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                            La mia America

 

CAPITOLO IX

TRE GIORNI A NEW YORK

Il possente autobus con bagno si rompe a metà strada tra Boston e NewYork e siamo salvati dal pullman seguente dopo un'ora di naufragio. Viaggiamo in piedi sogghignando in complicità con una coppia di milanesi sbracata sui legittimi sedili del mezzo salvatore.

Siamo stanchi quando il bus imbocca la Fifth Avenue ad Harlem.

- Siamo nella Quinta Strada.- dico con aria paciosa alla Sgnuffi che subito si eccita e si spencola in avanti, inarcando la schiena, con palese interesse dei maschi di prima fila.

Fuori scorrono casette di mattoni rossi in avanzato stato di degrado con nugoli di ragazzini neri che giocano sui marciapiedi. Grasse matrone d'ebano sudato debordano da sgabelli posti sulla soglia di negozi o di bassi alla napoletana. Ovunque negri vanno e vengono non parlando di Michelangelo.

- La strada é più larga ma sembra un po' a Vico Secondo di Porta Piccola a Monte Calvario...-

La Sgnuffi, che odia Napoli e il vicolo in cui ha passato gli anni dell'adolescenza, mi lancia un'occhiata indagatrice, ha il dubbio che, come dice sempre in questo nuovo continente, io le stia tirando le gambe, che da queste parti sta per "prendere in giro" e pare derivi dall'uso gioviale di tirare le gambe agli impiccati che venivano lasciati ciondolare dopo le esecuzioni.

- Don't pull my legs! Questa non è la Quinta!- sbuffa la mia bionda metà raddrizzandosi. Richiamo la sua attenzione su una palina stradale che proclama "Fifth Avenue".

Resta a guardare senza commento, i suoi occhi vagano sui tetti bassi delle villette rosse alla ricerca dei famosi grattacieli e si riempiono di un dubbio angoscioso: possibile che gli altissimi palazzi, Times Square, i fasti del Metropolitan siano stati soltanto propaganda?

Nella sua irrazionalità la Sgnuffi crede solo a quello che vede: questa è NewYork e questa è la sua miserabile Quinta Strada.

La sua delusione è cosi feroce che mi muove a compassione e le spiego che la Quinta inizia ad Harlem ma il suo tratto famoso è dopo Central Park.

Il bus costeggia il verde del grande Parco e, oltre gli alberi, riflettono il sole le mille finestre dei grattacieli.

La Sgnuffi lancia un grido di gioia:

-NewYork!-

Il bus ci lascia in una megastazione puzzolente di gas di scarico a far la fila per salire su un taxi. Spaesati emigranti con una catasta di borse e valigie, spingiamo avanti l’unicorno e le masserizie finché arriva il nostro turno: una lunga auto gialla accosta al marciapiede, al volante un robusto negrone mastica qualcosa e mi dà un’occhiata distratta tenendo le mani sul cerchio.

C’è un’afa da stalla d’agosto. L'aria , già respirata troppe volte, non soddisfa i polmoni.

Guardo il tassista immobile dietro i vetri alzati. Trascino il mio carico verso il posteriore della lunga Cadillac e apro il bagagliaio. Sciltian mi aiuta a stivare le valigie della Sgnuffi che ci guarda da dietro il grande unicorno bianco.

Apro le portiere ed entriamo nel gelo polare del taxi che ha il condizionatore al massimo. Starnuto con violenza e mostro agli occhi bovini dell'autista il voucher col nome dell'hotel. Annuisce e partiamo.

Torniamo verso Central Park, su per la Broadway, giriamo Per la 57esima e ci fermiamo davanti all’ Holiday Il tassametro segna tre dollari e novantacinque cents. Do al tassista una banconota da Cinque. Il grande uomo nero sorride con una bella esposizione di avorio:

-Thank you, sir.-

Scuoto la testa e tendo la mano, lo fisso negli occhi e scandisco:

-The day is hot and the baggage is heavy. Give me one dollar and five cents, please.-

Resta un attimo sospeso, forse il mio accento distorce il senso delle parole poi sghignazza e mi dà sia il dollaro che i cents.

Scendo e scarico, e lui non si muove continuando a ridere.

Mi diventa simpatico questo negrone colossale: anch'io non muoverei il culo per spostare le faraoniche valigie della Sgnuffi per un dollaro e cinque cents.

Entriamo nell'hotel dopo aver misurato con un'occhiata la sua vertiginosa altezza. Nella agorafobica hall dagli svettanti pilastri si muove una folla cosmopolita: tutti sanno dove andare e ci vanno sorridendo e ciarlando i cento lingue che forse è sempre inglese.

- Dobbiamo passare al check-in...- sussurra Sciltian come suggerimento al vecchio padre rincoglionito e a me viene di pensare al Cecchin, un veneto con cui giocavo a pallacanestro nei tempi beati. "Passa al Cecchin!" mi urlava l'allenatore dalla panchina...

- One room for tree-. Mi guarda strano il pallido impiegato da dietro il marmoreo banco.

- Hai chiesto una stanza per un albero.- mi sussurra il paziente figlio. Alzo le dita come Cristo e ripeto:

- For tree.- Il pallidone é sempre più confuso.

- For two?- mi chiede con faccia da schiaffi. Mara mi sibila qualcosa di troppo

sommesso e Sciltian si appoggia, stanco, al suo papà e alla sua mamma.

Il movimento del cucciolo illumina la mente bionda dell'impiegato che storce la sua faccia brufolosa in un sorriso di sufficienza:

- Gosh, for "three" people!- e alza indice, anulare e medio.

- Sì, due pìpoli e una pìpola. Il monocornuto bianco non dorme mai.- commento accorgendomi che "brufolini" occhieggia adesso la Sgnuffi abbracciata al suo unicorno.

Dodicesimo piano, piano basso per NewYork, con veduta su un garage. Nella stanza ci sono due letti matrimoniali, king size, misura da re, come imparerò col tempo.

Ci buttiamo ad angelo con gridolini di sollievo: vasti lettoni comodi, soffice moquette sul pavimento, lussuoso bagno con lavabo, vasca e doccia.

- Manca il bidet.- nota la Sgnuffi delusa.

Siamo a NewYork, ombelico del mondo, e abbiamo solo tre giorni, non possiamo sprecare tempo prezioso a letto! Tutti sotto la doccia bollente e poi via, lungo le famosissime strade della megalopoli.

All'angolo della Eight Avenue dichiaro con bella sicurezza che dobbiamo attraversare perché la prossima sarà la Broadway e, seguendola, scenderemo nel cuore di Manhattan. Il semaforo ordina "Walk!". Afferro Sciltian con la destra e la Sgnuffi con la sinistra e affrontiamo la traversata.

Trotta trotta, siamo appena al centro della vasta pista, sgambettanti davanti ad un mare compatto di taxi allineati per ventiquattro sulla linea dello stop, i motori ruggenti impazienza, che il semaforo ci sollecita imperioso: "WALK! WALK! WALK!" e poi, schizofrenico cambia idea e dichiara "DON'T WALK!". Non uocchiamo più, galoppiamo nel disperato tentativo di salvare le gambe perch6 i mille taxi son scattati massicci in avanti come gialli scudi compatti di una tartaruga d'ariete.

