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Il Dito di Dio  (Assolutamente Casuale)

PREFAZIONE

Le prefazioni si saltano: è classico.

Le prefazioni sono inutili: è consueto.

Le prefazioni sono noiose: è inevitabile.

Dunque, saltatela pure: però se perdete il filo del racconto, invece di buttare il libro, tornate qui e leggetela. Forse non recupererete il filo, ma potrete consolarvi dicendo che è colpa mia.

 

Sibiè vuol dire se stesso

Primo vuol dire primo

Dino è il diminutivo di Secondino 

Drei in tedesco vuol dire tre

Citirie in russo vuol dire quattro

Quintilio sta per quinto

Sisto vuol significare sesto

Sedmo in slavo, capito il giochetto, sta per settimo

Otto è otto

Nino sta per nono

e Decio è decimo

 

Dieci personaggi diversi che vivono casualità simili o dieci vite di un solo personaggio che vive casualità diverse, a seconda della vostra filosofia.

 

Quell'uomo ha cuore:

ma il cuore è una pompa.

Quell'uomo ha fegato:

ma il fegato è una ghiandola.

Quell'uomo ha stomaco:

ma lo stomaco è un sacco digerente.

Quell'uomo ha cervello:

no, è quel cervello che ha uomo.

CAPITOLO 1

"Se tiro un dado e faccio sei non è casuale, è un evento che si verifica con certezza in media una volta ogni sei tiri, se tiro un dado e faccio sette perché il dado si spezza in due e mostra un quattro e un tre, questo è davvero casuale."

"Siano le onde. "   "Onde di che?"    "Non so, ma che ondeggino."

Esiste solo il contatto. Ciò che tocca è, ciò che non tocca non è.

Il suono è silenzio, un’onda d’aria che risacca. Anche la luce è l’onda buia di un misterioso variare di intensità d’attrazione e repulsione che tocca, frange, rifrange frenetica, torce lo spazio, vuoto di non si sa che cosa o pieno di altre convulsioni torcenti, e, vibrando breve o lunghissima, scalda, nutre e distrugge.

Onde di niente. Onde di campi che passano come un disegno su un tabellone di lampadine. Onde di variazioni di stati dove niente si muove.

Molecole casuali, aggregantesi e demolentesi per attrazione o repulsione, groppi di onde anch’esse, onde gelate, stazionarie, solitoni che vagano spinti dall’alternarsi dei picchi di pressione del nulla in tempesta, sfiorano, tastano, rimbalzano ma solo alcune su miliardi di miliardi trovano anfratti tattili cui agganciarsi e recettori per interpretarle.

Sensibilità di superficie creata da legami che spezzano il caos con architetture cristalline.

Pelle, buccia, scorza.

Pelle dura che sorregge e pelle umida, avvolta in tubuli, che per osmosi fa salire succhi che bagnano il caotico casuale ma inevitabile puzzle microporoso.

Pelle filamentosa s’infiltra ovunque, aggirando i nodi impenetrabili per succhiare nitrati, acqua e sali minerali, fino a toccare incomprensibili confini di creta.

Pelle tenera vibra per l’alternarsi vertiginoso di sforzi dello spazio, creatrici di zuccheri mentre dal basso salgono i sali. Trilioni di pressioni e depressioni ondulano il vuoto colmo di energia ribollente e quelle più forti costringono le fibre a torcersi verso la sorgente e il movimento è percepito come una torsione del cosmo.

Un automatismo lega strettamente l'idrogeno al carbonio creando un velo d’ossigeno che dirada al diminuire della frequenza. Il carbonio idrato è cibo, è crescita, è vita.

Un enorme silenzio buio e senza odore vibra si torce e si contorce creando direzioni polarizzate.

E il vaso di gerani se lo gode lasciandosi tirare le radici verso un punto e sbocciando germogli nella direzione opposta. Ma non sa del frusciare del vento fra le sue foglie, dei colori dei suoi fiori e dei profumi dei suoi petali. Perché non esiste il suono, il colore, il profumo: sono tutte invenzioni di sensi alieni.

Un'eccitazione bagnata addensa la linfa in punti tipici e vagine si aprono, peni si inturgidiscono in attesa di un accoppiamento senza scelta del partner.

Un titillare di afrodisiache zampette protruse da dimensioni ignote, un carezzare di antenne da universi sconosciuti provocano orgasmi vegetali.

Morsi staccanti lembi di foglie, bave di bruchi inconoscibili, rami spezzati ai confini dell’universo del contatto, vengono puniti e combattuti secernendo veleni, indurendo spine, invischiando invasori. Patti di reciproco vantaggio, perfezionati da silenzi-assensi senza coscienza lunghi centinaia di milioni di anni, offrono mandibole e pungiglioni in cambio di stille zuccherine.

Nuova pelle spunta in inconsapevole armonia geometrica: mondi figli sparati fuori da buchi verdi. Creazione continua e universo stazionario coesistono nel big bang vegetale.

Scheletri a cerchi crescenti si lasciano dietro primavere morte. Tempo biologico elastico. Giorni da un minuto per una sequoia che vive seimila anni in un mondo stroboscopico: luce-buio luce-buio luce-buio come se il sole fosse una pulsar, e giorni lunghi un anno per il geranio da balcone.

La materia ha imparato a vivere prima di inventare la scena.

Caldo-freddo, umido-secco, su-giù, pressione-gravità, contatto-noncontatto. L’universo non interpretato è un luogo abissale  in cui la radiazione si addensa fino a sembrare materia, in una poltiglia ribollente in uno spazio nero e in un tempo antegenesi.

Aggrappato a grumi di rocce cento volte fuse, disfatte, ricreate e polverizzate da brutali eventi meccanici, ogni filo d’erba, ogni piantina di geranio, uno diverso dall’altro nella casualità del suo autocostruirsi, eroicamente tentano il primo passo inconsapevole sulla strada di dare un senso al caos. Non hanno scenari, non hanno ricordi. Nessun senso del sé e quindi neppure del fuori del sé.

Essere senza esserci.

Fiat lux.

Nell’occhio sfaccettato esplode la luce, invenzione gloriosa della materia vivente, monte improbabile scalato decine di volte nella sterminata durata della lotteria biochimica e che ha reso più manipolabile il mondo.

Cento sfaccettature d'occhi tridimensionali dilatano l'attimo. Alcune captano una parte delle radiazioni solari e le accendono in luce in modo che altre possano dare l'angolo per la direzione del volo e altre ancora possano rilevare ciò che muovendosi cambia la riflessione delle radiazioni.

Non è cambiato lo squallido caos nero dell’universo ma si è complicato l’interprete.

La luce è una parte del buio miscuglio caotico di onde elettromagnetiche che torce lo spazio, la parte più generosa che ci manda la nostra palla di idrogeno fondente ma, nella sua nuova gloria illuminante, viene divisa per intensità, lunghezza, frequenza da complicati automatismi cellulari. Mappe neurali di valutazione si inventano splendenti colori inesistenti per comodità di catalogo.

Le molecole vaganti nell’aria sfiorano la proboscide della mosca e si incagliano in recettori dalla giusta forma eccitando vivi canali neurali e l’aria si riempie di odori, di aromi, di profumi.

La complicazione crescente del vivente si è inventata una nuova dimensione fantastica, un nuovo vettore di realtà.

Il petalo adesso è una pedana ben distinguibile sullo sfondo sfocato dell’universo fisso e manda effluvi di decomposizione La forma dell'odore dolce è una freccia direzionale imperativa per la mosca che atterra sul nero-insetto del fiore ornato da luminosi cerchi di fosforescenza ultravioletta.

Le lunghe molecole di carbonio autoriproducentesi hanno preso posto nella cabina di regìa del mondo e hanno alzato il sipario. La spaventosa bocca nera spalancata sul nulla si è illuminata, colorata, profumata e la musica di commento sta ronzando, ritmata dal frusciare di foglie e da grillii striduli inventati da innumerevoli coclee.

Miliardi di occhi ora possono vedere un’armonia che non c’è, occhi diversi nella loro struttura vedono scenografie diverse, occhi uguali nella loro struttura vedono scenografie simili ma mai uguali. Ma tutti vedono scenografie inesistenti.

Dentro la mosca suona un’orchestra quintidimensionale, densa di richiami (odore - spaziosu - spaziogiù - spaziobilanciato - tempo) mentre la mano che scende per colpirla sul limitato rosso-uomo del fiore è invischiata nello spaziotempo come la zampa di un bradipo.

La mosca vive lunghi tranquilli minuti soggettivi pulendosi le zampe con calma, pompando molecole di nettare trascinate sul petalo nero da qualche visitatore precedente, valutando il da farsi mentre la manona umida e infrarossocalda continua a calarle addosso alla massima velocità concessa a quell'essere, gigantesco come una quercia e lento come una liana.

La mosca sposta il bilanciere dietro le ali e si spinge nel vento ben prima che la mano assassina si chiuda su di lei. Il ditone da godzilla fa oscillare il fiore senza colore che ha avvertito il contatto gentile delle zampe della mosca e la frustata calda dell'aria mossa dalla mano umana, ma non ha depositi per i ricordi e il suo presente è un continuo senza momenti.

Con un paio di manovre da top-gun l’insetto torna su quel petalo nero-ultravioletto- ornato-mosca mentre la zampona è ancora in abbrivio di discesa. Il suo vivere è dieci volte più denso di attimi di quello di un uomo e ogni attimo vale l’eterno.

Ciò che è fermo odora. Ciò che si muove si vede.

Nel suo cervello minuscolo si integrano gli stimoli che arrivano dai suoi sensi e si elaborano scenari in base a quegli stimoli, creando fantastici, inesistenti mondi da mosca che le garantiscono la sopravvivenza nella realtà senza luce, senza colori e senza suoni. Emozioni da mosca fanno scattare reazioni preprogrammate nel tronco encefalico che mette in moto i neuroni preposti al comando dei muscoli. La mosca vola, corre, succhia, copula, reagisce al mondo esterno come essa crede che sia, inconscia di sé e dell’autoinganno eppure perfettamente integrata nella complessità crescente dell’evoluzione che si fa beffe dell’entropia. Essa funziona nello stesso modo inconsapevole in cui funziona un fegato o un rene. Ogni mosca è diversa dall’altra come ogni fegato è diverso dall’altro pur senza costituire individuo.

Esserci senza saperlo.

Subunità ben organizzate di cellule semoventi corrono tra le foglie ad esplorare un cosmo di molecole volatili significative. Hanno zampe e antenne, testa e addome e decine di ghiandole in grado di secernere molecole significanti ma non sono individui, sono parti sparse di un solo animale. Non ci sono nervi per i collegamenti, non arterie, vene, tendini. Nessun flusso di liquidi mantiene le cellule in contatto fra di loro. L’organismo sparge le sue cellule nel raggio di centinaia di metri e comunica con esse per via aerea.

Quando una formica trova qualcosa di interessante affida all’aria il suo messaggio chimico. Se una formica muore il formicaio tutto, il vero animale, è in allarme proprio come avviene se qualcuno si taglia un dito. Non è un odore, è un neurotrasmettitore. Profumo di dopamina e di serotonina. Un’altra invenzione per arricchire la scena.

La grande regina non ne è al comando, essa ne è l’ovaio. Il formicaio non ha alcun capo a cui obbedire ma agisce e reagisce come tutti gli organismi: per automatismi diffusi, in una repubblica anarchica dove chi sbaglia è costretto al suicidio. Apoptosi di Stato.

Una repubblica che sopravvive finché gli errori commessi dai suoi componenti non diventano troppi. Un’anarchia organizzata che dà l’illusione di essere individuo tendente a fini unitari. Un'emersione intelligente da una massa di automatismi stolidi.

Formiche operaie, neutre e robotiche, titillano le larve operando meravigliosi cambiamenti fenotipici, creando in questo modo operaie o fuchi o guerrieri o regine. Fanno crescere funghi, sfruttano succhi di altri insetti, trasportano le "cellule" morte " in zone isolate che sembrano cimiteri. Senza scienza, né coscienza, né conoscenza: proprio come, dentro gli organismi collegati per via liquida ed elettrica, ormoni, enzimi ed altre molecole, scorrendo nel torrente sanguigno o linfatico, decidono della sorte delle neocellule, del loro sviluppo e del loro destino. Come miliardi di neuroni stupidi fanno il cervello di un Einstein. L'intelligenza emerge dalla stupidità caotica ma complessa di miliardi di connessioni. Formicai interni con decine di miliardi di "formiche" che si vomitano l’un l’altra una sterminata quantità di segnali chimici.

