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CAPITOLO XIII DISNEYWORLD Stando bene attenti ai petali giusti degli svincoli stradali, arriviamo sulla pianura asfaltata davanti a Disneyworld alle otto e un quarto. Il sole approfitta del buco dell'ozono e ci arrossa la faccia. Parcheggiate nei quadretti della chilometrica scacchiera dipinta da emuli dei disegnatori di Nazca, ci sono già centinaia di auto. Gente che ha dormito qui? Sistemo la Saab al centro di un rettangolo numerato 332/C, ne prendo nota e lo dico a Sciltian affinché mi aiuti a ricordarlo. Un trenino da Paese dei Balocchi raccoglie i car-people e li porta alle biglietterie: diciotto dollari per entrare. Trentaseimila lire in questo scorcio d'estate. Molto, ma una volta dentro é tutto gratis. Trentasei, trentasei e trentasei sono un piccolo capitale, adesso bisogna proprio che ci facciano divertire! Saliamo su una navetta che ci scarica nel Magic Kingdom, all'imbocco di una Main Street USA degli inizi del secolo sullo sfondo del turrito castello della Bella Addormentata e tutti i personaggi dell'infanzia ci salutano sgambettanti sotto gli alberi fioriti e i lampioni a gas: c'è Pippo, che qui chiamano Goofy, ci sono Paperino, Topolino, Clarabella, Qui,Quo,Qua, tutti coi loro nomi originali americani ma coi testoni inconfondibili. C'è un'aria da fiera di paese e un forte odore di hot dog e patate fritte. L'impatto non é entusiasmante per un europeo: davanti ad ogni "attrazione" c'è una lunga coda, diligentemente avvolta in serpentine ristrette e parallele per occupare meno spazio. Facendo la fila si raggiungono cartelli depressivi con annunci del tipo "da qui ancora 1 ora e 40 minuti". Gelati e bicchieroni di coca-cola gonfiano epe sempre più obese. I serpentoni di folla son punteggiati da bambini pancioni, nere gigantesche con tre culi appesi dietro, colossali virago nordiche con grandi chiappe pendule divise da un naso aquilino e uomini di ogni colore infilati in grotteschi salvagenti di grasso tremolanti sulle anche. Una guida informa che Magic Kingdom si divide in sei land: oltre a questo ci sono quello dell'Avventura, della Frontiera, della Libertà, della Fantasia e del Mondo di Domani. Cedendo alla nostra natura di italiani preferiamo muoverci a casaccio e ci accodiamo ad un rettile umano impedendo a Sciltian di saltare da una spira all'altra per guadagnare decine di minuti. Dopo quasi due ore, abbastanza disperati, entriamo nella casa degli spettri: un salone Settecento inglese con grandi quadri senza cornici che arrivano fino al pavimento. Siamo una ventina di persone e ci aggiriamo incuriositi sperando sorprese. I quadri mostrano austeri signori nerovestiti che ci fissano malevoli e... si stanno allungando: prendo la mano di Sciltian e la Sgnuffi si avvicina apprensiva: non sono i quadri che si allungano, é il pavimento che scende e, nel movimento, scopre le lunghissime scheletriche gambe dei personaggi dipinti sui muri. Le minacciose figure diventate altissime ci sovrastano diaboliche. Buio improvviso, qualcuno urla. Veniamo catapultati in un mondo privo di dimensioni: ci troviamo in un infinito spazio nero, sospesi nel nulla e da sotto si levano verso di noi lamenti agghiaccianti e gemiti spaventosi, mentre deboli lucori affiorano dall'eternità buia, un vento freddo di sotterranei arcani alita morte sulle nostre facce pallide. "Quivi sospiri, pianti ed alti lai / risonavan per l'aer senza stelle/perch'io al cominciar ne lagrimai. Diverse lingue, orribili favelle,/parole di dolore, accenti d'ira,/voci alte e fioche e suon di man con elle." Io non lagrimo perché so che siamo a Disneyworld ma l'effetto è dantesco. Ingegneri e architetti creatori sono stati bravi: i lucori si stanno avvicinando e diventano strisce di pallida luce, con facce e membra distorte, pozzi di buio disperato al posto degli occhi e della bocca gemente. "La bufera infernal che mai non resta/mena gli spirti con la sua rapina" Non mi sarei mai aspettato Dante in questo megalunapark e tanto meno questa sensazione violenta di poesia. Cerco Paolo e Francesca, ma gli spirti non si fermano, ci girano intorno per alcuni minuti, disperati e mugolanti, e sprofondano di nuovo nelle tenebre insondabili dell'illusione ottica. La bufera infernal si placa mentre le note di un organo a canne piange sull'eterna felicità perduta, suonato da un fantasma trasparente in cappa e cilindro. Siamo seduti, solitari, sui panchetti imbottiti di una collana di vagoncini in cui ci sarebbe posto per due: il treno si avvia all'uscita passando davanti ad una parete di specchi neri. Nell'immagine riflessa, la Sgnuffi è abbracciata da una megera con dita adunche, Sciltian è avvolto da un fantasma e io sono stretto da uno scheletro che mi sussurra: da ora in poi starò sempre con te... Accanto a me il posto è vuoto, eppure nello specchio... Tocco l'aria sopra al sedile e la voce mi sospira nei timpani in un inglese lento e oxfordiano: anche se non puoi vedermi starò sempre con te... Torniamo nel caldo esterno con un brivido che ci corre giù per la schiena. Ci guardiamo, pallidi, emozionati e scoppiamo a ridere, forse avrà riso anche Dante per scaricare la tensione dopo esser tornato a riveder le stelle. A Fantasyland, dopo un'altra congrua coda, scendiamo sott'acqua col sottomarino del Capitano Nemo: per me che sono un discreto sub è come esplorare la mia vasca da bagno. Sciltian ci trascina sulle giostre classiche da fiera: un immenso polpo ci porta verso il cielo agitando i suoi tentacoli, tazzine volanti ci fanno planare a velocità da sfondamento timpani e canoe su taboghe d'acqua ci bagnano fino alle mutande. Ad Adventureland ci imbarchiamo per un giro in quella che vorrebbe essere una jungla ma che sta tra i mostri di Bomarzo e le fontane di Tivoli con cascatelle multiple e finte belve dietro ad ogni groviglio di mangrovie attorcigliate in laboratorio. A Liberty Square passiamo in rassegna ai fantocci di tutti i presidenti americani e a Tomorrowland ci imbarchiamo su un'astronave per una missione su Marte. Ci sediamo rilassati sui grandi sedili e ci leghiamo le cinture come ci viene ordinato: una barra imbottita si chiude sulle poltrone bloccandoci. Il conto alla rovescia fatto da autentiche voci NASA e i panorami che si vedono dagli oblò danno un'accettabile illusione di essere su una rampa di Cape Canaveral. Da bambino ho sognato una partenza come questa, ero un vero precursore in materia di sogni. Mi rilasso e annullo ogni senso critico: l'astronave comincia a tremare, siamo vicini allo zero che si confonde con il rombo traumatico dei motori che si accendono. L'astronave ne é squassata, gli oblò sono acciecati da fumi densi e vampe di fuoco, il rombo si assottiglia fino a diventare un'insopportabile fischio poi, my god!, la poltrona preme contro i nostri corpi dando la sensazione di un'accelerazione violenta, la sbarra che ci blocca si gonfia e ci comprime, stiamo davvero partendo per Marte! Il cielo fuori dagli oblò è già marrone, poi nero. Un'esplosione ci avverte che abbiamo staccato il primo stadio: il cielo si punteggia di stelle, stiamo ruotando e per un attimo siamo abbagliati dal sole che fonde l'idrogeno in elio senza l'azzurro schermo della nostra atmosfera. Una seconda esplosione ci avverte che abbiamo sparato via il secondo stadio. La pressione delle poltrone e della sbarra si allenta e mi pare di galleggiare privo di peso. I rumori cessano tutti insieme e il silenzio é solido. A uno degli oblò appare un lontana pallina arancione: Marte. Una voce ci dà i dati tecnici del viaggio e la rotta parabolica che ci porterà ad attraccare alla stazione che orbita intorno a Marte. Il sole illumina gli oblò alle nostre spalle più debolmente: ora possiamo guardare la nostra stella a occhio nudo. Il pianeta rosso ingrandisce fino ad occupare tutto l'oblò e poi diventa panorama con una fuggevole visione della Nix Olympica che si eleva sul deserto marziano come un foruncolo alto venti chilometri con una bocca larga sessantacinque. Ci avvertono che l'astronave sta frenando ed é iniziata la manovra per l'attracco alla base spaziale. Le poltrone ci premono contro la sbarra mentre negli oblò appaiono le strutture bianchissime della stazione orbitale. Il docking avviene con dolcezza e ci agganciamo con un corridoio flessibile simile a quello degli aeroporti. I motori si spengono, il viaggio é finito. Ci fanno uscire da una porta sul fondo e l'illusione continua per qualche secondo perché camminiamo in un corridoio ermetico... Usciamo nel verde della Terra e mi dispiace come quando, bambino, al risveglio dovevo accettare di aver soltanto sognato. Ogni "land" ha i suoi ristoranti: possiamo scegliere tra un "vero pasto medievale" a Fantasyland o "una tipica cena del New England con pesce bianco di Boston" a Liberty Square, menù che mi ricorda un ristorante di Torino che offriva "torta di mais e pesce veloce del Baltico" ossia polenta e merluzzo. Ne scegliamo uno caraibico ad Adventureland, davanti a grandi barche in partenza per l'assalto dei pirati contro Maracaibo: polpette piccanti e cocktail di frutti tropicali che, come droghe, lasciano una gran voglia di berne ancora. Ci imbarchiamo per Maracaibo e navighiamo in un mare nero sotto la costa rocciosa della città che ci prende a cannonate. I pirati-robot vanno all'assalto e nell'acqua intorno a noi esplodono i colpi di spingarda sollevando alti spruzzi. La guarnigione perde e i pirati fanno razzia nelle case rubando tesori e donne. E come stare dentro a uno spot pubblicitario. Viene sera e c'è ancora una codina di mezz'ora davanti al Roller Coast. Ci mettiamo in fila con la Sgnuffi che vuol sapere "che giostra è", ma io e Sciltian stiamo sul vago. Lei non ama le montagne russe. Un cartello avverte che la corsa è vietata ai malati di cuore, alle donne incinte e ai bambini al di sotto dei quattro anni, ma è scritto in inglese e con caratteri gotici... Ci sediamo su un trenino da miniera che parte sprofondando in un tunnel male illuminato la cui volta é sostenuta a fatica da alcuni grossi vecchi pali tarlati. Il trenino prende velocità mentre piovono goccione d'acqua e piccoli sassi. Svoltiamo bruscamente in un secondo tunnel ancora più malandato del primo: una delle assi che reggono la volta cede di schianto e una frana crolla sui binari davanti a noi! L'urto sembra inevitabile, la Sgnuffi urla ma all'ultimo istante il treno piega ad angolo retto evitando la cascata dei massi. Precipitiamo verso un orrido canyon