Ci aggrappiamo al marciapiede opposto, naufraghi che han salvato i calcagni dagli squali. Guardo moglie e figlio ansanti e chioso:

-Senza pietà. E' la legge della giungla d'asfalto.-

Ripresosi dallo spavento, Sciltian si guarda intorno cercando un negozio dove vendano cartoline. A Boston ne ha comprato tre dozzine e le ha mandate a tutti i compagni di scuola. Ci incamminiamo in mezzo alla folla

di Broadway. Si son date appuntamento qui tutte le razze del pianeta e tutti i possibili incroci. Due fiumi di gente scorrono davanti ai negozi e gorghi di facce ruotano intorno a una vetrina o si chetano in uno slargo in una reazione alchemica di fusione e commistione: il rapido susseguirsi di facce bianche e nere danno una sensazione mulatta, quelle indiane alternate alle chiare e alle scure si fondono in arcobaleni meticci. Facce gialle, bronzee, albine, ramate, dal nero caff6 al bianco latte si alternano veloci venendomi addosso come spume di cateratte. Rossi irlandesi, bruni italiani, pallidi polacchi, lentigginosi inglesi, spilungoni scandinavi, minuscoli orientali, paffuti olandesi e butterati portoricani, grassi, magri, coi capelli ricci e lisci, a treccine o a glomeruli, lasciano nella memoria creoli di ogni colore,

E' il melting pot al lavoro, ma una lunga sequenza di irlandesi inconfondibili, un serrato gruppo di cinesi' tutti uguali e famiglie nere dai riflessi lilla urlano una diversità insuperabile. E' proprio di NewYork mostrare una cosa e il suo contrario.

Postcards venticinque cents each. Sciltian con due dollari crede di poterne avere otto ma la cassiera pretende otto e sessantacinque. Qui l’IVA la aggiungono alla cassa.

Venti metri più in giù c’è un grande cartello: dodici cards per un dollaro. Non rimprovero Sciltian per la sua impazienza, si arrabbia da solo.

Nel negozio seguente le cards costano quaranta centesimi l'una. Anche questo insegna NewYork: la libertà non ha bisogno di logica. Ogni negozio offre un paio di articoli a prezzi bassissimi per invogliare la gente ad entrare. Si può comprare tutto per niente girando due dozzine di negozi. Incrociamo decine di frettolosi yuppies elegantissimi e donne fasciate in costosissimi abiti italiani che scavalcano barboni accucciati con le loro proprietà nelle rientranze architettoniche dei grattacieli che incombono dando vertigine e mal di mare.

In una vetrina piena di bracciali d'oro, commessi rovistano cercando quello adatto al polso di un'indossatrice watussa e al di qua del vetro un uomo nero di sporco sceglie con cura qualcosa da mangiare nel cassonetto delle immondizie.

La Sgnuffi vuol comprare delle T-shirt e prende nota dei prezzi: più si cammina più probabilità ci sono di trovare prezzi pia bassi. E' la legge di Gauss: non esiste il limite zero ma camminando all'infinito si troveranno T-shirt a una frazione di cent.

All'altezza di Times Square, un grande negozio le reclamizza a 1,95 each. La Sgnuffi esita ansimando: sarà il prezzo più basso?

- Compriamo al ritorno- suggerisco - scendiamo a Union Square, è a poco più di un miglio, lì ci sono negozi molto convenienti, poi con un altro migliotto arriviamo a Canal Street e giriamo per la West Broadway dove vi voglio mostrare Think Big. Vicino ci sono le torri gemelle del World Trade Center e ci andremo per goderci il panorama e mangiare un hamburger -. Sciltian mi fissa con occhioni pensosi:

- Daddy, quant'è un migliotto? -

- Queste son miglia terrestri, un chilometro e seicento metri circa.

- Vuoi dire che da qui all'hamburger ci sono ancora

quattro chilometri?-

- Più o meno, ma son quattro chilometri di NewYork!-

Sciltian guarda i palazzi di Times Square coperti dalle intelaiature delle grandi scritte luminose che la rendono rutilante di notte, ma di giorno la fan sembrare una scenografia vista da dietro e arriccia il naso:

- Okay Dad ... ma non dirmi che è la prima volta che vieni a New York...- e si avvia con le sue cartoline in mano.

Tra i grattacieli si aprono delle viuzze, delle rue strettissime dal fondo sempre umido perché il sole non arriva ad illuminare i loro selciati sconnessi e ingombri di scheletri arrugginiti di scale antincendio, griglie di sbocco di condizionatori polifemici, tubi enormi e misteriosi abbarbicati a muri di mattoni senza finestre, cose abbandonate e informi incrostate di sporco vecchio e punteggiate da bicchieroni nuovi di plastica semipieni di ghiaccio fuso e coca cola e da scatolette di cartone targate Mc Donald’s che, quando il vento soffia nella direzione giusta, si infila tra i grattacieli, le solleva come luridi aquiloni che si specchiano nelle più scintillanti splendide audaci pareti che mai abbia costruito l'uomo.

La Broadway è l'unica strada tragressiva di Manhattan in senso topografico perché attraversa in diagonale il monotono razionale reticolo ad angoli retti formato dalle avenue e dalle street, ed è un lunghissimo bazar: qui puoi comprare tutto, qualunque cosa venga coltivata o costruita sul pianeta, finisce in una di queste vetrine.

Compro uno zoom per la mia Canon, una scheda per il Commodore e la Sgnuffi una cintura messicana, un pareo melanesiano, una camicetta di seta cinese, un foulard francese, un paio di babbucce afgane e un sari indiano. Tutto con cinquanta dollari. Sono più preoccupato per il trasporto che per la spesa. Sciltian ha solo raddoppiato le cartoline.

Strusciamo i piedi su ogni minima gobba dell'asfalto e i nostri scatti agli imperiosi comandi dei semafori si son fatti pericolosamente lenti, quando guido la mia bionda e il mio pargolo giù per la West Broadway. Mi fermo davanti ad una vetrina occupata da uno spazzolino da denti lungo due metri con setole alte trenta centimetri. Sciltian lo guarda stupefatto e la Sgnuffi strilletta indicando una scatola di fiammiferi più alta di lei. Siamo a Think Big, il negozio dell'enorme.

E' divertente: si ha la sensazione di essere tornati piccoli. Una sedia col sedile che mi arriva alle spalle rimesta in ragnatele antiche facendo scorrere segnali lungo assoni dimenticati, metto le palme delle mani su quel sedile e guardo in su: là in alto, follemente in alto, c'era il sorriso amorevole della mamma.

Sciltian gioca con una palla da tennis grande il doppio di un pallone da calcio mentre la Sgnuffi è estasiata da un piumino per la cipria con cui potrebbe incipriarsi tutta in un colpo solo. Sorrido tranquillo: qui le cose son talmente grandi che l'irrazionalità baularia della mia bionda deve arrendersi.

In fondo alla West Broadway ci sono le due torri gemelle che hanno spodestato l'Empire State Building di ben cinque piani dal trono del più alto di NewYork.

I nuovi campioni sono parallelepipedi di vetro di vetro che sostengono il cielo come colonne di un tempio di giganti. Si svita la cervicale a guardarli dal basso. L'architetto deve essere quel tizio che usa lo spazzolino di Think Big.

Entriamo, gnomi ignobili in tanta grandezza. La hall, ampia come lo stadio olimpico, formicola di poveri terragnotti in attesa di elevazione. Ci accodiamo alla fila più corta davanti ai settantadue ascensori che trasportano questi pendolari del cielo.

Sciltian e la Sgnuffi hanno fame. Chiedo ad un gallonato se nelle torri ci sia un ristorante. Si fa ripetere due volte la domanda e poi mi avvolge con uno sguardo di dolce compassione:

- Twenty two, Sir-. Ventidue. Bene, lassù da qualche parte ci sono i nostri hamburger. Prendo un depliant e informo orgoglioso Sciltian che le torri hanno quarantatremila seicento finestre e circa sessantamila metri quadri di vetro e che in cinquantotto secondi saliremo fino al centosettesimo piano. Peccato che per entrare in uno degli elevatori dobbiamo far la fila per cinquantotto minuti.