Il programma genetico, accumulatosi in miliardi di anni con trilioni di errori casuali bocciati o promossi stolidamente dall’ambiente che agisce da griglia mutante, permette agli organismi sparsi o compatti di sopravvivere.

Essere sembrando di non esserci.

Onde d'aria modulate con affetto precedono l'arrivo dell'acqua che inonda, contatto vitale, la caotica ragnatela di radici affondata nel semicosmo più denso. C'è un dio buono che parla oltre i confini del mondo ma la pianta di gerani sul balcone non sa ascoltare e non deve adorare perché è lei il dio vegetale che trasforma la materia informe in materia strutturata facendosi cibo, essa sì, transustanziandosi, in favore di miliardi di parassiti di ogni genere e forma, costruttori di astronavi compresi.

Il getto di ammoniaca di Banji coglie il geranio impreparato: c'è tanta buona roba in quel getto ma l'ammoniaca troppo concentrata è un veleno. Un brivido blasfemo sale con la linfa inquinata annunciando la fine del mondo. Esistere è presenza, non esistere non è assenza. Il contrario del nulla è l'essere ma il contrario dell'essere è il nonsenso.

Banji è un cane e quindi non si pone il problema dell’essere. Capta milioni di molecole nell’aria e inventa odori diversi divisi in categorie di utilità, di pericolo, di piacere, di curiosità, di territorio, di sesso, di dominanza, di sottomissione. Il suo meccanismo interpretativo integra gli odori con le onde d’aria che gli fanno vibrare i timpani trasmettendo solletichi a neuroni eccitabili anche per vibrazioni piccolissime, e cataloga in modo tutto suo le onde elettromagnetiche che colpiscono le cellule delle sue retine in un’invenzione tridimensionale odorosissima e tricolore della realtà. C’è del bianco intorno, molto verde, poco rosso.

Banji sa di esistere ma non è cosciente di saperlo. Ricorda, ma non ha prospettiva temporale.

L'odore acidulo sebaceo chiaro-chiaro-chiaro dei capezzoli della madre dà il via al programma del succhiare nel baluginare viscido e peloso della formazione dei contorni del non sé. Le zampe si muovono per una routine genica che eccita i neuroni motori portando il naso vicino alle sorgenti degli odori prima che le aree della sua corteccia visiva estraggano senso dal flusso di fotoni che brilla sfocato sulla rètina degli occhi neonati creandogli soggettive sfumature di verde.

Sul naso Banji ricevere il primo segnale di offesa-dolore dall'unghia di una gatta col capezzolo odorante acidulo sebaceo chiaro-scuro-chiaro e che il cucciolo confonde con quello acidulo chiaro-chiaro-chiaro della madre. Dall'altrove scende una grande zampa che lo solleva fuori dalle normali dimensioni degli odori per riportarlo a contatto del peloriccio materno dal lussurioso effluvio di sebo rancido vellutato.

Nell'intrico delle dendriti del cervello quasi vergine di Banji si rafforzano i contatti di una rete, si creano i primi scenari: la grande zampa appartiene ad un Grande Cane inconoscibile che odora di dio.

Banji ha innati sia i moduli di comportamento di un debole cucciolo che quelli di un forte maschio e quando l'unghiata della gatta sul naso non gli fa più male, il dolore rimane presente nella sua prospettiva spaziale a tre sole dimensioni senza la profondità del tempo.

Entrambi gli emisferi del suo cervello sono consapevoli del proprio mondo interno: sente le sue quattro zampe, la sua coda, il pelo sulla pelle, il battito del suo cuore e il fresco dell'evaporazione sulla lingua. Le due parti che compongono il suo cervello ricevono allo stesso modo le stimolazioni dall'odoroso mondo esterno attraverso cinque sensi dominati tutti dal cangiante caleidoscopio di profumi che suonano la sinoftalmia dell'universo. Una cacofonia perenne di suoni, infrasuoni e ultrasuoni di cui può captare la direzione muovendo le orecchie, lo circonda senza significato, una gamma di forme sfocate grigioverdirosa si estende fra un orecchio e l'altro come una porta panoramica sul diverso-da-sé. Una lingua estensibile gli esce davanti per assaggiare gli odori e leccare la sua vasta pelle pelosa.

Però Banji non sa di avere dei sensi. Il mondo esterno è percepito come "quello che succede a lui" e non come "quello che succede là fuori".

Il grande spazio luminoso limitato dai ciuffi pelosi delle orecchie e dalla morula sfocata del naso che sta al centro di ogni suo panorama, è come una realtà sognata: Banji astrae il sé dal non sé ma non è consapevole di farlo.

Banji è un sistema omeostatico molto progredito: i neuroni del cervello profondo hanno ben ramificate le mappe del suo benessere ereditate per via genetica. Le onde di aria, di luce e i milioni di molecole fluttuanti nell’ambiente attivano le unità interpretative che costruiscono scenari per le aree di intelligenza collegate fra loro da milioni di fibre nervose che scambiano segnali, avanti e indietro, fra nuclei e lamine cerebrali dell'ippocampo, del setto e dell'amigdala. Le nuove esperienze, quando allertano il sistema limbico dove stanno le mappe neurali ereditarie dei canidi, si memorizzano nella corteccia temporale e parietale, divise per stimoli, di cui l'odore é la parte più importante.

Le sensazioni ambientali originano categorie di percezione selezionando le connessioni neurali, rinforzando mappe a danno di altre e modulando neurotrasmettitori che, incanalati in microtubuli, rendono più intensa la risposta della mappa corticale prescelta dagli avvenimenti esterni. La somma di questo confronto dentro-fuori, chiamato Banji, reagisce alle sensazioni dandogli l’illusione del libero arbitrio, ma è attraverso i circuiti dell'amigdala che ha vie dirette di trasmissione coi neuroni motori che comandano i muscoli che il cane reagisce istintivamente.

Banji è pronto a scappare, ad aggredire o a far festa agitando la coda prima che arrivi il risultato dei confronti che avvengono nella sua corteccia. I suoi due emisferi cerebrali sono bene equilibrati senza alcuna lateralizzazione e non cercano spiegazioni né alle esperienze né alle proprie reazioni.

Banji non può inventare storie. Vive nel suo mondo di cane, fantasticamente inventato dai suoi sensi come la mosca inventa il suo, ma adatto ad essere usato per la sua sopravvivenza ad uno scalino di complessità superiore.

Intorno a lui è tutto un abbaiare, un latrare, un ringhiare, un guaire, un gemere, un mugolare articolato e senza senso. Grandi Cani si muovono su due zampe, posizione scomoda e pericolosa che Banji assume di tanto in tanto per ottenere da loro un guaiolare premiante. Tutte le entità del reale sono sovrastate dal Grande Cane Supremo e Padrone Primosibiè. Non c'è altro Primosibiè fuori di lui. Il suo unico Primosibiè ha il potere di mutare la realtà in modo trascendente: Egli dà ed Egli toglie. Il Grande Cane non annusa ma modula in modo complicato il suo mugolare. Abbaia e ringhia con scoppi vocali che estasiano e terrorizzano Banji che deve marcare il suo territorio, come gli impone la sua omeostasi interna, con profumatissimi schizzetti di urina.

Il Grande Cane a volte lo innalza al centro della Sua attenzione, a volte ignora la sua esistenza, spesso lo punisce infilandogli il naso graffiato dalla gatta nella merda che qualcuno ha fatto in salotto e che odora di suo come altre infinite merde passate inosservate: dio è incomprensibile per definizione.

Nella Tana Grande non c'è più la madre ma Banji ne cerca l'odore ogni volta che la Provvidenza gli riempie la ciotola di buon latte, che però non ha il sapore acidulo sebaceo chiaro-chiaro-chiaro del latte materno.

Il Grande Cane ha l'odore del Tutto. Abbaia obbedito nella Grande Tana, le budella gonfie di bolle di idrogeno solforato e altri deliziosi personali aromi che vaporizzano dalla fermentazione del cibo in assorbimento, variegati dalle secrezioni delle molte ghiandole che gli bagnano la pelle dai pochi peli, ungendola di essenze caproniche e capriliche esaltate dall'urea. Banji sente da cento metri di distanza l'effluvio del Grande Cane punteggiato dalle olezzanti zampe chiuse in scatole di pelle di vacca morta, venato dalla fragranza dei gas solfidrici bloccati nel colon e rigato dalle sventolate balsamiche di rancido e di salato provenienti dalle zone erogene.

Questi odori di dio mettono in moto programmi eccitatori di benessere e Banji già raspa l'uscio d'ingresso e mugola di piacere quando il Grande Cane arriva nel cortile sulla sua Piccola Tana mobile tanfante di ossidi letali.

Banji non ha bisogno di religione: dio c’è.

Il piacere diventa paradiso quando il Grande Cane gli permette di annusare qualche chilometro di strada e di far conoscenza con gli odori inconfondibili di centinaia di altri cani che hanno pisciacchiato qua e là lasciandogli messaggi di saluto. A volte il messaggio puzza di prepotenza, più spesso di curiosità o di voglia sessuale.

Banji è portato a seguire ognuno di questi odori fino alla sua origine ma il Grande Cane lo strattona con l'anello di pelle morta che gli è cresciuta a tale scopo intorno al collo. Ogni incontro è guidato dai nasi: la cagnetta bianca è affascinata dalla sua ammoniaca salata di canfora e odorosa di sperma e Banji è attratto dalla scia eccitante di un vecchio mestruo che riempie l'aria di feromoni dal delicato sapore di pesce marcio. Naso contro naso per confrontare la profondità delle sensazioni, naso contro vagina per assicurarsi dell'origine dell'eccitante aroma e permettere al pene di indurirsi e asciugarsi. Banji sente la smania di bagnarlo, di sfregarlo contro qualcosa, di infiggerlo in un luogo umido e olente. C'è un solo luogo che risponde a quest'istinto e Banji lo raggiunge salendo sulla schiena della cagnetta. Quindici secondi di raptus e il bisogno si spegne. La cagnetta scodinzola via, rinfrescata dallo sperma di Banji, pronta a nuovi incontri, deliziata come quando si gratta dove prude e Banji sta già esplorando disgustato il fetore dolciastro di una margherita. Parassiti, in assoluto incognito, i geni di Banji si coniugano con quelli della cagnetta per compiere il loro stolido compito sublime: produrre nuovi inventori di puzze.

Varietà di odori ma un solo odore dio. Tutti gli odori sono creati da Lui.

"Sia l'odore."

Primosibiè lo coccola, lo gratta, lo solleva per le zampe anteriori, lo strizza, lo picchia, gli abbaia contro furioso e gli mugola suoni dolci ma soprattutto lo mantiene avvolto nell'odore della vita. Il comportamento di Primosibiè è fuori dalla capacità di categorizzazione di Banji che neppure avverte il problema perché identifica la propria esistenza con quella del Grande Cane: il suo è un dio che pesa ottanta chili e permea l'universo intero col suo odore. Banji annusa il divino e non ha bisogno di credere.

Banji ricorda il passato ma senza sapere che sia passato, registra il presente come una specie di ricordo anch'esso, e non ha alcuna cognizione dell'esistenza di un futuro e quindi della sua morte. Banji è un cane felice.