e i binari si interrompono divelti irti e contorti oltre l'orlo dell'abisso: so che non ci ammazzeremo ma é difficile convincere il cervello che ciò che gli dicono i sensi, di cui si fida da cinquant'anni, è una menzogna. Il trenino infila uno scambio ad un metro dal precipizio e guardo gli occhi sgranati della Sgnuffi, aggrappata con ambo le mani al mancorrente del vagoncino. Sciltian ride forte e cerca di nascondere nella sghignazzata la nota dissonante della paura. Saltiam giù dal trenino scappando alla Sgnuffi che ci insegue, ma non é arrabbiata, ora che la fifa é passata, ridiamo tutti e tre come bambini: un momento felice. Cala la notte e un esserino luminoso attraversa il cielo: è Campanellino, quello di Peter Pan, che vola a dare il via ai fuochi artificiali che per mezz'ora esplodono fantasie scintillanti. Per fare fiocchetto a questo finale da "e vissero insieme felici e contenti" avanza verso di noi una sfilata di carri luminosi: migliaia di lampadine disegnano nel buio la sontuosa carrozza di Cenerentola a forma di zucca, l'orologio del campanile su cui scocca la fatidica mezzanotte, Dumbo con le ali spiegate, una buffa vecchia locomotiva guidata da Pippo e un barcone a ruota stile Mississippi che annuncia questa "MAIN STREET ELECTRICAL PARADE", e castelli, balene, damine, fatine ballanti ai ritmi di un'allegra orchestra dei personaggi di Disney. La gente applaude soddisfatta. Siamo soddisfatti anche noi e stanchissimi: domani ci aspetta la gigantesca palla da golf che troneggia su Epcot, complemento fantascientifico e fantatecnologico del mondo fiabesco di Disney. Di notte, il parcheggio punteggiato dai lampioni sgomenta per la sua sconfinatezza. - Era il 332/C!- esclama Sciltian orgoglioso della propria memoria. Camminiamo per mezzo chilometro seguendo i numeri dei rettangoli che si vanno svuotando di macchine. Il 332/C é perfettamente leggibile sull'asfalto sgombro. - Ci han rubato la macchina!- geme la Sgnuffi. - Prendiamone un'altra!- mi esorta il figlio spinto dalla stanchezza a una soluzionesemplice. Mi viene un dubbio e mi incammino verso la prossima area: ahimè anche in questo reticolo sterminato trovo un 332/C che un Toshiba sta lasciando libero. Un cartello annuncia a lettere colossali che siamo nel parking MICHEY MOUSE. A quale maledetto sgorbio disneyano era intestata l'area in cui abbiamo lasciato l'auto? Nessuno lo ha notato. Propongo la soluzione meno faticosa: sedersi a terra e aspettare che se ne siano andati tutti affinché su quella landa lunare risalti la nostra Saab. Famiglie con nugoli di bambini schiamazzanti passano e ci guardano: tre poveri italiani perduti in un parcheggio. Alle due di notte il mondo d'asfalto è quasi vuoto: poche decine di auto separate fra loro da chilometri di liscio bitume quadrettato paiono carcasse di insetti abbandonate dopo la sciamatura. A due chilometri da noi, una di quelle carcasse é la nostra Saab: siamo nella zona di quello stronzo di Scrooge, il vecchio Paperon de' Paperoni. Mezz'ora dopo salutiamo con affetto il fedele scarafaggione rosso di guardia sulla balconata che ci conferma che siamo nell'albergo giusto agitando le antenne in segno di bentornato. Rispondiamo con un cenno di mano e cadiamo addormentati sui nostri king size. La mattina seguente, rinfrancati dal breakfast di frittelle alla nonna Papera, french toast, hamburger, uova e bacon cementati da milk shake alla banana diluiti dal succo di dieci pompelmi, parcheggiamo l'auto nella zona dedicata a GOOFY, che è il nostro Pippo, e ne prendiamo nota con la massima attenzione. Epcot ci aspetta e, dopo aver pagato i soliti diciotto dollari a "skull", ci avviamo incontro alla gigantesca palla da golf che risplende aliena nel sole del primo mattino. Grandi fontane zampillano contornate da aiuole fiorite, più camminiamo verso la palla e più si fa gigantesca. Mi fermo col naso all'insù e qualcuno con accento orgoglioso mi dice che è la palla più grande del mondo. Ringrazio il biondo americano, la sua camicia a fiori e i suoi braconi al ginocchio e lui se ne va felice come se quei sessanta metri di palla l'avesse fatti lui. Lo invidio: tutto ciò che è pubblico é suo, per noi tutto ciò che é pubblico é di nessuno. Entriamo nella palla, nel mondo del futuro, nell'astronave Terra accodandoci ad un giovanottone in pantaloni mimetici, binocolo al collo e maschera antigas. Incontro il suo sguardo azzurro ombreggiato da un cappellino da ciclista con la visiera calata su un orecchio. Capta il mio entusiasmo e sogghigna:ù - Qui a Epcot la Disney Corporation si è fissata su due cose per dedisneyarsi: un futuro noioso e romper le palle al mondo intero. Walt é morto e, dopo un paio d'ore in questa palla, vorrete esserlo anche voi.- Faccio finta di non capire e sorrido ebete. L'AT&T ci mostra la storia delle comunicazioni, dai primi disegni graffiti sulle grotte dai nostri progenitori alle animazioni frattali dei computer grafici. Son lì che cerco di entusiasmare Sciltian ed ecco di nuovo lo strano giovanottone con la maschera antigas a tracolla, passa e sibila: - Chi se ne frega di quanto é sofisticato il sistema delle comunicazioni quando la gente non ha più niente da dire!- La Exxon ci fa la storia dell'energia dalle prime sudate alla fusione nucleare, la General Motors quella dei trasporti dal cavacecio allo shuttle, la Kodak annuncia un viaggio nella nostra immaginazione e il giovanottone dal cappellino a sghimbescio mi sussurra traditore in un orecchio che essendo Epcot uno spettacolo per famiglie non s'aspetta certo che mostrino quello che lui ha nella propria immaginazione e infatti la Kodak se la cava con tunnel psichedelici e turbanti effetti ottici assolutamente casti, la Kraft offre culture idroponiche e gigantesche verdure che ballano e cantano, la Sperry stupisce con animazioni elettroniche mentre la General Electric mostra cristalli in formazione, il DNA in sviluppo e come vivremo (o vivranno!) nel ventunesimo secolo e la United Technologies ci porta sui fondi degli oceani. Se in Italia l'Olivetti, la Sip, l'Eni, la Fiat e Ferruzzi decidessero di spendere miliardi per mostrarci questo genere di cose mi inginocchierei miracolato, ma, son certo, sarebbe una mostra noiosa del guardare-e-non toccare con la spocchiosità che da noi inturgida chi sa una cosa e ne fa mostra a chi quella cosa non sa. Epcot invece é la grande favola della scienza, più stupefacente di quelle inventate dai poeti. Qui il muro del tempo crolla, un umanologo alieno ha raccolto angoli di passato e di futuro e quello che ancora non c’é é così vero che pare esserci già stato. Cento milioni d'anni fa. Venghino signori, offre la Exxon! Ci accodiamo alla serpentina di folla e mezz'ora dopo entriamo in una grande sala, ci sediamo e sulla parete di fondo proiettano un film pieno di sole, di pioggia e di vento ma il cui sonoro mi giunge senza movimento di labbra e quindi piuttosto incomprensibile. Alla fine della proiezione ci muoviamo per alzarsi ma le poltrone si muovono prima di noi e ci portano, con altri stupiti spettatori aggrappati ai braccioli, a formare un trenino che prende velocità entrando in un tunnel buio. Sbuchiamo in un ambiente illuminato da una luce rossastra, da tramonto, anche se nel cielo artificiale un grande sole ramato brilla alto, offuscato dall'umidità che ne filtra i raggi. Grandi ciuffi di palmacee spuntano rigogliosi dalla terra molle e acquitrinosa e i cespugli, ricchi di felci, sono fioriti di grandi gigli, orchidee e amarillis. E' una natura densa e ostile immersa in un'aria che riempie la bocca di sapori e il naso di odori. Un fiato rumoroso, un barrito gorgogliante, un cespuglio si apre sotto il peso di uno stegosauro che tende il suo lungo collo verso di noi. La sua testa crestata mi sfiora. Mi sfugge un grido, ci sottraiamo alla bestia e le mascelle di un tirannosauro si chiudono con uno scatto orribile dieci centimetri dietro le nostre teste sovrastandoci, dritto sulle zampe posteriori, come un palazzo di tre piani. n triceratops (non sapete cos'è? Andate a vederlo a Epcot...) esce dall'acqua e agita il testone con il gigantesco becco a papera mentre il lungo collo di un brontosauro porta la testa a brucare germogli sulla sommità di un banano. Qui non c'é bisogno di sognare, qui siamo in pieno Cretaceo, milioni d'anni prima che i mammiferi dominino il pianeta. Non so se la ricostruzione é fedele ma è impressionante. Uno pterosauro plana sulle nostre teste facendoci piegare d'istinto. Una voce soffocata dice qualcosa alle mie spalle, mi volto e mi trovo faccia a maschera antigas: capire l'inglese soffiato in un filtro é oltre le mie capacità. L'uomo si leva la maschera e mi fissa coi suoi occhi chiari: - La vera novità di Epcot é l'uso degli odori per aumentare l'illusione. Of course nessuno conosce che odore avessero i dinosauri ma la Exxon ha deciso che puzzavano di merda marcia...- si cala di nuovo la maschera sul volto. Annuso profondamente: non è puzza di merda marcia, direi piuttosto merda putrida. Tornando nell'afa della Florida di cento milioni d'anni dopo non la trovo più soffocante. Come bambini che si sian fatti prendere la mano, i creatori di Epcot hanno allineato sulle sponde di un lago i paesaggi urbani più famosi del mondo. Piramidi azteche accanto a pagode giapponesi, palazzi Tudor vicino al Cancello d'Oro cinese e un arzillo svettante campanile apre una piazzetta San Marco con tanto di Palazzo Ducale: sotto i famosi archi Alfredo offre i suoi celebri piatti trasteverini serviti, giuro!, da camerieri cantanti. Attraversiamo il Marocco, ci fermiamo su una piazzetta tedesca, assistiamo all'esibizione di un gruppo folcloristico inglese, ci facciamo delle foto sotto la Tour Eiffel, evitiamo il sushi offerto sotto la pagoda di Nara da nippoamericani, salutiamo fuggevoli Jefferson e Franklin intenti a discutere la Costituzione americana e ci imbarchiamo sul traghetto a pale sperando di incontrare l'ironico Mark Twain. Ma il River Boat non marca due, marca shopping e dopo esserci salvati da una cena reclamizzata come "Luigi XV" ci troviamo scaricati al World Shopping Village che, come dice il nome, offre cose e cosette da tutto il mondo allo stesso prezzo in cui si acquistano nei paesi d'origine, viaggio compreso. E' il fascino degli States questo continuo miscuglio di genialità e di cattivo gusto. La notte ci sorprende a guardare i prezzi del ristorante polinesiano e il musical degli "Hoop-Dee-Doo" coi ballerini tutti vestiti di rosa. A mezzanotte trasciniamo gli stanchi piedi verso l'area di Goofy per rimetterci in macchina. Pippo è il più simpatico dei personaggi di Disney e gli hanno riservato l'area parcheggio più grande: ci saranno diecimila macchine da Goofy e noi non ricordiamo il numero del nostro posto auto. Ci sediamo muti a terra e aspettiamo le due. Incredibile: la nostra Saab é sul rettangolo 332/C. Sciltian, seduto al suo posto di navigatore, mi mostra tutto quello che avremmo potuto vedere in Florida e ci siamo persi, mentre sto guidando verso Atlanta. Ha fatto il pieno di depliant in albergo prima di partire. Sarà per la prossima volta. Sciltian lo prende come un augurio e sorride raggiante: gli accarezzo la testa tonda, a noi questa America é entrata nel sangue. Tutta una galoppata veloce fino a Gainesville, tanto la polizia della Florida é di manica larga. Ci fermiamo per un ricambio di liquidi e per comprare cartoline. Gainesville é tutta distesa lungo la main street con il gruppo dei supermercati a chiudere un grande piazzale: non sono abituati a sentirsi chiedere cartoline del posto, hanno solo quella che pubblicizza la vicina università. - Pensa vivere qui - fa la Sgnuffi stiracchiandosi - dev'essere una noia tremenda. Non succede mai niente.