controllare. 

La notte nel porto di Casamicciola è perfettamente consigliabile ai sordi. Dopo una serata colma di sirene laceranti di vaporetti che suonano prima di attraccare e prima di salpare, cala di silenzio del dopomezzanotte. Tutti noi raggiungiamo le cuccette e schiacciamo l'inerme pisolino che non può opporsi ne' lamentarsi. Ed e' un pisolino piccolo piccolo perché alle ore 02.00 tempo locale l'ululato bestiale di una sirena ci fa balzare tutti in piedi. I colpi delle cinque capocciate si susseguono velocissimi: tom, tam, too tek, tic. Tic é il colpetto lieve di quella di Costantino che sfiora appena lo spigolo del portabiti sopra la sua cuccetta. L'ululato spaventoso che ha frantumato il povero pisolino é seguito da uno schiaffone acqueo che ci manda tutti e cinque imbambolati a sbattere una seconda capocciata contro la murata di dritta: pom, pam; poc; pek, pic. Pic è il colpetto lieve della testa di Costantino che sfiora il bordo della porta della sua cabina che si è spalancata sotto l'ondata.

Non abbiamo il tempo di bestemmiare perché mentre un secondo folgorante ululato sbrindella quello che resta dei nostri timpani intorpiditi. L'ondata di riflusso che proviene dalla banchina ci sbatacchia come birilli tutti e cinque contro la murata di sinistra: crom, cram, croc; crek; cric. Cric é il colpetto lieve della testa di Costantino sull'imbottitura della sua murata. Tutta colpa nostra. Se fossimo stati giustamente sordi probabilmente non ci sarebbe accaduto nulla.

E’un ragionamento che non mi placa e balzo fuori deciso a stampare un cazzotto sul naso di quel becero di capitano che porta un traghetto dentro ad un porto a quel modo! Altro che i poveri pescatori di San Vito che pigiavano sui remi  per non svegliarci col ronfare discretissimo dei loro diesel! Ma il traghettone mi ricaccia sotto coperta con un terzo ululato che mi fa rintronare tutto e annebbiare i propositi di violenza. Per tutta la notte i maledetti traghetti fanno su e giù e fischiano fischiano i mortacci loro! Si balla, si beccheggia, si rolla, si alambarda, si sculetta, si sussulta, insomma gente, Casamicciola!

Duilio fugge pallido all'alba con la mappatella dei suoi vestiti nonostante che il traghetto per Napoli non parta che di 11 a tre ore. Noi fuggiamo poco dopo diretti a Ventotene nonostante che io abbia un po' di febbre e di maldipancia. Fuori il ballo é strano. Un mare color piombo senza vento e quasi senza onde visibili: pure la Sgnuffi balla forte. Probabilmente un mare lungo incrociato poco visibile ma molto sensibile. Il cielo é uniformemente grigio. Poiché mi son beccato tutti i fischi dei traghetti mi son perso il bollettino. Chiamo Napoli. Con me chiama uno yacht 

- Io tornerei indietro. -

- lo no. - Rispondo altrettanto sibillino. E chiamo Napoli. Anche lo yacht spagnolo chiama Napoli. Al traverso di Forio arriva una seconda schicchera. La Sgnuffi imbronciata da quando i Faraglioni non hanno più l'acqua verde smeraldo mi comunica seccamente che lei non riesce a tenere la barca in rotta perché ingavona continuamente e va da tutte le parti meno che Ià dove io ho detto che ci sarà Ventotene e mi molla la ruota ritirandosi sdegnosamente sulla sua cuccetta a guardarsi lo smalto delle unghie.

La tensione si tende ben bene a bordo. Allungo uno scappellotto ad Amarilli per calmarmi un poco cogliendo l'occasione del consueto disordine nella sua cabina di prua. Prendo la ruota e scruto l'orizzonte: grigetto perfetto, dovunque. Nessuna scatola da scarpe sul mare, neppure un vago sospetto. Non vorrei che avesse avuto ragione il fratello del marito della sorella del mio secondo e che l'abbiano spostata.

