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Il Dito di Dio (Assolutamente Casuale) PARTE SECONDA CAPITOLO 5 "Trent'anni sono l'eternità se visti dal nastro di partenza e uno scippo di vita se guardati da quello d'arrivo."
Beatrice è intenta a fare orecchiette al suo quaderno di appunti sullo sfondo dei banchi vuoti. - Trent'anni per me sono soltanto un suono. Io ne compio diciannove domani. Non posso sapere come sono trenta. -Primo la guarda ammirato. - Hai ragione. Non si può immaginare il tempo che non si é vissuto. Mussolini e Cheope sono contemporanei per chi è nato dopo il 1945.-- Non so neppure come si possano ricordare trent'anni di fila. Io me ne ricordo una decina e male. - - Non si ricordano, si inventano. Ognuno inventa i propri. Quando mia moglie evocava qualche fatto della nostra vita, non era mai come lo ricordavo io. – - Evocava... è morta?- Primo nega col capo senza dare spiegazioni per l'imperfetto. - Mi sa che lei ha una strana moglie, professore. –- Gli attori si aggiustano le battute, anche se le ha scritte Shakespeare, poi a forza di ripeterle diventano autentiche. – - Lei l'ama ancora?- - Mi dovresti chiedere se l'amo di nuovo. Non si può amare "ancora". Ricordi il gioco? Chiudi gli occhi e pensi a te fra un anno, o un mese, o un giorno, o un minuto. Ti rendi conto che pensi a un’altra. Io amerò sempre la donna che ho sposato. E' il mio capolavoro: ci ho messo tutto ciò che mi piace. Il sesso dalla purezza ignorante all'esperienza più raffinata; la bontà, quella ingenua dei bambini quando ti offrono i loro giochi, fragile e assoluta; la sopravvalutazione di me stesso che permette di isolare le delusioni del mondo; la debolezza disarmata che eccita e soddisfa il mio senso di protezione e mi fa sentire padrone tenerissimo del suo destino. Quella che adesso sta con me è un'altra donna e non riesco più a metterle addosso il mio fantasma. Se l'avessi incontrata oggi non me ne sarei innamorato ma anch'io oggi sono un altro. Se chiudo gli occhi e la annuso, allora sì, l'amo di nuovo. Il naso è il meno storico dei sensi. Succede in tutti i rapporti, anche coi figli: quegli adorati bambini diventano persone che forse non avremmo frequentato per libera scelta ma portano sulle pelle l'odore di nostri sogni lontani. – Beatrice lo guarda pensosa e Primo si trova a immaginare la sua mano fra i suoi capelli e le fa scorrere il dito della fantasia sulle labbra. La ragazza sente il contatto perché serra forte la bocca. L'aula viene invasa da giovani bipedi che vociano di calcio e di incredibile culo. Sono eccitati e si affollano intorno alla cattedra. - Ha sentito del prof di statistica?-- Drei?- - Quello! C'ha un culo così! - il pennellone dagli ultimi peli gelatinati a cresta di gallo inarca pollici e indici a simulare una circonferenza di mezzo metro. - L'hanno appena fatto preside. - risponde Primo godendo delle scintille di intelligenza accese negli occhi dei ragazzi. - E chi se ne frega del preside, quello è niente!- strilletta una bruna dai capelli a cavatappi in perpetua lotta per emergere col viso da quelle escrescenze cheratinose. - Domenica sua figlia ha sposato il nipote di Agnelli...- tenta Primo sorridendo alla foga brufolosa del ragazzetto che si tende verso di lui, paonazzo, alitandogli odore di gomma da masticare sulla faccia: - Quel bucio di Drei ha vinto trentamilioni di euri al Superenalotto giocando la sua data di nascita e il numero delle scarpe che porta! Questo é culo! Purissimo culo! Immenso culo! -Drei ha natiche più grosse di quanto sarebbe in armonia con la sua statura ma non oltre la norma professionale. Professori e ciabattini tendono ad accrescere la base su cui poggiano per tante ore al giorno e poiché i ciabattini sono quasi estinti ad avere culo, professionalmente, sono rimasti soltanto i professori. Anche Beatrice è contagiata dall'eccitazione, la fortuna di Drei appare scandalosa: gode pure di una seconda moglie di vent'anni più giovane di lui, innamoratissima, con una carica sensuale così intensa da attrarre gli schizzi solitari di tutti gli studenti. Il vociare si tronca netto e per un secondo c'è nell'aula il silenzio di una scuola di altri tempi, poi uno scroscio di applausi e un correre verso il professor Drei apparso roseo e paffuto sulla soglia. L'abito gessato e il registro verde sono parti di lui, Drei da sempre è un registro e un completo a righe su cui sta un facciotto rubizzo che ha come unica particolarità un paio di occhiali incorniciati di filigrana dorata sul naso. Gli studenti lo sollevano da terra e lo portano in trionfo. Ridono, invidiano e disprezzano e Drei spaurito cerca equilibrio sull'onda cattiva di quelle mani festose che lo tengono staccato dal pavimento. - Tu guarda se c'è un maiale d'un dio - bestemmia bilioso un pallidone dalla faccia segnata dalle masturbazioni - non esiste che un coglione con una faccia da cazzo vince trenta milioni di euri...-- E si scopa quel gran pezzo di fica della sua signora...- rincara un biondino slavato, con occhiaie da spinello ciondolando moscio. - Che farai, caro Drei, di tutti questi soldi?- gli chiede Primo liberandolo dalle mani maligne dei ragazzi. Il preside si ricompone il vestito, si aggiusta gli occhiali e sorride: - Mi compro una bella tomba monumentale al Verano. - Gli studenti scoppiano a ridere. Primo li zittisce con un gesto di fastidio ma ci riesce meglio Drei con surreali parole pronunciate con dolcezza: - Voglio un angelo in bronzo e una lapide alta tre metri con su scritto: Devi sapere smettere quando stai vincendo. -- Perché l'angelo?- chiede Primo. Drei si stringe nelle spalle strette e spioventi diventando ancor più misero nella figura: - Perché è più bello. -Dai margini della chiazza sghignazzante una voce grida che l'angelo è un uccellone, ma Drei finge di non sentire e cerca di farsi largo fra gli studenti, con gesti timidi, privi di autorità. Primo gli va in soccorso ordinando ai ragazzi di sedere. Drei gli sorride grato e gli lancia un'occhiata dolce amplificata dalle spesse lenti: - A Pasqua c'è la festa della scuola ma questa volta vorrei che fosse una festa speciale. Pagherò tutto io, mi piacerebbe che fosse sulla terrazza dell'Hassler. Che ne dici? Ce la daranno per una sera?-- Basta pagare, preside. – - Te ne puoi occupare tu?- - Ma c'è tempo, siamo appena a metà gennaio...- - Ti prego. Non ti chiederò altro per tutta la vita. - C'è una supplica esagerata dietro quei ridicoli occhiali e Primo accetta. - Ho un amico che si occupa di relazioni pubbliche. Basterà una telefonata. - fa strada a Drei verso l'aula dei professori e si ferma davanti alla macchina del caffè: - Un caffettino?-Drei annuisce con un sorriso triste. - Qualcosa non va, preside?-Drei arriccia le guance in una smorfia buffa che vela l'umiltà della sua faccia. - Va tutto troppo. La mia vita è stata una continua fortuna, non per mia scelta, tutto è andato per il meglio, sempre. -- Beato te, che problema hai?- - Statistica. - ammette Drei con un po' di vergogna - Una serie fortunata è seguita da una serie disgraziata. Ho avuto una vita favorevole: genitori innamorati e felici, studi in provincia, borsa di studio e laurea a Roma, ho vinto un concorso all'Istat e sono diventato direttore, ho preso una cotta per una ragazza e l'ho messa incinta. La madre diceva che era volubile ma io avevo capito che era mentalmente instabile. L'ho sposata lo stesso e ho avuto una bambina che è cresciuta buona e affettuosa. La madre la respingeva quando cercavo di attaccargliela al seno, diceva che le sembrava un animale che volesse succhiarle il sangue. Una notte si è tolta la vita, non mi ricordo più per quale stupidaggine che nella sua testa malata deve esserle sembrata insopportabile. E' stato l'unico momento basso della curva degli eventi favorevoli e forse neppure tanto, poi un anno fa la curva ha avuto un picco. Una donna troppo bella si è innamorata di me, guardami, di me, capisci? Tre mesi dopo mia figlia si è sposata con un miliardario e adesso questa ridicola vincita al Superenalotto con la prima giocata fatta in vita mia. Sai, ho scommesso proprio per fare un test alla fortuna. – - Un culo scandaloso, lo dicono tutti...- sorride Primo che non capisce la tristezza di Drei. - In statistica un culo scandaloso apre l'attesa di un bilanciamento del ciclo. – - Deformazione professionale. Goditi la tua fortuna invece. - - Me la sto godendo ma non mi farò fregare dal cambiamento di ciclo. - - E che farai?- - Non lo so, per esempio smettere. - - Smettere di far che?- - Di esistere. - Primo sbuffa spazientito mentre una sensazione acre di rabbia gli accelera il cuore: - Ti vuoi ammazzare perché sei felice?-- Mi capiterà una disgrazia, suppongo. Sai che cosa mi tormenta di più nell'idea della morte? Il ricordo di mio padre. La mia infanzia con lui. Quando il mio cervello diventerà poltiglia spariranno dall'universo i ricordi che ho di mio padre. Sono pochi, qui dentro rimane poco. -si tocca la fronte e continua - Me lo ricordo a cavallo della sua grande moto quando mi portava al paese dei nonni e io mi aggrappavo a lui pauroso del vento e della velocità, me lo ricordo vestito da vigile urbano che indicava con gesti importanti la direzione che dovevano prendere le poche macchine e le molte biciclette in quel minuscolo incrocio di provincia, me lo ricordo seduto a tavola con una camicia di seta cruda puntinata irregolarmente di macchiette verdi, aveva braccia ben tornite e bianche. Me lo ricordo furioso che mi scaraventa addosso un piatto di spinaci, io mi scanso e il piatto si spiaccica sul muro in un coro di rimprovero dei familiari che si tramuta in risate, me lo ricordo che mi porta a passeggio, manina mia nella manona sua e parliamo del mio futuro, di quello che avrei fatto da grande ed era sempre il massimo. Nessuno tranne me ricorda queste cose adesso che lui è morto e quando morirò anch'io tutto questo andrà perduto. E' come se mio padre morisse di nuovo con me e anche mio nonno e il padre di mio nonno. Chi ricorderà che il mio bisnonno era alto due metri e tornando dalla grande battaglia di ferragosto sul ponte di Traktir, sulla Cernaia dovette togliersi l'elmo per passare a cavallo nell'androne che porta al cortile della mia casa di famiglia? E che uccise un austriaco di Gyulai che voleva violentare la bisnonna il 29 maggio del 1859? Nessuno lo ricorderà. Morto io tutto questo sparirà dall'universo. I vivi poggiano su un caleidoscopio di immagini di vita irrecuperabili che si vanno spegnendo. – Primo non ha più voglia di continuare il discorso: la donna instabile che ha sposato è viva perché ha interrotto il suo tentativo di suicidio, e ora sono entrambi nel ventre di un ciclo di disperazione e non s'aspetta che cambi mai più. - Non mi dirà che è sposato da trent'anni con una schizofrenica e non se n'è accorto?