Ma una notte Primo Sibiè era tornato sbattendo la portiera dell'auto. Si stava preparando un temporale e il pelo di Banji era ritto per l'elettricità statica dell'aria. Aveva captato l'odore della pelle del padrone, acre di cortisolo, prima ancora che infilasse la chiave nella toppa della porta d'ingresso e quella percezione era diventata sensazione nell'amigdala che aveva comandato i muscoli caudali, costringendolo a mettersi la coda fra le gambe. Quando aveva visto la faccia del padrone con le sopracciglia aggrottate a doppia esse e la curva contratto-convessa della bocca, aveva abbassato la testa e assunto un atteggiamento sottomesso, in consonanza col responso corticale. Primo si era chinato su di lui e gli aveva dato uno scappellotto fra le orecchie:

- Beato te che quando ti piace una cagnetta te la fai e chi s'è visto s'è visto. -

Aveva parlato con un tono di voce basso. I confronti con le mappe del ricordo avevano bloccato i comandi lungo il tronco-encefalico di Banji, annullando la reazione di paura e il cane aveva dato tre colpi di coda a ventaglio che erano stati interpretati dal padrone come un cenno di assenso. Primo s'era buttato sul letto. Banji era rimasto immobile, incerto per i segnali divergenti fra le sue mappe cerebrali. Poi aveva sentito odore d'acqua e la pelle del padrone aveva emanato puzza di dolore. Quel grande cane-dio, a cui era collegato il proprio benessere, stava soffrendo. Il presente ricordato coincideva col passato ricordato come presente: il cane-dio non uggiolava ma quando i suoi occhi si riempivano d'acqua e la sua pelle aveva quell'odore, Banji sapeva che aveva bisogno di amicizia.

Il programma motorio d'aiuto era scattato automaticamente e Banji si era trovato a leccare la mano che il padrone aveva lasciato ciondolare fuori dal letto. Quella mano si era capovolta e le dita l'avevano grattato fra le orecchie eccitando i suoi circuiti del piacere. Ma non era una grattata festosa, era una grattata lenta, distratta, e di nuovo i neuroni dell'amigdala avevano suonato l'allerta nel cervello di Banji che era rimasto ritto sulle gambe coi muscoli pronti alla fuga. La mano di Primo era scivolata lungo il muso del cane e si era stretta a pugno nel suo pelo. Il cane aveva inarcato la schiena, incerto se scappare o sottomettersi, cercando un confronto mnemonico chiarificatore per il comportamento del suo Primosibiè.

Banji non ha religioni ma il suo benessere è il riflesso di quello del suo dio: uno e bino.

Primo aveva inanellato ciuffi di peli dell'animale fra le dita, riandando col pensiero alla serata e poiché la sua più ampia corteccia cerebrale è in grado di distinguere il passato dal presente, prevedeva un futuro di solitudine.

Primo crede di essere sapiente due volte. Sapiens Sapiens. Tuttavia neppure lui è consapevole del funzionamento del proprio cervello che lo tiene vivo e respirante producendo una continua caotica proposta di immagini e di sensazioni. Si è abituato ad accettare i propri pensieri come nascenti da un sé nascosto dentro di lui. Con quel sé fantasma dialoga, si confronta e litiga inconsapevole della sua inesistenza e del caleidoscopico adeguarsi continuo di miliardi e miliardi di baluginanti reti neurali che si sincronizzano e disincronizzano creando psicostati.

I meccanismi neurali profondi, di base, sono ancora quelli della mosca: le onde elettromagnetiche vengono selezionate in base alla loro lunghezza d’onda a cui vengono poi abbinati falsi colori, diversi da quelli degli insetti o di Banji, ma ugualmente falsi. Alle onde d’aria, compresse da movimenti rapidi e violenti, anche per Primo corrispondono suoni inesistenti che, se ben organizzati e cadenzati in armoniche, egli chiama musica.

Il cervello di Primo, come quello Banji, divide i ricordi nei singoli stimoli che lo compongono, dando però la supremazia alla visione e alle vocalizzazioni. Gli odori acquistano importanza solo se forti.

Le mappe globali della corteccia cerebrale di Primo danno la possibilità alla neocorteccia di riconsiderare i simboli immagazzinati e, a differenza del cane, l’emisfero cerebrale sinistro di Primo può correlare le esperienze, creando relazioni anche dove non esistono, falsificando le memorie per adattarle ad una storia che superi il vaglio delle sue mappe logiche. Il linguaggio gli fornisce mappe atte a ricategorizzare i ricordi, i suoni, le immagini, i concetti, con milioni di rientri neuronali in molte aree cerebrali, consentendogli di simulare dentro di sé azioni future alternative e dare nuovo ordine ai fonemi e alla loro successione.

Primo inventa continuamente storie tuttavia non è conscio del lavoro di selezione e simulazione che avviene nel suo cervello, solo la ricapitolizzazione dei processi affiora alla consapevolezza e, come tutti gli umani, chiama questo affiorare "idee". Anche Primo, come ogni altro essere vivente, si muove in una realtà autosognata, adatta a sopravvivere sul più alto scalino raggiunto sulla Terra dall’evolversi della complessità. Un processo reso possibile da un meme che delega i problemi ultimi a entità trascendenti, ad un capo-dio amato e temuto, pregato e bestemmiato, un meme che traballa perché Primo e milioni dei suoi simili hanno iniziato ad accorgersi, con incredulo stupore e grande confusione, che la realtà porta dritto all’accettazione animale della morte definitiva ed eterna. Senza giustizia. Senza misericordia. Senza speranza di ricordo.

Primo ha coscienza del sé, staccato dal mondo, il passato pesa su di lui col peso irrevocabile del tempo e del dolore per gli errori commessi.

Primo è cosciente di essere cosciente. Le occasioni perdute e la sensazione della propria inadeguatezza gli danno angoscia abbassando il livello degli scambi umorali ed elettrochimici, turbando le docce dei neurotrasmettitori e indebolendo il suo sistema immunitario. Primo ricorda il passato e sa di dover morire. Primo è un uomo infelice.

Esserci e saperlo. Questa è la maledizione che spinse a compiere il primo passo per uscire dalla bestiale serenità dell’Eden e tentare di diventare dio.

 

CAPITOLO 2

"Amico lettore, lo sai,

comincio a vedere i miei guai!

Son destinato

a un percorso tracciato."

" Sei un’autobus?"" Peggio! Un tramvai!"

 

- Fanculo il Piccolo di Milano!- aveva urlato quella sera Primo fuori dal Teatro Sociale di Biella quando Dino gli aveva detto che non sarebbe più partito - Non hai le palle! Io non mi rimetterei con Lisa neanche se....- e non aveva trovato parole abbastanza umilianti per quella ragazza che amava anche lui.

Erano diventati amici perché entrambi respinti da Lisa. Ma quella sera le labbra di lei si erano alzate per Dino, scoprendo i suoi denti aguzzi. Che ricchezza di messaggio in quel piccolo segno!

- Vuoi fare il bancario a vita?- gli aveva gridato Primo scrollandolo per il bavero della giacca. Dino si era lasciato scuotere, allagato da endorfine, con un sorriso da miracolato che gli tirava la bocca come una paresi. Un fuoco artificiale di segnali elettrochimici inondava i suoi motoneuroni e gli metteva addosso una voglia pazza di correre per le strade e ballare dentro il cerchio di luce che il sorriso di Lisa gli aveva riacceso addosso.

- Mi ama...- aveva esclamato in adorazione, ricevendo da Primo una manata aggressiva e una parolaccia che aveva rotto la sincronia delle loro anime: la gioia dell'uno era diventata la sofferenza dell'altro.

Primo non poteva più camminare a fianco di Dino, l'amico era tornato sul pianeta dei memi comuni: la luna era romantica, le foglie degli alberi fruscianti, l'erba rorida di rugiada, gli usignoli gorgheggiavano tra gli arbusti e piloti dagli occhi azzurroliala portavano fasci di rose rosse alle commesse della Rinascente.

Quando Lisa, seduta dal caso accanto a Dino sui velluti rossi delle poltrone di platea, gli aveva sfiorato il ginocchio coperto di vigogna con il suo velato di nylon nero, gli attori sul palcoscenico avevano rallentato i movimenti, le loro voci eran divenute rauche e lente mentre mappe locali nell'emisfero sinistro del cervello globalizzavano scariche elettrochimiche addensandole nell'ippocampo, in stretto contatto coi centri del piacere del mesencefalo e con le aree edoniche dove milioni di anni di evoluzione avevano accumulato i valori tendenti a massimizzare il benessere. Possenti segnali uscivano dai gangli basali e dal tronco cerebrale per poi friggere lungo i neuriti motori, facendogli contrarre il cuore come per tetania mentre il sangue ipercompresso rischiava di sfondargli le arterie.

Dino aveva sfiorato la mano di Lisa con dita umide e ne aveva ricevuto una stretta segreta che valeva una promessa. Da quel momento ogni stimolo visivo, uditivo, sensitivo gli era arrivato come ovattata eco negli strati superiori della neocorteccia, filtrato da un programma di selezione ancestrale, deviato dalle reti neuronali del talamo a sollecitare il nucleo laterale dell'amigdala per diffondersi nelle aree emotive primarie, senza la minima possibilità di autocoscienza. L'arbitrio, mai davvero libero, era adesso in balìa degli istinti innati nella danza scatenata dai memi di maggior successo copiativo. Quando gli spermatozoi dimenano la coda, l'uomo perde quel poco di controllo che si illude di avere su stesso.

- Fanculo il Piccolo di Milano!- gli aveva ripetuto Primo furibondo e Dino aveva spalancato le braccia con aria beota.

Dino non aveva voglia di andare a teatro quella sera. Era stato Primo a insistere perché recitava quella nuova compagnia milanese di cui si diceva un gran bene. Gli aveva perfino regalato il biglietto e Dino si era trovato seduto accanto a Lisa.

Tre giorni dopo Dino e Primo sarebbero dovuti partire insieme per Roma. Dino si era licenziato dalla banca Sella sull'onda della disperazione in cui galleggiava dal giorno in cui Lisa gli aveva detto di non amarlo più: nei suoi occhi grigi c'era il riflesso rosso della sua camicetta e una luce d'intelligenza ironica che gli era penetrata nel cervello, attraverso le pupille, come un ferro da calza. Per non morire aveva dovuto progettare un cambio radicale dell'esistenza e cercare una via di fuga che desse alla sua immaginazione una prospettiva in cui credere. Per mesi aveva continuato a lavorare nella banca in cui era impiegato dal giorno del diploma, in totale assenza d'animo, lasciando che gli automatismi basali eseguissero il programma motorio per il calcolo dello sconto coordinando la percezione visiva delle cifre sulle cambiali con il movimento delle dita sui tasti della sferragliante macchina elettromeccanica Underwood. Scontava cambiali usando la robotizzazione del cervelletto, come si va in bicicletta senza pensare ai pedali.

C'era una maniglia inchiodata sul muro e quando le braccia erano stanche, Dino si attaccava là, "a far maniglia" come dicevano i colleghi. Rideva alle barzellette dell'impiegato grasso:

- La colomba è l'uccello della pace,la donna è la pace dell'uccello e il vecchio è l'uccello in pace. -

Il capo ufficio lo rimproverava ogni mattina:

- Si metta la cravatta! La cravatta è una divisa, caro lei! Voi giovani non avete più rispetto per niente!- e ogni mattina rispondeva:

- La cravatta è un pezzo di stoffa colorata che lei si lega al collo come un selvaggio per sentirsi accettato dalla tribù. - ma usava per questi rapporti quella che chiamava "la parte meccanica di me".

La ripulsa di Lisa, inaspettata e devastante, aveva sconvolto vecchie e nuove sinapsi influenzando la produzione di dopamina che gli aveva portato crisi di tremori come per astinenza da droga.

Il sesso aveva avuto parte in questa tortura soltanto per la violenza della sua assenza. Lisa scatenava in Dino l’immensità di una sensazione globale che aggiungeva dimensioni allo spazio. Colori, suoni, profumi acquistavano centinaia di nuove tonalità e sfumature, frastornandolo con una gioia fisica brutale, annegando di endorfine le sue aree cerebrali del piacere. La parte più fonda, istintuale, sessuale era stata bypassata.

La sofferenza dell’abbandono era dovuta all'implosione dell'universo sognato che aveva reso evidente, ma inaccettabile, l'evanescenza soggettiva di ciò che a lui era parso solido come il granito della Balma. Flash di nulla cortocircuitavano a tratti simultaneamente le sue reti neuronali in un tragico anelito di apoptosi collettiva. Nell'infinita componibilità delle mappature cerebrali, il cervello di Dino non riusciva a trovare i giusti memi per ottenere risposte di sopravvivenza.