Chiamo Napoli e con me chiama anche lo yacht spagnolo, che subito dopo chiama me sul canale sedici. Ci scambiamo informazioni meteo e considerazioni poco lusinghiere sull'operatore di Napoli Radio che non risponde ma che non può non sentirci dal momento che Napoli è lì a due spanne da noi. E infatti con finto candore due minuti dopo Napoli risponde. Io sto lasciando Ischia ma il ballo diventa sempre più schiantante eppure il livido mare non mostra onde alte. Ma sento che la Sgnuffi viene schiaffeggiata da tutte le parti in carena ed effettivamente non tiene la rotta. Alzo la randa, ma non stabilizza un beneamato. L'anemometro segna a tratti tre e a tratti zero. Da Napoli mi danno il meteo: tempo incerto, o fa bello, o fa brutto. Questo e' il succo, però non si prevede la fine del mondo. Adesso il ballo si fa caotico, e l'onda schiumeggia.Il vento è sempre alterno, soffia anche un po' da una parte, un po' dall'altra. C'è qualcosa di strano, di brutto, di lugubre nell'aria che opprime.

Proprio in questo momento la Sgnuffi in vetroresina, sicuramente in combutta con quella morbidetta, affonda la prua in un buco apertosi all'improvviso davanti a lei e poi sbatte la coda su una scarpata d'acqua che un attimo fa non c'era. Sbarello di sessanta gradi con la rotta. Mi incacchio. Viro tutta la ruota a sbraito:

- E va bene! Torniamo! - 

Filo verso Ischia per la seconda volta. Vedo Forio. Ecco, almeno posso ormeggiare a Forio, tanto per cambiare buco. Ma l'onda mi incalza e Forio è porto sconosciuto. Quando passai per Forio, ai tempi dell'adolescenza del matrimonio il porto non c'era e c'era solo un bell'odore di merda sulla spiaggia. Ma forse un qualche bambino l'aveva appena fatta. Io però ricusai una stanzetta che mi aveva preso in affitto il fidanzato di una sorella di mia moglie. Però non di quella sorella medico, quell'altra laureata in lettere. Sì, la famiglia della Sgnuffi é tutta di sapientoni.

Viro di nuovo e mi ritrovo davanti al fungo di Lacco Ameno. Il mare sembra calmo adesso e la Sgnuffi rolla appena. Il cielo è sempre uniformemente grigio però di una sfumatura più chiara. Io brontolo da mezz'ora, brontolo che dovrei fare di testa mia e non stare a sentire gli isterismi delle donne. Brontolo che lo skipper deve poter decidere in assoluta libertà senza subire pressioni e condizionamenti. Brontolo che un capitano ha il diritto di mandare a fondo la sua dannata barca con tutti i passeggeri se questo gli sembra la cosa migliore. E calco su quel "passeggeri". Degradati sul campo da equipaggio a passeggeri. Brontolo e più brontolo più mi incacchio. Mi monto dentro ben bene e poi esplodo:

- Io vado a Ventotene porco mondo!!!! - e giro tutta la ruota con furia. Colta di sorpresa la Sgnuffi rampa sull'onda e si gira di centottanta gradi. L'altra, sdraiata in cuccetta, non si scompone, continua a guardarsi le unghie e dice:

- Appena fuori si balla di nuovo. -

- E si balli allora! - sento nelle vene l'ostinazione del capitano Ackab. Riaffondo la prua verso la stimata direzione di Ventotene. E si balla. Ma la mia rabbia gode ad ogni colpo. Di più, di più, ma verso dove dico io! E' solo verso le 14.00 che scorgo, più a est del previsto la Ora che Ventotene è là a prua mi permetto di sorridere alla Sgnufli:

-E allora? Ecco Ventotene. -

Il secondo dà un'occhiata distratta alla nebulosa forma scura e poi si stringe nelle spalle:

- Non c'era bisogno di fare tutto questo ballo. Ci si arrivava domani col mare calmo.- E invece oggi col mare mosso. Tiè!