Per tenere buono il figlioletto spiego che i visitatori giornalieri sono ottantamila e che cinquantamila persone lavorano nelle torri.

- Lavano i vetri, immagino...- commenta amaro il pargolo.

Manca il fiato e la gravità aumenta sensibilmente mentre il pavimento dell'ascensore preme sotto i piedi con forza bruta per farci schizzare in cima alla torre.

Usciamo dalla cabina-razzo con le gambe molli e un vuoto nello stomaco: intorno a noi una piazza coperta e chiusa da lastre di vetro che arrivano fino al pavimento.

Attraversiamo e andiamo a guardar giù: uno strapiombo da caduta mentale, da crampo ai testicoli e a distanza siderea stretti fondi di canyon punteggiati di giallo e di bianco con qualche macchiolina rossa: i colori dei taxi. Sciltian corre lungo le vetrate: da un lato si vede tanto mare con la statuina della Libertà che tende la sua

fiaccoluccia, da un altro i ponti di Brooklyn e di Manhattan, dal terzo il New Jersey, dal quarto la guglia dell'Empire State e la giungla delle cime dei grattacieli.

Ci sono alcune terrazze verdi sopra i palazzi: miliardari che hanno incollato finta erba sull'asfalto del tetto. Vicino all'Express Way stanno scavando le fondamenta per un nuovo grattacielo e tre pompe idrovore succhiano l’acqua marina che filtra dalla sabbia e trasforma lo scavo in un lago. Provo un senso di disagio al pensiero che questa megatorre ha i piedi nell'acqua.

Per saziare la famigliola evito il Windows on the World con la scusa che è richiesta la cravatta e ordino al self service tre doppi hamburger, tre porzioni di chicken nuggets, tre cartocci di patatine, tre milk shake e due caffé.

Come sempre dico "tree" invece di "three" e alzo tre dita come Cristo: pollice, indice e medio. Ottengo due hamburger, due chicken nugget, due patatine e due caffè.

Sciltian ha fame, anche la Sgnuffi ha fame, nessuno vuol dividere in tre le porzioni per due. Troppo giusto. Torno in fila e fisso i grandi occhi bianco-neri del mulattone che ha preso la mia ordinazione e scandisco:

- Three means two plus one!- e per "one" gli drizzo sotto il naso il mio dito medio rigido come il fallo di un cane in calore. Il mulattone trasale, mi guarda stupito e poi scoppia a ridere battendosi manate sulle cosce.

-Two plus one! Two plus one!- gorgoglia nella risata a cascata che non gli lascia il tempo per respirare. Tutti i boys e le girls del service fanno cerchio, ridendo per contagio prima ancora di sapere.

Raggiungo la famigliola al tavolo col vassoio colmo di buone cose e dieci bustine di salse di ogni continente. La giamaicana che mi ha servito piangendo dal ridere mi

ha mostrato come devo alzare le dita per significare tre: indice, medio e anulare. Il pollice qui non conta niente.

A pancia piena la stupenda vista non mozza più il fiato. Fuori dai vetri sigillati, sospesi sul baratro, in bilico su una passerella scarrucolante, due giovanotti color rame stanno lavando i vetri.

Sciltian li guarda affascinato, i due gli fanno un cenno di saluto e mimano un tuffo in quello spaventoso vuoto che hanno tutt'intorno.

- Pellirosse…- minimizza Sciltian – mi han detto che loro non soffrono di vertigini.-

- Poveracci, gli han levato tutto, che possono fare?- interloquisce la Sgnuffi dai grandi occhi da cerbiatta.

- Arrampicarsi sui vetri!- concludo cinico.

Ci sono cento shops sulla babelica torre e molte mostre di artigianato, di pittura, di scultura, da passarci l'intera giornata. Sciltian guarda estatico un computer che disegna, con migliaia di puntini, una faccia al centro di una banconota da un milione di dollari. Farsi ritrarre in questo modo costa dodici dollari, come il pranzo di tutta la famiglia, ma la grande banconota sarà supporto al ricordo di questo viaggio per decenni e lo mando a far l'ordinata fila degli aspiranti Paperon de' Paperoni.

E' quasi sera quando ci affidiamo di nuovo all'elevator che diventando un discendator leva il fiato: per alcuni secondi non sentiamo il pavimento sotto i piedi, caduta libera!

Usciamo nello sconfinato piazzale contenti come bambini schizzati fuori da una giostra divertente e terrorizzante, ridendo forte per scaricare la paura.

Piovicchia. Ci mettiamo alla caccia di un taxi. Fatica inutile: torme di yuppies escono dai grattacieli di Wall Street e dozzine di kamikaze si buttano sull'asfalto bagnato per acchiappare al volo le auto pubbliche che passano a stormi. Rinunciamo subito a ingarellarci con questi esperti newyorchesi.

La pioggia rinforza e scroscia feroce.

- Cerchiamo un negozio che venda ombrelli.- propongo stando al riparo delle tende di un grande magazzino. Nessuno si ferma accanto a noi, tutti camminano ignorando la pioggia. Sotto la cascata d'acqua che precipita sul fondo del canyon, tre signore elegantissime chiacchierano. La pioggia cola sui loro capelli, lava le loro facce, entra nei colletti, scivola a rivoli freddi giù per la schiena sfociando da sotto le gonne sul marciapiede. Ridono come se fosse un asciutto pomeriggio di primavera. Mi sento i reumatismi per simpatia.

- Terra di pionieri -sospiro- Selezione della razza, qui chi soffriva di reumatismi è morto prima di far figli.-

 

Noi che non siamo stati selezionati e non vogliamo fornire materia di selezione, corriamo coi depliant delle due torri sulla testa e schizziamo dentro un negozietto cinese che vende ombrelli per quattro dollari.

Arriviamo a Times Square che è buio. Non piove più, siamo bagnati perché gli ombrelli cinesi erano dei parasoli e si sono sciolti, fissiamo incantati le enormi insegne animate di pubblicità giapponese: ah, questa sì che è America!

Alziamo a fatica le scarpe bagnate. Indico alla Sgnuffi il cartello che annuncia la Cinquantesima: ancora sette street e siamo all'albergo. E' come camminare nel reticolo di una gigantesca battaglia navale: Cinquantasettesima angolo Ottava, colpito e affondato.

Mangiamo in ristorante cinese scegliendo pietanze fotografate a colori e numerate per facilitare le ordinazioni. Sciltian sceglie un cinque e un sette, io mi faccio un sei e un nove, la Sgnuffi opta per un otto. Da bere prendo il tredici e mi versano una bevanda rosata agrodolce che manda giù le alghe fritte e gli sconosciuti crostacei (non saranno insetti giganti?) in un lago di squisitezza.

Discutendo se i gamberetti abbiano le elittre e se le cieche siano distinguibili dai lombrichi quando vengono annegati in salsa d'arancio raggiungiamo i nostri king size all'Holiday Inn e ci addormentiamo parlando.

Da bambino sognavo i dinosauri e avventure in regioni sperdute dove i grossi rettili fossero sopravvissuti, nell'adolescenza il sogno divent6 viaggio nel tempo con balzi indietro di sessantacinque milioni di anni per assistere alla tragedia dei sauri cui forse un asteroide chiuse la strada verso l’intelligenza favorendo ignobili topinastri che cominciarono a rosicchiare la mela della conoscenza, quindi non mi perderei il Museo di Storia Naturale di NewYork neppure per una prima a Broadway e, con la Sgnuffi curiosa di passato, ascendo la scalinata monumentale trascinandomi dietro un recalcitrante figlio: chissà che sognano le nuove generazioni. Per noi italiani abituati a non andare nei nostri musei per l'imbecille incuria con cui sono tenuti, un museo americano è già un'esperienza di per sé. Fin dalla hall si ha una sensazione di festa, come nel foyer di un teatro dove va in scena uno spettacolo di successo. Gente eccitata e interessata sfoglia depliant e mappe, rigorosamente gratuiti, discutendo di itinerari e di padiglioni, come un operaio italiano che stia decidendo se passare le ferie alle Maldive o fare un salto ai Caraibi.