Non aveva mai baciato le labbra di Lisa. Le uniche esperienze sessuali Dino le aveva fatte al casino, quando dopo due volte di umiliante impotenza, era riuscito a fottere una giovane rossa che con dolcezza aveva sciolto il suo blocco e poi riso, quella meravigliosa puttana, perché l'aveva montata quattro volte di seguito. Credeva di essere innamorato di Lisa, perché pronto a morire per lei come per la patria e il proprio onore. Mai aveva pensato di fottere l’onore, né la patria, né Lisa.

Dino credeva di amare i suoi occhi allegri, i suoi capelli stretti a coda di cavallo, il suo mento appuntito, il suo corpo scattante, le sue gambe lunghe e sottili, ma non avrebbe saputo disegnare la forma del suo seno o delle sue natiche. Credeva di essere innamorato di lei per l'estasi di comunicazione che provava parlandole negli occhi, una lunga affascinante masturbazione spirituale fantasticata così bene da dargli un assoluto senso di realtà.

L'aveva sentita fremere sotto le dita una notte piena di luna, quando le aveva stretto le mani intorno ai fianchi e il cuore in petto aveva accelerato: ma non era eccitazione sessuale, era "tanto gentile e tanto onesta pare", il sogno schizofrenico di un adolescente non educato a capire che Dante, potendo, avrebbe chiavato Beatrice perché la monta era Amore. La letteraria A maiuscola era tutta culturale e il daltonismo della giovinezza gli aveva impedito di comprendere che maiuscola era la gioia di darsi e di prendersi che aveva sentito sopra la sua allegra puttana. Nessuno lo aveva condizionato in modo esplicito all'equivalenza sesso-peccato, ma tutto mondo dei suoi memi girava intorno a quel cardine: a messa la folla salmodiava in onore di una vergine, i preti giuravano castità e chi non fotteva veniva fatto santo, la madre aveva chiamato puttana sua sorella il giorno in cui aveva scoperto che si era data a un ragazzo, l'area proibita per le femmine andava dalla gola a sotto il ginocchio mentre per i maschi si restringeva dall'ombelico a metà coscia, al cinema gli attori si baciavano il mento e poi l'immagine fondeva in un lungo grigio e nelle scene seguenti non parlavano mai di quel grigio. Il prete dell'oratorio, nella confessione domenicale voleva sapere quante volte si era toccato durante la settimana minacciandolo di cecità se esagerava in quella pratica contro natura.

L'allenatore di pallacanestro intimava ai giocatori di non farsi delle seghe la notte prima delle gare perché sarebbero scesi in campo fiacchi e vuoti di energie e quella proibizione rendeva le vigilie angosciose, piene di tentazione. Quando Dino e Primo erano stati convocati per la selezione della nazionale juniores, avevano passato due ore col fazzoletto steso sul ventre e il pene stretto in pugno, lottando contro il desiderio. Avevano vinto: milioni di spermatozoi erano rimasti a scalpitare nei gomitoli dei testicoli e il giorno seguente erano stati scartati lo stesso.

Dino, quella notte piena di luna, aveva tolto le mani dai fianchi di Lisa e si era sdraiato sul prato accanto a lei. Lisa aspettava di essere profanata. Per lei l'amore era desiderio umido come quello che provava da bambina davanti alle fragole con panna, inquinato e irrobustito dalla visione proibita del padre che inarcava il culo bianco per piantarsi con forza in mezzo a due gambe femminili divaricate.

Lisa bambina arrivava col naso all'altezza del letto e girando non vista oltre uno dei piedi femminili calzati di morigerate scarpette dal tacco basso, aveva scoperto la faccia arrossata e buffamente sconvolta della sorella di sua madre. Il volto scavato di suo padre esprimeva intenso godimento e Lisa aveva pianto perché non sapeva farlo così felice. Crescendo aveva capito, aveva odiato, amato, desiderato e disprezzato.

Quella sera piena di luna, Lisa aveva aspettato per dieci minuti torturata dalla voglia di essere toccata, sdraiata sul prato umido di rugiada con gli occhi fissi sulle stelle, i pugni contratti pieni di erba per impedirsi di frugarlo lei per prima, condizionata dal non si fa e dalla paura di essere respinta. Una zanzara l'aveva punta sulla fronte e aveva faticato a dominare la sua irritazione. Si era levata a sedere, distinguendolo appena, manichino scuro nel buio: Dino aveva quello che lei voleva ma non glielo avrebbe dato.

-  Andiamo. - aveva detto a bassa voce ma dentro gli aveva urlato "vai a cagare".

Il primo anno dopo l'abbandono, Dino l'aveva vissuto col calendario dell'anno prima, anno felice, tempo irraggiungibile eppure devastante presente, frutto reso paradisiaco dai falsi sapori elettrici dei ricordi archiviati e continuamente richiamati e arricchiti in cortocircuiti cerebrali evocanti perduti eden con flussi di endorfine subito distrutte in olocausti di dolore, come un Tantalo condannato a tormentarsi da solo.

Dino aveva passato settimane ad analizzare ogni istante del loro esser stati insieme e aveva capito il suo errore. A un anno da quella notte l'urlo interiore di lei era penetrato in lui connettendo le sinapsi in un nuovo meme: bisogna fottere le donne che si amano. Capire aveva significato che tutti i dati rimuginati, scomposti e ricomposti in migliaia di mappe globali di cui mai aveva avuto coscienza, si erano presentati in una rete nuova, armonica, salvifica, accettata dai controlli logici, in grado di rendere il suo stato cosciente compatibile coi valori genetici di salvaguardia del proprio essere incisi nel profondo dall'evoluzione. Capire è prendere coscienza dei risultati di un processo automatico e inarrestabile che ogni cervello sano compie da solo se ha il tempo necessario per selezionare, tra milioni di configurazioni indifferenti, quella che favorisce l'omeostasi interna, trovando regolarità su grande scala, come la formica di Langton sullo schermo di un computer disegna la sua strada in perfetta diagonale dopo migliaia di passi caotici, non usando per questo nessuna facoltà trascendente.

Dino aveva capito.

Era tornato molte volte al casino e aveva imparato che la soddisfazione sessuale non coincideva sempre con l’orgasmo perché l'eiaculazione non gli faceva scendere il desiderio di Lisa, come se Lisa smuovesse regioni meno superficiali, meno ghiandolari, e quando lei gli aveva sorriso sui velluti del Teatro Sociale, i passi caotici che lo avevano spinto a voler lasciare la città si erano incolonnati lungo una linea perfetta e luminosa che lo aveva riportato al centro. Tutti i suoi propositi avevano fatto un capitombolo ed era corso a chiedere un colloquio al padrone della banca per ritrattare il proprio licenziamento. Il padrone, discendente  diretto di Quintino Sella, se n'era compiaciuto e gli aveva promesso di promuoverlo funzionario in un paio d'anni:- Vedi, Dino - gli aveva detto - da un certo livello in poi il nostro lavoro è interessante. E se ascolti il mio consiglio lasci perdere l'università. Ti porterà via un sacco di tempo e qui a Biella non serve a niente. -

Dino aveva promesso e il padrone gli era sembrato bello. Tutto il mondo era di nuovo bello perché Lisa aveva accettato di riprendere le loro passeggiate romantiche lungo il torrente Oropa, fino al Gorgo Moro, la grande conca dei giganti dentro cui scrosciava l'acqua di fusione dei ghiacci alpini, una piscina naturale che era poetico pensare scavata da una divinità preistorica. Nel buio si sentiva solo il rumore della cascata e le luminescenze della schiuma davano l'illusione che cadesse all'insù.

Stavolta l'illumino di immenso gli era sceso a dilatare il posto giusto e aveva stretto a sé Lisa premendole una mano sulle natiche affinché capisse che era un uomo con la C maiuscola. L'aveva sdraiata su una lastra di granito ed era entrato in lei con una facilità che l'aveva deliziato. Una luna sfacciata e pagana illuminava l'altare di pietra testimoniando al rito della vita. Quando la marea di seme si era aperta la strada come lava fredda lungo il camino di un vulcano, Dino aveva cercato di ritrarsi ma le gambe di Lisa l'avevano tenuto avvinto ed era sgorgato nelle sue profondità.

Gli scodinzolanti spermatozoi avevano portato i geni dittatori alla loro duplicazione. La complessa macchina, frutto ultimo della prima legge della biodinamica, aveva assolto al suo compito. Filosofia, poesia, amore, gioia, sofferenza e morte erano solo effetti collaterali. Dino non ne era cosciente. Dino era in estasi vivendo appieno il trucco bastardo dei suoi geni che lo stavano inondando di endorfine proprio come uno psichiatra inietta droghe ad un povero paranoico. Dino si sentiva padrone del mondo proprio nel momento in cui i suoi geni padroni lo lasciavano e lui diventava una scatola vuota.

Una scatola complessa che in un futuro non lontano avrebbe puntato all’eternità diventando la vera protagonista e confinando i geni in una zona facoltativa. Ma le mappe cerebrali di Dino potevano ricombinare solo gli elementi che avevano in memoria: nascita, copula, morte.

Primo era partito da solo per Roma con il suo carico di delusione e di rancore e Banji aveva smesso di mangiare.

Dino aveva salutato l'amico avvertendo un filo di malinconia: Lisa era il paradiso ma anche la fine dell'avventura. Ogni scelta esclude tutte le altre. Il quadro del suo futuro gli sembrava dipinto, incorniciato e appeso al muro: moglie, figli e banca.

Un mese dopo Lisa gli aveva detto di essere incinta. Quattro mesi dopo l'aveva sposata.

Primo gli aveva mandato da Roma un telegramma di felicitazioni. Nella cerchia degli amici qualcuno aveva riso, qualcuno commiserato. Dopo una settimana tutti si occupavano d'altro.

Per Banji invece l'assenza del Grande Cane era stata la morte di dio. Aveva atteso vedendo nascere e tramontare il sole molte volte sul mondo privo del Grande Odore. Le intelligenze del suo cervello erano rimaste immote, prive di stimoli. La vista si era indebolita, la saliva diventata densa, il naso si era asciugato. Gli altri Grandi Cani della sua tana gli avevano offerto cibo, carezze e acqua. Ma erano per Banji ombre senza odore: c'era un nuovo nauseante fetore nella tana, il tanfo graveolente dell'assenza di Primosibiè. La puzza insopportabile di un non-odore. Una pestilenza che ogni giorno era diventata più forte fino a sovrastare i circuiti neuronali di sopravvivenza.

Un'ombra bianca simile al Grande Cane gli aveva bucato una zampa con un ago e Banji lo aveva intravisto nella foschia tra l'essere e il non essere, immerso in una crepuscolare forma di vita vegetativa. Guaiolavano sommesse le ombre scambiandosi messaggi non interessanti. L'odore dell'assenza si stava putrefacendo in odore di morte. Le ombre diventavano grigie su un fondo grigio. Banji non si muoveva più, accucciato nella sua attesa di dio. Ma dio non era tornato, era andato via per sempre pur continuando a vivere altrove ma questo il piccolo cane non lo poteva capire. Una scintilla di vita in meno aveva impoverito l'universo.

La notizia della morte di Banji era arrivata a Primo con una riga scritta in fondo a una cartolina di saluti. Poi più niente per quarant'anni.

 

CAPITOLO 3

"Il pensiero umano è la coscienza d'essere coscienti. E l'ultimo cambiamento della materia sulla Terra, dopo quello dal plasma alle rocce, dalle proteine statiche e quelle autoreplicanti, dall’RNA al DNA, dal mondo monocellulare agli organismi complessi. Il prossimo sarà dalla materia autocosciente all'informazione senza supporto, adatta a ogni supporto."

E' passato un anno dalla disgrazia e Primo, pelato e grigio, ha ripreso l'insegnamento.

-   Quando una covata di lombrichi viene sterminata dal becco di un passero, nessuno pensa che sia un'ingiustizia, ma se un terremoto distrugge una casa seppellendo dei bambini dubitiamo che esista un dio e se i bambini sono nostri allora urliamo bestemmie al presunto creatore di un così infame universo perché è difficile accettare che il mondo sia un ricamo frattale prodotto da trilioni di ripetizioni meccaniche di stupide casualità semplici. -

Ventritrè crani coperti di peli, chini sui banchi, apparentemente in ascolto. Visti dalla cattedra potrebbero essere scimpanzè, un paio di oranghi rossi e qualche bonobo albino dal pelo biondo. Due si grattano. Uno ha un dito profondamente infisso in un orecchio. Un altro ha invece un piccolo auricolare da cui ascolta, per tutto il tempo delle lezioni, le canzoni del ventennio fascista. Uno degli oranghi alza lo sguardo acquoso in una direzione vaga oltre i vetri chiusi delle finestre e si sganascia in uno sbadiglio da savana. 