- Mi ricorderò queste parole quando, qualche mese dopo a Roma, i giornali cominceranno a parlare del "mostro di Gainesville", un serial-killer che fa fuori le belle universitarie a gruppi di due per volta. Qualcosa succede anche a Gainesville, dopotutto! A notte parcheggio la Saab a fianco della villa degli Edwards. Domattina ci aspetta l'aereo della Sabena che ci riporta a Roma via Bruxelles.
CAPITOLO XIV IL RITORNO L’aeroporto di Fiumicino si é rimpicciolito. I prati pieni di auto sembrano favelas di rottamai, l'autostrada che ci porta al raccordo anulare è un sentiero asfaltato. E dovunque case, casette, ville, palazzi, hangar, tettoie, depositi, cantieri, cascine, borghi, borgate, si affollano sul verde macilento, calpestato da millenni, fino all'ossessione della periferia romana con le sue migliaia di orridi "condo" stipati gli uni sugli altri, divisi da strettissime rue ingombre di auto abbandonate che li assediano coi musi contro i muri e disgraziati pedoni tentano di filtrare, scavalcare, saltare imprecando e rigando e ammaccando i cofani di latta mentre l'onda continua di altre macchine schiaccia, impesta, strombetta e strombazza la propria impotenza e disperazione. Al volante della mia Mercedes impolverata da due mesi di abbandono nei prati di Fiumicino guardo lo sguardo disperato dei miei cari: siamo tornati! Ci chiudiamo in casa. Il jet lag ci fa incontrare vaganti per le stanze buie alle quattro di notte e cerchiamo reciproca consolazione: però noi abbiamo il Colosseo! E la Cappella Sistina! E il Cupolone! Annuiamo gli uni agli altri, serissimi e tristi. - May I speak to mister Gastaldi?- sobbalzo di gioia. - Gastaldi's speaking!- E' Jerry di San Francisco. Ci aveva proposto uno scambio casa con il nostro appartamento di Roma, ma la Sgnuffi si era rifiutata, e a lui e Gloria, sua moglie, non interessava il Circeo. La Sgnuffi era stata irremovibile, a nulla erano valse le poetiche lettere di Jerry che decantava la propria villa a San Rafael, aldilà del Golden Gate, dalla cui "window picture" vedeva all'alba la nebbiolina sui vigneti tingersi di rosa e poi diradarsi per permettere all'occhio di spaziare sulla baia incantata fino alle cento colline di San Francisco. Jerry e Gloria han trovato un altro scambio, al centro di Roma. Li invito a cena per uno scambio di esperienze. Lui é dentista di successo, lei é psicoterapeuta e insieme editano un bollettino dall'incredibile titolo di "Mental Dental". Sono americani diversi da quelli che abbiamo conosciuto sulla costa Est. Più divertenti, più cinici, più ironici, più europei insomma. Jerry mi racconta con aria sognante del suo appartamento di Roma a via Urbana: sesto piano senza ascensore, bagno senza acqua calda e una vicina di casa che ad ogni domanda gli risponde sempre con un romanesco "Nun hai da toccà". - Però- gli ricordo - pensa al gusto della famiglia romana che sta davanti alla tua window-picture a guardare la rosea nebbiolina che si alza dai vigneti con la gioia interiore di aver fregato un americano...- I due californiani scafati sghignazzano. Apprezzano anche i vini piemontesi perché quei vigneti poetici davanti a San Rafael sono vitigni di nebbiolo e producono baroli e barbareschi di gran pregio. Stappo bottiglie d'annata e dopo una ventina di assaggi e confronti ci troviamo alle tre di notte in Campidoglio ad ascoltare Gloria che, con bella voce di soprano, ci canta la Traviata in un italiano perfetto. Non capisce una parola di quel che dice, ma prima di fare la psicoterapeuta ha fatto la cantante d'opera: la luna tinge di fascino i ruderi del Foro e finalmente posso mostrare qualcosa con orgoglio a questi stranieri: non sono i ruderi più grandi del mondo e neppure i più antichi, ma con questa luna son certo i più belli e il barolo mi aiuta a far silenzio per invitarli ad ascoltare le magiche voci latine del Foro. La sera dopo Jerry e Gloria ci invitano a cena al ristorante Papà Giovanni, vicino a piazza Navona, per le otto e trenta. La Sgnuffi e io ci affanniamo per arrivare puntuali e non cadere nel consueto cliché dei romani ritardatari. Il ristorante è chiuso a chiave. Bussiamo e ci viene aperto. Camerieri in divisa, sentito il nome di Jerry, ci scortano ad un tavolo prenotato. C'è pochissima luce e intorno a noi solo turisti: nessuno parla italiano, solo qualche parola romanesca che i camerieri si scambiano sottovoce. Sussurro alla Sgnuffi di parlare inglese, può essere divertente. Passano tre quarti d'ora prima che Jerry e Gloria, avvolta in un turbinante vestito di veli azzurri, si siedano al nostro tavolo. Sono stupiti e dispiaciuti: amici han detto loro che a Roma si usa arrivare con almeno mezz'ora di ritardo e quindi a Roma come i romani... - Sì, certo, ma non quando l'appuntamento é con due "blockhead" di San Francisco che si suppone che nella loro americanità arrivino spaccando il minuto!- Jerry ridacchia e mi chiede se ha scelto bene il ristorante. Annuisco: sembra una perfetta trappola per turisti. Ma il vino è buono e i ravioloni anche. Io sono un panefilo e alla mia richiesta di "some bread, please" mi portano alcune fette di pane casareccio. Ne prendo una: c'è un vellutato verde sulla mollica che, anche alla luce scarsissima del locale, non è difficile identificare come muffa. Faccio una voce nasale e cerco di dare Oxford alla mia protesta. Un cameriere mi sorride, con la faccia simile al fondo schiena, e mi dice che si tratta di un pane speciale romano, "green bread". Lo guardo a denti stretti per non scoppiare a ridere e lo prego di portarmi "usual white bread", normale pane bianco. Il cameriere si inchina e obbedisce. Portando via il pane ammuffito incrocia un collega e sbuffa in romanesco pesante: - Aò, ma nun vedono quelli sprocedati in cucina che sto pane c'ha la muffa?- Spiego ai miei ospiti increduli che il pane verde non é una specialità romana. Sgranano gli occhi e ridono come bambini. Al momento del conto Jerry, da gran signore, continua a ridere mentre posa quattro biglietti da centomila sul vassoio del cameriere. Usciamo passando davanti alla fila dei camerieri che si inchinano. Mi fermo sorridente davanti a quello del pane e gli dico serafico in inglese: - Everything was good, very good...-piccola pausa e poi giù pesante in romanesco alzando la voce- Però n'antra vorta er pane muffo te lo magni te!- L'intera fila dei camerieri vacilla e quello addetto a girare la chiave nella toppa per aprirci la privatissima uscita mi guarda con occhi da bue. Devo guidargli la mano e stiamo ancora ridendo forte quando il Bernini ci mostra le sue delizie in Piazza Navona. Batte l'una di notte, c'è di nuovo la luna e l'acqua mormora storie antiche nella fontana dei quattro fiumi, mentre l'angelo del Borromini, sulla facciata della sua chiesa, volta via lo sguardo disgustato. Roma è bella senza i romani. L'aveva già detto la Pimpaccia, sponsor di questa piazza che è la più bella del mondo. Jerry e Gloria tornano nella loro San Francisco lasciandoci l'indirizzo di un loro amico: un altro dentista di successo che abita in una delle più belle zone della città, vicino al Golden Gate, in fondo a Lombard Street, dalle cui finestre si vede la Baia e il parco del Presidio. Si chiama Bruce e vuole scambiar casa con un italiano. Iniziamo subito la corrispondenza. Non solo con Bruce ma anche con famiglie di New York. Ormai sappiamo come si fa: una prima lettera di presentazione, chi siamo, quanti siamo, che facciamo nella vita, quale tipo di casa offriamo e per quale periodo. Rispondono tutti, anche per dire di no. Con quelli ben disposti si inizia l'approfondimento, per conoscersi un poco di più. Si parla dei propri interessi, delle attrazioni e dei difetti dell'area in cui sorge la casa da scambiare, di com'è attrezzata la cucina, se c'è la lavapiatti, la lavapanni, l'asciugatore, il forno a microonde, la TV, il VCR, dove sono i negozi, quanto costa la vita, quali sono le gite più interessanti che si possono fare nei dintorni e se si hanno amici o parenti in grado di dare assistenza se fosse necessario. Bruce è il primo a rispondere entusiasta: per agosto prossimo siamo a posto. Per luglio ci accordiamo con una famiglia di NewYork che abita al ventiduesimo piano dell'East Side, all'incrocio tra la seconda avenue e la ventitreesima: una zona più che discreta, mi dice la mia memoria di scrittore di gialli falsoamericani. Passiamo l'inverno a parlare di America sopportati dagli amici. Metto in vendita il mio due alberi a vela, frutto di sanguinose fatiche e risparmi: non ho più tempo per il Mediterraneo.