Un grande cartello avverte "Pay What You Wish", paga quel che vuoi. Entriamo mettendo cinque dollari nel cestone delle offerte, nessuno entra senza fare un'offerta: non e' civiltà?

Sulla rampa si legge una frase di benvenuto che voglio riportare per far capire Varia che si respira qui:

"Benvenuti al Museo Americano di Storia Naturale. Da ora tempo e spazio sono ai vostri comandi: potete viaggiare dalle Americhe all'Africa, al Sud Pacifico o farvi trasportare dall'età preistorica al dopodomani. Una visita nel Museo 6 un salto nel passato, nel futuro, nel mistero e nella bellezza."

Non vien voglia di entrare? In quello di Roma si legge "Aperto il lunedì, il mercoledì e il venerdì dalle 8,50 alle 11.15. Ingresso L. 8.000."

I dinosauri sono al quarto piano e cominciamo da loro. Prendiamo l’ascensore e usciamo sotto la mascella di un Tyrannosauro Rex spalancata a tre metri di altezza. Più in là un Diplodoco con un collo lungo tre volte quello di una giraffa e una coda della stessa misura mi guarda con la stolidità degli erbivori mentre un Plateosauro bipede mi fissa a braccia aperte in un gesto di invidia e di rassegnazione: forse da quelli come lui si sarebbe evoluto l’homosaurus sapiens sapiens.

Mentre io mi perdo nei miei sogni infantili, la Sgnuffi legge le grandi tavole a colori che illustrano l'habitat di quelle lontane ere come scimmieschi paleontologi riescono a immaginarselo concedendo lunghi e flessibili colli a quei lucertoloni che probabilmente erano rigidi come baccalà.

Sciltian sbadiglia facendo concorrenza alle fauci del tirannosauro: cartoni animati di robot giapponesi hanno riempito la sua infanzia e gli impediscono di fantasticare in questa direzione.

Scendiamo al terzo piano tra mammiferi e uccelli, che hanno ereditato la Terra. Lo scheletro degli uccelli dice che sono loro i pronipoti dei dinosauri.

E' buffo pensare che sul mio balcone di Roma cinguettino dozzine di passerosauri e che un merlosauro abbia fatto il nido fra i cespugli del parco, ma visti in soggettiva di lombrico i cari uccelletti riacquistano tutta l'atavica terribilità.

I grandi mammiferi imbalsamati testimoniano il nostro tempo e ci avvertono che un giorno qualche nuova razza potrebbe presentarci nudi sotto vetro, con tavole illustranti le nostre città piene di smog e intasate di macchine:

"Homo Stronzus Stronzus, vissuto due milioni di anni fa. La sua scomparsa si fa risalire ad un'esplosione demografica che lo ha fatto annegare nella propria merda."

Al secondo piano ci sono già degli Homo imbalsamati e collocati nel loro habitat ricostruito: africani, asiatici, aztechi, inca e maya. Inciviltà scomparse per mano di altre inciviltà.

Al primo piano insetti, minerali e gemme. La Sgnuffi resta dieci minuti a fissare un grosso diamante grezzo e ad immaginare che splendore di brillante potrebbe diventare. Sciltian si interessa un po' ai minerali e sbadiglia per la fame. Nel "basement" (le torri hanno radici profonde ventun metri....) c'è un ristorante popolare e ci facciamo servire il pranzo al tavolo per rompere l'economica praticissima abitudine dei "tree" hamburger.

A pancia piena si gradisce qualcosa di non faticoso: é questo il momento giusto per godere delle "facilities" che oggi offre il Museo: la proiezione su schermo avvolgente dello spettacolo NaturaMax.

E' lo schermo più grande di New York e proiettano bellissimi documentari su maestosità della natura. Per entrare si paga tre dollari, ragazzi metà prezzo.

Il Planetarium per me è la favola finale. Mi abbandono sulla poltrona inclinata e m'è dolce naufragare fra l'infinità delle galassie.

Come dice la pubblicità del museo, tempo e spazio sono ai miei comandi e la mia condizione di Homo Stronzus che vive per un attimo su una scoria che ruota intorno ad una palla di idrogeno di media grandezza in fusione nucleare situata nella semiperiferia di un'ordinaria galassia a spirale, componente banale di un ammasso di galassie, legato in uno dei tanti superammassi indistinguibile nel mare di miliardi di superammassi di galassie che ricama il buio della nostra bolla d'universo, mi piomba addosso con evidenza concreta e mi fa sentire mirabile e miserabile accidente di carbonio che il caso ha costruito giocando con lunghe molecole come un bambino con le carte, destinato a cadere e svanire al primo soffio di tempo o tremore di spazio e insieme, per rimbalzo di coscienza, un aspirante dio traboccante orgoglio perché posso abbracciare col pensiero tanta immensità.

Il terzo giorno a NewYork é per Central Park, gli hot dog squisitissimi e l'empire State Building, vecchiotto e battuto in altezza e volumi ma con il fascino degli anni folli e di King Kong. Il gorillone salta davanti a Sciltian appena uscito dall'ascensore facendoci sobbalzare: la bestiola, alta due metri e mezzo con un torace largo uno, allunga una manona per accarezzargli la testa. Passato il momento di paura, ridiamo e scruto dentro la maschera dove brillano due occhietti neri e allegri. Sarà un pellerossa, un negro o un sudamericano? Potrebbe perfino essere un italiano, anche se i Taranto mi hanno garantito che oggi gli italoamericani non sono più i "dago" di qualche decennio fa e raramente fanno lavori umili.

Il buon gorilla si fa fotografare abbracciato con Sciltian ed è festeggiato da bambini intimiditi e ammirati: forse non è un lavoro umile.

Dal terrazzo dell'Empire, NewYork arriva in faccia in modo più diretto, senza la protezione dei grandi vetri del World Trade Center. Solo una ringhiera con acuminate punte rivolte verso l'interno per scoraggiare i suicidi, ci separa dal baratro fumigante. Guardo in basso e una piacevole ebbrezza di vertigine mi prende: è il fascino dell’abisso, come precisa la Sgnuffi scivolando con lieve zeppola sul suono "sc".

All’albergo è già tempo di check out e il biondastro mi chiede 256 dollari. Sventolo i voucher pagati a Roma e quello sorride da buttargli giù i denti:

-This is for taxes…" e sventola in risposta un foglietto in cui il sindaco della metropoli spiega agli ignari borseggiati come il comune di NewYork effettua lo scippo: un tanto per persona al giorno.

Forse è per questo che i musei possono essere gratuiti e aperti tutto il giorno…

 

CAPITOLO X

GREYHOUND

Torniamo alla stazione degli autobus con l'unicorno e i nostri bagagli stile Amundsen e alle diciotto partiamo per il profondo sud, destinazione Atlanta, o "Elèna" come la chiamano i suoi abitanti, imbarcati su di un lussuoso bus della Greyhound, il cui levriero in corsa è dipinto sulla fiancata metallizzata, e suggerisce scatto e velocità.