-Glielo aveva chiesto brutalmente uno dei tanti psichiatri chiamati a curare suo figlio Giuseppe. Drei stuzzicato nei suoi interessi gode nel parlarne incurante della scarsa attenzione: - Vedi, caro Sibiè, c'è una contraddizione profonda nella statistica: se tu tiri in aria una moneta hai una probabilità su due che cada su una faccia o sull'altra. -- Testa o croce...- sospira Primo, cercando una scusa dignitosa per interrompere Drei e andarsene. - Già. E ogni tiro fa storia a sé, tuttavia è ovvio che la probabilità di avere di seguito dieci volte testa o dieci volte croce è 1/2 alla decima potenza: cioè 1/2 per 1/2 per 1/2... dieci volte, quindi la probabilità che venga dieci volte testa o dieci volte croce è soltanto una su 1024. Bene, dopo che ti è venuto nove volte di seguito, supponiamo, testa, potresti fermarti per chiederti qual è la probabilità che nel prossimo lancio della moneta venga ancora testa e tutti ti diranno che è di 1/2, come al primo lancio, perché la moneta non ha memoria. Lo stesso ragionamento potresti farlo dopo aver ottenuto per la decima volta testa, e dopo l'undicesima... e così via, eppure c'è un'altra legge, quella di Gauss, che fa diminuire drasticamente la probabilità che una tale sequenza si allunghi all'infinito, dopo poco raggiunge quella che chiamiamo impossibilità matematica, che non è l'impossibilità fisica ma si avvicina molto. Capisci?-Primo annuisce, prigioniero dei suoi pensieri che si rincorrono involontari su più dimensioni per poi diventare una sola come in un anello di Moebius, ma il preside lo afferra per un braccio e lo guarda con occhi accesi: - Credere di aver capito quando non si è capito è il modo peggiore di non capire! Significa che gli eventi favorevoli non si assommeranno mai per un periodo troppo lungo. Non ci sarà mai una sequenza infinita di "testa" o di "croce" e non bastano uno o due colpi negativi per bilanciare una troppo lunga sequenza positiva, no, dopo un periodo di eccessivo culo, come dicono i ragazzi, ci aspetta il disastro. Vuol dire che Napoleone, nonostante l'Elba, non poteva più vincere a Waterloo, che Cesare era maturo per le idi di marzo e che Mussolini, nonostante il 25 luglio e il Gran Sasso, non poteva evitare piazzale Loreto. Dopo una serie improbabile di colpi fortunati c'è sempre un punto di catastrofe. –- La chiamano giustizia divina. E' la consolazione dei poveracci. – - Io ti parlo di statistica e tu mi rispondi di religione!- Drei scuote il capo sconsolato e se ne va dandogli un'occhiata da sopra la montatura dorata degli occhiali mormorando tra sé - ...e ha studiato matematica...- Stanno togliendo le ghirlande di piccole lampade dai rami degli alberi di viale Libia messe per rendere più allegro il Natale e attirare clienti nei negozi. Primo si ferma davanti all'edicola: i giornali titolano sulla guerra all'Iraq. Le reti televisive tripudiano tra previsioni di guerra lampo, armi di distruzione di massa e battaglie in diretta con grande aumento di ascolto. Tutto il mondo è per la pace ma lo spettacolo di una bella guerra è più affascinante delle telenovela mentre una foto delle Twin Towers colpite dagli aerei assassini dei terroristi islamici dà una giustificazione visiva al prossimo eccidio. In terza pagina c'è il problema dei giovani che non trovano lavoro. Sulle sedie del bar Hawaii bivaccano a gruppi guardando l'aria con occhi vuoti. Grappoli cavalcano motorini petanti, celati in caschi di plastica colorata che danno loro una personalità. Branchetti di tatuati, le carni infilzate da chiodi metallici lucenti, capelli arcobaleno, scuotono l'inutile appendice cefalica devastata dalla musica violenta premuta sui timpani da piccole cuffie. Idioti rasati vantano svastiche e celtiche sulle braccia allucinati dalle fantasie di un mondo epico mai esistito. Dagli schermi TV iniziano discorsi vuoti sempre con la stessa parola: niente. L'umanità è alla vigilia della conquista dello spazio, del tempo e della vita eterna. Le mele dell'albero del Bene e del Male sono enormi, succose e a portata di mano, ma non c'è alcun serpente nell'eden metropolitano e i giovani Adami rimpinzati di vitamine balbettano di non avere ideali con lo sguardo catarattico e sfocato come doveva essere quello dei piccoli pesci centinaia di milioni di anni fa, occhi bulbosi che spiavano oltre il pelo dell'acqua ferma: vertigini di verde contro l'azzurro del cielo. Un mondo da conquistare, senza fango, ma dove l'aria bruciava le branchie. La gran parte dei pesciotti giovani avrà rinunciato restando nella melma sempre più densa. Fuori c'era la conquista dell'universo, gambe per correre liberi, ali per volare in alto. Fuori c'era la scalata a dio ma nella melma tiepida era facile lasciarsi andare. Pesciotti viscidi senza ideali. Il sole è tiepido, non pare inverno. Primo guarda il cielo che i terrazzi dei palazzoni intagliano in una fascia blu seghettata e la ringhiera bianca di un balcone fa nascere l'onda di scarica mentre il suo sguardo cade dal sesto piano fin sul marciapiede. Aveva le scarpe che gli aveva comprato due anni prima a San Francisco, scarpe da ginnastica a vivaci piccolissimi quadratini di ogni colore. Una gli era rimasta infilata sul piede, l'altra giaceva poco più in là. Il Golden Gate, le nuvole a colonne colorate, le strade vertiginose, l'ultima vacanza tutti insieme nella più bella città del mondo, non felice perché suo figlio era già malato. Primo tenta di sfuggire al dolore che invade impetuoso il corpo moltiplicando brutalmente flussi e secrezioni. I muscoli dello stomaco si contraggono come l'artiglio di un rapace. Beatrice cammina pochi metri più avanti, a braccetto con delle compagne e ride. Muove le belle gambe slanciate in passi da balletto rivolta a tratti alla compagna più vicina e a tratti con mezze piroette alla ragazza in fondo alla fila. Si obbliga a seguire quelle gambe immaginandole oltre l'orlo svolazzante della gonna ma è troppo tardi. La fantasia si rompe e si schianta sul marciapiede, la testa premuta contro le ginocchia, la spina dorsale spezzata. Aveva detto a Laura di telefonare al figlio la sera prima della disgrazia ma lei non lo aveva fatto. Primo aveva messo la mano sul telefono, deciso a chiamarlo lui ma poi aveva desistito perché sapeva che si sarebbe sentito chiedere soltanto soldi e sigarette. - Devo abituarmi a non telefonargli - si era detto, senza immaginare che non avrebbe potuto telefonargli mai più. Primo deve appoggiarsi al vetro di una vetrina. Stringe i denti e tenta un altro trucco, quello dello zoom indietro: si sforza di vedersi dall'alto. A fatica, con una sensazione sgradevole come uno zinco trascinato sulla pietra, l'immagine si compone nel buio della sua testa montando pezzi di esperienze visive diverse: un uomo di cinquant'anni con la pelle del cranio senza peli tesa sull'osso bombato del teschio, appoggiato alla vetrina di un negozio di reggiseni rossi. ZOOM INDIETRO. Primo sposta il punto di vista immaginario più in alto dei palazzi: ora vede buona parte di viale Libia e se stesso, piccolo, uno dei tanti passanti, appoggiato alla vetrina. ZOOM INDIETRO. Ecco i tetti dell'Africano e i terrazzoni irti di antenne di piazza Santa Emerenziana, tagliati in due dalla strada alberata che arriva arcuata fino a piazza Annibaliano, per fermarsi contro le lamiere lucenti del parcheggio pubblico e poi diventare tortuosa e salire, pi— verde, col nome che identifica il quartiere: Trieste. Deve aguzzare la vista per distinguere quell'omino che tiene la fronte premuta contro la vetrina di un negozio. ZOOM INDIETRO. Tutta Roma fino al grande raccordo anulare che, una corsia per volta, gli amministratori le stanno costruendo intorno da trent'anni e l'ominicchio pelato di viale Libia è ormai impossibile da distinguere. ZOOM INDIETRO. Come vista da un aereo in decollo Roma diventa piccola, una chiazza gialla sul marrone brullo del Lazio e viale Libia si impasta con le macchie chiare dei terrazzi. ZOOM INDIETRO. Nel buio dell'area della rappresentazione visiva volontaria di Primo appare lo stivale d'Italia e si avverte la rotondità del pianeta. Il professore con inconsapevoli processi di feed-back mantiene eccitati i circuiti dell'attenzione per sostenere l'immagine a colori e in tre dimensioni, usandoli come userebbe i polmoni se volesse accelerare il battito del cuore: il mare è verdeblu e Roma è un'areola chiara vicino alla costa dove il Tevere sporca con un grande pennacchio color fogna. ZOOM INDIETRO. Il pianeta galleggia nello spazio nero, una palla azzurra con chiazze brune ornata da stracci di pizzi bianchi, sembra puro, vergine, inabitato e Primo sente allentarsi il morso dell'angoscia. ZOOM INDIETRO. La stella Sole abbaglia la corteccia visiva fondendo il suo idrogeno in elio con furia controllata dalla gravità, fiammeggiano nel buio archi di plasma, sparando via milioni di tonnellate di materia come una mitragliatrice a 360 gradi e Primo sposta il suo punto di vista dietro i milioni di detriti degli anelli di Saturno per farsi schermo. Giove è lontano, Marte e la Terra quasi in linea col Sole e Venere troppo vicino alla corona per poter essere vista. La marea di dolore sta calando. I neuroni scaricano adesso più facilmente lungo gli assoni irrobustiti dall'abitudine per il film che Primo si è autoproiettato tante volte. ZOOM INDIETRO. Una nebbia di stelle. Milioni di puntini luminosi pretendono eguale attenzione. Uno di essi è il Sole, ma quale? I pianeti che gli girano intorno sono invisibili e privi di significato. ZOOM INDIETRO. Vuoti astratti di scurissimo nero sono oceani bui punteggiati da isole luminose, e una di