CAPITOLO XV PRIMO PREMIO UNA SETTIMANA A NEW YORK, SECONDO PREMIO DUE SETTIMANE A NEWYORK... Luglio a NewYork: un intero mese per assaporare la Grande Mela. L'aria è satura di fumi e fa caldo ma nel nostro appartamento al ventiduesimo piano c'è l'aria condizionata in tutte le stanze: è centralizzata, l'intero grattacielo è un sorbetto al carbonio. Stavolta non abbiamo avuto problemi con quelli dell'immigrazione e neppure col tassista giamaicano: il nostro inglese è assai più fluido dell'anno scorso. Sciltian ha continuato a studiare durante l'inverno e io mi sono aiutato con le cassette di Speak-Up, la Sgnuffi non ne ha bisogno perché il suo é un inglese personale immutabile. Tuttavia quando un amico del padrone di casa ci apostrofa con un "jit yet?" lo fissiamo imbambolati mentre le rotelle traduttrici vorticano a vuoto nella nostre teste. L'amico ride e chiede scusa, quello non è americano, è newyorchese: la Grande Mela ha sempre fretta e sintetizza. La domanda distesa sarebbe "Do you eat yet?". Che importa? ha già mangiato tutto lui lasciandoci appena due sillabe... In portineria ci sono tre muscolosi negri in divisa con pistoloni alle cinture. Non ci lasciano entrare: italiani che hanno scambiato casa? Il più grosso mi punta contro un dito bazooka e socchiude gli occhi diffidente: - Mafia?- Saremmo ancora fuori se non garantisse per noi l'amico mangiaparole. Il nostro appartamento è di una cinquantina di metri quadri ma lo spazio é sfruttato come in barca: gavoni e armadi a muro dovunque, stanze piccole ma comode, cucinetta e bagnetti completi di tutto ma senza finestre e con aspiratori, soggiorno pranzo con balcone e vista sulla Manhattan che conta. Il panorama però é meglio guardarlo da dietro la vetrata perché sul balcone si respirano gli scarichi fetidi e bollenti di tutti i condizionatori dell'East Side. Siamo custoditi da una porta con doppia blindatura ed enormi catenacci di rinforzo, altro che i teneri cricchini dell'altra America! Perfino la spia per vedere chi bussa è periscopica per evitare, mi spiega sorridendo l'amico del padrone, che ti sparino nell'occhio mentre controlli. La Grande Mela si deforma assumendo i contorni di una Grande Pera. Gli amici di Boston vengono a trovarci: Paula resta una settimana con noi ma è spenta dal dolore per la perdita del marito dagli occhi blu. Una notte saliamo sull'Empire State Building: il vento fa svolazzare i capelli a chi li ha, e a me drizza due ciuffetti sopra le orecchie. Sotto di noi, milioni di luci pulsanti: geometrie verticali fitte e audacissime che si perdono all'orizzonte, ben oltre l'abbraccio dell'Hudson e colonne di minuscoli globuli luminosi in movimento che danno alle avenue l'aspetto di arterie alimentanti un grande corpo vivente. Mi suonano nel cuore le note di "NewYork NewYork" e la voce della Minnelli. Dà sgomento vista da quassù, sotto buio intenso e col vento che drizza i capelli, capisco che si possa amarla tanto, conquistata lei si è conquistato il mondo. Paula fissa tutta questa vita con occhi morti. Motorino e il marito arrivano la seconda settimana e si mettono in movimento alle sette del mattino. Noi li raggiungiamo verso le undici dopo una robusta colazione americana e insieme rovesciamo la Grande Mela come un guanto. Dal Radio City Music Hall fino alla Statua della Libertà. Per prendere il traghetto per Liberty Island occorre mettersi in fila all'alba e Motorino fa la coda anche per noi che arriviamo alle dieci gonfi di french toast e pancakes. Il fiume di gente in attesa sgomenta: il prossimo quattro luglio la Signora Libertà compie cento anni. Sull'oceano sembra che abbia nevicato barche: migliaia di yacht punteggiano di bianco la Upper Bay dai moli di Jersey City fino a quelli di Brooklyn, sono in attesa dei grandi yacht a vela che si son dati appuntamento qui per solennizzare il centenario della grande statua. Piove. Scroscia dal cielo un acquazzone da paura ma il fiume di gente in attesa non si scompone, nessuno cede di un palmo. Ci imbarchiamo fradici sul traghetto che poco dopo ci scarica a Liberty Island: scatto il primo rullino di foto mentre la nave gira intorno al donnone con la fiaccola. Liberty Island è gremita. Anche Motorino desiste dal mettersi in coda per salire dentro la statua: ma noi teniamo duro, chissà se mai torneremo qui. Sole e pioggia si alternano, bagnandoci e asciugandoci, ma tre ore dopo siamo sugli ultimi scalini della tortuosa scala a chiocciola dentro la testa della statua: ci è permesso sostare pochi secondi, ma vediamo il mondo da uno degli occhi della Statua della Libertà! Ci può anche stare un "chi se ne frega" ma son cose retoriche che danno piacere. Come dice oggi la Tv agli americani: siate fieri di essere fieri. Stanotte ci saranno i fireworks più colossali di tutti i tempi. Per chi come noi non ha raccomandazioni speciali il posto migliore per vederli é Battery Park, la punta verde all'estremità di Manhattan. Ci raggiunge da Filadelfia dove sta studiando al San Joseph College, il mio secondogenito Costantino, alto quasi quanto me e forte dei suoi vent'anni. Viene a scortarci perché tutti ci sconsigliano di andare a Battery Park stanotte: ci sarà una folla paurosa di negri, cinesi e portoricani. La Sgnuffi non vuole salire sul metrò, qualcuno le ha detto di non prenderlo mai dopo le diciotto. I taxi non si trovano più. Andiamo a piedi, sei chilometri passo più passo meno. La camminata si fa vischiosa per la troppa folla già nel piazzale della City Hall, poi dobbiamo avanzare a zigzag, approfittando dei vuoti che si creano nel movimento denso dei sei milioni di persone che cercano di arrivare sulle prime aiuole di Battery Park. Non ci sono bianchi. La tinta è dal cioccolato al nero viola, con qualche variante butterata portoricana e liscia alla cinese. Molti hanno sulle spalle giganteschi stereo che trasmettono musiche frenetiche. Chiazze di folla ballano dimenandosi nei pochi centimetri di spazio che riescono a crearsi intorno, sculettando tutti insieme prima a destra e poi a sinistra: chi perde il tempo prende una culata storica e vien buttato sulle anche di altri sculettatori. Sentiamo sotto i piedi l'erba del parco e sopra di noi le chiome degli alberi con grappoli di ragazzi neri contro nero a cavalcioni dei rami: ora la musica sfonda i timpani dalla terra e dal cielo. Costantino, nervoso per problemi suoi, guarda minaccioso in alto sostenendo che qualcuno gli ha sputato in testa. Sopra di noi pendono dai rami grossi frutti firmati Nike o Reebock taglia 45 e più. Lo spingo oltre di qualche centimetro, cercando di convincerlo che sarà stato un uccello notturno. Siamo parte di una massa compatta che scivola amebica in avanti strusciando su milioni di suole. La nostra parte di bestia é ferma a cento metri dall'Hudson quando cominciano i fuochi: la notte si incendia a centottanta gradi. Soffioni luminosi dai pappi arancio fioriscono per decine di miglia riempiendo il cielo e cambiando colori alla notte. Sonchi gialli come soli illuminano le nostre facce protese alla meraviglia, sui nostri nasi camusi spiccano stupite cornee bianche e tra le nostre labbra tumide l'avorio perfetto dei denti riflette i colori delle immense begonie di luce che fioriscono in cielo. I biondi capelli della Sgnuffi sono un difetto di melanina nella pelle scura del manto animale che copre Battery Park. Candidi tromboni d'angelo si espandono in verbene vermiglie e muoiono in cascate di glicini blu mentre mille rose sultane nascono dalle acque per salire verso dio gridando col loro giallo acceso e rosso vellutato che qui l'umanità fa festa grande. Per un'ora intera non abbassiamo la testa, gli occhi abbagliati dal continuo esplodere di fiori: rami di ginestra, arbusti di corallo, fiori d'angelo, crisantemi accecanti, paffute peonie, affusolati lupini, svettanti con prepotenza ben oltre la pallida corona della Libertà festeggiata, coi loro botti fanno vibrare i vetri dei grattacieli che colano sangue, miele, neve al cambiare della dominante di quest'orgia di colori. La mia cervicale urla pietà, ma non riesco a staccare lo sguardo da questa magnificenza: il cielo si riempie di strisce bianche e rosse e da una grande esplosione blu cade una pioggia di stelle. Tre botti sovrastano tutte le musiche. Il mondo resta buio. I fuochi sono finiti. Noi sei milioni di umani restiamo annichiliti davanti al nulla per alcuni secondi, poi ci voltiamo e muovendoci sui nostri dodici milioni di piedi ci spostiamo verso la City Hall dove migliaia di autobus tentano di prosciugare quest'oceano di gente. La stanchezza e l'ora tarda rendono queste code assai poco americane: c'è chi spinge, chi fa il furbo, e chi con arroganza minacciosa ruba i posti cercando la rissa. Poiché non ho un carattere cristiano davanti alle offese, per evitare guai, convinco gli stanchi figli e l'esausta Sgnuffi ad un'allegra passeggiata sui sei chilometri del ritorno. Abbiamo appena lasciato la piazza col suo turbinio di autobus assaliti dal blob con dodici milioni di piedi, che un autobus privo di grappoli umani alle porte ferma all'inizio di Madison Street. Una gran corsa e salto a bordo: prima di pagare i biglietti chiedo al nerissimo autista con la testa infilata in una cuffia di lana gialla: - Are you going to the twentysecond street?- La cuffia annuisce con uno sbadigliante -Yeah!-. Pago felice e trascino la famiglia verso il fondo dell'autobus dove c'è perfino un posto a sedere. La Sgnuffi si accascia sul sedile e io dispiego la mia mappa di NewYork cercando di seguire su di essa il percorso del bus. - Ecco, - dico a Sciltian e a Costantino- probabilmente passeremo per Allen Street e prenderemo la First Avenue e poi...- Una signora mi tocca su una spalla. Mi volto: é una vecchietta caruccia coi capelli candidi e un grande sorriso. Scuote la testa e indica il mio dito che punta su Union Square: - No, sir. This bus turns on right at Manhattan Bridge to go to Brooklyn.- La guardo smarrito, poi mi precipito verso cuffia gialla a protestare. Non mi guarda neppure mentre mi dice che passa dalla 22esima, ma quella di Brooklyn. Dobbiamo scendere alla prossima e alla mia domanda disperata: - Che hell di mezzo possiamo prendere?