Il bus è comodo, sul fondo c'è una pulitissima profumata toilette in inox come quella degli aerei. Lo guida un ercole nero col cappelletto della ditta. I nostri compagni di viaggio sono per metà bianchi e per metà neri.

Mi siedo accanto ad un finestrino, deciso a dare una buona occhiata a questa parte di America. Il bus attraversa Manhattan e si infila sotto l'Hudson nel lunghissimo Holland Tunnel che collega NewYork con Jersey City. La Sgnuffi, che soffre di claustrofobia, ha attimi di angoscia pensando che sopra la sua testa scorre un fiume.

Torniamo alla luce nel New Jersey. Brutto posto, case squallide, terreni erbosi macchiati di acquitrini, grandi fabbriche fumose, capannoni, carcasse arrugginite della civiltà dei rifiuti. Il bus prende la statale numero 1, si tiene sulla corsia di estrema destra e stabilizza la propria velocità di crociera: 55 miglia, circa ottantotto chilometri orari. Questi sono i limiti di velocità dello Stato di New York e di tutti gli stati dell'Est: muoversi ad 88 chilometri l'ora su un'autostrada a dodici corsie dà la sensazione di essere fermi. Il levriero dipinto sulla fiancata si sarà messo comodo a sonnecchiare.

Mi consolo pensando che andando piano potrò vedere meglio questa fetta di States: alberi, boschetti, foreste, pianure verdi, ondulate colline disabitate e di nuovo alberi e alberi e alberi. L'unico segno della presenza dell'uomo sono le auto che lentamente ci sorpassano, infrangendo i limiti di velocità del dieci per cento, delitto tollerato dalla polizia stradale, che è l'altro segno di umanità su questo mississippi d'asfalto che attraversa selve mai abitate. Ogni ventina di miglia scorgo un'auto bianca e blu appostata fra i cespugli oltre il guardrail, oppure una coppia di agenti in moto pronti a scattare, ma spesso sono finti: spaventapasseri per uccelloni motorizzati.

Il sole cala sulle cime altissime degli alberi che hanno chiuso intorno alla highway ogni possibilità di panorama.

La prima fermata é alla periferia di Trenton: pochi minuti di sosta e via verso Filadelfia. Qualche passeggero bianco è sceso, qualche passeggero nero è salito. Sciltian si é appisolato e la Sgnuffi mi lancia un sorriso in cerca di incoraggiamento:

- Manca molto?- mi chiede, sollevandosi dall'unicorno.

- Diciassette ore.- Abbassa le lunghe ciglia come una bambola messa bruscamente supina.

Filadelfia è ben illuminata, il bus infila un vialone con chilometri di prospettiva. Una molletta da bucato alta dieci metri fa monumento nella piazza del municipio, forse in ricordo dell'unico giorno in cui il signor Penn si lavò le mutande e le stese ad asciugare nel proprio giardino, la Penn...silvania appunto, dove costruì la "città degli amici". Mister Penn in oro tiene d'occhio la molletta dal sommo della City Hall.

Il bus sosta pochi minuti: gli ultimi bianchi scendono e altri neri salgono. Quando ci rimettiamo in moto, la biondissima Sgnuffi, il biondo Sciltian e il pelato io siamo gli unici esponenti della razza padrona, torturatrice e massacratrice di migliaia di poveri schiavi negri. Adesso i loro figli ci guardano.

Un senso di disagio coglie me e la Sgnuffi mentre Sciltian, annullato dal sonno, non avverte l'aria di pericolo. Studio le facce dei miei compagni di viaggio e scopro la radice del razzismo. Queste facce d'ebano, queste labbra carnose, questi nasi camusi piantati fra muscoli facciali dai movimenti sconosciuti, non mi dicono niente. Siamo abituati a farci un'idea del nostro prossimo alla prima occhiata: quello è un impiegato, questo dev'essere un operaio, vicino a quell'altro è bene tenere una mano sul portafoglio, con quella signora elegante ci potrebbe scappare qualcosa, questa biondina non ha ancora scopato e quel vecchietto là dev'essere stato negli alpini. Molte di queste "idee" sono probabilmente sbagliate, ma le facce ci suggeriscono giudizi immediati: di questo mi fido e di quello no. Questa mi piace e quella no.

Invece queste sessanta facce nere non mi dicono nulla, se mi servisse aiuto non saprei a chi rivolgermi, non riesco a distinguere un possibile santo da un possibile assassino.

Questo dà una sottile angoscia che si sfoga in irritazione: ma perché non stanno a casa loro questi musi neri? Ma qui stanno a casa loro e i diversi siamo noi, maledetti musi bianchi.

A Baltimora qualcuno sale e qualcuno scende, tutti assolutamente neri. Sonnecchio tenendo l'animo alzato. E' quasi mezzanotte quando nel finestrino passa la Casa Bianca illuminata dal basso come il Colosseo, ma da luce bianchissima.

Sveglio Sciltian che apre un occhio: non guarda la Casa Bianca, guarda le facce tutte nere dei nostri compagni di viaggio. Gli sorrido rassicurante:

- Siamo gli unici bianchi. Su queste linee di lunga percorrenza viaggiano solo persone di colore.-

- Perché sono abituati a soffrire...- mi risponde il pargolo e resta con gli occhi sgranati sulle quelle facce inclassificabili.

Uno sguardo dal ponte sul Potomac, pochi minuti di fermata in una stazione anonima e Washington D.C. é già alle spalle. Puntiamo su Richmond, capitale della Virginia e la Sgnuffi mi sussurra che vorrebbe andare a lavarsi le mani, poiché anche la mia vescica manda segnali di protesta, vado in esplorazione alla toilette, lentamente, voltandomi spesso a controllare la macchia lunare dei capelli della compagna della mia vita nell'assoluto nero vivente di questo bus profumato di muschio emanato da pelli aliene. Mi accoglie un tanfo di orina: è la prima volta che trovo puzza in un cesso pubblico americano, vuoi vedere che anche qui scendendo al sud cala l'igiene? Subito dopo mi accorgo, a spese dei miei pantaloni, dell'impossibilità di centrare la tazza di un pullman sobbalzante e dondolante che fa venire il mal di mare.

Torno al mio posto e consiglio alla Sgnuffi di aspettare la prossima fermata. La luna trae riflessi d'argento dalle foglie degli alberi che fanno parete da entrambi i lati della strada, impenetrabili e impenetrate. Neanche i fari riescono a bucare queste muraglie verdi. Per vedere questa parte degli States ci dovrò tornare senza Greyhound.

Scivoliamo in stato comatoso. La Sgnuffi avverte una presenza troppo prossima, spalanca gli occhi e urla: a tre centimetri dal suo, il naso camuso di un giovane negro sottolineato da un sorriso d'avorio. Il bianco di due grandi occhi che la stanno esaminando non ha contorni nel buio della faccia e del pullman. Il giovane nero annuisce e si siede al suo posto lasciando nella donna bianca una fifa blu.

Il bus si ferma e tutti si alzano e scendono, autista compreso.

- Siamo arrivati?- mi chiede speranzoso Sciltian.

- No.- mi alzo. Sale un nuovo autista, più giovane e più nero. Mi faccio coraggio e gli chiedo con umile sorriso:

- Richmond?-

Spalanca la bocca e mi risponde senza chiuderla mai. A Boston parlano con la bocca sempre chiusa, a labbra ferme, qui a labbra ferme ma con la bocca sempre aperta. Detto così l'inglese diventa un'altra lingua.

Mi pare di afferrare un "yea" che dev'essere un "yes" e un "tueni" che può essere un "twenty".