- Amodio Luciano - ironizza Primo - hai una carie nel secondo molare. - Il ragazzo si ficca un dito in bocca e si tasta i denti e Primo continua il suo soliloquio:

- Anche l'uomo è casuale: se la vita sulla Terra ripetesse milioni di volte la propria evoluzione, mai ripercorrerebbe i propri passi stocastici. E casuali sono i nostri cervelli che, pur nei limiti generali posti da alcuni valori trasmessi geneticamente, sono il risultato di una gara folle in cui miliardi di neuroni allungano in tutte le direzioni assoni e dendriti nel tentativo di stabilire contatti: quelli che ci riescono sopravvivono e vengono fortificati o indeboliti fino a morire dai segnali che arrivano dai sensori che monitorano l'ambiente esterno. E i morti, sfortunati come i caduti in una carica contro una batteria di mitragliatrici, sono il settanta per cento. Questa rete di sinapsi, miliardi di miliardi di connessioni, selezionata dagli impulsi che arrivano dal mondo esterno e interno, impulsi occasionali e soggettivi che la colonizzano, crea dei modelli neurali che si collegano fra loro come fecero miliardi di anni fa le catene del carbonio, acquisiscono la capacità di replicarsi e si battono gli uni contro gli altri per il premio di essere copiati e trasferiti ad altri cervelli. Dawkins li chiamò memi per assonanza con geni. I memi se ne fottono di essere buoni, belli o veritieri. Vogliono solo essere copiati, colonizzare il più gran numero i cervelli possibili. Quando dico "vogliono" non dico che abbiano davvero una volontà, ma si comportano semplicemente come se volessero. In fondo anche noi umani facciamo lo stesso. -

Due bonobi albini si stanno scambiando bisbigli da rami bassi nei banchi di prima fila. Hanno imparato a fissare Primo senza vederlo. Comunicano lateralmente, col muso volto alla cattedra e i denti scoperti nel falso sorriso degli imbonitori, lo sguardo nemico.  L'orango rosso passa a un compagno una rivista porno e quello gli allunga il diario che ha fottuto a "Piglianculo", come chiamano il bisessuale del branco, stando sempre al gergo della mandria, arrivato da poco dalla "Petania" .

-  Siamo scimmie - continua Primo fissando il vuoto -  in cui qualche gene ha sviluppato nuove capacità imitative che hanno permesso la nascita dei memi che hanno collegato improbabili strati nella corteccia cerebrale provocandoci schizofrenia, paranoia e megalomania insieme a barlumi di autocoscienza, sufficienti per sapere che dobbiamo morire, ma non per capire come dobbiamo vivere. Se l'ominazione è stata una folgorazione qualche circuito si dev'essere fuso. La filosofia tenta di trovare un senso alla vita come la chiromanzia cerca il destino nelle linee di una mano e l'astrologia nella posizione delle stelle: sono tutti infantilismi. -

Il gorilla dell’ultimo banco alza di scatto la testa, sembra volere emettere suoni, ma poi la reclina di nuovo sul petto e fa sparire nella sacca il ponderoso fascicolo illustrato "Come fare l’oroscopo alle ragazze per sapere se puoi scoparle".

-  Il novantotto per cento del nostro cervello lavora a nostra insaputa come fanno cuore, milza, fegato, reni. Funziona per conto suo, fuori dal nostro potere volitivo e da ogni possibilità di controllo e svolge un compito immenso: ognuno di noi è formato da settantamila miliardi di cellule e il cervello ne è il coordinatore. Settantamila miliardi e un numero difficile da immaginare. Nella nostra galassia ci sono quattrocento miliardi di stelle. Una sciocchezza in confronto al numero delle cellule del nostro corpo. Non c'è da stupirsi che il cervello usi il novantotto per cento delle sue risorse per questa fatica immane. Il restante due per cento è colonizzato dai memi che ci permettono di dire "Io". Passatevi le mani sul volto e sul cranio, tastate il cerchio delle orbite, le punte degli zigomi, affondate nel molle delle guance fino a sentire i denti, premete i pollici sull'arco della mandibola, salite dietro le orecchie con i polpastrelli degli indici e seguite i contorni del vostro teschio. E' la scatola che ci lasceremo dietro, unico testimone futuro di un primo timido poco riuscito tentativo di intelligenza. Stringetela tra le dita: la condanna della razza è lì, sotto la pelle. -

Il suono della campanella dell'intervallo copre l'ultima parola e Primo è sommerso dallo schiamazzo dei ragazzi che, buttati i libri nei tiretti dei banchi, si affollano sulla porta per arrivare primi al distributore automatico di merendine. Un pedicelloso sghignazza a un compagno:

- Se invece senti tutto molle e rotondo allora sei una testa di cazzo! -

-  A stronzo, come ha detto Ortega y Gasset, io sono io e i cazzi miei! –

Ridono tutti animalescamente felici.

Primo li guarda dalla cattedra raccogliendo i registri: bipedi adolescenti coi primi succhi sessuali scolanti lungo tubuli comuni a quelli dell'urina, non attrezzati per un pensiero libero da condizionamenti ormonali e da pregiudizi antropomorfici.

"Piccoli stronzi faranno altri piccoli stronzi per milioni di anni prima di una significativa probabilità di miglioramento. L'unica speranza è l'ingegneria genetica, ma gli stronzi hanno paura di perdere la loro stronzità." Primo scuote il capo per liberarsi da questi pensieri colorati di paranoia.

E' rimasta solo lei, seduta al suo posto, la biondina dagli occhi chiari, e lo guarda come se volesse penetrarlo. Quando la capta nel suo insieme, Primo riceve stereotipi di armonia e di piacere e Beatrice gli appare bella.

Di profilo, i capelli raccolti a coda di cavallo, assomiglia un poco a quella Lisa di trent'anni prima che in lui è rimasta ragazza ma che ormai sarà piena di rughe e avvolta in un mantello di pelle floscia.

Dopo la disgrazia, Primo si è aggrappato all'immagine di Beatrice per non essere travolto dal dolore che ha ritmi non predicibili: è sempre consapevole di essere disperato ma per interi giorni gli sembra di avere superato l'angoscia, di essere fuori dall'inferno, poi senza preavviso l'ondata di piena torna a sommergerlo. Il suo cervello evoca immagini non volute, tutto il software dell'orrore, i truculenti memi della tragedia, della maledizione si ramificano negli strati della corteccia retroagendo sui circuiti emotivi della paura, della fuga, della morte, e non c'è alcun tasto di "escape". Il cuore invade il petto, i polmoni non riescono più a conquistarsi l'aria e un odio belluino si emulsiona al sangue saturo di cortisolo correndo dal cervello al cuore, dal cuore al cervello, senza trovare nessuno da odiare se non se stesso, vittima e assassino.

Sommerso dal rimorso di esser vivo, Primo annaspa, per lunghi agghiaccianti minuti per uscire dall'ondata devastante, tornare nella calma piatta della coscienza della disgrazia e sentirsi quietamente disperato.

La sua tragedia non ha cambiato la realtà esterna: Roma è piena di macchine, i marciapiedi di sputacchi catarrosi, le vetrine di jeans e scarpe da tennis, il sole scalda, il cielo è blu, la gente va e viene come se avesse un tempo illimitato da vivere. Soltanto alcuni milioni di connessioni del suo cervello sono cambiate e Primo deve sovrastare la nuova realtà interna stimolando gli istinti vitali di base quando sente che sta per sollevarsi l'onda. Deve farlo prima che l'onda si gonfi, dopo non ci riesce più.

Primo usa l'immagine di Beatrice perché funziona. Ma non è un meme, non può essere copiata  né trasferita e quindi è difficile da mantenere. Al minimo accenno di increspature nella piatta melma della disperazione che gli stagna come una palude nello stomaco, non appena le innervature del parasimpatico aumentano la secrezione di acetilcolina amplificando la motilità viscerale e inizia il carosello dei memi incolpanti, obbliga le zone intenzionali della corteccia a saturarsi della figura di lei. Come un drogato, deve aumentare la dose ogni giorno costringendo l'icona dell'allieva a prestazioni sempre più eccitanti. Quando non ci riesce perché la fantasia erotica si affloscia senza riuscire a fotocopiarsi in un numero di ragnatele sufficienti a dominare le altre baluginanti mappe corticali zeppe di memi incolpanti e Beatrice torna a essere un banale mammifero, una scimmia con la spina dorsale distorta dalla posizione eretta, allora l'ondata memica della tragedia, che primo chiama "coscienza",  frange con violenza e lo colpisce con forza omicida.

Primo adopera Beatrice con parsimonia per mantenerla eccitante concedendola a piccole dosi alla propria creatività erotica. Ha provato col ricordo di Lisa ma non funziona. Era quello un amore presessuale. Avrebbe dovuto montarla quando ne aveva avuto l'occasione ma per il se stesso di allora era un'azione fuori dall'universo.

Nelle aree mnemoniche del cervello di Primo ci sono le strade di Biella piene dei volti allegri e giovani dei suoi amici e gli sembra che se prendesse il treno potrebbe scendere alla vecchia stazione davanti ai Giardini Pubblici e trovarli tutti là, ridenti e chiassosi, a raccontarsi le ultime donne e le ultime bravate. E Lisa passerebbe sgambettando elastica agitando i capelli a coda di cavallo coi libri di scuola stretti in un nastro rosso.

Primo sa (e sa di sapere) che la vecchia stazione è stata abbattuta e che le strade sono cambiate. E' tornato molte volte per rivedere la madre e ha incontrato gli antichi compagni ma le loro incipienti pelate, le pancette, i moderni palazzi, la scintillante nuova sede della banca Sella, non sono riusciti a entrare stabilmente nel quadro. La sua città, la sua casa, sua madre, Lisa. La scena si illumina al richiamo neuronale come si è impressa quarant'anni prima, poi per sovrapposizione faticosa appaiono le correzioni: bocconi sgradevoli di un puzzle sbagliato sulla scena compiuta e autentica del ricordo "vero".

Quarant'anni prima era partito tagliando il proprio cordone ombelicale con quella grande placenta fatta di madre amici amori abitudini ed era venuto a Roma per quel concorso vinto insieme a Dino che all'ultimo momento lo aveva tradito restando a casa per sposare Lisa.

Primo si era laureato in fisica con una tesi in elettrodinamica quantistica illustrando una particolarità dei diagrammi di Feynman, pensando a Fermi e al premio Nobel e poi gli era toccato di insegnare "scienze" in un liceo classico.

I ragazzi rimpinzati di greco e di latino non hanno alcun'idea di quel che oggi si sa sul mondo e non sono interessati a conoscerlo.

Negli anni dell'università, Primo si sentiva pieno d'orgoglio e guardava le profondità dello spazio nelle tiepide notti romane con la certezza che il cosmo fosse in luccicante attesa degli uomini come lui, che con la loro intelligenza avrebbero reso orgoglioso dio.

L'inganno gli si era disvelato una sera, passeggiando in attesa di Laura. Era notte e guardava il Colosseo, giallo per gli effetti scenografici artificiali, chiuso da enormi cancellate di ferro per proteggerlo dai drogati e dai barboni che cercavano asilo sotto i suoi archi sgretolati.

Con la violenza di un mutamento di prospettiva che sconvolge quello che si è abituati a vedere cambiandogli forma e senso, la nuova verità  era balenata in lui azzurra e accecante come quei lampi a più radici che fanno esplodere il cielo durante i temporali. Vedeva ora quel grande cerchio di tufo e travertino nella sua squallida realtà di vecchio stadio abbandonato: un resto di passate illusioni di eternità. Un muro dallo spessore ridicolo che la dice lunga sull'ignoranza dei suoi costruttori, sbrecciato e sbertucciato dal tempo (e ancora così poco tempo!), urlante dai cento buchi bui la banalità di un termitaio sfondato, di una povera cosa morta come morte eran tutte le genti che ci avevano sputato dentro lupini per un paio di secoli.