- cuffia gialla mi dà un'occhiata di disprezzo: - Andagràun'- sbuffa e vuol dire il metrò. Costringo la famiglia irritata a scendere. Il bus di cuffia gialla ci lascia all'angolo di una street umida e buia che si chiama Caterina. Guido la famiglia fingendo una sicurezza che non ho. Caterina mi porta alla Broadway: mi si apre il cuore, la Broadway attraversa tutta Manhattan ed é una strada sicura. Rincuoro la Sgnuffi e ci avviamo sul marciapiede stretto e maleodorante: due gang di cinesi si stanno fronteggiando nascosti dietro le auto. Davanti ai pochi locali aperti pendono lanterne orientali. Le bande di giovinastri si scambiano razzi, castagnole, bombe e raffiche di rauti. Noi ci dobbiamo passare in mezzo se vogliamo proseguire verso nord. Mi faccio coraggio e conquisto il centro della strada, stretta per essere Broadway! Cammino deciso seguito dalla famiglia. Le due bande sospendono la guerra. High midnight. Scruto le loro facce inespressive, sento tutti i loro occhi puntati su di noi. All'angolo una targa avverte East Broadway. Mi blocco incerto: questa non è la Broadway che dico io! Abbiamo sbagliato strada. La mia incertezza spezza l'incantesimo: le due gang concentrano il loro fuoco contro di noi. Esplosioni crepitano fra i nostri piedi, missili luminosi ci costringono a piegarci, bombe squassanti ci convincono ad una fuga ignominiosa. Inseguiti da un uragano di fuoco torniamo indietro e guido la famiglia al riparo dietro il primo angolo possibile. Continuiamo a correre: la nuova strada é la Bowery. Quanti racconti d'orrore ho letto ambientati nella Bowery! La strada dei mendicanti e degli assassini! Dobbiamo continuare a correre! Il nostro galoppo, sorretto dalla paura, ci dà la forza per arrivare alla Kenmare: non è quella che incontra Mulberry Street, la strada dove Al Capone uccise la sua prima vittima? E' proprio quella! Continuare la fuga! Siamo allo stremo, i nostri fiati sono gemiti, quando arriviamo alla Houston: la strada larga e illuminata ci rinfranca. Un uomo elegante sta passeggiando a braccetto di due belle signore: la tranquillità delle donne ingioiellate é garanzia di cessato pericolo. Possiamo fermarci, appoggiarci ai grattacieli e ansimare dall'inguine alle flippanti tonsille. Alla terza settimana cominciamo ad averne abbastanza di NewYork: scavalcare le bag-ladies stese sui marciapiedi é diventata un'abitudine ignobile, dalle bocche dell'aria condizionata escono piccoli scarafaggi che qui chiamano roaches e che si trovano ovunque, dalla minestra al pigiama e strade anche famose come la Quinta danno un senso di insicurezza quando senza motivo evidente si vuotano e ci troviamo noi soli a sgambettare intorno ai grattacieli. L'allarmante numero di squilibrati che si parlano addosso, queruli o minacciosi (uno ci ha tirato una bottiglia che si è sfranta ad un passo dalla Sgnuffi), le facce tese della folla che mai passeggia ma sempre corre, urta, sgomita per vincere una misteriosa gara in cui dev'essere in gioco vita o morte, l'aria sporcata da milioni di bocche, la sporcizia e il degrado di interi quartieri animano un desiderio di fuga. Solo la Sgnuffi ripete testarda che NewYork é la più bella città del mondo. Io e Sciltian ci raccontiamo una vecchia barzelletta adattandola per questa megalopoli: "Grande lotteria internazionale: primo premio una settimana a NewYork, secondo premio due settimane a New York, terzo premio tre settimane a NewYork, quarto premio quattro settimane a NewYork..." Abbiamo vinto il quarto ma bariamo coi noi stessi e dopo tre settimane facciamo una puntatina a Filadelfia a trovare Costantino, prima di volare a San Francisco. CAPITOLO XVI SAN FRANCISCO! Gita breve a Filadelfia, giusto il tempo per visitare il college di Costantino, prendere un'insolazione lungo l'infinito viale che porta al Museo, sudare a litri sulle scalee da allenamento di Rocky I, II, III, IV e V... e farsi sfilare il portafoglio da un negretto in una sala giochi. E' la prima volta che lasciamo Sciltian solo, l'Arcade è vicina al nostro albergo e lui si é infognato in una battaglia elettronica contro gli alieni. Dopo qualche minuto torna accompagnato da un giovanotto color ebano lucido che ci chiede scusa a nome della sua città: un ragazzo con mano lesta ha sfilato il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni di Sciltian e si è dato alla fuga subito ferocemente inseguito da un poliziotto pancione, da Sciltian arrabbiatissimo e da questo giovanotto che ora ci chiede scusa in nome di Filadelfia. Una corsa acrobatica, da film, giù per le scale del metro, ma una corsa persa. Ringrazio il bel giovane nero e con un sorriso lo informo che nel portafoglio di Sciltian c'era un dollaro soltanto. Forse è il mio cinismo di europeo decadente a illudermi di cogliere nello sguardo del giovanotto un'ombra di delusione? Questo è l'unico contatto che abbiamo con gli indigeni di Filadelfia perché qui siamo turisti, viviamo in albergo e parliamo solo fra noi andando in giro naso all'aria e guide in mano. Il grande vantaggio dello scambiocasa è la possibilità di entrare in contatto con la società civile locale perché chi cede la propria magione a degli sconosciuti stranieri incarica gli amici di dare loro un'occhiata. Come turisti non possiamo lasciare la città voluta dal signor Penn senza visitare le stanze in cui fu firmata la prima costituzione americana, senza vedere la storica campana tenuta sotto vetro e la pianta cresciuta da un seme che fu portato sulla luna dall'Apollo 11. Torniamo in treno a NewYork e poi in taxi fino al Kennedy Airport per imbarcarci per San Francisco. La Sgnuffi è abbracciata all'unicorno bianco e io ho in mente le orecchie a sventola di Clark Gable e lo scintillio perverso dei night della Costa dei Barbari. La Sgnuffi ha letto un articolo sulla faglia di San Andreas e ha qualche perplessità: e se a San Francisco ci aspettasse un terremoto distruttore? La tranquillizzo: sarebbe la casa di Bruce a cadere e non la nostra. Sorride sollevata. Voliamo attraverso tutta l'America. Sotto di noi, negli squarci delle nubi, le praterie di grano del Middle West quadrettate con geometria perfetta dalle righe bianche delle strade. Dietro a noi una coppia texana ha esclamazioni di stupore. Il marito tiene l'indice premuto contro la doppia plastica dell'oblò. Guardo anch'io sperando in un disco volante: il cielo e sereno, nessun alieno ci svolazza intorno. La coppia guarda in basso e scoppia in una risata larga come una bistecca. Seguo il loro sguardo: il reticolo squadrato dei campi gialli e rettangolari é deturpato da una strada che si permette un doppio inspiegabile zigzag. I texani ne ridono fino alle lacrime. Le pianure si fanno aride a ridosso delle Montagne Rocciose e i campi diventano cerchi scuri su sfondo avana: sono gli irrigatori automatici che, girando su se stessi, alimentati da batterie solari, disegnano quei grandi rotondi fertili. Le Montagne Rocciose evocano sogni di infanzia, i romanzi di Motta e di Mioni e poi i grandi western dell'adolescenza, la costruzione della ferrovia, gli indiani, la corsa all'oro... ma a vederle dall'alto coi miei occhi di alpino sono una delusione: tondeggianti, con poche bave di neve nei canaloni meno soleggiati, non hanno nulla di epico. Mi sembrano larghe più che imponenti, ma è il giudizio di uno che ci vola sopra, attraversarle a cavallo o a piedi daranno diversa impressione. L'aereo si abbassa, é iniziato l'atterraggio: sotto di noi un deserto di sabbia di tipo sahariano e poi uno spicchio di baia. Rulliamo, già sulla pista. Siamo a Frisco, ma qui odiano questo abbreviativo. Ci sono stati degli attentati terroristici in Italia e il dentista Bruce si é spaventato: nella sua ultima lettera mi ha detto che ci dà la sua casa ma lui non userà la nostra, se ne andrà dai genitori vicino a Chicago. E' con un po' di imbarazzo che stringo la mano ad un uomo bruno, più alto di me, col volto pallido illuminato da due grandi occhi etruschi. Il padre di Bruce nacque in Toscana e ha lasciato il segno. Bruce ci aiuta a caricare i nostri valigioni sulla sua Chevrolet e sopra ci mette il grande unicorno bianco senza alcun commento. Entriamo in macchina e partiamo. Il silenzio si fa torturante. Devo trovare qualcosa da dire. Fuori il cielo è percorso da cilindri di bambagia colorata che sfiorano le colline, brulle come gobbe di bisonti. - Clouds?- chiedo. - Fog.- risponde. Poco per un inizio di conversazione. Bruce è concentrato nella guida ma io sento il suo imbarazzo che copula col mio. Oltre le colline intravedo alcune casette bianche in stile messicano. - What's this?- chiedo. - San Francisco.- risponde. Soffoco nell'amplesso degli imbarazzi e rinuncio. Apro un dialogo in italiano con Sciltian e la Sgnuffi giusto per riempire l'auto di onde sonore prodotte da gole umane. La macchina corre lungo la baia e lo spettacolo si fa grandioso: le nubi cilindriche si allungano per centinaia di metri e si contorcono al rallentatore sullo specchio acqueo cambiando colore come per un sapiente ruotar di filtri: dal verde all'arancio cupo e al violetto passando attraverso infinite sfumature di giallo. Arditissimi ponti scavalcano la grande baia unendo fra loro città, e colline verdi, con saltuarie pretese di monti, aggirano la baia puntinate da villaggi e da porticcioli, allungandosi in penisole antropomorfe, come mani tese verso l'isola di Alcatraz. Sull'acqua calma il vento scolpisce marezzature che riflettono i cangianti colori delle nuvole in viaggio perenne dall'oceano Pacifico verso il deserto. Fa caldo ma l'aria che soffia dall'oceano sembra venir giù dritta dal polo nord. Colpa della corrente di Humbolt, mi spiegheranno i sanfranciscani, che gela l'acqua sulle coste. Scendiamo verso la città: un'isola di una trentina di grattacieli, su cui svetta una bianca piramide quadrilatera ad angolo acutissimo chiusa da una cuspide che ricorda la punta di un campanile alpino, galleggia su un mare di case basse, chiare, intervallate dalle chiazze verdi dei giardini e dalle macchie rosse dei pochi muri in mattoni. Ma é un mare mosso da grandi onde, come se sotto i palazzi la terra si divertisse ad arricciarsi prima di sparire sotto il blu cupo della baia dove le dita dei moli offrono appoggio a grandi navi che da lontano sembrano giocattoli: ad aumentare l'impressione di falso, larghe volute di strade sopraelevate nascono dalla radice del lunghissimo armonico ponte per Oakland e si avvolgono intorno all'isola di grattacieli. Oltre la linea chiara della città, a ovest, un grande promontorio verde dà piede al volo del ponte pensile più famoso del mondo: il Golden Gate, che disegna due grandi leggerissimi festoni in ferro rosso, simili all'onda stilizzata di un oscilloscopio. Siamo affascinati e gli occhi non si sazian di guardare. - San Francisco.