Integrando con audacia spiego alla famiglia che siamo a Richmond e che ci fermeremo venti minuti. Balzo a terra e mi piego sulle gambe per sgranchirmele. Un braccio mi serra le spalle in una stretta amichevole ma poderosa. Un uomo nero più alto di me e con un'apertura toracica doppia, spalanca la bocca e mi parla. Ha una testata di capelli ricci e bianchissimi e le sopracciglia candide nel buio della faccia sembrano di cotone. La sua cantilena sorridente mi è incomprensibile. Racconta e ride e mi accompagna dentro la stazione. Chissà quali cose spassose mi sta dicendo ma non riesco neppure a captare l'argomento del suo racconto. Conclude e mi guarda, aspettandosi la mia risata.

- I'm italian. Sorry but I did not understand anything."

- Nadi?- mi chiede sgranando gli occhi. Suppongo voglia dire "nothing" e confermo:

- Nadi.-

Scoppia a ridere piegandosi sulle ginocchia. Mi guarda e ride, dà manate agli amici suoi e scroscia ripetendo "nadi, nadi". La risata si comunica agli altri e mi trovo al centro di un cerchio di denti d'avorio in buie bocche spalancate.

La famiglia vuol sapere perché il grande uomo nero mi abbia abbracciato, lo vorrei sapere anch'io e quindi preferisco incitarli alla soddisfazione dei loro bisogni corporali di input e di output.

Son quasi le tre di notte e il bar è chiuso, ma c'è un'intera parete di cassettine, simili a quelle per la posta nei nostri condomini, che mostrano cadaverini informi e incelofanati. Decidiamo per tre cheeseburger e con cinquanta cents per ogni cassettina veniamo in possesso di un reperto ibernato e dall'aspetto repellente.

Imitando i gesti dei nostri compagni di viaggio ci avviciniamo alla parete di fronte: una lunga fila di forni a microonde sono a disposizione del pubblico poggiati su mensole senza catene e lucchetti. I passeggeri ci infilano quelle ignobiltà surgelate e ne tiran fuori succulenti piatti fumanti. Li guardo incuriosito: quanto durerebbe un forno a microonde in una stazione di bianchissimi romani? Tra i miei neri compagni non ci sono né ladri né vandali, quindi probabilmente neanche assassini e stupratori.

Mettiamo nei forni le nostre mummie di panini e li ritiriamo gonfi e filanti formaggio che metton l’acquolina in bocca. Con settanta cents un distributore automatico mi spara una scatola di birra fresca e con altri venti la Sgnuffi apre la porta di una toilette pulita e profumata. Sciltian e io ci sorridiamo, i denti affondati nelle nostre squisitezze resuscitate: che meraviglia l'America!

Faccio due passi fuori dalla stazione: siamo in una zona anonima. Richmond mi ricorda i film sulla guerra di secessione: questa fu la capitale dei confederati, qui il generale Lee inflisse una dura sconfitta ai nordisti all'inizio della guerra prima di essere battuto dal generale Grant. Scrivendo film per Sergio Leone sono diventato un esperto della guerra civile americana.

Rassicurati sulla moralità dei nostri compagni di viaggio facciamo tutto un sonno fino a Charlotte, North Carolina, dove arriviamo all'alba. Appena si alza il sole fa caldo e nel bus si accende Varia condizionata. Attraversiamo la South Carolina e arriviamo ad Atlanta all'una del pomeriggio, freschi come una coca cola rimasta un mese al sole.

 

CAPITOLO XI

ATLANTA

Le ultime ore di Greyhound sono state una sofferenza: le gambe urlavano crampi, le reni lanciavano avvertimenti sinistri, il paesaggio al finestrino non era più verde né definito alle palle gonfie dei nostri occhi insonni e il colore dell'erba tendeva al bruciato come le nostre chiappe surriscaldate sui sedili di plastica.

Scendiamo barcollanti e recuperiamo dalla stiva dell'autobus i nostri sisifei bagagli. Non ho la forza di rifiutare l'aiuto di un giovanotto nero che pretende cinque dollari per farmi superare la rampa delle scale.

La hall della stazione dei pullman è all'americana: sterminata e piena di gente. Ci fermiamo gementi al centro, impecoriti. Dovrebbe esserci qualcuno mandato dagli Edwards. Ma nessuno inalbera cartelli, né mostra interesse per questo spilungone pelato che ha accanto una vamp bionda e un cucciolo.

Che si fa? Leggo la domanda negli sguardi disperati di chi ripone in me tutta la sua fiducia e mi dirigo con passo sicuro verso un drugstore: la prima cosa da fare non appena si arriva in una città sconosciuta é comprare una mappa. Ho l'indirizzo degli Edwards e troverò il nome della strada sulla carta per giudicare se è a portata di taxy o se dovremo salire su di un altro autobus. Lullwater è il nome della strada e lo trovo subito: è in una zona vicina al centro. Possiamo prendere un taxi. Ma sulla scalinata esterna ci vengono incontro due giovanottoni biondi dall'aria simpatica che mi puntano un dito contro:

- Mister Gastaldi?-

- O yea! Nice to meet you!-

Sono i figli degli Edwards e son rimasti a casa. Ci spiegano, muovendo le labbra, che non ci daranno fastidio poiché la villa ha un grande giardino in fondo al quale c'è una dependance e loro si son trasferiti là.

Nei pochi minuti d’auto dalla stazione alla loro casa, scherziamo sul nostro viaggio in bus. Ridono alla follia di diciannove ore di pullman quando sarebbero bastate due ore di aereo e non cerco neppure di spiegar loro che credevo in tal modo di vedere meglio l’America.

Fermano l’auto, una Saab 5000, davanti a una grande villa in stile coloniale, tipo Via col vento, con tanto di colonne, timpano triangolare e gran prato verdissimo rasato davanti.

Penso alla nostra villetta al Circeo dove ora i signori Edwards staranno fissando la piscinetta e spero che non siano troppo delusi.

Ci viene incontro uno strano cagnotto dal pelo unto che ricorda quello di una lontra o di un cinghialetto. Su un lato della casa, sotto una tettoia, c’è una zona parcheggio con alcune auto, un mezzo campo di pallacanestro e tutt’intorno una giungla tropicale.

Scendo dalla macchina e alzo la testa verso le cime inarrivabili di alberi immensi, legati fra loro da intricate ragnatele di liane, sovraccarichi di rampicanti fioriti, pascoli per farfallone variopinte e uccelletti dal volo frenetico. L’aria ha un profumo dolce e denso e il frinire di insetti sconosciuti, il richiamo di uccelli mai sentiti, il ronzare di calabroni colorato orchestrano suoni nuovi e inquietanti.

I due giovani ci fanno entrare nella villa moquettata, in un alone che battezziamo "degli argenti" per la profusione di candelabri, brocche, vassoi e coppe del nobile metallo. Il pavimento della vasta cucina è in plastica rossa, tutt’intorno il full-appliances statunitense dominato dal solito megafrigo. Sul tavolo alcuni foglietti di istruzione per la casa e per la città com'è buon uso fra scambisti, accompagnati da una bottiglia di vino di benvenuto. Dieci minuti buoni di lettura sull’american way of life.

Portiamo le nostre pesanti valigie su per la scala di legno impellicciata di moquette folta come erba non rasata ma di colore bianco accecante e ci fermiamo ansanti davanti alle stanze del piano superiore: ce ne sono quattro. La Sgnuffi e io prendiamo quella matrimoniale e Sciltian può scegliere.

Uno dei ragazzi mi indica una botola nel soffitto: se sentiremo dei rumori nel sottotetto non dovremo spaventarci, ci han fatto il nido delle volpi volanti.

-Oh le simpatiche volpi volanti! – commento nel mio inglese più sciolto. I due ragazzi ridono e scompaiono nella foresta vergine del giardino diretti verso l’invisibile dependance.