Si era sentito scivolar di dosso l'orgoglio di essere uomo e le gloriose vestigia si erano stagliate nette contro il cielo inquinato: poveri avanzi di argille pluripisciate e marmi devastati, della stessa importanza e durata di una merda di vacca assalita dagli scarabei che, nel loro appallottare laborioso per il benessere delle proprie generazioni future, hanno un'annusata di eternità.

La consapevolezza dell'idiozia peggiore, quella arrogante, gli si era stretta alla gola come una sciarpa ruvida in agosto, facendolo smaniare: qui un cesare aveva lasciato un arco, là un papa una cupola, e da qualche parte anche un barbiere aveva lasciato un segno su una porta, convinti tutti di superare la grande bolla del nulla.

Da quella notte Primo percepisce la città tutta insieme, dalle leggende a oggi, a fra mille anni, un milione.

Dal niente al niente con in mezzo pugnetti di plastilina che si modellano in templi, circhi, teatri e cattedrali, statue e fontane, per subito sgretolarsi, annerirsi, passare dal fasto al nefasto in una continuità disgustosa e là dove un imperatore ha ricevuto incenso quale dio un attimo dopo c'è un barbone cacante, mentre un turista teutone osserva ammirato quello che un goto ha usato come stalla per i suoi cavalli e archeologi scavanti scansano la merda dura dei secoli spazzolando fetidi sassi incrostati dal sangue putrido di carogne diventate di creta, frugando negli strati del deposito ripugnante che, impastandosi con la polvere del cosmo, fa nei millenni più pesante la Terra e che è passato migliaia di volte negli intestini di miliardi di creature che in esso sono poi rimaste sepolte.

Un filosofo ha detto che quando un asino pensa a dio lo vede fatto come un asino. Si sarebbe dovuto avvertire quel greco che anche gli asini ragliano che quando un uomo pensa a dio lo vede fatto come un uomo. Forse neppure le carote si salvano dal carotocentrismo.

-  I parassiti pensano a dio, le piante no: sono troppo impegnate nel trasformare le cose morte in cose vive. Un albero può vivere mille anni, far ombra a quaranta generazioni di uomini e non avere memoria di loro. C'é una quercia a Campaldino che ha assorbito con le sue radici il frutto della gran paura di Dante e lo conosce meglio degli esegeti della Commedia. Ma è una quercia morente, anche l'ultimo Dante ci sta per lasciare. Spente nell'imo strideran le stelle pria che memoria di voi trascorra, o scemi!-

Primo sogghigna passando da un pensiero all'altro, seguendo una strada mentale che non saprebbe più ripercorrere per tornare all'inizio di quello che chiama ragionamento. I ventitrè Sapiens Sapiens si agitano.

-  Professore, non mi ha sentito?-

Beatrice lo fissa incuriosita, appoggiata alla cattedra, coi libri in mano

-  Mezzogiorno è passato ma la campanella non è suonata...-

Primo la guarda, l'attenzione frammentata dagli attimi che passano e diventano irrecuperabili, arcani come l'inizio del mondo. La ragazza appoggia i libri sul piano di mogano levigato e si aggiusta una ciocca di capelli. Il piccolo gesto è bello, ma già lontano e perduto come una delle pugnalate di Cesare.

I pensieri frullano via, veloci e in parallelo, dietro lo sguardo distratto di Primo che Beatrice tenta di penetrare, irritata dall'insuccesso che mette in dubbio la sua femminile capacità di attrarre un maschio.

Drinn! Giovani cuccioli di uomo si muovono in branco al suono della campanella pauloviana che echeggia in simboli elettrochimici nella corteccia uditiva del professore come un richiamo di Caronte, annebbiando gli stimoli interni e privilegiando i grandi occhi di Beatrice che assumono un riflesso dolcestilnovo.

- Cosa vuoi? - le chiede Primo con voce più brusca della propria intenzione. Beatrice fa una smorfia e si stringe nelle spalle. Un balenio di sfrontatezza rende affascinante il suo sguardo:

-  Capirla. Spesso mi sembra che viva in un tempo a parte. –

Il professore si alza, gira intorno alla cattedra e le tende una mano. Beatrice la prende ed escono dalla scuola. Nell'aula restano i rettangoli di sole delle finestre e la puzza di chiuso.

La strada è nel caos quotidiano. Il fumo delle automobili stagna ad altezza di polmoni, mefitico. Clacson incivili rompono i timpani. Eleganti signori e signore buttano cartacce ovunque. Primo cerca un respiro ampio e tossisce smog.

-  Nessuno sa cos'è il tempo... –

Socchiude gli occhi al sole e divagazioni sul tema si innestano nelle sue mappe condizionate da anni di fisica .

-  Il tempo è una qualità dello spazio, una dimensione divisa in quanti, frazioni infinitesime di tridimensionalità impaccate in soffici tubuli come l'ovatta degli assorbenti e il piano del reale è il tessuto di quei tubuli e l'universo un follato di quei tessuti. Piccoli grani dal diametro di 10 alla -33 centimetri. E’ la distanza minima possibile, l’ha scoperta un certo Planck. E ogni grano è compiuto in sé e perduto, isolato come un buco nero: collegare quei grani é stato l'inizio della malattia che ha portato a concepire il moto per misurare il fluire di un tempo che non fluisce, arrivando prima all'intenzionalità e poi alla consapevolezza, costruire sui ricordi, passarsi l'un l'altro i memi più facili da copiare, ha dato origine alla coscienza di sé, del passato e del futuro, e rimpiangere il passato perduto e temere la brevità del futuro ha innestato la voglia di aldilà, di religione e di filosofia. –

-  Così è troppo triste. Ci dev'essere un disegno, un senso, qualcosa in cui credere. L'uomo non può esistere solo per caso. -

-  Puoi credere solo in quello che non sai. Nel teatro dell'universo inventato, un giorno una scimmia ha lanciato un sasso per uccidere un lemure e l'ha clamorosamente mancato. Per poter colpire quel lemure una parte della sua corteccia cerebrale sinistra ha dovuto programmare decine di muscoli in successione esatta, calcolare la finestra di lancio e integrarlo con la velocità di fuga dell'animale. Addestrarsi a questo ha portato come risultato secondario all'aumento della capacità imitativa sia del comportamento che della ricetta per io comportamento. Questo ha creato qualcosa da ricordare. Ha creato dei memi che hanno spinto i geni all'aumento del volume cerebrale e quindi al linguaggio che è la grande invenzione dei memi per replicarsi in tanti altri cervelli, e come effetto secondario alla coscienza del sé, degli antenati e della progenie, pupazzi protuberanti con la necessità di credersi a immagine di un dio su una sferetta di fango che dal nulla porta al nulla. -

Beatrice è più attenta al contatto della pelle della sua mano con quella di Primo che non alle sue parole. Gli sorride facendo ondeggiare un poco la giunzione calda che unisce i loro corpi:

- Perché è sempre così pessimista?-

Primo le dà un'occhiata: il golfetto di cachemire si tende sulle sue mammelle disegnandole i capezzoli turgidi, i suoi fianchi tondi sono stretti da una minigonna che lascia intravedere la biforcazione del collant, là dove per quella giovane femmina sta il centro dell'universo, e sa che il discorso è inutile, tuttavia parla per dar suoni alla solitudine.

-  La casualità dell'intelligenza potrebbe, in eoni lontani, portare al divino trasformando tutte le possibili catene, causali e casuali e sincrone, in contemporaneità, il sapere in onniscienza, il ricordo nella realtà dell'esser sempre stato e del per sempre esserci. Chi potesse fare tutte le scelte, pensare tutti memi in un sol momento, chi percorresse tutte le strade, dal sempre al sempre, si potrebbe definire dio. -

Beatrice sta pensando che Primo ha una bella bocca. Come un attore che risponde meccanicamente all'ultima parola della battuta del partner, chiede:

- Parla sempre di dio e poi non ci crede. -

-  Lo odio perché non esiste. –

La colonna di auto non riesce più a scorrere, ingolfata in una strettoia provocata da vetture parcheggiate in doppia fila e i clacson urlano la stupida impotenza delle scimmie inscatolate. Il cervello di Primo reagisce al segnale sgradito attivando pensieri.

-  Quando ero ragazzo inventavo il futuro. Prova: guarda questa strada e chiudi gli occhi. -

Beatrice fa.

-  Non ascoltare i rumori. Affonda in un attimo di nulla. Non c'è tempo nel nulla. L'eternità non è un tempo infinito ma è un nulla senza tempo. –

Le sfiora le palpebre chiuse e il contatto gli dà un'acuta sensazione di giovinezza:

-  Sono passati trent'anni. Com'è adesso questa strada?-

Beatrice sorride, gli occhi serrati:

-  Mmmh... le automobili non hanno più le ruote, sono di plastica lucida e non fanno rumore né fumo. Scivolano a una spanna da terra e il traffico ha un ritmo sincrono. –

-  Perché?-

Beatrice tiene gli occhi chiusi camminando sul marciapiede, la mano stretta in quella del professore.

-  Non guidano più. Stanno seduti nelle auto ma non guidano. Le macchine sono telecomandate e la gente guarda le vetrine senza muoversi, sono i marciapiedi che si muovono. –

-  Che c'è nelle vetrine?-

-  Cravatte luminose, scarpe coi tacchi catarifrangenti, anelli luminosi da naso e da pube, catenelle per lingue e capezzoli finti, amplificatori di profumi, abiti computerizzati, poi roba da mangiare multiforme e colorata, televisori grandi due metri... no, non sono televisori, sono porte per entrare in mondi virtuali. -

-  Guarda le facce. -

Il gioco continua e Beatrice ci prende gusto, le palpebre abbassate godendo nel farsi guidare dal professore come una bambina.

-  Le facce sono sempre le stesse. Giovani allegri e vecchi tristi. Forse ci sono meno vecchi o solo meno rughe e cosmetici migliori. E c'è sempre quel poveraccio che chiede l'elemosina mostrando la sua gamba piena di cicatrici e... cazzo!  le merde dei cani sui marciapiedi!-

Beatrice scivola sullo sterco e apre gli occhi guardandosi le scarpe e indicando l'accattone che espone la sua gamba martoriata per ispirare una pietà da mezzo euro.

-  Scusi la parolaccia, ma...-

-  Nessun problema. –

Beatrice si stacca da Primo per raschiare la suola della scarpa sull'orlo del marciapiede. Primo guarda le belle gambe di Beatrice che si piegano alternativamente a formare il numero quattro per permettere alla ragazza di controllarsi le suole. Il movimento volutamente esagerato permette una fuggevole visione di rotondità muscolari e fa scattare un urlo pauloviano in un giovanotto con la testa nascosta dentro un casco da astronauta che fa petare la sua motoretta superando a zig zag le automobili ferme salendo sul marciapiedi per sfiorare Beatrice.

-  Non ci sono solo gli stronzi dei cani!-

La ragazza recupera la posizione d'equilibrio bipede. Si passa le mani sulla minigonna e sul golfino tendendolo ancora di più, scrolla la criniera e sorride a Primo.

-  Ho visto bene nel futuro, professore?-

-  Hai visto un futuro possibile. Va bene come qualunque altro. -

Arrivano in piazza Santa Emerenziana:

-  Sessant'anni fa qui c'era un campetto di calcio, prima ancora una palude dove si perdeva la marrana che veniva giù tortuosa dove ora c'è corso Trieste. Niente palazzoni e le vigne salivano su per la collina che adesso è solcata da via Nemorense. Se avessi potuto portarti qui cent'anni fa chissà se avresti saputo immaginare il bar Hawaii. -

Beatrice ride scuotendo il capo:

-  Non deve insegnare scienze, deve insegnare filosofia. –

-  Dovrebbe essere la stessa cosa. Ti offro un caffè, vieni. –

Le tiene aperta la porta del bar.

Il barista posa sul marmo del bancone quattro tazzine di caffè bollente. Una matrona, con un anello per dito, tuffa tre cucchiaiate di zucchero, in una tazza e sospira:

-  Quasi amaro, per la dieta...-

L'uomo che sta con lei, scrollando il polso per evidenziare il Rolex d'oro, prende la tazzina, mignolo ritto, e inghiotte il caffè d'un fiato facendosi venire le lacrime per la scottatura:

-  Va bevuto amaro e coi cinque "C". – Meme questo di gran successo metropolitano.