esse, uguale a migliaia di altre, è la nostra Via Lattea. Miliardi di soli per ogni isola. ZOOM INDIETRO. Arcipelaghi di galassie, evanescenti come pizzo vaporoso su un velluto spolverato d'argento, sospetti di una superbiologia che usa la luce come neurotrasmettiore, striature impalpabili che si allungano in tutte le direzioni perdendosi oltre l'orizzonte dell'immaginazione là dove la fantasia cede. ZOOM INDIETRO. Lontano, più lontano.... fantasmi frattali di infiniti multiversi sboccianti come gemme su gemme, coagulanti in una macchia sempre più piccola e sempre meno luminosa fino a un lumino ultimo che manda un estremo richiamo di luce prima di spegnersi come il fondo di un catodo lasciando una melassa grigia che intorpidisce i collegamenti sinaptici con endorfine anestetiche. Dopo aver immaginato il grande vuoto dove la luce diventa una lumaca paraplegica e il tutto equivale al niente, Primo torna a mettere a fuoco l'ombra dei suoi occhi incavati e pieni di pianto sullo sfondo di un reggipetto rosso oltre il vetro semiriflettente della vetrina. "Che importanza può avere il suicidio del figlio di un mammifero bipede, uno dei tanti miliardi che vivono, pigiati come una colonia di batteri, su un pulviscolo ruotante intorno a una bolla di idrogeno in fusione, perduta tra miliardi di miliardi di altre bolle tutte uguali?" Il trucco funziona e il professore riprende a camminare con un respiro profondo che gli alza il ventre sciogliendo i muscoli del plesso solare. E' spossato. Beatrice se n'è andata insieme alla sua velleitaria senile voglia di giovinezza. In fondo alla strada c'è l'edicola. Primo comprerà La Repubblica e salirà a casa. Ogni volta che riapre la porta dell'appartamento il massimo dell'incertezza si coniuga col massimo della monotonia. Sa che potrebbe trovare scene orribili ma è orribile anche trovare tutto come lo ha lasciato. Seguendo un impulso di fuga, Primo balza su un autobus davanti a Upim e si trova compresso tra due cinesine che gli arrivano con le labbra poco sopra l'ombelico. L'autobus è affollato e a ogni fermata la calca aumenta. Passeggeri pretendono spazio per infilare il biglietto nella macchina che la pazzia urbana ha chiamato obliteratrice, ma che invece di cancellare, stampa. Un quarto della gente è di colore, manodopera a buon mercato anche per i non patrizi: era dai tempi di Romolo Augustolo che non se ne vedeva più a Roma. L'autobus risale l'antica marrana di corso Trieste e si accoda a un serpente strombettante di macchine ferme avvolte in una nuvola di ossido di carbonio e particelle incombuste. Trecento metri più in là, all'incrocio con la Nomentana si intravedono striscioni arcobaleno e cartelli in lenta processione. Un corteo di possessori di automobili scandisce slogan del tipo "No blood for oil". I passeggeri bianchi imprecano, qualcuno maledice gli immigrati, qualche altro se la prende con Bush che fa la guerra e contro il sindaco di Roma che permette a un corteo di bloccare la città, i pochi silenti fissano con odio le facce colorate ruminando vaffanculo per Saddam e tutta la progenie sua. La nonna di Primo, nata vissuta e morta ai piedi del Mucrone, usava sgridarlo per le sue marachelle infantili dandogli del maunét, che significava cattivo e sporcaccione, ma era anche il nome del Profeta. Nel suo paesino alpino si era poveri cristi e luridi maometti. L'autista spalanca le porte dell'autobus, chi vuol scendere scenda, e augura un mannaggia alla madonna. Scendono i bianchi e quelli di colore ne approfittano per sedersi. Sfilano i cartelli dei manifestanti. Manca quello dei troiani di Simili "Viva il Re e Abbasso la Monarchia" ma il paradosso è dovunque. Molti sono vecchi slogan della guerra in Vietnam e anche molte facce sono vecchie facce, ingrigite da troppi orgasmi mancati. Primo ha sempre disprezzato i falsi intellettuali farisei ma adesso si sente come loro, deriso dalla casualità dell'avvenuto, scosso dalla difficoltà di accettare il reale: proletari di tutto il mondo, il comunismo è una stronzata genocida e i figli si possono schiantare sul bordo di un marciapiede e colare il proprio sangue in un tombino. Gli viene voglia di piangere e si unisce al corteo. Cammina dietro a un gruppo di giovani che scandisce consigli omosessuali per gli yankee e lascia che le lacrime gli righino le guance, sicuro di passare inosservato in tanta mostra di nobili sentimenti. Tre cartelli han forma di gigantesche mani umane: una mostra un dito medio teso verso l'alto come se volesse infilarlo in culo al creatore, l'altra ha pollice e mignolo aperti in orizzontale e la terza fa le corna, chissà se per scaramanzia o come segno distintivo. Tra i portatori di corna il volto pallido e sciupato della prima amicizia appare così improbabile a Primo che gli va addosso ben certo che al calar della distanza calerà anche la somiglianza. Invece quel viso smunto si storce in un sorriso e gli occhi infossati hanno un bagliore di giovinezza. - Primo!-- Dino! Che ci fa a Roma il direttore della Banca Sella!?- lo abbraccia forte e lo tira fuori dal fiume pacifista che sta inneggiando allo sterminio di Israele. - Ex direttore! E a te non l'hanno ancora dato il Nobel?-- Una svista - ride Primo assurdamente felice. Pescare in quella processione romana l'amico che quarant'anni prima aveva lasciato in provincia, gli dà la sensazione irrazionale di poter tornare su quella decisione e cambiarla. Ritrovando la sincronia d'animo, Dino lo scuote afferrandolo per la giacca, gli occhi sgranati e accesi di una speranza folle: - Fanculo il Piccolo di Milano!- gli grida con gli occhi lucidi - Oh se non mi avessi trascinato a teatro quella sera! Sarei partito anch'io!- e gli stringe le braccia forte, guardandolo goloso di dettagli, come se potesse attraverso l'amico tornare indietro nel tempo e cambiare la propria vita. - Lisa?- Dino gli fa un cenno tragico. - Non mi dirai che...-- Morta? - guarda l'ora - No, non ancora. Ma dimmi di te. Successo, soldi, donne... eh? Bel coglione che son stato! Potevo essere anch'io come te adesso...- Vorrebbe dirgli della disgrazia ma l'emozione agita il parasimpatico che gli blocca la laringe e glielo impedisce. L'amico lo tasta, gli liscia il vestito e lo guarda come un fedele guarda il suo santo di fiducia. E' la sua illusione che la vita avrebbe potuto essere felice. Non può dirgli che vorrebbe esser rimasto con lui a far maniglia. Primo si lascia ammirare, adorare. Vanno insieme a mangiare un goulasch da Albrecht e nel mare di birra Dino tira fuori la sua disperazione per la moglie ninfomane che si è fatta chiavare da tutta la città. E' vissuto fra i sorrisetti ambigui, ha fatto carriera in banca sospettando di ogni promozione, vedendo la mano di un amante della moglie in ogni mano che doveva stringere, sentendo la derisione in ogni pacca sulle spalle e la compassione in ogni saluto. - Figli?-- Due. - Beve un mezzo stivale di birra- Quando sono nati non è esploso in me il senso paterno, mentre ho notato che il salumiere sotto casa era molto emozionato...- Dino ride alla propria battuta ma ha voglia di piangere. - Come mai a Roma?- gli chiede Primo per cambiare argomento. Ancora l'amico evita di rispondere guardando l'orologio. Inghiotte dell'altra birra, la mano gli trema e se ne versa addosso. Continua il suo sfogo: - Lo sai come ero innamorato io. Lisa e basta. Il resto del mondo poteva andare a farsi fottere. - Ride di nuovo ma suona come un singhiozzo- Invece è andata a farsi fottere lei tre giorni dopo che ci eravamo sposati. Un record, ti pare? Un'altra birra! tu non bevi? –- Perché non l'hai lasciata subito?- La domanda si volge contro Primo. Perché non aveva lasciato Laura quando si era accorto che non era possibile farla felice? - Era incinta. - risponde Dino e Primo annuisce, accettando come propria la risposta: Laura era incinta e si sentiva troppo gonfio di responsabilità paterna. Nel ventre di quella donna germinava una parte di sé. Un figlio SUO. Egoisticamente padre nell'illusione che fosse figlio anche del suo spirito, del suo modo di pensare che allora gli dava la certezza di una sola verità, una sola onestà, una sola giustizia. Quante musate prima di capire che era solo figlio di un meccanismo cellulare che incrociava una varietà casuale di geni, caoticamente diffusa intorno a un attrattore che valeva la norma, impredicibile come il tempo atmosferico. Quanto tormento prima di ammettere che suo figlio era un altro, un qualunque altro, simile a lui non più di qualsiasi ragazzo scelto a caso sui banchi della sua scuola. - Siamo tutti fratelli- soleva dirgli il prete dell'oratorio, ma le parole troppo sentite perdono il loro significato. Fin da piccolo Primo aveva udito biascicare che tutti siamo fratelli e solo coi figli già grandi ne aveva capito il senso: siamo tutti SOLTANTO fratelli. Non esiste legame maggiore, siamo soltanto fratelli, esseri simili in un grande branco di sei miliardi che impesta il pianeta. Nessuno può sperare di avere un rapporto più stretto: fratelli e basta. Lo sperma è anonimo, i figli di Dante non hanno più speranza di poesia dei figli di un mercante. Uno schizzo ne vale un altro e la statistica non può consolare i padri sfortunati. Dino soffoca il dolore nella densa schiuma della birra che gli cola ai lati della bocca evocando nel cervello di Primo l'immagine disgustante del fiume di sperma eiaculato dall'umanità: un miliardo di maschi ogni giorno produce seme, un miliardo di centimetri cubi equivale a un milione di litri di sperma e in ogni centimetro cubo milioni di possibilità di fratelli diversi: neri bianchi gialli variegati assassini santi schizofrenici razionali alti bassi magri grassi melodiosi stonati creativi stolidi matematici dislessici bruni biondi rossi castani protervi umili eroi codardi geniali ritardati sadici pii deboli forti poeti banchieri potenti leccaculo gentili volgari ladri onesti cannibali e vegetariani e tutte le gradazioni della mescolanza. Meno numerosa ma non meno casuale la popolazione delle uova delle femmine: io do ventitré cromosomi a te e tu dai ventitré cromosomi a me. Affare fatto: è nato un altro, figlio di tutti gli antenati nostri. Un fratello. Un involucro inventato dai geni per la loro egoistica sopravvivenza, una scatola che si è messa a filosofare sulla propria importanza. Primo si è distratto e Dino ha continuato a parlare: -...come ho resistito? Non ho resistito, ho passato quarant'anni a chiedermi che cosa potevo fare mentre recitavo la parte dell'uomo felice, del cornuto contento. Però adesso ho risolto. – Guarda di nuovo l'ora e ordina un'altra birra. Fuori il corteo dei pacifisti si è fermato. Suonano le sirene della polizia e si sente lo scroscio di una vetrina infranta. Entra un ragazzo con la kefia al collo, la faccia insanguinata e si appoggia al bancone eccitato e felice: - Gli facciamo un culo così a questi servi degli americani che non vogliono la pace!