- ripete pleonastico il sillabico Bruce. Scoppiamo a ridere. Sorride anche il dentista che capta la nostra emozione per la sua città e ne è orgoglioso. Credo lo faccia apposta a passare ai piedi della cascata fiorita di Lombard Street: non possiamo salire perché la strada è a senso unico a scendere. La Lombard è larga ma il suo pezzo finale precipita verso il mare con una pendenza eccessiva per le auto. Come si fa per superare il pendio troppo arduo di un monte, è stato tracciato nella sede stradale un sentiero ad ampie anse mattonato in cotto che, come un serpe rosso, collega la marina con la parte alta della Lombard. Le anse sono state trasformate in aiuole dense di fiori, alberelli fanno ombra alle rampe di scale che, su entrambi i lati della serpentina conducono i volenterosi in cima alla salita. Villette graziose dai grandi balconi fioriti fanno da quinta. E' di una bellezza da amore a prima vista, come la scala di Trinità dei Monti fiorita di azalee. Bruce è soddisfatto dell'effetto che ci ha fatto la Lombard e sembra un po' più disteso, ma non apre bocca. Infila una delle famose strade a saliscendi (chi non ricorda "Bullit" o "Le Strade di San Francisco"?) e fa arrampicare l'auto verso Filbert Street. Si ferma davanti ad una villetta di tre piani, color cilestrino, col tetto a punta. Tocca un telecomando e si apre la porta basculante del garage: la strada è ombreggiata da alberi fioriti e tutte le villette han l'aria di essere appena dipinte. Cerco di comunicare con Bruce con una domanda ironica: - Have you repainted all the city for our coming?- Bruce mi guarda serio, chissà se ho detto giusto, chissà se ha capito che voglio scherzare. Scuote la testa e risponde: - No.-Dalla villetta esce un ragazzo biondo di quattordici anni che ci corre incontro a mano tesa: è Jason e ci presenta la sorellina Leyla dai lunghi capelli sulle spalle e la madre Jean dall'aria chiara di nordeuropa. Ci aiutano con le valige, ci chiedono se abbiamo fatto buon viaggio, ci portano in casa e poi su per uno scalone in lucido noce americano fino alla camera degli ospiti: io e Mara dormiremo lì, invece Sciltian deve salire di un altro piano e dividerà la camera con Jason. I nostri anfitrioni si ritirano per permetterci di aprire le valige e rinfrescarci. Cambiati d'abito, lavati e profumati teniamo consulto nelle nostre stanze: sono le diciannove, ora locale, ora di dinner. Che dobbiamo fare? Scendere nel dining con l'aria di chi si aspetta di essere sfamato sembra invadente, andare a mangiar fuori sembra scortese, invitare Bruce e famiglia al ristorante può sembrare un modo per farsi dire "ma no, cenate con noi". Risolve Jason che spalanca la porta della nostra stanza e ci apostrofa in inglese masticando noccioline. Il senso della sua frase è: - Allora gente, in Italia non si cena? Giù, si sta raffreddando tutto!- Jason da baciare. Da adesso in poi è tutta discesa. Il grande gelo si scioglie gorgogliando in vino californiano, anche Jean, la moglie di Bruce, nordica e attorney, abbassa un poco le difese quando mi inoltro in una discussione accademica confrontando il diritto romano e napoleonico con la Common Law anglosassone. Io li capisco questi simpatici sanfranciscani che ci hanno accolto, sconosciuti e privi di titoli validi, nella loro casa avendo perfino rinunciato allo scambio per paura del terrorismo e implicita sfiducia nelle misure di sicurezza italiane. Guardo me e la mia famiglia coi loro occhi: ho detto loro che sono un writer, uno scrittore, screenwriter scrittore di cinema, di un cinema sconosciuto perché non ho mai scritto copioni né per DeSica né per Fellini. Fortuna che ho scritto "La Pupa del Gangster" recitato da Sofia Loren e Marcello Mastroianni. Si illuminano ai nomi dei nostri due attori più famosi, felici di poter darmi un segno di apprezzamento. La Sgnuffi si è presentata come attrice ma i film da protagonista li ha fatti con la mia regìa e non fanno pedigree. Può però vantare record negativi: ha detto no a Vadim e a Fellini. Anche lei riceve segni di apprezzamento. Sciltian si fa valere col suo inglese più sciolto e lega con Jason e Leyla, sghignazzano insieme accomunandoci: matusa, viventi sulle sponde di due diversi oceani. Un boato ruggente segna la fine del pasto: Jason ha fatto la bocca a tromba e ha emesso un pantagruelico rutto. La Sgnuffi resta con le passion fruit e panna a mezz'aria, allibita con occhi tondi come piedi di flute per champagne, io guardo Bruce e Jean che ammoniscono bonariamente il figlio con parole che corrono apposta per non farsi acchiappare da noi. Tuttavia il senso del rimprovero è che forse noi non siamo abituati. Jason ride e capisco che ha di nuovo ragione lui: ci ha detto che siamo di casa. Dopo cena Bruce, euforico e ciarliero, vuol recuperare l'orribile silenzio del nostro primo incontro e ci trascina sulle punte dei Twin Peaks: i due colli gemelli che si alzano appuntiti a dominare la città. Soffia un vento triestino: una bora gelata ci spinge al lasco verso il precipizio mentre Bruce ci indica i punti distintivi della San Francisco notturna. Ci attacchiamo al legno di un mancorrente, intirizziti e affascinati dallo spettacolo della grande baia festonata delle mille luci degli archi elegantissimi dei suoi ponti. Lontani i pochi grattacieli sembrano alberi di natale illuminati su un presepe di villette aggraziate in colori pastello, vittoriane, ornate di bow-window, cupolette, colonnine e balconcini, timpani isosceli con finestre quadrate perfettamente iscritte, allegre torrette tonde o quadrate o esagonali. C'è allegria nel vento freddo che soffia regolare su questa architettura della gioia. Non sembra America sembra come dovrebbe essere l'Europa. Si dorme bene a San Francisco il mese di agosto, con un leggero piumino d'oca e senza aria condizionata. Non c'è neanche l'impianto per il condizionamento dell'aria, ci pensa il vento che trae note basse e nenianti dai cavi d'acciaio che sorreggono il Golden Gate. Il giorno dopo alle sei del mattino Bruce e Jean sono in piedi e si cuociono un copioso breakfast. Jean prende l'auto e va al tribunale di Oakland, Bruce indossa maglietta e short e scatta nella corsa che lo porterà dopo tre miglia di saliscendi al suo studio di affermato dentista ai piedi della Piramide. Doccia, abiti professionali e drill in pugno per entrare nella bocca spalancata dei pazienti. Perforazioni in serie: lo studio è ricavato in un antico opificio in mattoni rossi di cui si sono conservate le travature e le alte volte, lo spazio è diviso in più salette, ognuna attrezzata con poltrona pieghevole, trapani, ultrasuoni, raggi X e ogni diavoleria tecnologica per aumentare la durata dei nostri denti e sorvegliata da due assistenti che preparano tutto e fanno aprire la bocca al cliente: a questo punto irrompe Bruce, the professor, che impugna il trapano e compie l'intervento. Acqua, sciacquo, salvietta e commenti sono di nuovo per gli assistenti perché Bruce è già entrato nel molare di un altro paziente. Così fino a mezzogiorno, poi un lunch leggero e bocche spalancate fino alle cinque quando il nostro bravo dentista si rimette maglietta e short e corre per tre miglia fino a Filbert Street. Bruce è alto e sottile ma quando coglie una lieve ironia italiana nel mio sguardo per il suo superefficientismo americano mi mostra delle foto di qualche anno prima dove appare un ciccione che gli assomiglia: era lui trenta chili fa. Ha ragione di correre! Jason si alza alle nove e ci prepara le frittelle sbattendo uova e farina che poi versa in stampi rotondi e arroventati: addolcite con miele e marmellata sono buonissime. Oggi siamo affidati a lui e a Leyla, saranno le nostre guide per la nostra prima giornata a San Francisco. Dietro la Filbert c'è la Union dove passano i bus per il centro. Uno ogni due minuti, belli puliti eleganti e con posti a sedere. Cari però: 1 dollaro e 25 cents che bisogna avere in change, ossia in monete che si infilano in una vaschetta trasparente sotto lo sguardo del driver che solo dopo averle valutate ne permette l'ingoio nelle viscere del bus. Jason ci fa scendere a Union Square: è la piazza cuore della città. In tutte le strade intorno si stende il paradiso dello shopping. Saliamo da Macy's, entriamo nelle cento boutique di artigianato, c'è molta roba indiana in cuoio e in legno e poi le solite offerte a prezzi stracciati di alta tecnologia giapponese e non. E' difficile convincere la Sgnuffi che quel bel telefono fatto con tubi fluorescenti colorati potrebbe non funzionare in Italia per via del tune o del pulse e che quella consolle per videogiochi avrà bisogno di 110 volts a 60 periodi mentre in Italia troverà un micidiale 220 volts a 50 periodi. La famiglia mi guarda con la perplessità degli ignoranti che temono di esser presi in giro con paroloni di falsa scienza, un po' come quando il medico chiama epistassi una perdita di sangue dal naso. La moda è quasi tutta made in Italy e scopriamo che, volendo, conviene comprar qui che in via Condotti a Roma, ma noi non vogliamo. Jason ci vuol stupire e con instancabile entusiasmo ci trotterella davanti spronandoci a muovere il culo. Ci porta vicino al mare là dove Market Street, che taglia tutta la città, si congiunge con la California Street lungo la quale si arrampica una vecchio tram a cavo che è la gioia dei turisti che fanno file lunghissime per salirci al capolinea. Jason ci fa l'occhietto e ci salta sopra alla penultima fermata: riusciamo perfino a sederci. Ma il giovane californiano non ci lascia prender fiato, questa è la terra del movimento: decine di pedalatori faticano su per le storiche salite, skate precipitano lungo le folli discese, camminatori ancheggianti si fan largo sugli ampi marciapiedi. Ci sono anche molti ancheggianti morbidi con calzini rossi di seta, brache di lamè, giacchette pastello attillate e tagliate in vita e morbidi cannoli di capelli vezzosamente raccolti da un lato del viso dipinto. Questi esercitano uno sport assai particolare, diffusissimo in tutto il mondo e in tutte le civiltà: però mai come ora questo loro sport particolare ha il sapore di una fregatura. Come ci dice un milanese greve, berlusconiano ante litteram, in cui ci imbattiamo davanti allo Hyatt Regency: "con l'AIDS, i pede se la son proprio presa nel culo." San Francisco è città libera e tollerante: qui c'è un intero quartiere, Castro, abitato da omosessuali, anche il sindaco è gay e molti malati di Aids vengono qui a morire. Eppure le strade son piene di una umanità vitale, felice. Le strade di NewYork traboccano disperazione, qui anche i pochi barboni che sostano al sole sulle panchine di Union Square, sembrano tanti Diogene alla ricerca dell'Uomo più che miserabili homeless. La realtà è nell'occhio di chi guarda, ma questa città ci fa vedere così e accoglie, sorridente, pulita, intelligente e bella. Jason e Leyla, in perpetua lite fra loro con veloci parole a mezza voce, ci guidano su e giù per i primi piani di cinque grattacieli che costituiscono un unicum uniti come sono fra loro da scale e passaggi aerei che permettono di passeggiare per alcuni chilometri tra grandi bar fioriti, ristoranti alla moda, centinaia di boutique che vendono scarpe italiane, vestiti italiani, gioielli italiani... Attraversiamo terrazzi grandi come piazze con splendida vista sulla baia, camminiamo lungo balconi larghi come viali con grandi alberi ombrosi che affondano le loro radici in giganteschi vasi e prendiamo un caffè espresso in un bar italiano dove troviamo anche un numero di Repubblica del giorno prima. Al livello strada, Jason si infila in un shop di articoli buffi, pieno di pupazzi e di scherzi: all'improvviso mi si para dinnanzi un uomo con l'impermeabile. - Look at!