Conosco Ventotene per esserci stato in una specie di codicillo di luna miele al terzo o quarto anno del mio gaudioso matrimonio. So che c'è un porticciolo antico romano bellissimo come pezzo archeologico ma minuscolo per il diporto e così sicuro, naturalmente sicuro, che non ha il minimo ricambio di acqua. E questo significa fanghiglia maleodorante. Poi ricordo che facevo i bagni in una bella cala che si chiamava Cala Rossano in fondo alla quale si vedevano i resti di un molo distrutto: Quello degli antichi romani stava ancora là, ben saldo, quello dei romani di oggi il mare se l'era bevuto in quella famosa mareggiata del 4 novembre del '66. E sulla spiaggia di Cala Rossano capitava uno strano ragazzo di nome Carmine che anche se non richiesto raccontava a tutti la storia avventurosa della sua vita sentimentale, specialmente colorendo un suo matrimonio per corrispondenza con una americana fatto allo scopo di ottenere l'espatrio e la cittadinanza USA. Ma quando vide la sposa, vide centocinquanta chili di sposa e proprio non ce la fece. Non ce la fece a salirle sopra. Così andò invece in California ad una scuola per soli camerieri maschi. Poi chissà come tornò a Ventotene. Pregava di mandare a Cala Rossano qualche nostra amica che volesse convivere con lui, anche bruttina, anche non vergine, perché  quelle dell'isola lo evitavano per colpa della grettezza della mentalità dei genitori: lui era gia sposato a quindi non doveva più frequentare ragazze. Ma non era sposato,perché poi aveva divorziato: niente!

Tutto questo anni fa. Adesso ritrovo quel molo distrutto ricostruito e ben massiccio. Entro a Cala Rossano: non c'e' barca viva. Bella manovra e poppa in banchina. Ho appena terminato l'ormeggio e fatto le mie brave gasse quando ecco zompetta verso di me, assolutamente identico perfino nel vestiario (maglietta rossa e pantaloni blu) il bravo Carmine che, ovviamente non può riconoscermi e mi ammonisce:

- Dottò, qui non si può stare! Questo non è un porto, qui fa mare! Adesso vengo a bordo io e vi piloto nel porto vecchio! C'é una secca all'ingresso ma con Carmine andate sicuro, dottò!-

Io so benissimo che non c'è nessuna secca all'ingresso del porto vecchio, ma lo lascio fare, poi gli chiedo improvvisamente notizie della cicciona americana. Un lampo di paura passa negli occhi di Carmine che mi scruta. Posso leggere in quello sguardo il dubbio feroce: a questo che gli avrò raccontato? Non lo lascio sulle spine, poveretto e gli faccio il riassunto della storia. Annuisce compreso:

- Tutto vero, dotto', tutto vero... Ah sì, adesso mi ricordo,... -

Manovro io mentre lui chiacchiera ed entro a Porto Vecchio tranquillamente perché il mare adesso è calmo. Una volta dentro Carmine si inorgoglisce:

- Visto, dottò? Con Carmine si va sempre lisci! Adesso accostate là.-

Accosto alla banchina con un po' di paura perché mi ricordo che il fondale è scarso sotto banchina. Carmine balza a terra e poi mi guida con ampi gesti attirando l'attenzione benevola di tutti. Nel porto ci sono dieci barche e lo riempiono. E'  talmente stretto, che si deve buttare l'ancora contro il molo di fronte per poter arrivare in banchina, in compenso è talmente riparato che probabilmente si starebbe sicuri anche senza ancora.