- esclama prima di tuffare le labbra nelle bollicine gelate di una coca cola.- Come hai risolto?- chiede Primo levando il bicchiere dalla mano incerta dell'amico. Dino picchietta con l'indice bagnato di birra sul vetro del Cartier che ha al polso: - Sono passate tre ore e il medico mi ha detto che dopo tre ore non c'è più niente da fare. Va al cervello capisci?-- La birra?- La risata sfocia in un rutto rumoroso. Dino guarda l'amico con occhi disperati e dice: - Tàlofen. –Primo scuote il capo senza capire e Dino si piega verso di lui sguazzando con la manica nel lago di birra che ha sparso sul piano del tavolo. - Tàlofen - ripete- tutta la bottiglia - fa il gesto di chi versa da bere fino all'ultima goccia e completa la battuta con un altro rutto- ...nel caffè. –- Ma che dici?- - Se lo facevo quarant'anni fa le mettevo a dormire la figa ed era meglio per tutti. Anche per quei due disgraziati che di là sono usciti e che vanno in giro a seminare altri coglioni. Era facile ma ci ho messo quarant'anni a decidermi: fffst! nel caffè. Tàlofen, una mano santa. – - Sei ubriaco! Stai dicendo che...- Primo cerca di alleggerire ma la luce che c'è in quegli occhi dilatati è così tragica che non termina la frase. - Sei venuto a Roma con Lisa?- Dino annuisce esageratamente. - Lei dov'è?-Picchietta ancora sull'orologio con un sorriso maligno: - All'inferno, spero. –- L'hai... le hai dato tanto sonnifero da... Dov'è? Dove sta Lisa?- Primo scuote l'amico per un braccio e Dino lo fissa con un ghignetto sardonico: - Sei ancora innamorato di lei, vai a cagare!- si alza in piedi reggendosi al tavolo. Si porta un dito sulle labbra sporche di schiuma: - Ssst! Secondino detto Dino è un assassino ma non si deve sapere. Non voglio coinvolgerti. Non ci siamo visti, non ci vediamo da quarant'anni perché dovremmo esserci visti proprio oggi...-Strappa il braccio dalla stretta di Primo e se ne va barcollando verso l'uscita. - Dino!-Primo lo chiama ma non cerca di fermarlo. L'uomo esce ruttando e facendosi largo fra un gruppo di ex giovani dai capelli grigi che gridano cadenzati nostalgici e speranzosi: - Forza Saddam, dacci un altro Vietnam!- La rima rinforza l'idiozia del meme e ne aumenta la probabilità di appiccicarsi a nuovi cervelli.Primo resta a giocherellare con le orme di birra lasciate dai bicchieri, tracciando ghirigori autoripetentesi. Pensa a quella piccola variazione nelle condizioni iniziali che ha divaricato la sua storia da quella dell'amico: come gli era venuto in testa di regalargli quel biglietto per una commedia di Goldoni recitata dal Piccolo Teatro di Milano? Allora quella compagnia era quasi sconosciuta, perché aveva voluto andarci? Nessuna risposta. L'evento provocatore era stato tanto insignificante che il suo cervello al momento di fissare i ricordi lo aveva scartato. Primo fa ghirigori più fini col taglio dell'unghia e resta a fissarli come se potessero dargli la soluzione. Segue il flusso dei propri pensieri come se assistesse alla proiezione di un film di immagini eidetiche, aldilà dell'esperienza sensibile: le vite degli uomini come frattali, ripetizioni ossessive e uguali di pochi stati elementari: stasi, dolore, stasi, desiderio, dolore, stasi, desiderio, soddisfazione, stasi.... con intervalli sempre più piccoli per chi precipita nel buco nero della vecchiaia dove il tempo invece di dilatarsi si contrae e i ricordi si amalgamano al presente diventando presente essi stessi. Un vecchio è un impasto di morula, neonato, bambino, adolescente, uomo e moribondo. - Desidera altro, signore?-Primo scuote la testa senza guardare in faccia il cameriere ma il disturbo muta la direzione dei suoi pensieri: "Sarà vero? Dino ha ucciso, sta uccidendo, ucciderà Lisa? E perché quell'incontro dopo quarant'anni di lontananza è avvenuto proprio quando Lisa è appena morta, o sta morendo, o morirà tra poco? C'è un disegno maligno nella casualità? C'è Qualcuno che ride di noi in un altrove che non sappiamo immaginare?" Coincidenze, casualità, decisioni minime creano mondi. Il professore esce in strada: i pacifisti si sono allontanati lasciandosi dietro vetrine sfondate e brandelli di striscioni. Ne stira uno coi piedi e legge: USA e getta. Lo scuote un singulto che gli torce la bocca pensando a Dino che ha rinunciato ai suoi sogni di gloria per la donna che adesso ha voglia di uccidere e a sé che avendoli seguiti ha voglia di morire. Usati e gettati. Da cosa?
CAPITOLO 6 "Abbiamo troppi passati: sono stato, ero, ero stato, fui, fui stato, sarò stato, fossi, fossi stato, sarei stato. Meglio il russo che risolve tutto con una sola parola: bil." Primo se lo trova addosso senza averlo visto arrivare. Pensa che voglia colpirlo e alza un pugno, ma Citirie lo abbraccia puzzando di sudore d'Africa. E' un uomo che può avere cinquanta o sessant'anni, in quella zona d'età dove vizi e malattie fanno la differenza, ha la pelle color tek e grandi occhi bulbosi circondati d'acqua come molluschi con vita propria. Non si muovono in sincrono ed esprimono sentimenti contrastanti. Primo si libera dalla stretta. Quell'algerino, anzi "mezzo algerino, mezzo ucraino e mezzo italiano", come tiene a precisare Citirie, vendeva ecstasi a suo figlio. L'aveva scoperto al Garden Bar una sera mentre gliene dava una dose e l'aveva preso a calci. Era andato dai carabinieri per la denuncia e l'appuntato l'aveva scritta con aria rassegnata mentre in una stanza accanto tre ragazzi arrestati per lo stesso motivo sghignazzavano chiedendo di essere lasciati andare. I ragazzi erano stati rimessi in strada e lui era tornato a casa infilandosi nel letto accanto alla moglie che dormiva beata il sonno dell'incoscienza. E così profondo era il suo sonno che aveva fatto l'amore senza che si svegliasse. Citirie non vuole ritornargli quei calci. E' sotto l'effetto di uno stimolante, le labbra stirate ogni dieci secondi da un sorriso automatico che dà un brivido di disgusto. - Ho saputo della disgrazia e me ne dispiace tanto. - cerca di riabbracciarlo ma accetta di venire respinto. Uno dei suoi occhi piange ma l'altro ammicca furbesco. - La vita è una chiavata, come disse la moglie del profeta. Lo sai che ho una nonna piemontese? Mio nonno fu tra quelli che bucarono le Alpi e la rapì. Mi ha detto che stava per sposare un tizio di cui non era innamorata. –Primo sente ma non ascolta. Citirie lo prende per un braccio: - Se vieni con me ti racconto una storia. –Il professore non ha voglia di nulla, ma neppure ha voglia di non volere. Citirie lo spinge oltre la fila dei platani giù per le scale di travertino sbrecciato di un bar sotto il livello stradale di Castro Pretorio, di fronte alla grande caserma. Primo conosce questa strada, ci aveva affittato la sua prima stanza mobiliata quarant'anni prima arrivando dal Piemonte. Pettirossi si chiamava la padrona di casa e a Primo era parsa vecchia ma tanto vecchia non doveva essere perché aveva una figlia di vent'anni che usava la sua camera per far l'amore col fidanzato e in cambio gli dava una coscia di pollo la domenica. Citirie lo fa sedere accostandogli la sedia come un cavaliere con la propria dama e poi ordina grappa all'oste il cui stomaco dilatato si rovescia a sacco oltre la cintura. Il mezzo africano con un occhio scruta severo il professore e con l'altro ride sollevando piccole onde di luce nel lago tremolante in cui tiene immerse le pupille senza piangerne una goccia. - Il mio quarto piemonetese vuole grappa, quello ucraino preferisce la vodka e spero che la mia metà araba non si incazzi troppo. Tu cosa bevi?-- Niente. – Citirie non insiste e parla solo dopo aver ingoiato il primo bicchierino. Il padrone del bar lascia la bottiglia sul piano di marmo del tavolo accanto, geroglifato da infiniti cerchi intersecantesi scavati nell'unto da bicchieri e bottiglie. Il seminterrato è scuro, sporco e vuoto. - C'era una trattoria qui una volta?- chiede Primo ad alta voce. L'uomo a sacco si pulisce le mani sulla parannanza con aria perplessa. - Na vorta quanno?-- Quarant'anni fa. – Il padrone ride di gusto. - Quarant'anni fa, dottò, io ero un regazzino.-Citirie afferra il braccio del professore: - Proprio quarant'anni fa, in questa strada...-Parla spencolato verso di lui abbassando il tono di voce - ...ero arrivato da Algeri da sei mesi e frequentavo il corso di regìa al Centro Sperimentale di Cinema, a Cinecittà, e mi innamorai di un'attrice. Allora non ero un extracomunitario ma un fico ben abbronzato. Quarant'anni fa, su quel marciapiede là fuori le chiesi di mettersi con me. Ero bello e mi disse di sì. Una favola, amico mio, sembrava una Urì e io un martire santo della Jihad. Facevamo l'amore dieci volte al giorno, ero una fontana d'amore. -Batte il bicchiere vuoto sul marmo e si merita un'altra dose di grappa dall'oste ciabattante. Primo, attraversato da pensieri involontari, guarda l'uomo dalla pelle color poltrone del suo salotto. Poltrone in vero cuoio animale, come aveva voluto Laura, e che ora mostrano sottili rughe e screpolature chiare con andamento fluviale come antichi segni d'acqua sulla superficie di un pianeta arido, annunci di prossima fine. Troppi culi ci hanno strusciato sopra. Blocca lo sfarfallare dei propri pensieri per tornare ad ascoltare la voce del mezzo arabo che ha lo stesso genere di rughe sul viso: chiare, a delta, su sfondo cappuccino. - ... Fiammetta nuda era irresistibile, armoniosa come una clessidra, coi capelli ramati che le sfioravano il paffuto sodo del culo. Guarda, mi viene ancora duro a pensarci e son passati quarant'anni...