Abbiamo sete e apriamo il frigo che trabocca di provviste. Abbiamo anche fame e prendo nel freezer un filone di pane sigillato in una busta di plastica trasparente. Qualcosa si muove dentro la gelida busta: chiuso nel nylon brinato, insieme al pane, c’è una bestia lunga sette centimetri! La blocca stringendo il nylon sulla crosta del pane e chiamo a raccolta la famiglia: l’insetto gigante è rossastro e sembra l’assurdo ingrandimento di uno scarafaggio.

Discutiamo di entomologia: potrebbe essere un grillo? La Sgnuffi tremante di disgusto è pessimista: solo uno scarafaggio erculeo può sopravvivere in un freezer!

Sciltian propone di dargli una buona sgnaccata, ma lo dovrei fare sul pane e poi non riuscirei più a mangiare un panino per anni.

Individuo segni di elitre sul dorso della bestia: gli scarafaggi volano?

La Sgnuffi si stringe nelle spalle arretrando in preda alla nausea: forse al tempo degli amori…

L’amore può tutto, anche far volare scarafaggi grandi come aragoste.

Decido per la libertà: attraversiamo il prato ben rasato e libero la bestia sulle sponde di una roggia che costeggia la strada alberata della villa: lullwater, acqua cheta, ecco spiegato il nome della strada.

Mentre l’incredula bestia rossa schizza fuori dalla sua fredda prigione e sparisce fra i cespugli cercando gli amici a cui raccontare la sua avventura, torniamo in cucina e rileggiamo con maggiore attenzione le istruzioni dei signori Edwards: presa acqua, contatori e valvole, aria condizionata, washer e dryer nel basement, aspirapolveri, scope, cere e insetticidi nell’armadio in cucina, pianoforte, chitarre, tamburi, violini e clarinetti nella sala musica, provviste nel frigorifero a disposizione totale, dislocazione dei negozi e nei ristoranti tipici e il consiglio di visitare Lenox Square per captare il way of life di Atlanta.

In fondo all’ultimo dei fogli, scritto piccolo piccolo: gli scarafaggi qui sono un fatto della vita, se vi può consolare li abbiamo tutti in ugual misura.

La Sgnuffi lancia un urlo d’angoscia: lo scarafaggio è la sua bestia nera!

Minimizzo, ricordandole che qui son rossi ma mi tocca sentire per la centesima volta il racconto di quella volta che, ancora ragazza, avendo visto uno scarafaggio sulla propria gonna, spalancò la bocca per urlare senza riuscirci terrorizzando a morte suo padre che per lunghi minuti temette un attacco di epilessia.

D’ ora in poi dovrò sempre entrare in cucina per primo e ogni volta abbatterò almeno un paio di enormi blatte sostanti sul sacco dei rifiuti sotto il lavello: è la loro zona fatale come l'abbeveraggio per i cerbiatti e il leone sono io, munito di pesante ciabatta: il colpo dev'essere fulmineo e violento. I georgian beetles hanno dura corazza e scatto drogato Ben Johnson. Nel tentativo di distogliere la nauseata Sgnuffi dal problema scarafaggi intavolo una dotta dissertazione sull'etimo beetle reso famoso dai Beatles di Liverpool. Sono certo che tutta la colonia degli scarafaggi riunita sotto l'acquaio mi ascolta compiaciuta. Ma beetle vuol dire anche mazzuolo, i rossi di Atlanta sono avvisati.

Sul tavolo del salone degli argenti è aperto un antico librone foderato in cuoio. Sono decine di pagine fitte di grafie diverse con inchiostri dal seppia al nero. Le ultime righe son scritte con una biro e riassumono i fatti della vita dell'attuale famiglia Edwards, ma il diarione comincia nel 1762 quando il primo Edwards americano lo iniziò con la data di nascita del suo primo figlio e qualche frase circa il suo lavoro di sellaio a Boston, Massachusetts. Girando le pagine passano i decenni: a quel figlio ne seguirono altri, poi i loro matrimoni e le nascite dei loro figli. La morte di quel primo Edwards è segnata di mano del suo primogenito senza alcun commento. E lo stesso ha fatto pagine dopo il figlio del figlio...

Una cascata di vite racchiuse in poche annotazioni e in date succedentesi ritmicamente: tra nascite e matrimoni passando poco più di due decenni, il terzo e il quarto è dedicato alle nascite dei figli, il quinto e il sesto all'arrivo dei nipoti e alla morte. Pochi arrivano al settimo decennio. Nel 1870 un Edwards si trasferisce ad Atlanta, un nordista che scende al sud per approfittare del proprio vantaggio? Chissà.

Un secolo dopo l'altro, su quel libro, gli Edwards hanno scritto di essere venuti al mondo, aver procreato e di essersene andati: nascita, copula, morte, mentre nel mondo si passava dalla rivoluzione francese alla conquista della luna.

Il libro ha molte pagine bianche: quei due giovanottoni che mi hanno accolto nella loro casa scriveranno delle loro nozze, dei loro figli, dei figli dei figli e, chissà, di questo scambio casa con degli italiani, mentre il nuovo millennio starà passando.

E sotto l'acquaio, generazioni di scarafaggi si succederanno a ritmi più veloci ma con lo stesso significato finale.

Chiudo il librone e ne accarezzo il cuoio consunto: devo cancellare un altro pregiudizio, quello che gli americani siano un popolo senza tradizioni. Chi di noi sa ciò che fece e quanti figli ebbe il proprio trisavolo materno? Gli Edwards di Atlanta lo sanno.

L'aria condizionata rende piacevole stare in casa ma abbiamo una gran voglia di dare una prima occhiata alla città di Via col Vento.

I giovani Edwards ci indicano il loro parco auto dalle targhe personalizzate e progressive. Scelgo la grande Saab diesel col cambio automatico.

Dopo attento studio della mappa, scopriamo che andare nella downtown è molto facile perché dobbiamo fare solo due strade ad angolo retto. Carico la famigliola nella Saab e sfidiamo i tremendi 105 Fahrenheit che segna il termometro del giardino: più di quaranta Celsius.

Anche in auto c'è la frescura artificiale e il vero caldo ci investe al parcheggio, ad un centinaio di metri dalla grande torre di vetro che è il simbolo della città.

Camminare sotto il sole é piacevole come fare un giro dentro a un forno a microonde. Infatti siamo soli a fare questa bruciante esperienza. Sciltian guarda il marciapiede screpolato: dalle fessure spuntano ciuffetti di erba gialla mai calpestata. Che fanno gli atlantini, volano?

Stiamo ansimando su per una lieve salita e da un cavalcavia vediamo scorrerci sotto un fiume di automobili coi vetri chiusi che viene da chissà dove e va in un posto uguale.

Sciltian mi guarda con la luce del dubbio e gocce di sudore che sembrano pianto. Davanti a noi c'è la cilindrica torre di vetro splendente nel sole venusiano e la skyline della downtown: siamo in pieno centro, se nessuno cammina per le strade vuol dire che qui la gente ha orari diversi per lo struscio.

Strusciamo anche noi, ansimando, e arriviamo ad un incrocio famoso: il Five Points, etto così perché quattro strade si incrociano a stella. Lo so che dovrebbero essere cinque, ma qui siamo al Sud e nessuno ci fa caso.

Tutto si chiama "peachthree", albero di pesche: strade, piazze, alberghi. Siamo davanti all’hotel più alto del mondo e si chiama "Albero delle pesche Plaza Hotel".