- grida Jason da qualche parte e il pupazzo a grandezza naturale spalanca di scatto il proprio impermeabile mostrando il suo personale bompresso di grandezza assolutamente innaturale. Leyla si ferma incantata a guardare un gadget cinese tutto fili colorati e girandole che pende dal soffitto: glielo regalo e mi sembra che il suo becchettare Jason diminuisca di intensità. Intanto lo scatenato californianino ci spinge su un bus promettendoci delizie in un posto che lui chiama "Pier thirtynine". Pier thirty nine significa letteralmente Molo 39. Dall'Embarcadero Center ci si arriva percorrendo il lungomare e i moli partono dal numero 1 e si sgranano dispari indicando prima verso Treasure Island, un isolona verde che dio ha messo in mezzo alla baia per permettere all'Oakland bridge di poggiarci un piede e all'esercito americano di farci una base, poi verso la disabitata ma severa Alcatraz. I moli dall'1 al 37 sono moli veri per carico e scarico merci, con grandi docks lindi e puliti da parere falsi e, come tutta la città, appena riverniciati. Il Molo 39 è invece una pura delizia. Camminiamo su quello che sembra il ponte di un'antica nave di giganti, attorniati da balconate fiorite, orchestrine allegre, gruppi di giocolieri e di funamboli, giostre coi cavallucci di legno della mia infanzia, botteghe specializzate in cose curiose: ce n'è uno che vende soltanto oggetti per persone mancine, un altro addobbi per Natale, c'è chi espone una gigantografia del Presidente degli Stati Uniti e fa fotografie in cui sembra che ti abbracci amichevolmente, c'è chi stampa finte copertine di Time e di altre riviste con le scritte e le foto scelte dal cliente e chi vende ostriche perlifere a "scatola chiusa". Una pubblicità invita a provare i terremoti di San Francisco e con un dollaro ti mostra gli effetti dei passati terremoti con proiezioni di fotografie e ricostruzioni mentre il pavimento ripete i movimenti ondulatori e sussultori dei vari cataclismi. Una voce morbida e bene impostata suggerisce la data e il grado della scala Richter. Nel 1906 bisogna agguantarsi ai mancorrenti per non cadere, poi sullo schermo stappano champagne e la voce si fa allegra, un po' brilla, e urla: - And now... the Big One!- "Quello Grande", come qui chiamano l'atteso terremoto che cambierà la faccia della California. Massimo della scala Richter! Il pavimento sussulta come un cavallo imbizzarrito e tutti ci abbracciamo per non cadere mentre sugli schermi i grattacieli crollano, le onde della baia abbattono le case vittoriane in un frastuono orribile da apocalisse, poi il pavimento ondeggia rabbiosamente facendoci rotolare qua e là in disperata ricerca di un appiglio mentre lo speaker urla la sua folle gaiezza levando il calice e inneggiando al terremoto che forse distruggerà la città prima della fine del secolo. Jason e Leyla si divertono del nostro sconcerto. La Sgnuffi vede la pubblicità di una coppa di gelato, molto ricca e ornata e ne ordina una, il cameriere le sussurra una precisazione che lei non capisce e insiste nel suo ordine: quella coppa lì! Ce la portano: ha le dimensioni di un portafrutta con dentro due chili di gelato. A pancia fredda, ci sediamo sull'estremità di questo piacevole Molo 39 a guardare il tramonto. Alcuni pellicani pescano coi loro becchi a borsa nell'onda molle che si esaurisce sciacquando contro i pilastri vellutati di verde che sorreggono il belvedere. Lo sguardo va oltre l'arco nero controluce del Golden Gate e vaga nella bassa foschia dell'immensità del Pacifico appena intuito sentendo di guardare dentro se stessi. I grandi spi di una regata, gonfi di vento, passano sotto il ponte veleggiando nel barbaglio di rame che il sole trae dalla baia. I colori a strisce e spicchi delle grandi pance piene d'aria si stingono allo spegnersi del giorno. La foschia si inspessisce e si fa viola, si perde il senso del posto e del tempo. Raffiche fredde asciugano gli occhi e i gracchi dei gabbiani sono la dissonante casualità degli eventi del mondo. Sale la nebbia a soffocare il ponte mentre il sole muore con un urlo verde. Fa freddo e le giostre hanno acceso le luci. Jason decide che é ora di tornare a casa. Siamo così gonfi di emozione e di filosofia che non parliamo fin dopo la doccia. Bruce e Jean hanno organizzato un party per presentarci i loro amici. La Sgnuffi si veste da schianto, Sciltian da signorino in cravatta e io faccio del mio meglio pescando una maglia bianca a collo alto da mettere sotto il mio unico completo scuro. Non guardo i vestiti ma le persone, ma a volte si è obbligati a sottoporsi al giudizio del costume: spero che Bruce e Jean siano contenti di noi. Ci sono anche Jerry e Gloria e facciamo ridere Bruce e Jean raccontandogli la nostra cena romana, poi facciamo ridere Gloria e Jerry raccontando il silenzio di Bruce dall'aeroporto fino a casa. Adesso ride anche Bruce e ammette che al primo impatto è un po' "shy". I party americani hanno qualcosa di scientifico: ogni persona si fa un punto d'onore di conversare almeno cinque minuti con ognuno degli ospiti. Siamo una quarantina nel grande soggiorno di Bruce, fate il conto, se sapete, delle combinazioni possibili per gruppetti di quattro cinque persone. Stiamo tutti in piedi lasciando sedie e poltrone vuote, beviamo spumanti californiani migliori dello champagne in flute di vetro e mangiamo in piatti di ceramica con posate inox. Anche in questo San Francisco è Europa però qui non fuma più nessuno. La sigaretta è considerata roba da poveri di spirito. Si parla di cinema pensando di farci piacere. Tutti conoscono "Filini", la Lollo, Sofia Loren, Mastroianni, De Sica e Rossano Brazzi. Qualcuno arriva fino a Sergio Leone. La Sgnuffi tiene banco parlando con molta confidenza della Magnani con cui ha recitato in "Risate di gioia", della Gina eterna con cui ha recitato in "Venere Imperiale" e di Marcello e Sofia con cui ha recitato in "Matrimonio all'italiana". Io faccio lo schivo, "sì, ho scritto per Sofia... Anche un paio di film per Leone... l'emozione più grande? Ascoltare Henry Fonda che recitava le mie battute ne - Il mio nome è Nessuno -." Sono fortunato: "My name is Nobody" lo hanno appena dato per sei mattine consecutive in TV. Mi parlano di Lucas e della sua impresa a Lucas Valley, posto che ha scelto perché casualmente portava già il suo nome e dei grandi computer grafici usati per i film di fantascienza. Sono molto interessato ai computer. Il primo me lo sono costruito negli anni '70 con saldatore e schede di montaggio seguendo gli articoli di Nuova Elettronica. Mi ricordo l'amico Valerii che mi guardava con occhio critico mentre stavo "perdendo tempo" con quelle centinaia di stupidi condensatori colorati invece di lavorare al suo copione e scuotendo il capo mi diceva che i computer non sarebbero mai serviti a niente. E io gli rispondevo con una frase famosa "Anche i neonati non servono a niente, lasciali crescere…" Una signora si illumina sentendomi nominare sigle come il Cray 2 e mi trascina in un angolo del salone dove c'è l'unico ospite seduto che beve piano, lo sguardo perduto contro la parete. E' Paul, suo marito, professore di informatica a Berkeley. Mi presenta come grande esperto di computer. Paul non mi lascia il tempo di sminuirmi, si alza di scatto, l'occhio vivacissimo, e mi dice che ha dei problemi nella compressione delle immagini grafiche. Mi passa la paura, seguo bene il suo discorso e sono in grado di dire qualcosa di non completamente sciocco. Paul è felice, mi serve da bere e da mangiare, vuol sapere tutto dei miei "esperimenti". Gli parlo di un mio "adventure" interattivo e di un vago progetto tendente a trasformare un film oggettivo in un film interattivo, interfacciando il computer con un disco video e registrando molte sequenze della stessa azione in modo che lo spettatore, interrogato dallo schermo, possa dire quello che avrebbe fatto lui nelle vesti del protagonista e cambiare il corso della trama. Paul ha un'esclamazione all'Archimede quando aggiungo che si potrebbe girare il film lasciando il protagonista senza faccia montando nel bordo del monitor una telecamera in modo che riprenda il giocatore-spettatore inserendo la sua faccia sul corpo del protagonista per immedesimarlo di più nell'azione. Mi guarda come se fossi Leonardo, poi sospira e scuote il capo: è tipico degli italiani avere una cultura coranica con lampi di genio. - Koranic? Could you explain?- Mi guarda perplesso, poi decide che può osare. Secondo Paul di Berkeley noi chiamiamo colti quelli che han letto un po' di narrativa, di poesia e qualche saggio filosofico proprio come all'università di Teheran chiamano colto chi sa a memoria il Corano. Nella vita del ventesimo secolo sono povere scimmiette ammaestrate a schiacciare bottoni senza avere idea di quello fanno. Si chiamano umanisti, questi cultori delle idee dei morti, senza sospettare che gli umanisti erano uomini di scienza (filosofia naturale si diceva allora) che conoscevano il proprio tempo e che cercavano di ridare slancio al loro mondo radicandosi nelle filosofie precristiane per sottrarsi ad un condizionamento di secoli. Paul di Berkley si appassiona nella sua accusa: secondo lui i nostri "intellettuali" sono tra i più ignoranti del pianeta, scambiano la scienza con la tecnologia vantandosi di non capire nulla del funzionamento di un televisore e vivono come se la Terra fosse piatta e il sole trascinato da est a ovest dal povero Fetonte. I grandi problemi che la scienza è vicina a chiarire come la nascita dell'universo, l'origine della vita, le infinite forme del caos, l'evoluzione dell'intelligenza e che hanno tormentato le grandi menti antiche, quelle stesse che questi becchini credono di onorare, sono assolutamente fuori della portata dei loro neuroni, della loro cultura e dei loro interessi. Vivono in un mondo di chiacchiere e ci si avviluppano dentro come bologna. E io so che per lui "bologna" vuol dire mortadella. Mi guarda per vedere se mi sono offeso e io lo bacio in fronte: i nostri intellettuali sono molto fieri perché in Italia abbiamo il sessanta per cento delle bellezze artistiche del pianeta e non pensano mai che i loro artefici sono morti da secoli e che sopravvivono solo becchini. Paul annuisce triste: - I know, I know... you have the Coliseum...