-Scosta la sedia affinché Primo possa vedere la protuberanza che gli va crescendo dentro il cavallo dei jeans incatramati di sudicio - Logico che rimanesse incinta. L'avevo annegata nell'amore... Il sole era bello, Roma era bella, la gente era tutta buona e Allah era un padre generoso con la barba bianca che mi sorrideva benevolo nell'azzurro del cielo. Anche il lavoro cominciò ad andar bene. Feci l'aiuto in un film documentario: "Un Giorno in Europa" si chiamava, magari te lo ricordi...-Esamina la faccia del professore sperando di cogliervi un segno di riconoscimento, non lo trova e riprende girando un dito nel bicchiere - Insomma ero partito bene e cercavo di convincere i registi a dare una parte a Fiammetta. Ma era troppo bella, la parte gliela offrivano ma volevano la solita cosa in cambio. –Ride e schiocca le dita per una terza dose di grappa. - La grana ce l'hai? - lo interroga l'oste, burbero ma con un sorriso amichevole. Il mezzo arabo batte tre volte il palmo della mano sul tavolo con altrettanti scoppi secchi di riso, più da iena che di allegria, cava di tasca una mazzetta di biglietti da venti dollari sventolandola sulla faccia imbronciata di perplessità dell'oste che tiene la bottiglia inclinata verso il bicchiere ma non abbastanza da versare, e lo forza di un paio di centimetri costringendolo a mescere. - Conosco quel lato della vita - dice il Primo - ho avuto anch'io una bella moglie. Troppo belle sono una disgrazia: o son montate o si fan montare. –Il mezzo arabo ride e sembra che singhiozzi. Annuisce: - Qualche posa riuscii a combinargliela, mi ero fatto un certo giro e non tutti gli amici erano dei maiali. - Stende le mani per parare un'obbiezione che non viene - Un piccolo ruolo lo fece con la pancia di sei mesi, si vedeva poco ed era bellissima lo stesso. Poi nacque Fatima, la più dolce figlia del mondo. Me la diedero in braccio nella stanza della clinica e lei aprì gli occhi: lentamente le palpebrine si socchiusero come un sipario davanti a un'immensità blu, due grandi laghi alieni di insondabile profondità in quel faccino raggrinzito mi diedero una sconvolgente sensazione di estraneità: avevo partecipato a una creazione, avevo messo al mondo un altro. Feci "oooh!" come quando per la prima volta avevo visto il sipario aprirsi davanti allo schermo inaspettatamente gigantesco di "La Tunica", il primo film in cinemascope. Ero abituato ai piccoli schermi rettangolari e quelle tende non finivano più di aprirsi e mostrare schermo... così gli occhi di Fatima, panoramici. -Primo fa un cenno di assenso, prezioso nella sua avarizia espressiva. - Fiammetta, Fatima e io. Non chiedevo maggior fortuna ad Allah. Ero felice. Fiammetta mi amava con slancio inalterato notte dopo notte e al mattino la lasciavo dormire. Mi piaceva prendere la bambina dalla culla e cambiarle i pannolini mentre mi gratificava con una cascata di ngaa ngaa che mi scendevano dritti nel cuore facendomi venir voglia di piangere dalla gioia. E quando le davo il biberon batteva felice una sua manina sulle mie guance. Fiammetta aveva un cruccio: voleva diventare una diva, era più bella e più sexy di Brigitte Bardot, quindi lo riteneva un suo diritto. Infatti telefonò Vadim. –Il mezzo arabo fa una pausa a effetto e beve la sua grappa. Primo vaga con lo sguardo sulle pareti segnate da macchie di umido. Anche Laura aveva un corpo come la Bardot e la prima volta che l'aveva vista nuda era rimasto stordito da quella perfezione. Quarant'anni prima, quando abitava in quella strada che adesso rumoreggiava di traffico oltre il rettangolo di luce in cima alla scala, aveva cercato di immaginare il futuro e si era visto passare di là con una berlina di lusso, felice, con Laura felice, con dei figli felici a ricordare l'inizio. Perché il tempo aveva percorso un'altra strada? Perché stava in quello scantinato ad ascoltare l'improbabile storia di quel poveruomo? Citirie scambia la caduta di attenzione di Primo per incredulità e si porta una mano sul cuore: - Su Muhammad, giuro che è tutto vero. Telefonò Vadim che era stato piantato dalla Bardot e le offrì un contratto in bianco. Tutto in bianco, cifra compresa. Avrebbe potuto scriverci anche cento milioni. Fiammetta mi chiese se l'avrei accompagnata a Parigi. Che avrei dovuto dirle? Sì, avrei dovuto dirle, prendere i soldi e fregarmene se Vadim dichiarava che non poteva dirigere un'attrice senza diventarne l'amante. Invece le dissi che poteva andare ma che io non l'avrei accompagnata e così rifiutò. La DeLaurentiis insistette al telefono per tre giorni. Abbracciai forte Fiammetta, le dissi di pensarci bene perché quella era un'occasione irripetibile per la sua carriera ma lei confermò che da sola non ci sarebbe andata e non ci andò. Da allora mi sentii in debito e aumentai le mie insistenze presso amici e conoscenti per farle avere una parte. Un mio amico aiutoregista le trovò un paio di pose. Fiammetta era tutta eccitata e si mise sotto la doccia calda, lo shampoo nei lunghi capelli che da poco aveva tinto con una sfumatura rossa più volgare. L'acqua calda aggrovigliò due grosse ciocche e le fuse in una massa compatta grande come un mandarino. Fu subito evidente che il caso era disperato. Il parrucchiere sotto casa provò per alcune ore a sciogliere quel nodo gordiano usando creme e olii senza risultato alcuno: adesso il groviglio era diventato piccolo come un kiwi ma durissimo. Amici e amiche vennero per aiuto e consiglio, chi parlò di fattura, chi di cheratina, chi di tintura a seconda della propria inclinazione culturale ma alle due di notte il problema rimaneva in tutta la sua inesorabile evidenza: come Alessandro, bisognava tagliare.–Preso dal proprio ricordo Citirie non nota che lo sguardo di Primo, fisso su di lui, si è fatto ostile. - Fatima dormiva nella culla quando uscii per accompagnare a casa gli ultimi amici. Ero stanchissimo e per la prima volta odiavo quei suoi bellissimi capelli. Gli amici mi invitarono a salire per un bicchierino e accettai. I bicchierini diventarono tre o quattro e quando tornai a casa erano le tre del mattino. –Citirie ha un brivido e sfoga sull'oste urlandogli: - I soldi l'hai visti, no? Vuoi darmi da bere, fangulo? –L'oste non si scompone, attento al racconto, e gli versa dell'altra grappa interrogando con un gesto il professore che scuote la testa senza distogliere lo sguardo da quell'uomo, il cui racconto sta diventando troppo simile a una sua esperienza vissuta con Laura. - E allora?- lo sollecita Primo con voce bassa in cui vibra una minaccia, mentre aumenta la frequenza degli spike dei circuiti neuronali che stimolano l'emissione di noradrenalina. - Quando sono tornato a casa Fiammetta era morta. Suicida col gas. Era seduta in cucina, la testa poggiata sul piano di formica rossa del tavolo, nella destra teneva le forbici e nella sinistra quel maledetto malloppo di capelli che sembrava un animale maligno. Il gas soffiava allegro dai fornelli aperti e soffocava anche me. Spalancai la finestra, corsi nella stanza e presi Fatima dalla culla. Non fece ngaa, non fece proprio niente, le braccia ciondolarono come quelle di un bambola di stoffa. Quella pazza infame che amavo aveva ammazzato anche lei per una noce di capelli...-Il mezzo arabo abbandona il braccio a ciondoloni sfiorando con la mano il pavimento cosparso di segatura umida. L'oste scaracchia per mascherare la commozione. Primo ha il respiro veloce e fissa Citirie con sguardo reso acuto dalla restrizione dei muscoli della pupilla. Lo afferra per la camicia con tanta forza da lacerargliela e se lo tira addosso: - Perché lo racconti a me?-Citirie è colto di sorpresa, intimorito dalla reazione inaspettata: - Per farti capire perché mi son ridotto così. –La presa di Primo si fa ancora più forte: noradrenalina nel parasimpatico e adrenalina nel sangue perché l'ipotalamo, in risposta a segnali provenienti dalla corteccia prefrontale, dall'amigdala e dall'ippocampo stimola la liberazione di corticotropina che eccita l'ipofisi e attiva le surrenali per aumentare l'apporto energetico al cuore, al cervello e ai muscoli scheletrici. Si attivano anche i circuiti della paura che aumentano le reazioni di aggressione. Il professore tenta di dominare i muscoli delle braccia, ma gli impulsi della corteccia sono asincroni e danno il via a un caos di ordini e contrordini non più bilanciabile in un comportamento univoco. Primo scuote Citirie, indemoniato da un raptus isterico, e il mezzo arabo lo colpisce con un pugno alla bocca dello stomaco costringendolo a lasciare la presa. Il professore si aggrappa al tavolo e vomita una boccata di schiuma che l'altro spazza via con la mano: - Scusa, amico, tu sei matto e io sono diventato stronzo e maligno. Lo sai che ho detto davanti alla moschea di Forte Antenne stamattina? Che è pericoloso pregare in quel modo a culo ritto: Allah ogni tanto accetta e ti si fa. Mi condanneranno a morte come Rushdie. –Butta due biglietti da venti dollari sul tavolo e dice all'oste di dar qualcosa di forte al suo amico che sta male. Primo boccheggia nel tentativo di parlare e Citirie se ne va, ruttando sulla soglia, gli occhi strizzati perché la luce esterna gli batte sui coni della retina con segnali troppo forti. Riportato all'omeostasi dall'imperativo del dolore fisico, Primo scansa l'oste e arranca fuori piegato in due, salendo i pochi scalini che portano a livello del marciapiede, guarda a destra e a sinistra comprimendosi lo stomaco, ma sul viale cammina soltanto gente sconosciuta. Si appoggia al tronco unto di smog di uno dei grandi platani cercando di normalizzare il suo respiro, smaltire l'adrenalina e cercare razionalità nei suoi pensieri. Quel maledetto spacciatore drogato deve aver saputo quella storia da suo figlio morto perché anche Laura aveva aperto il gas tanti anni prima per un lappolone nei capelli, ma Primo era tornato a casa in tempo, aveva chiuso quella manopola e non era morto nessuno. Era morta l'illusione di simbiosi con Laura ma le forti mappature logiche del suo cervello avevano impedito l'instaurarsi di un circuito di disprezzo. Primo si era sentito orgoglioso della bontà del proprio io che aveva avuto il sopravvento sui pensieri di disistima che affioravano involontari dentro di