-  Quali cinque C?- trilla la culona cinquantenaria che finge ignoranza per compiacere.

-  Come Cazzo Coce Chisto Caffé! –

L’uomo di mondo conta sulle dita all'americana, partendo dal mignolo. La donna ride con sopratono e scodinzola col bacino, in segno di approvazione.

-  Certo che ne hai imparate di cose in America, Albert! –

L'uomo sorride compiaciuto.

-  Nixon mi diceva che ne sapevo tante perché le avevo imparate in Italia! –

- Te lo ricordi Piero, il mio primo marito? -

 Beatrice scambia un'occhiata divertita col professore.

-  Anche lei quasi amaro, come piace a Bush, il vecchio? –

-  Non mi piacciono i repubblicani. –

Beatrice porge la tazza fumante a Primo .

-  Conosce bene gli Stati Uniti, professore? –

Primo guarda Beatrice come se non avesse capito, poi annuisce ripetutamente.

-  Oh certo. Ci sono stato. Nell'altra vita. Facevamo degli scambicasa allora. –

-  Scambicasa? - chiede Beatrice in tono di cortesia, senza vero interesse.

Primo sta seguendo un suo pensiero e gira il cucchiaino nel caffè. Dice a leì, parlando a se stesso:

-  A una certa età si può fare anche il gioco inverso: guardare la realtà come se si fosse appena arrivati dal passato. Dagli anni Sessanta per esempio. Come mi sembrerebbe viale Libia? Tutte queste auto mi farebbero pensare che stia succedendo qualcosa di speciale e dai vestiti della gente dedurrei che tutti siano diventati ricchi. Nelle vetrine vedrei cose incomprensibili come i computer, strane come i telefoni senza filo, estranee come i pantaloni senza bottoni. Sparito il cinema Mondial, tutte le macchine di Roma parcheggiate a schiera al centro della strada e negri a ogni angolo che vendono inutilità. Penserei che abbiamo di nuovo l'impero e, se tu mi guardi così, che sono tornato giovane e bello... –

Gli occhi di Beatrice luccicano per la voglia di ridere. A Primo invece viene un'immotivata voglia di piangere. Ne cerca la ragione analizzandosi dentro lo specchio, tra uno Strega e un JB:

" Rattuso, potrebbe essere tua figlia." si accusa con sguardo di disprezzo. "Ma non lo è." si difende. E' una risposta, ma non soddisfacente.

-  Sono sposato. –

Lo ha detto a voce alta. Il cucchiaino di Beatrice ha un brevissimo arresto e poi gira più allegro.

-  Che importa...- beve e lo guarda da sopra l'orlo della tazza- un giorno magari sarà sposata anch'io. –

-  Hai imparato il gioco, ma non l'ho inventato per giocare .-

Il bar ruota su se stesso e Primo ha una smorfia di nausea.

Gli succede dopo la disgrazia: una vertigine improvvisa e qualcosa nel cervello si mette a correre, come se fosse stato pigiato il bottone FF di un registratore. Firul'firul'firul'. I suoni diventano acuti e le immagini accelerano in modo fast, con la riga in mezzo vecchia maniera. Gli spikes neuronali assumono frequenza caotica come un'aritmia cardiaca.

" Probabilmente " pensa Primo" sto superando la media pazzia che viene accettata come norma."

Si obbliga a pinzare il manico della tazzina con l'indice e il pollice e a bere il suo caffè. Beatrice nota il tremito della sua mano:

-  Qualcosa non va?-

-  Che importa - le fa il verso mentre domina la rotazione del bar - Un giorno sarò andato anch'io. -

-  Professore, posso chiamarla per nome?...-

-  No. -

Beatrice ci rimane male, poi fa spallucce e ride:

-  Ha ragione, meglio così. Mi piace fare l'allieva. –

Il bar si riempie di gente con le cartelle gonfie di libri malsopportati, le prime barbe, gli ultimi brufoli, i primi assorbenti e anticoncezionali nelle borsette. Cuccioli rumorosi convinti tutti di diventare capi del branco. Si incrociano per l'aria i memi più facili e banali e quindi di maggior successo che spiegano bene la prevalenza del cretino.

Uno dei cuccioli dalla fronte sfuggente, uguale ai suoi antenati della savana, i capelli a cresta e due orecchini al lobo dell'orecchio destro, sussurra qualcosa a Beatrice che si volta e ride con una risatina complice coprendosi la bocca con la mano ed emettendo un flebile cachinno da scimmietta.

Primo si ritrae e ne approfitta per andarsene.

 

CAPITOLO 4

"Noi non possiamo decidere quale sarà il nostro prossimo pensiero, e nemmeno quelli che verranno dopo."

- Se tu credi alla tivù non sei soltanto un gonzo! Sei stronzooooo! –

Una ragazza con la chitarra strimpella davanti all'edicola dei giornali di viale Libia. I passanti sorridono e qualcuno posa qualche moneta sul reggiseno poggiato a terra a mo’ di doppia coppa.

-  Se tu credi al purgatorio, all'inferno, al paradiso, non sei un bonzo! Sei stronzooooo! –

Se fosse meglio lavata e pettinata la canterina sarebbe stuzzicante.

Primo mette un euro nel reggiseno e la ragazza gli sorride con un cenno di ringraziamento cantando per lui:

-  Se fregare ti fai dal passato non sei stronzo!!! Sei doppio stronzoooooo! –

Fa l’occhietto a Primo e raddoppia anche l'accordo sulla chitarra. Il professore annuisce rassegnato. Compra "La Repubblica" all'edicola come tutte le mattine da un non contato numero di anni e poi sale nel suo appartamento al quarto piano facendo le scale a piedi. Non ha niente contro gli ascensori ma odia leggere, fingendo concentrazione, "Portata massima 320 kg", o cercare le chiavi tasca per tasca per far trascorrere i trenta secondi della corsa condivisa a forza col grasso venditore di piastrelle del piano di sopra o con la figlia saccente dell'amministratore condominiale che, fresca di stupida laurea in legge, gli ha chiesto in tono snob se anche lui è laureato, alla ricerca di un segno tribale di superiorità intellettuale.

Gira la chiave nella toppa ed entrando grida:

-  Sono io!-

Appende il soprabito nell'anticamera e va nello studio a leggere il giornale. Fissa la faccia macchiata di Gorbaciov che stringe la mano al sindaco di Roma e la voglia di Coca Cola sbiadisce, lunghi capelli biondi scendono a incorniciare il volto di quel povero russo che aveva cercato di cambiare il mondo. Il dittatore senza sudditi gli sorride con la faccia di Beatrice.

A pagina due si preoccupano dell'effetto serra. Per decenni si sono preoccupati della guerra atomica, svanito il pericolo nessuno ha fatto festa e tutti sono andati in cerca di una nuova futura catastrofe: the day after è diventato the day after tormorrow , un giusto desiderio di sterminio, di morire tutti insieme, ma con un giorno di vita in più. Dà sollievo pensare di non lasciare nessuno vivo dietro la propria bara, non dover pensare che tu morto la gente continuerà a far su e giù per viale Libia.

Primo mangia da solo guardando il piatto vuoto della moglie. Da quando è successa la disgrazia, Laura pranza con un panino e Primo dorme nello studio. Di notte, qualche volta, si infila sotto le coperte del grande letto matrimoniale e i loro corpi si amano al buio. Il giorno dopo non ne parlano, come se quei due amanti appartenessero a una vita parallela. Laura ha dato a Primo la colpa della tragedia e martella per ore contro le pareti della camera da letto piantando fotografie del figlio morto.

Come un vecchio elefante che va a morire appartato in mezzo alle ossa calcinate dei suoi simili con un ultimo barrito al sole calante, Primo per piangere si chiude nel bagno. Di fronte non ha il trionfo sanguigno di un tramonto africano ma piccole piastrelle di maiolica verde incollate sul muro e piange seduto sulla tazza del cesso. Si guarda allo specchio per cercarsi, per convincersi che in quegli occhi rossi, in quella faccia gonfia, fra quei peli grigi, c'è ancora lui, il giovane scienziato aspirante ad aumentare l'umano sapere e l'atleta che andava a canestro da metà campo con le ampie falcate del "terzo tempo". 

Si ride in faccia: ha dedicato la sua vita a far felice quella donna che adesso è la più dolorosa di tutte. Si arrenderebbe se non fosse per l'ultimo figlio che ha ancora bisogno di un padre. S'è convinto di questo per trovare una radice e ancorarsi quando le ondate di orrore lo schiantano e cercano di buttarlo, relitto come un vecchio tronco marcio, ai margini di un'ignobile spiaggia dove un mare morto disegna grandi archi di spazzatura. Pianta le unghie nei resti della zattera della propria filosofia ripetendosi che vale ancora la pena di esistere e aspetta il responso del suo cervello come quello di un computer, con la consapevolezza che è un computer obsoleto e senza speranza di aggiornamenti per il sistema operativo.

-  Ciao, Pa'.-

E' sera quando il figlio superstite rientra da scuola. E' questo il tempo dei sorrisi e delle voci allegre. Laura chiede che cosa vogliono per cena e Primo si informa sulla sua giornata. Il figlio rimasto risponde a entrambi con voce gaia e fingono di essere una famiglia come le altre. Il sopravvissuto deve stare attento a non dire parole e non fare gesti abituali al fratello morto per non innescare una reazione tra i genitori che si rinfacciano reciproche presunte colpe. Chiedere aiuto per l'equazione sulla parabola é una buona tattica, l'argomento é neutro, Laura non ci capisce nulla e non può esserci confronto. Primo é lieto di isolarsi col figlio scampato e aiutarlo a fare i compiti. Sfoglia il libro di analisi matematica che razionalizza l'universo in un disegno univoco.

-  Si sente il respiro di un Grande Architetto quando si vedono le curve e le geometrie diventare funzioni di variabili - gli aveva detto il barone che enunciava matematica generale all'università - perché si può sperare che una qualche genialissima funzione contenga tutto l'universo. – 

Primo si ficca nei suoi ricordi giovanili con la stessa feroce determinazione con cui usa l'immagine di Beatrice per far diga al desiderio di morte e rafforza la barriera ripetendosi pensieri di filosofia postprandiale per svalutare se stesso e il proprio dolore: con l'analisi matematica classica si può avere l'illusione che dio sia una teoria del campo unificato, la legge ultima che racchiude in sé tutte le leggi. Tanto vale mettergli una bella barba bianca e dipingerlo mentre scocca dal suo dito una scintilla di sé sulla punta dell'indice porcino di Adamo. Quadro gratificante per animali che devono credersi ad immagine e somiglianza di dio per non impazzire davanti alla coscienza della morte.

La realtà é incurante: caos costretto da poche necessità elementari a evolversi in strutture complesse e anche se ci fosse una Teoria del Tutto spiegherebbe il semplice ma non potrà mai prevedere il complesso. Si può spiegare che un quark e un elettrone altro non sono che vibrazioni di una stringa, e che un protone è fatto di quark, e che un nucleo atomico fatto di protoni e neutroni, e che una molecola fatta di atomi e che è tenuta insieme da legami elettrochimici, e che tante molecole autoreplicantesi si sono organizzate in cellule, e che tante cellule si sono organizzate in esseri viventi, e che alcuni esseri viventi hanno sviluppato un sistema di elaborazione degli input esterni, e che degli esseri bipedi hanno sviluppato nuove cortecce cerebrali che permettono loro di immaginare scenari diversi dal reale, ma non si potrà prevedere se la prossima stagione andranno di moda gonne lunghe o corte. 

-  Grazie Pa'. Esco con gli amici, torno tardi .-

Sentendosi un grumo di materia che si autoguarda, Primo si affaccia alla finestra: è una limpida notte di dicembre e il campanile della chiesa indica la luna come il dito di un gigante, caro guidogozzano!

Se quando il saggio indica la luna, lo stupido guarda il dito, Primo aveva guardato il dito quando, cinquant'anni addietro, il prete dell'oratorio di San Filippo l'aveva ammonito rimproverandolo per le sue curiosità blasfeme da adolescente.