- mi guarda speranzoso e solleva il mignolo della mano destra contando all'americana: Roma ha il Colosseo, Atene ha il Partenone, l'Egitto le Piramidi... ma i tempi grandi erano quando gli italiani costruivano il Colosseo, gli ateniesi il Partenone e gli egiziani le Piramidi! - We hope we are building now our Coliseum, our Parthenon, our Pyramids! Get the picture? Now!- Mi viene alla mente lo scarpone di Neil Armstrong che cala sulla Luna: now! La mappatura del genoma umano: now! I frattali e la matematica del caos: now! Aristotile e Archimede, Pitagora e Platone, Leonardo e Galileo vivono oggi in qualche università americana non certo nelle chiacchiere degli esteti nostrani. Mi viene una gran voglia di andare a Berkeley. C'è un metrò che passa sotto la baia e che si chiama BART ma noi preferiamo guidare l'auto lasciataci da Bruce che è appena partito con la famiglia per i dintorni di Chicago lasciandoci padroni di casa. Berkeley è più festoso di Harvard, californiano. Anche più scostumato da quel che si legge sui vetri delle finestre dei dormitori: lesbian club, here gays, multisex e, assai peggio, pubblicità alla droga con scritte come harpoons (siringhe), goof butt (marijuana), chokers (sigarette con cocaina). Il grande cortile dell'università è attraversato da gruppetti di ragazzi, quasi tutti alti biondi con occhi azzurri e da ragazze in tinta. Rare le sfumature sul bruno, più comuni quelle sul giallo. Ridono, scherzano, parlano a voce alta. Mi sembra di essere in un film anni cinquanta. Mi metto in fila alla mensa insieme a Sciltian: lui col cappelletto dei Red Socks, io con la maglietta California University. Mi illudo di essere scambiato per qualche tutor un po' avanti negli anni... Riempiamo i vassoi e alla cassa mi fanno uno sconto: forse ci sono cascati. Mangiamo ad uno dei tavoli del cortile, in mezzo a un centinaio di studenti. Lasciatemi godere il mio ingenuo sogno per dieci minuti. Al risveglio noto che nessuno fuma, comico pensando che han smesso di fumare tabacco per uccidersi con le droghe. Facciamo un giro per la città che è tutta dedicata all'università: scarpe, vestiti, arte, tecnica e grandi librerie zeppe di testi universitari. Mentre Sciltian sceglie le sue inesorabili cartoline, sfoglio qualche libro di matematica: sono allegri, colorati e chiarissimi. Chiunque può imparare che cosa sono i logaritmi in dieci minuti senza neppure comprare il libro, il concetto di entropia quasi sempre sconosciuto alla gran parte dei nostri studenti e dei loro insegnanti, qui è reso evidente con disegnini tipo sillabario. Gli autori di questi libri vogliono davvero insegnare, farsi capire e non dimostrare ai colleghi come sono bravi. Mi ricordo il mio primo esame di matematica generale all'università di Torino: dovetti studiare sulle dispense del professor Giaccardi che avrebbe reso incomprensibile anche un'addizione a una cifra, immaginate che cosa aveva fatto con l'analisi matematica! Anche i libri di Sciltian sono pieni di quei famosi "da cui" secondo i quali si dovrebbe passare da una formula ad un'altra totalmente diversa a colpo d'occhio. Andiamo a far la spesa: questo è uno dei momenti magici per noi scambisti. Diventiamo americani a tutti gli effetti, dobbiamo preoccuparci del latte, del pane, del sugo e di quella lampadina che si è bruciata all'ingresso. Dà godimento diventare americani? Dà godimento diventare "altri", vivere per un mese come se si fosse "altri". E' il fascino di chi recita e di scrivere storie: diventare altri per un po' aiuta poi ad essere davvero se stessi. Oggi Gloria e Jerry hanno scuola di sesso. Una cosa seria da ventimila dollari a corso. Il primo corso di coppia consiste nella scoperta del clitoride psicologico. La moglie si piazza a gambe larghe davanti alla scolaresca e il marito la titilla alla ricerca del punto di massima voluttà. Leggo nel programma dell'advanced class che l'istruttore porterà gli allievi ad orgasmi valutabili in decine di minuti. Un occhicerchiato giovanotto mi spiega che tutti possono giocare a tennis se si intende per tennis colpire una palla con una racchetta, ma pochi possono giocare a Wimbledon. Gli batto una paterna pacca su una spalla: non m'interessa scopare a Wimbledon. Scendiamo ridendo le vertiginose discese che dalla Filbert portano a Marina, il quartiere elegante sulla baia. Alcune sono davvero difficili da percorre senza cadere in avanti. Davanti alla baia, col Golden Gate sulla sinistra, c'è un prato verde lungo un chilometro. Qualcuno gioca a pallavolo, altri a calcio, non quello americano, il soccer, il nostro calcio. Sciltian si unisce subito ai ragazzotti e dà lezioni: siamo ancora campioni del mondo! Io chiedo se posso fare qualche salto a pallavolo e vengo accettato con un sorriso. La Sgnuffi naso all'aria guarda deliziata gli enormi aquiloni colorati che decine di esperti manovrano con fili di lunghezza infinita. Più tardi ci facciamo un hot dog seduti sulle panchine lungo la baia, ammirando due diverse regate di derive che filano sull'acqua come siluri: mare piatto e vento forte e costante, una pacchia per la vela. Ci sdraiamo sull'erba: il cielo si contorce in un groviglio di nuvole colorate, il sole è caldo ma l'aria ci accarezza con mano lieve e fresca, ragazzi giocano allegri sul prato e dopo cento metri di verde la fila delle villette vittoriane celesti, gialle, rosa, fucsia sono uno scenario da fiaba: tempo férmati, qui ne vale la pena. Il quinto giorno siamo ormai totalmente entusiasti di San Francisco e andiamo all'aeroporto a prendere il resto della famiglia inalberando un grande cartello che recita: Gastaldi's & Bragalia's welcome! Stanchi dal viaggio, confusi dal salto dei fusi, Amarilli e Riccardo trascinano la loro catena di bagagli portando in braccio i miei due nipotini. - Com'è?- ci chiede Riccardo dando un'occhiata intorno. Non vogliamo rispondere. Zitti come Bruce aspettiamo che scopra da solo quanto è bella la "nostra" San Francisco. Guido l'auto con lentezza sapiente, rallentando davanti alla Lombard per farli esclamare di stupore, corro lungo Marina per sbalordire Amarilli diplomata al liceo artistico, li porto ai piedi del grande Golden Gate tra i grossi fiori da cui partono le putrelle di ferro per conquistarli definitivamente con l'oro del tramonto. - Porca miseria...- balbetta Riccardo- Ma questa è la città più bella del mondo!-Godiamo San Francisco per tre settimane: dalle patriottiche composizioni floreali del Golden Gate Park alla realtà quasi virtuale di una corsa in macchina a trecento all'ora attraverso la città, con curve e salti da far sembrare "Bullit" un film di lumache paralitiche; dalle strade di Castro, dove anche le case sono gay, alla cima di Tamalpais che domina la baia a nord del ponte. Facciamo un esagerato shopping a China Town, la più grande comunità cinese all'estero, in mezzo a dragoni e pagode, dove una vestaglia ricamata di seta pura costa come uno slip di cotone all’UPIM di viale Libia a Roma ma una borsa di tela per portar via gli acquisti costa come una Louis Witton ed é altrettanto ignobile. Ci fotografiamo davanti ai grandi cani di pietra che sorvegliano l'ingresso della città cinese e curiosiamo nei vicoli dove migliaia di "schiavi" dai volti uguali tagliano e vagliano, impagliano e impastano, cuciono e cuociono, per un giaciglio e un piatto di riso. Andiamo all'Exploratorium a fare esperimenti insieme a torme di bambini divertendoci con quelle leggi che a scuola erano così barbose: gravità, ottica, elettro- magnetismo, entropia, probabilità. Pressione e spazio curvo sono spettacolarizzati da clown e belle ragazze con palloncini che si gonfiano e si sgonfiano al cambiare della temperatura: penosi vermetti quando immersi nella neve carbonica e di nuovo turgidi pìspoli appena fuori dal freddo, rotolanti poi in larghe spirali verso il fondo di un imbuto creato da una sfera di acciaio che distorce uno spazio di gomma. Così i bimbetti americani conoscono il mondo più dei nostri accademici della chiacchiera. Di là dal ponte d'oro una foresta di sequoia, immense come i boschi dell'infanzia, ci dà lo sgomento di Pollicino mentre ghirigoriamo in macchina su sentieri asfaltati in mezzo a radici da orchi per andare a pranzo nella villa di marzapane di Jerry e Gloria, a San Rafael. Arriviamo affannati alla meta (ma come ci pentiremo al ritorno, nel buio, di non aver seminato mollichine!) e ci affacciamo alla famosa window-picture godendo finalmente in diretta il poetico panorama di vigne stese sulle valli di Sonoma e di Napa, fino alla grande baia che tremola all'orizzonte per l'aria bollente del deserto. Dopo una mangiata californiana e una bevuta di autentico barolo locale, ci tuffiamo nella piscina olimpica sospesa nel vuoto, oltre il pendio del giardino, circondata da un piazzale di legno scuro. Scherziamo con ospiti gay tutti moine e carezze, insensibili ai nostri volgari commenti latini, immemori del detto spagnolo che dice "pones un dedo al culo a un ninio italiano: si llora es un tenor, si no llora es una marica"... e nessuno di noi é tenore. Ridiamo di un'allupata amica di Gloria che si sente molto sexy facendo l'occhio da pesce al bel Riccardo, succhiandosi le dita e sussurrando "delicious!" con voluttà che sa di sole, sabbia e cavalloni. Sorvoliamo la prigione di Alcatraz in elicottero, ci allunghiamo a nord fino all'altissimo lago Tahoe, dove passò gli ultimi giorni della sua vita Marilyn Monroe dopo l'ignobile stupro dell'aborto forzato per uccidere il Kennedy che aveva nel ventre. Qui si scia di inverno e si fa il bagno d'estate, in acque da bere, fredde e profonde, chiuse tra montagne fitte di boschi e può capitare di sentire la voce del vecchio Frankie che canta "My way". Da quel che si racconta qui non é stato un gran bel way. Dal verde scuro di un paesaggio alpino al giallo ocra di uno sahariano: scendiamo in pochi minuti a Rino, Nevada, dove si può cambiar moglie ogni mezz'ora e migliaia di pensionati con le mani nere di ossido infilano ossessivi nichelini nelle slot machine. home torna all'indice del libro torna all'indice generale
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