- La pietra bianca, dottò! Butti Ià, davanti alla pietra bianca e poi qui di poppa!-

Obbedisco. Butto l'ancora alla pietra bianca e poi vengo indietro. Tutto bene, ma quando mi affaccio sotto la pala del timone ci sarà esattamente un dito d'acqua. Indico la cosa a Carmine: non mi va, un dito d'acqua va e viene e se tocco con la pala son dolori. Carmine sospira (questi turisti non si accontentano mai!) e poi decide che non vuole lasciarmi scontento. Basta tornare alla pietra bianca e poi con la poppa... con la poppa... corre lungo la banchina e scova un angolino vicino allo scalo di alaggio: 

Vado alla pietra bianca e poi mi metto con la poppa verso lo scalo. Qui c'é fondale e sto bene. Carmine balza a bordo:

- Perché siamo, amici, dotto', quattromila! - e tende la mano. Gliela stringo. Ride.

- Quattromila per dirmi di andare alla pietra bianca non è un po' troppo?! - E’astuto Carmine e ammette subito che è troppo, ma sospira triste. Adesso sta con una donna, una brava donna che fa anche delle ciambelle favolose, però i turisti sono pochi, a Ventotene non è come Ponza, quà viene poca gente e allora... allora quattromila non sono tante... Voglio anche una ciambella? Mille e cinque. Non che navighi nell'oro, ma alla fine cinquemila con la ciambella gliele dò'. Uno che recita così bene se li merita, a Roma una comparsa vuole quindicimila lire per fare un passaggio davanti alla macchina da presa.

Dal porto di Ventotene é meglio non uscire se non quando si parte definitivamente, per via delle ancore aggrovigliate e della ristrettezza. Così giù il canotto e via per Santo Stefano, l'isolotto già sede di un ergastolo. Scale scavate nella roccia con infinita pazienza da gente senza speranza, resti lugubri di scarpe, marcite, teoria di celle spaventose, di bracci circolari come un'ossessione, di scritte che vorrebbero essere cristiane e sono soltanto orrende, quale quella che si può ancora leggere sul cancello, del cimitero: Qui finisce la giustizia degli uomini, qui comincia quella di dio. Un modo come un altro per dire ad un probabile assassino: non credere che crepando risolvi, il bello viene dopo. Alla faccia della pietà cristiana.

Salpando per Ponza si chiude il grande giro, l'anello si salda, la crociera è finita. E’ stata bella ma anche estenuante, tanto che ad un certo punto accosto direttamente per il Circeo in un improvviso desiderio di casa. Entro in porto strombettando festosamente. E festosamente vengo accolto dagli amici della banchina e delle barche. Von Palafitten é sempre a prua con la canna in pugno, Peppe si sbraccia per segnalarmi il punto d'ormeggio che grida di avermi "tenuto".

C’é anche Alfredo che si complimenta per la nostra incoscienza che ci ha portato sull'onda dei quaranta belanti insieme all'onda della nostra inesperienza. Ci addita Alfredo alla platea: ecco, gente che naviga davvero. E’ tutto, un po' buffo ma piacevole. Quando ancora eravamo nella foschia al largo del Circeo, l'apparire del verde monte, del faro candido e della nostra casetta rossa ci aveva portato umidore agli occhi. Si parte per tornare. Si naviga per riattaccare nel calore di un porto amico.

Scendiamo dalla Sgnuffi e la guardiamo: brava fida Sgnuffona! Sporca, ammaccata sulla battagliola, con i piccoli segni delle nostre cento battaglie, adesso sei proprio la nostra barca. Domani torneremo a scaricare sacchi e avanzi di provviste. Oggi ci sentiamo come vuoti e colmi nello stesso tempo.

Guardo la banchina abusiva, quel porto inesistente, la faccia di Peppe e quella degli amici: ma perché sono partito?   E’ talmente evidente che questo é il più bel posto del mondo!

                                                                         FINE

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