lui, ma lo stress era rimasto impresso nella sua memoria emotiva. L'autospiegazione era semplicistica, sulla sua decisione avevano pesato le inconsce mappe del piacere, sentite quelle dell'orgoglio che non voleva essere umiliato dall'ammissione di errore nella scelta della compagna, influenzate da quelle che privilegiano il minimo sforzo: ormai aveva investito troppo su quella donna per poter ammettere d'avere sbagliato. Prima della disgrazia il professore non aveva detto ai figli che la loro madre aveva cercato di morire per un groviglio di capelli, convincendosi nel tempo che Laura con quella messa in scena cercasse tenerezza e non morte: l'alternativa era prendere atto di aver sposato solo il corpo giusto ma il cervello sbagliato, ma questo dubbio era affiorato alla corteccia cosciente solo per un attimo subito cancellato dal prevalere dei circuiti sessuali e dai sentimenti dolci collegati. Il cervello di Primo, come quello della maggior parte degli umani, era obbligato a mettere la propria razionalità dietro alle azioni degli altri ma con Laura questo gli impediva di prevederla e, per un complesso gioco di retroazione, l'imprevedibilità attivava le mappe istintive della curiosità che sono importanti componenti dell'attrazione sessuale. Il biocomputer analogico che si sta evolvendo nel cranio dei mammiferi a ogni esperienza genera nuove connessioni. Ogni idea che ha successo nell'intrico degli assoni tenta di diventare un meme per replicarsi, una nuova mappa, una via elettrochimica facilitata ai richiami per i confronti con le situazioni di ogni giorno, quindi ogni uomo ha sue particolari library a cui attingono le routine del comportamento che le accordano in modo che non siano troppo contradditorie con il già vissuto. Quelle che riescono a diventare memi escono dai cervelli individuali per diventare cultura. Il suicidio del figlio Giuseppe aveva sconvolto le mappe della certezza nel cervello di Primo, ossia i collegamenti neurali più rafforzati dall'esperienza, e il tentativo di inserire la tragedia nel quotidiano aveva spalancato abissi di confusione distorcendo l'ovvio in cose mai vedute, tanto profondo era stato il cambiamento del punto di vista interiore. Quelle nuove idee orribili e devastanti non potevano essere comunicabili, nessuna speranza che diventassero memi e potessero in qualche modo essere culturizzati, ma forzavano il cambiamento delle connessioni tra le reti neuronali responsabili del comportamento. Il rovesciarsi caotico di migliaia di routine di pensiero provocava a Primo un mal di mare continuo con perniciosi effetti sull'omeostasi psichica non più raggiungibile, con lampi di dolore così lancinanti da spegnere l'istinto di sopravvivenza. Non essendo il cervello una macchina montata secondo un progetto prestudiato ma una cooperativa di cellule che si autocostruisce sulla base di un codice composto di regole elementari che manipolano trilioni di dati e di memi, non esiste un modello statico di perfezione a cui far riferimento. I modelli modellano i modelli, la realizzazione modifica le regole, nel corso dei secoli gli esseri umani hanno lodato comportamenti che prima avrebbero scatenato la loro furia omicida. Migliaia di piccoli difetti dovuti all'arborizzazione caotica delle connessioni cerebrali rendono tutti gli animali superiori unici e irripetibili con ampie zone di irrazionalità poco prevedibili, ma i grandi difetti, come uno scarso sviluppo del talamo, un traumatico aumento o diminuzione della sensibilità delle sinapsi a certi neurotrasmettitori, o un errato coordinamento delle subpersonalità che compongono un essere pensante, impediscono alla neocorteccia il controllo di logicità e lasciano il cervello nel sogno, nelle realtà virtuali che trasportano in mondi allucinati ostacolando l’interazione sociale. I piccoli difetti vengono vissuti come carattere: per il carattere di Primo i sentimenti si estrinsecano in azioni e il voler bene è alzarsi al mattino per preparare la colazione ai figli che vanno a scuola, aiutarli nei compiti, lavorare per aumentare il benessere della famiglia, amare la propria donna tutti i giorni e tutte le notti senza infedeltà di pensiero, aiutarla a realizzare i suoi sogni impegnando fatica, tempo, denaro. E' la massa dei memi culturali a fare aggio sugli istinti. Per il carattere di Laura invece amare significa essere pieni di grandi sentimenti da esternare in solenni dichiarazioni poiché qualsiasi gesto è nulla in confronto alla grandezza del sentire e i fatti sono dettagli di scarso conto: l'anima pia che fa le opere buone e non viceversa. Qui la massa dei memi culturali viene enunciata senza necessità di diventare applicativa. Dal giorno della disgrazia Primo non è più sicuro che il suo carattere sia quello adeguato: forse suo figlio Giuseppe aveva bisogno di parole d'amore più che di appartamento, macchina e quindicimila lire al giorno. Chi usa le parole domina il mondo: è chi dice che bisogna aiutare i bimbi che muoiono di fame che sempre siede sulle poltrone del potere, non chi li aiuta in concreto. Con Laura erano stati trent'anni felici finché Giuseppe non era scappato nel parco in mutande. Primo aveva dovuto chiamare un'ambulanza e farlo ricoverare al pronto soccorso psichiatrico dove gli avevano detto che era schizofrenico e non c'erano cure. Non c'erano neppure i manicomi, aboliti per legge, e quindi aveva dovuto riportarlo a casa. Giuseppe dormiva di giorno e di notte usciva in cerca di droga, a tratti volava sui marciapiedi con le braccia spalancate e Primo lo inseguiva per evitare che qualcuno gli facesse del male. Non parlava né con lui né con Laura. Suo figlio non era più suo figlio pur essendo lui nella carne e certe tremende volte anche nello sguardo. Una sera Giuseppe gli aveva chiesto di fissarlo negli occhi ed erano rimasti a pochi centimetri di distanza, pupille nelle pupille, per lunghi minuti finché quelle di Giuseppe si erano riempite di lacrime: forse in quel momento aveva capito di essere malato. - Che posso fare per aiutarti?- gli aveva chiesto il padre. - Amore. - era stata la risposta che aveva chiuso la gola a Primo impedendogli di dire un'altra sola parola. Lo amava ma non riusciva più a dimostrarglielo.
CAPITOLO 7 "Una vita dà una goccia di conoscenza, bisogna viverne almeno mille per averne una bottiglia" Primo cammina a lunghi passi verso la stazione cercando di evocare Beatrice per liberarsi dai ricordi che muovono il limo stagnante che ha nello stomaco. Ripassa davanti al portone del palazzo in cui aveva affittato la sua prima camera ammobiliata quarant'anni prima. Adesso c'è il citofono e legge i cognomi sulle targhette: Pettirossi, l'affittacamere, non c'è più. Sui marciapiedi di Termini ci sono decine di gruppetti di gente di colore e la stazione è assediata dalle macchine, tutte puntate verso di essa come scarafaggi intorno a una vecchia crosta. Primo immagina il peso di due grandi valigie. Enormi valigie di cartone verde in cui teneva tutta la sua roba, portata dal Piemonte, vestiti invernali ed estivi, deciso com'era a non tornare per almeno un anno. Si concentra sulle mani e il taglio di quei manici rigidi tornano a segnargli le dita. Richiama nelle sue gambe la forza e l'elasticità di quei giorni. Respira profondo e drizza le spalle. Si guarda intorno con eccitazione: vuol vedere le cose com'erano allora. Si annebbia la confusione del traffico e delle insegne, il ricordo forza i neuroni della corteccia visiva cancellando la realtà e sostituendola con quella preregistrata. In disparte, nell'infinito senza spazio dei concetti, l'autocoscienza deride se stessa: è come schiacciare il tasto "play" di un videoregistratore quando si è collegati in diretta per sovrapporvi le immagini di una vecchia cassetta. C'è meno folla. Tutte facce bianche di burini che arrivano coi treni dei Castelli. La stazione è sempre quella ma le sedie dei bar sono di legno. Il metrò è quello del duce e va soltanto all'Eur. Un indiano che spinge un carro di bagagli urta il professore e l'adesso irrompe distruggendo il viaggio nel tempo. Primo chiude gli occhi strizzandoli forte come quando da bambino non voleva vedere il buio e i pensieri galleggianti non gli facevano paura. L'adesso lo odia, lo sente logoro, anche l'aria sa di usato. " Perché non posso tornare indietro? Il passato è qui vicino, laterale al presente, cammina con me... Alzo un piede e lo poggio più avanti, poi alzo l'altro... sì che il piè fermo è sempre il più basso... Dante, per favore... sto per appoggiarlo ed è futuro, lo appoggio ed è passato... irrecuperabile come l'epopea di Gilgamesh, antico come la martellata che inchiodò i piedi di Cristo, immutabile come la catena degli eventi che ha portato al suicidio di Giuseppe... Han detto che neppure dio può cambiare il passato, ma non è vero... il passato deve essere confermato, ricordato in ogni momento per esistere, un passato che nulla e nessuno ricordi non esiste. Se ci fosse un dio basterebbe che lui se ne dimenticasse per annullarlo. Dimenticare davvero per un cervello proteico significherebbe indebolire e distruggere milioni di dendriti, disabilitare miliardi di percorsi, disfare il tessuto nervoso. Si ha l'illusione di dimenticare quando si indeboliscono le chiavi analogiche che danno accesso alle mappe dei ricordi che tuttavia restano inalterate nel cervello. " Primo spegne i rumori nelle orecchie e si astrae dal mulinello corticale dei pensieri: le valigie gli pesano di nuovo nelle mani, ha addosso lo spolverino a quadrettini verdi con cui era arrivato a Roma e sul cranio un po' di capelli. Sente asciugarsi la palude in cui sta immerso dal giorno della disgrazia: è giovane e davanti ha la vita. Può decidere di se stesso. A Roma nessuno lo conosce, può fare qualsiasi cosa. Domani andrà all'università e quando incontrerà Laura tirerà dritto. La faccia di lei, bella e illuminata dai grandi occhi neri dolci, regge per qualche secondo poi appassisce e invecchia, le rughe stropicciano la sua pelle di velluto, la bocca si piega all'ingiù, le labbra si seccano, lo sguardo si innacqua perduto fra pensieri di morte. Primo spalanca gli occhi per fuggire alla visione sgradita che gli presenta la memoria e il peso delle valigie scompare, la forza della giovinezza lo abbandona e torna a sciacquare nella sua disperazione. Intorno vociano extracomunitari. Si sente mancare l'aria, quello smog bruno che stagna sulla gente è venefico e privo di ossigeno anche se tutti paiono respirarlo con profitto. Per non dare in smanie corre fuori dal dinosauro in vetro e cemento della biglietteria ma anche sulla grande piazza si sente soffocare e scivola sul guano che migliaia di storni lasciano cadere da alberi merdosi. Batte una culata plateale e sente lo sterco mucoso tra le dita delle mani. E' in prigione: bloccato nell'adesso, suo figlio è morto pazzo suicida e sua moglie dice che colpa sua. Attraversa la piazza piena di autobus, fitti come un'invasione di coleotteri, e va a lavarsi le mani alla fontanella a pochi passi dalle sbrecciate mura delle terme di Diocleziano. Quei mattoni, oltre la cancellata arrugginita, scavati da secoli di pioggia e di sole testimoniano il transeunte. Primo vede il gesto ritmato con cui il muratore romano spalma la malta sui mattoni freschi mentre al di là dell'erigendo muro un geometra fa frustare due garzoni che hanno sbagliato la traccia del perimetro dello scavo per la vasca del tepidarium. - An vedi sto stronzo chi se crede d'esse!