-  Come può non esserci Dio? Come possono esserci i fiori, le foglie, gli animali e noi?-

-  Guarda come, prete, guarda...-

Il ragazzino invecchiato dà il via a un programmino ricorsivo che disegna sul monitor, impredicibile eppure determinato, un paesaggio di montagne, prodotto da una stupida ripetizione di triangolini , ognuno col lato lungo la metà del precedente.

-  Il tuo dio é un appassionato di videogiochi. L'istruzione contenuta nel programma del computer é elementare. Il trucco sta nella ripetizione: non serve creatività… ma solo tempo e la Terra ha avuto il tempo per ripetere miliardi di miliardi di volte. E' un dado che ha fatto sei, non sette. Ci son stati tempi e spazi sufficienti perché i parametri siano mutati casualmente finché la ripetizione di schemi meccanici non ha prodotto qualcuno che si fa false domande. E continueranno a mutare. L'ordine sotterraneo nel disordine e i ritmi del caos si ripetono a tutte le scale possibili: c'é lo stesso piccolo ordine nelle fluttuazione delle borse valori e nei grandi ammassi di galassie. 

Primo parla a voce alta al fantasma del prete con la sgradevole sensazione di guardarsi la nuca dal di dentro. Strabico, come se volesse guardarsi l'occhio destro col sinistro. Minorato perché i due emisferi cerebrali non hanno collegamenti atti a valutarsi a vicenda.

Più tempo passa e più gli é difficile concentrarsi. Si scopre a pensare gli stessi pensieri coi memi che moltiplicano se stessi all'interno della sua neocorteccia, chiudendo anelli di retroazione neuronale come nel carosello di una giostra, innescando a tratti sequenze alternative di fatti che sarebbero potuti accadere ma che non sono accaduti, che sarebbero però accaduti se lui avesse fatto quella cosa o detto quella parola. Non l'ha fatta e non l'ha detta, eppure aveva pensato di farla o di dirla. Se l'avesse fatta... e via in circolo nell'altalena di un sistema che, torturandolo, si rafforza.

Primo immagina le vite alternative che sarebbero scaturite da decisioni, anche minime, prese nel passato: se fosse rimasto a lavorare in banca nella tranquilla provincia piemontese si sarebbe certamente sposato e fatto figli, altra moglie e altri figli e la disgrazia non sarebbe successa. C'è una donna a Biella, sulla sessantina, che é sua moglie, che sarebbe stata sua moglie, una donna innamorata di lui, che si sarebbe innamorata di lui, una faccia cara, due occhi da cercare... ma è impossibile ricostruire la catena dei milioni di piccoli eventi casuali che lo avrebbero portato fra le sue braccia. Quella donna é là, fra la gente, la sfiora per strada durante i suoi brevi ritorni, ma come gli amici di Rascel, non si salutano perché non si conoscono. Forse quella donna é infelice perché ha sposato l'uomo sbagliato... o se potesse trovarla e stringerla forte!

La tragedia era durata un attimo. Gli antichi pensatori non avevano indovinato: la natura procede soltanto per salti.

C'era stato un preciso granello di tempo che conteneva il cambiamento. Il granello precedente era colorato di serenità, il seguente di disperazione, e poiché la disgrazia era stata grande, la disperazione sarebbe durata il resto della vita.

Primo giocherella con la posata sul piatto bruciato di sugo cotto dalle microonde, abbandonandosi alla giostra dei propri pensieri.

"Filosofia: dopotutto se il resto della vita é breve anche la disperazione é breve. I filosofi classici non hanno scoperto nulla perché rimestavano nel proprio software, contrapponendo routine a routine, meme a meme, aprendosi in ritardo ai nuovi input. Galileo ruppe l'abitudine di ragionare mungendo i propri circuiti cerebrali con gli occhi chiusi, e la scienza iniziò il suo volo sperimentale e riduzionistico che ha permesso ai memi tecnologici una grande diffusione rispondendo ai bisogni materiali dell'uomo, dandogli un'eccessiva fede nella propria logica, convinto che l'intero universo sia costretto a seguirla. E invece ha spalancato le porte del caos e la scienza é diventata valanga che rotola verso abissi inagibili al buon senso, programmino di selezione di memi facili e comparazione di mappe cerebrali adatti a cacciatori, raccoglitori, contadini, operatori del terziario avanzato e intellettuali della chiacchiera ma inutile a comprendere una realtà caotica e ambigua dove la particelle sono onde, le onde sono particelle, e sono sia qua che là cambiando nel tempo zero in qualunque parte dell'universo i trovino. E il sorriso sulla faccia di Einstein si è gelato quando il suo esperimento mentale fatto per assurdo si è dimostrato reale. Se dio c'è si diverte coi dadi e bara pure. Verità troppo complessi e oltre il buon senso per essere credute, memi troppo difficili da trasmettere e quindi destinati all'estinzione.

Il novantanove per cento della specie umana non capisce più quello che fa:  premiamo bottoni, giriamo interruttori, schiacciamo telecomandi e miracoli si compiono intorno senza sollevare stupore, mentre la poca curiosità smuore alle prime risposte che fanno sospettare concetti superiori all'hardware e al software disponibile nella propria scatola cranica.  Tuttavia  l’umanità  ha bisogno di una cultura comprensibile e di credenze abbordabili, donde il proliferare di sedicenti filosofi, semiologi, psicoanalisti, opinionisti, preti, omeopati, erboristi, economisti, politici, astrologi, sceneggiatori, pornografi, giornalisti, tuttologhi e ciarlatani, meglio se in televisione in un gigantesco babelico talk show senza fine. "

Primo mette il piatto nella lavatrice, ben allineato dietro a quelli dei pasti precedenti e accende il programma per il risciacquo: c'è ancora posto per un altro giorno di piatti sporchi prima di mettere il sapone e schiacciare il tasto per il lavaggio.

Il ricordo degli orribili quanti di tempo vissuti da Primo sono impressi in qualche milione di mappe neuronali nell'intrico aggrovigliato delle sue dendriti che hanno allungato tentacoli nuovi moltiplicando i loro bottoni sinaptici per torturarlo con l'immagine di quella strada senza colori dove un ruscelletto di sangue scuro finisce quieto nel tombino di una fogna. Se potesse escludere quei contatti si dileguerebbe il ricordo della disgrazia. Tutta la sua realtà é soltanto il groviglio di quei fili che permettono l'instaurarsi di quelle mappe neuronali. L'intero mondo soggettivo è quella ragnatela proteica che materializza l'aver visto e l'aver sentito, storicizzando gli eventi nel carosello sempieterno dei memi colonizzatori. La morte di quella rete è per ognuno la morte dell'universo. Cambiare quella rete cambierebbe l'universo.

Dalla stanza di Laura non proviene alcun suono. Forse dorme raggomitolata sul letto col fazzoletto appallottolato e premuto sulla bocca. Un tempo, che adesso a Primo sembra estraneo, quella era la loro stanza e su quel letto doppio si amavano tutte le notti.

-  Io l'ho amata -

Si sussurra Primo, cercando di spegnere il continuo affiorare di pensieri casuali e infilando la biancheria umida nell'asciugatore.

-  Lei chissà, anche prima della disgrazia a qualunque domanda rispondeva parlando della carriera che avrebbe fatto, se... -

Primo aveva imparato presto a non seguirla in quei lamenti logorroici e non ricorda se Laura rimpiangesse maggiormente di non essere diventata la direttrice del Corriere della Sera, Eleonora Duse o la Montalcini. Qualunque fosse la luminosa carriera mancata era addebitata a lui, ma questo non gli aveva impedito di godere delle sue carezze. Aveva considerato quelle recriminazioni come un resto d'infanzia. Laura era la donna più bella che aveva incontrato. Era una creatura vellutata che soffriva per l'incomprensione di tutti.

Le sue mappe cerebrali avevano una curiosa stabilità: era quasi impossibile che una nuova esperienza creasse nuovi memi. Era impermeabile a nuove copiature: le vecchie mappe avevano sempre la meglio. Le sue verità erano ancora quelle dell’adolescenza.

Quando l'aveva conosciuta lamentava genitori litigiosi e urlanti, una sorella maggiore che aveva tentato di buttarla dalla finestra, una zia che la torturava coi pizzichi, un padre che la picchiava con la cinghia, una madre che aveva cercato di buttarla sotto un tram, un'amica che l'aveva tradita e un fidanzato verboso e impotente. Non si era chiesto, e lei mai si era chiesta, il motivo di quell'avversione generale. Aveva capelli rossi ondulati lunghi fino a mezza schiena, grandissimi occhi scuri supplicanti amore, ventitré anni ed era vergine. Sentiva il profumo della sua pelle a dieci metri di distanza e rideva dicendole che doveva avere dei feromoni grossi cosi. A lei veniva la pelle d'oca se le sfiorava un braccio e più stavano vicini più aumentava l’intensità del campo d'attrazione come fra una calamita e il ferro dolce. L’intensità degli amplessi ripetuti non esauriva la loro carica attrattiva che restava feroce anche dopo lo schiantarsi dei corpi. Quando aveva deciso di sposarla si era inginocchiato e aveva pregato il dio in cui allora credeva affinché lo aiutasse a farla felice cancellando l'ansia che le tremolava in fondo agli occhi.

Aveva capito molto presto che nessun dio poteva esaudire una tale preghiera perché un qualche contatto talamico in Laura produceva angoscia senza alcun rapporto con la realtà, condannandola a cercare l'inesistente causa esterna, distorcendo i sentimenti fino a cambiarli nei loro opposti. In una continua raffinata tortura, era costretta a ingigantire fatti minimi, a dar senso contrario alle parole, a crearsi avversari e nemici da odiare quali colpevoli della sua sofferenza e impedimenti al riconoscimento del proprio valore.

Il giorno dopo la tragedia Laura gli aveva detto di non poter più guardare la sua faccia senza sentirlo urlare al figlio una frase che il cervello di Primo sa di non avere pronunciato.

Quando i neuroni stabiliscono falsi ricordi non sono più in grado di distinguerli da quelli veri. Quale sarà la verità? Così è se vi pare. Pirandello docet.

Laura è sbilanciata, in perenne sofferenza. Si impunta su sottigliezze lessicali: pronunzia e non pronuncia, pomidoro e mai pomodori ma, senza alcuna logica dice restaurant e non ristorante. Scrive scorrazzare con una sola erre e ritiene sbagliati tutti i dizionari che le danno torto.

Primo ci ha riso per anni finché la disgrazia non ha tinto tutto di sangue. Di colpo il paradiso buffo e incongruente che Laura ha costruito intorno a sé e a suo marito, fatto di tendaggi rosa, letti con riccioli dorati, poltrone verdi capitonné, specchi con trine e pizzi, è diventato un inferno di paranoia.

Ridere e farla ridere aveva attutito i danni in famiglia e le ripetute estasi d'amore avevano messo cemento nelle crepe del matrimonio. Il professore era riuscito ad arrivare felice alle soglie della vecchiaia e senza desiderio di altre donne. Poi la disgrazia era esplosa come la bomba su Hiroshima.

Ora Laura ha un grande motivo per la sua angoscia e una valida ragione per odiare la vita. Un motivo comprensibile a tutti, che ispira solidarietà e compassione, che in un modo perverso l'ha portata nella normalità accettata dal mondo. Ha raggiunto un equilibrio stabile, come un elettrone in una buca di potenziale.

Primo non riesce a immaginare quanta energia sarebbe necessaria per rimetterla in movimento, forse rimarrà nella sua nicchia d'angoscia per il resto della sua esistenza, incapace di valutare altro che il proprio tormento, investendo il prossimo con bordate di disperazione, costringendo tutti a soffrire del suo dolore: ma può qualcuno criticare una madre che ha perso un figlio suicida?

Primo chiude l'asciugatore e pigia il bottone del via. Il grande cestello gira sbattendo i panni colorati contro il vetro termico. A ogni giro un colore diverso, uno slip a quadretti blu balena per un attimo. Deve essere di suo figlio, Primo non ha slip a quadretti blu. Laura ne aveva uno la prima volta che avevano fatto l'amore... l'ippocampo scarica nel talamo stimolando l'apertura un non voluto oblò di ricordo. E' stato bello ed è durato trent'anni: perché chiedere di più al flash della vita? Nascita copula morte. E allora che almeno la copula sia buona!

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