-E’ un mormorio in latino popolare quello dell’antico muratore ciociaro che posa un mattone sull'altro: - Solo perché ha dato il culo a quell'imperàtor slavo di merda che chiama il suo vice "er culius"! Quanno che gli imperatori erano uno solo, e de Roma, ce la facevano benissimo e benissimo pagaveno, altro che blocco dei salari, li mortacci vostri! –Altre voci raggiungono il cervello di Primo nello spegnersi di una sirena assordante che cerca di farsi largo nel traffico verso l'Esedra. L'ambulanza, trovato un varco, accelera per alcuni metri e poi riaccende quello strazio sonoro sperando invano di ottenere altro spazio. Tra un urlo e l'altro del furgone rossocrociato una voce di donna: - ... accompagnaci fino al Babuino, dài, sono solo le cinque!-Parole già sentite nella lontananza di un ricordo. Primo trasale e cerca la fonte di quella vocina carezzevole e sensuale come quella di Laura quando faceva la gattina. La bionda che ha parlato sta ritta sui tacchi a spillo sul giro del marciapiede a fianco di un bassetto col naso storto e davanti a uno spilungone magro e stempiato. La sirena riattacca lacerante scuotendo i timpani. Si scatena uno spernacchiare di clacson dietro all'ambulanza nella lotta delle auto per inserirsi nella sua scia. - Se davvero mi ami, vieni via con me adesso! - intima quello alto. Primo si avvicina ai tre con una mano tesa per toccarli, per convincersi che non sono fantasmi. - Quintilio, ti giuro... non sono ancora pronta... dammi un altro po' di tempo!- supplica la bionda morbida, lappoleggiando. A Primo piace ascoltare i discorsi degli altri ma stavolta non è curiosità, è paura, perché quelle stesse parole, in quello stesso posto, sono già state dette quarant'anni prima e, quasi fossero rimaste sempre là, nell'aria, in una dimensione parallela, adesso scivolano nella realtà una seconda volta. Primo ha un brivido di freddo: forse sente parole che nessuno dice ed è segno di quella propensione alla schizofrenia che Giuseppe ha ereditato da lui e da Laura. - No - ripete testardo Quintilio - Ha detto di essere impotente, che altro ti serve per decidere?-- Poco maschio - corregge il bassetto - c'è chi mangia molto e chi mangia poco. – - Chi non mangia mai muore di fame e se non lascia mangiare gli altri, ammazza. - Lo spilungone risponde con ruvidezza. E' il ripetersi assurdo di un momento chiave della vita di Primo, un copione che ha chiarissimo in memoria, quei tre stanno recitando la scena madre già recitata da lui, Laura e il marito di lei, quando dopo un anno di amore clandestino, il marito aveva ammesso di sapere della loro tresca e si era chiamato fuori dichiarando di non avere desideri sessuali. Quello alto, poco più che ventenne, è simile a Primo, il basso rappresenta bene il marito di Laura e la bionda, in brutto, Laura stessa. La scenografia è quella, il fondale delle terme è identico nei secoli, il mugugno del muratore romano è incalcinato fra gli antichi mattoni, la piazza è mutata nell'arredo ma non nell'architettura e le macchine fumanti fanno parte inesorabile del contemporaneo e nessun regista può eliminarle. Primo è vicinissimo ai tre che presi dalla loro discussione non badano alla sua presenza. Laura non riusciva a staccarsi da quel marito impotente. L'amore di Primo aveva colorito questo sentire di nobiltà e grande sensibilità, per scoprire più tardi che Laura non buttava via nulla, per quanto lercio e inutile fosse, per un malato senso di proprietà che la portava ad accentare pesantemente l'aggettivo "mio" che usava spostare in fondo alla frase per dargli maggior risalto. Distaccarsi da un vaso di sugo vuoto, da una pagnotta di pane raffermo o da un marito impotente era per lei fonte di dolore. Quintilio sta ripetendo le battute dette dal professore anni prima, con la stessa irritazione, parola per parola. - Adesso basta. Se mi ami lo lasci subito e vieni a stare con me, altrimenti non mi vedi più. -- Quintilio, ti prego! Un giorno verrò a vivere con te ma... dobbiamo ancora parlare... accompagnami, sii buono, dài! - Primo ascolta con gli occhi socchiusi e sente sulla sua pelle il sole di quel maggio lontano. Aveva ceduto e li aveva accompagnati a casa, Laura e quel marito "non tanto maschio", e avevano parlato e parlato fino a mezzanotte quando, con una frase di cui non ricordava le parole, aveva ottenuto una non più attesa risposta positiva e Laura era salita nella propria stanza mobiliata al Babuino, aveva avvolto due reggiseni e due paia di mutandine in un foglio del Messaggero e si erano imbarcati sul 56, direzione piazza Quadrata, per cominciare la loro vita di coppia. Dopo la disgrazia Primo era riandato molte volte con torturata memoria a quella giornata di maggio identificando nella discussione davanti alle terme di Diocleziano uno dei punti di catastrofe, quella ristretta zona di instabilità dove un lieve mutamento di condizioni scatena effetti enormi con risultati finali impredicibili. Perché aveva accettato di accompagnare Laura e il marito e continuare quelle chiacchiere logorroiche intorno a un problema che si era risolto da solo ma di cui Laura non voleva accettare la soluzione? Perché non aveva capito che c'era della malattia nella logica di Laura? Perché non se n'era andato via quel giorno di maggio salvandosi dallo stato di disperazione in cui adesso si trova? Li aveva già salutati, stava per andarsene, ma Laura l'aveva pregato coi suoi grandi occhi umidi e lui aveva ceduto. Ora anche Quintilio saluta, incazzato come un toro quando irrompe nella luce dell'arena. La bionda gli trattiene la mano forte fra le sue diafane: - Ti prego, accompagnaci...-Primo si muove per intervenire e gridare al suo alter ego di fuggire, quando Quintilio libera la sua mano con uno strattone e urla alla bionda: - Non mi freghi più. Vaffanculo!-Questo nel vecchio copione non c'era. Primo si blocca sulla sillaba "scu" e non riesce a dire "sa". Il suo tentativo di intervento non viene notato. La bionda resta con gli occhi sgranati, il bassetto inizia un sorriso a espansione lenta ma costante e Quintilio scende dal marciapiede con un balzo per approfittare di pochi metri liberi che si sono creati nel fiume di automobili. Primo non ha il tempo di gioire per l'inaspettata salvifica variazione introdotta dal suo emulo perché un'auto blu si avventa con un'accelerata stizzita alla conquista di quegli stessi metri di piazza, travolgendo lo spilungone. Il corpo del giovane riappare oltre le ruote posteriori della vettura, la testa vicino ai talloni, rosso di sangue che cola seguendo la pendenza della piazza verso un'ignobile sdentata bocca di pietra ghignante sotto l'orlo del marciapiede. Primo vede la grande piana assolata della piazza inclinarsi: all'immagine dello sconosciuto si sovrappone quella di suo figlio con la schiena spezzata dopo una caduta di sei piani. La bionda si getta sull'amante morto e il bassetto non riesce a bloccare il suo sorriso che continua ad allargarsi. La mano di Primo si muove da sola con violenza e lo colpisce al volto. L'uomo lo guarda intontito, senza reagire. La piazza è un carnaio di auto bloccate e i clacson urlano più della bionda. Primo arretra fino ad appoggiarsi alla vecchia cancellata corrosa che isola le terme romane dal contemporaneo. Il bello e il terribile dei punti di catastrofe sta negli effetti assolutamente imprevedibili al minimo variare delle cause. Fare un passo in più o in meno può significare vivere o morire, ma è impossibile rendersene conto quando quel passo non porta all'evento catastrofico. La nonna di Laura, incinta della madre di lei, aveva lasciato Messina il giorno di Natale del 1908, ancora poche ore e sarebbe morta sotto le macerie del grande terremoto o travolta dall'ondata dello tsunami che seguì. Pochi passi fatti da una donna lontana nel tempo e la sua vita sarebbe stata totalmente diversa. Primo collega i pensieri con grande fatica, ormoni costringono il cuore a pompare più in fretta e il flusso di sangue gli rintrona nei timpani: se quel giorno non avesse accompagnato Laura sarebbe morto? Allora c'era poco traffico ma sarebbe potuto morire in ogni sconosciuto minuto vissuto nei quarant'anni passati da quel punto di catastrofe a oggi. Sarebbe stato meglio morire che vedere il corpo rotto di Giuseppe suicida, ma con un oggi diverso forse sarebbe stato orribile morire, e la morte non è la sola alternativa: qualsiasi tremenda cosa sarebbe potuta succedere in ognuno dei minuti di quegli anni in cui ha vissuto felice godendosi la vita, la salute e il corpo perfetto di Laura. Primo sente una gran voglia di tornare a casa, baciare Laura, spogliarla tutta e fare all'amore. Così erano sempre finite le loro liti, così aveva cancellato le crisi in cui lo metteva l'egocentrismo della moglie. Così aveva superato l'illogicità delle sue prese di posizione, perché quando si stringeva a lui diventava la donna che amava: generosa e innamorata, disponibile ed eccitante oltre le sue forze fisiche. Corre alla fermata del 38 e riesce ad aggrapparsi ai mancorrenti prima che le porte automatiche si chiudano pigiandolo contro le larghe natiche della filippina che cerca di diminuire il contatto ruotando di tre quarti senza smettere di parlare la sua incomprensibile lingua con un'amica che la ascolta sorridendo. Di tanto in tanto intercala i suoni agglutinanti dell'Oriente con un disteso e romanissimo "Ammazza oh!" che dà una dimensione ancor più aliena al suo parlare. Gli scossoni, la ressa e il riaffiorare automatico della logica, tolgono al professore l'illusione del ritorno taumaturgico. Non può entrare in casa e baciare Laura come prima della disgrazia, perché la troverà abbandonata su una poltrona, lo sguardo nel vuoto e la faccia grigia, oppure inchiodante un nuovo ritratto del figlio suicida sui muri intorno al letto. E l'eccitazione, il desiderio di farle sentire che è vivo, si afflosceranno in quel senso di rancore che gli è cresciuto dentro e che lo sta distruggendo. Non tornare, fuggire. Pensieri che vanno e vengono come un pendolo. Per fuggire bisogna essere leggeri e Primo si sente pesante come se si stesse muovendo su Giove. Il fango colloso degli incubi gli blocca le gambe, non può scappare, e la colpa di essere ancora vivo si tende come un elastico di richiamo, più forte all'aumentare della voglia di fuga. Forse quando quella donna vestita nei larghi maglioni del figlio morto, i piedi infilati in scarpe senza tacco perderà ogni legame con quella favolosa superfemmina che ha sposato su un bus dell'Atac, troverà il coraggio di partire, di tornare a casa, la casa dell'infanzia, della mamma calda e di accettare la fine dell'avventura. La filippina si rimette di spalle e fruga per un attimo con le grosse natiche alla ricerca di quell'eccitazione che ha sentito in lui quando la porta automatica gliel'ha schiacciato addosso: non trova nulla e continua la sua parlata fitta e ridente punteggiata da due "ammazza oh" ancora più rumorosi. La sua amica guarda il professore e ride nascondendosi la bocca con la mano. Tornare alla stazione e prendere un treno per il nord, tornare nella città dell'adolescenza non è solo la fine dell'avventura. Primo la sente come la fine della vita. Tuttavia è un'idea che lo attrae, un consapevole prepararsi alla morte col tempo necessario per un bilancio, minuzioso, giorni per piangere sulle felicità perdute assaporando tutte le ultime volte. C'è sempre il momento in cui si fa una cosa per l'ultima volta ma non si è consapevoli per gustarla con attenzione. Verrà l'ultimo amplesso, l'ultimo viaggio, l'ultima cena, l'ultimo respiro, ma anche tirando l'ultimo il fiato si penserà che ce ne sarà almeno un altro. Le zone consapevoli del cervello di Primo sentono questi pensieri come inutili perché le routine generiche del programma sopravvivenza contengono istruzioni che danno un falso ma necessario sentimento di futuro senza confini. Primo scende in piazza Santa Emerenziana e alza gli occhi verso il balcone del suo appartamento. E' l'unico pieno di fiori, sembra il balcone di una casa felice. Si incammina per viale Libia mentre domande corollarie non cercate gli si affollano in testa: sarà questa l'ultima passeggiata? Qual' è stato l'ultimo canestro? Quando si è seduto su un banco di scuola per l'ultima volta? Ricorda l'ultima volta che ha visto suo figlio vivo, sul pianerottolo di casa: avevano scherzato su quella maledetta cena del giorno prima. Giuseppe aveva detto di aver picchiato la sua ragazza e Primo gli aveva risposto che gli faceva un po' pietà e un po' disgusto. Giuseppe si era riempito un bicchiere di vino fino all'orlo e lui gliel'aveva tolto di mano perché che l'alcol peggiorava le cose. Giuseppe con la faccia resa asimmetrica da un ghigno malato aveva bevuto dal suo bicchiere. Primo aveva vuotato la bottiglia del vino nel lavandino della cucina. - Non se ne può più! Fai qualcosa! Crepa!- aveva gridato esasperato. Nella memoria di Laura si era incisa una frase ancora più orribile, lei ricordava che Primo aveva urlato a Giuseppe di buttarsi dal balcone. Per questo lo riteneva responsabile del suicidio di suo figlio. - Tu sei triste, signore. Puoi anche non comprarmi l'accendino. –Gli ha sbattuto contro: un muro nero e caldo. Il gigante africano sorride col bianco dei denti e degli occhi sporgenti. Gli offre un ventaglio di accendini colorati con la destra e un poker di confezioni di fazzolettini di carta con la sinistra. - Mi scusi. - mormora Primo cercando di passare oltre e schiaccia, con rumore di scarafaggio pestato, un paio d'occhiali, il primo della prima fila della legione di occhiali da sole allineata su un panno rosso steso sul marciapiede. La desolazione rassegnata che si allarga sulla faccia marocchina del venditore gli fa montare dentro una rabbia animale e salta a piè pari al centro della legione con la sensazione disgustata e felice di schiacciare le porcherie del mondo. Scariche di adrenalina eccitano le proteine cellulari riportando equilibrio negli ioni di calcio. Il ruscello di compratori si condensa a laghetto intorno al drappo rosso pieno di zampette spezzate e di frammenti neri e lucidi e si alzano commenti favorevoli alla sua azione violenta. Voci incitano a schiacciare anche quei maledetti negri e non solo i loro porci occhiali che occupano abusivamente il sacro suolo riservato allo shopping. Il corpo di Primo ha sfogato la tensione e il professore può tornare a considerare i suoi responsi corticali che disapprovano ciò che ha fatto e chiede scusa al nordafricano infilandogli due biglietti da cento euro nel taschino della giacca. Si fa largo tra la folla, spingendo via due magliette firmate e pestando un paio di scarpe da tennis marcate Nike. - Io dico che tu sei pronto per parlare con un negro. –Si volta e si trova di nuovo abbracciato dal sorriso bianco del grande uomo nero. Non gli risponde, la vergogna gli stringe la gola in un groppo doloroso. Il negro si ficca in borsa gli accendini e gli tende una vasta palma rosa in segno di amicizia: - Quando dico il mio nome molti si incazzano. –Primo affida la sua mano bianca e sottile alla stretta dell'altro: - Quando dico il mio invece non frega niente a nessuno. –- Io mi chiamo 'Nkula e mi piace parlare. - Il professore ride e il groppo in gola si scioglie, come un crampo massaggiato. - Anch'io ero sempre pronto a parlare una volta. - risponde recuperando la mano da quella sorprendentemente soffice dell'omone nero. - Ti ho detto la mia prima impressione. Qual è stata la tua prima impressione?-'Nkula aspetta la risposta con un ditone puntato contro il proprio petto e un faccione infantile. Primo lo guarda con attenzione e poi scuote il capo: - Le vostre facce nere non mi danno prime impressioni. E non avere prime impressioni dà un senso di insicurezza che gonfia l'istinto del sospetto. Se io guardo un bianco mi faccio subito un'idea su di lui: bello, brutto, buono, crudele, felice, disperato, pariolino, borgataro e decido se mi posso fidare oppure no e non importa se mi sbaglio, importa che io possa dare un primo giudizio. Quando guardo la tua faccia nera non ricevo segnali riconoscibili dal mio codice di pregiudizio e vado in confusione. Non mi piace e devo faticare per dominare l'ostilità. E' questo il razzismo. Succede anche a te?-'Nkula fa un grande no col testone dai riccietti a glomeruli. - Questo è il tuo razzismo. Io sono abituato a guardare facce bianche. Da esse viene la vita e la morte. Le vostre facce bianche hanno vinto questo round sul pianeta però il match è ancora lungo. Ma non è di questo che vuoi sentirmi parlare. Io credo che tu voglia sentire quello che mi diceva mia nonna. –Primo sorride per cortesia, incamminandosi lungo il marciapiede affollato col grosso negro a fianco, appena un po' dietro come un vistoso angelo custode. - La vita per mia nonna si divideva in quattro parti: la prima era sognar godendo o soffrendo, la seconda era far godendo o soffrendo, la terza capir godendo o soffrendo, e la quarta era non endo. Lei mostrava le gengive senza denti, nere a furia di biascicar radici, e in quel sorriso funereo concludeva che la quarta parte era quella incomparabilmente più lunga. -- E la nonna non ti ha spiegato come fare per godere anziché soffrire?- - Certo. La nonna diceva che la festa era tutta qui. – 'Nkula si punta un dito in mezzo alla fronte, arrestando il suo andare. Primo fa un altro passo e poi si volta a guardarlo. Quel faccione nero sorridente che parla della filosofia di suo nonna è davvero improbabile. - Da dove vieni?-- Senegal. - - Che festa c'era nella testa di tua nonna?- 'Nkula fa un gesto vago e rotea gli occhi verso un passato perduto: - La festa dell'amore, quella della primavera, quella della pioggia, quella del serpente... quella della vita... Tu non diresti festa, tu diresti teatro. –Primo annuisce, deluso. Il teatrino del solipsismo non è un concetto che debba venire dal Senegal. Filosofi di ogni epoca ci han fatto merenda e cena. E anche quel ciarlatano di Freud nel suo immaginare pseudoscientifico, com'era uso dire Monod. - Tutto è nella testa: se riesci a cambiare copione, il teatrino cambia. –"Magari è anche vero" pensa Primo "forse sono io il regista della scena, io popolo viale Libia di quella folla di acquirenti smaniosi, io ho inventato questo negro poco credibile e gli ho dato nome pescando in vecchie gag di Totò e sempre io ho creato quest'orribile sceneggiatura in cui mio figlio si è ucciso. Se davvero volessi potrei cambiare la trama: grandi aiuole verdeggerebbero al centro della strada punteggiate di azalee colorate e al posto del negro potrei metterci Giuseppe alto e biondo, pieno di gioia di vivere." - Papà, io sono matto?- gli chiede il figlio, col sole dietro ai riccioli biondi. Le azalee tornano lamiere colorate e Giuseppe torna nero nel corpo del senegalese. Primo sospira: - Sono un pessimo regista. Scene e attori non mi obbediscono. –- Ci vuole pazienza e testa dura - 'Nkula è serissimo, si ferma per offrire il suo ventaglio di accendini a una coppia di obesi seguiti da un figlio grasso che succhia con labbra carnose un pinnacolo gelato al pistacchio. Primo continua a camminare seguendo la corrente.
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