Al Five Points, dove ora c’è una banca, nel 1886 abitava il farmacista John Pemberton che ebbe l’idea di far macerare delle foglie di cocoa (che in inglese significa sia cocco che cacao) e noci di cola, sapendo che con questi popoli delle isole tropicali fabbricavano una bevanda eccitante. Chiamò il suo sciroppo coca-cola e lo vendette come medicinale. Ha fatto più questo farmacista per l’affermazione del suo Paese nel mondo di Washington e Lincoln messi insieme.

E dopo il farmacista nel PR americane, viene un altro cittadino di Atlanta: la scrittrice Margaret Mitchell che col suo romanzo "Gone with the wind" ha creato il più gigantesco spot in favore delle virtù americane.

Sui sahariani marciapiedi della Peachthree Street incrociamo una signora sudata che ci guarda incuriosita e ho la tentazione di chiederle che fine abbiano fatto tutti gli altri abitanti, ma corre giù per una scala e scompare oltre una porta girevole.

Siamo di nuovo soli nel sole.

Sciltian mi indica alcuni segnali che puntano verso quei vetri girevoli: uno dice MARTA, ma l’altro dice SHOPPING.

Scendiamo la scala e facciamo girare la porta: la frescura deliziosa di un ampio corridoio ci invita a proseguire sperando che la signora Marta non si arrabbi.

Un brusio di folla, di risate: forse la signora Marta sta dando una festa…

Sbuchiamo in un mondo sotterraneo pieno di bar, ristoranti, negozi, con gente che mangia colossali gelati, bambini che si rincorrono, ragazze bianche o nere o cioccolato elegantissime, splendide quelle nere, alte e sottili, ornate di gioielli e con abiti di gran taglio. Una mi guarda dritto negli occhi e mi sorride: due metri di grazia e di bellezza.

L’aria è fresca e profumata dai grandi fiori colorati che traboccano da vasi tenuti umidi da un torrentello che gorgoglia tra i sassi.

Ci si dimentica quasi subito di essere sottoterra perché la luce diffusa è uguale a quella di una fresca ombra naturale. Se il buco di ozono si allarga, vivremo così.

Chiedo della signora Marta e mi indicano una stazione del metrò: a Roma potremmo chiamarlo Romolo e a Milano Ambrogio. In America han la passione per le sigle e quella atlantina gli è venuta così: M.A.R.T.A.

Prendiamo anche noi un gelato scegliendo in una vasta gamma di offerte e ci sediamo su comode poltroncine: dopo il caldo esterno, i marciapiedi screpolati e la difficoltà di respiro, qui sotto è un paradiso. Siamo entrati nel celebre, per gli altri, Underground Atlanta.

La Sgnuffi fa shopping per tre ore, camminando sempre in nuovi corridoi che sbucano in altri corridoi per poi confluire in piazze, slarghi su più livelli, fino a sfociare in un'immensa hall arredata con poltrone in cuoio. Vasi ricchi di carnose orchidee colorano i tavoli con un'abbondanza da Nero Wolf.

Ci sediamo stanchi: bolle di vetro adorne lampadine salgono e scendono veloci e silenziose lungo le pareti del pozzo di vetro sul cui fondo noi stiamo. Dai depliant su uno dei tavoli, leggo che siamo nello Hyatt Regency Hotel, 22 piani e soffitto girevole. In lontananza riesco a distinguere il bancone per check-in.

Sostiamo in assoluta pace guardando gli ascensori che van su e giù portando donne eleganti yuppies in blazer.

Dobbiamo tornar fuori nel sole per recuperare l'auto. La vampa abbagliante di caldo ci ferisce gli occhi e, come la talpa della storiella, viene spontaneo chiederci:

- Ma come fa la gente a sopportare tanta luce?-

Quando un neighbor ci dice che ad Atlanta c'è il quadro più grande del mondo, non ci facciamo caso. Siamo abituati alla mania americana del più alto, più grande, più grosso, più qualcosa del mondo.

Stamattina abbiamo fatto provviste di verdure e, dopo aver cercato invano il prosciutto crudo, mi decido a chiedere lumi all'inserviente del mastodontico supermarket, spiegandomi con un giro di parole:

- Do you know a pig?- inizio e l'inserviente brufoloso alla parola "maiale" mi dà un'occhiata storta ma annuisce per dovere professionale- If you take a leg of a pig...- continuo mentre qualcuno mi picchietta su una spalla - the whole leg of a pig conserved crude... no crude, raw...-

- Il picchettio diventa più deciso e mi volto seccato: gli occhi blu intenso di una bionda mi avvolgono di luce d’amicizia e le sue rosse carnose labbra articolano in morbido inglese:

- We say that "pro-sciut-to"…- la guardo con aria cretina e lei sorride convincente- … a leg of a pig: "pro-sciut-to"! Got it? –

- I got…- farfuglio e mi faccio indicare in quale cornucopia posso trovare "the prosciutto".

C’è una bustina di San Daniele prezzata 24 dollari la libbra, che al cambio contemporaneo, fa circa centomila lire al chilo. Ripiego sul buonissimo bacon, tanto è solo per una carbonara.

- Where are you coming from? – la bionda mi tampina e la Sgnuffi finge di non accorgersene.

- Rome. Italy. –

La parola "Italy" produce sempre, sulle facce americane, o un’espressione dolce sognante o una ironica sarcastica seguita dalla domanda "Mafia"? La bionda appartiene ai sognatori e mi parla di statue e di quadri finendo col dirmi di andare a vedere il Cyclorama, il quadro più grande del mondo.

Nel pomeriggio pago i canonici tre dollari for adults e un dollaro e mezzo for children ed entriamo, insieme a una folla di gente di colore, in teatro buio.

Ci sediamo in comode poltrone. Si accende un riflettore mentre tuona un cannone: sulla parete curva uno spot illumina l’esercito di Sherman nell’atto di muovere all’attacco. La pittura è molto realista e gli altoparlanti frastornano coi rombi della battaglia. Uno speaker con voce emozionata ci informa che era il 22 luglio del 1864.Il dipinto ha una profondità straordinaria. Arriva dal soffitto al pavimento e continua poi con cespugli veri e statue di soldati. Una locomotiva d’epoca passa sui binari fra la platea e il quadro aumentando la sensazione di realtà.

I nordisti attaccano mentre altre luci si accendono in crescendo: la scena è sempre frontale perché la platea lentamente ruota. La battaglia è vissuta dallo speaker con accorati accenti sudisti mentre le luci esaltano gli atti di valore dei confederati in quell'infausta giornata.

E' un'americanata, come diceva l'Italia in camicia nera, eppure ha un suo fascino e una sua presa emotiva questo succedersi di luci sulle immagini dipinte, e le migliaia di personaggi del quadro vivono come in un film.

Coi suoi 130 metri di lunghezza per 16 di altezza è davvero il più grande quadro del mondo, opera di artisti tedeschi e polacchi venuti negli States apposta per dipingerlo nel 1885, appena un anno dopo la battaglia che segnò la fine del Sud.

Mentre la vecchia Atlanta brucia nei falò vivacissimi dei pittori europei, la voce profonda del dicitore conclude con parole toccanti: "... e quel giorno finì un grande sogno!"

Esplode un eccitato applauso e si accendono le luci in platea: il quadro appare in tutta la sua maestà. Guardo le facce nere degli spettatori luccicanti di lacrime di commozione. Accanto a me un vecchio negro piange e si arrossa le palme chiare delle mani nell'applauso. Vorrei fermarlo per dirgli che il sogno morto in quel giorno del 1864 per lui era un incubo perché includeva la sua schiavitù. Ma sarebbe uno sbaglio: questi neri adesso si sentono americani, americani del Sud e fanno il tifo per il loro Paese.

Nella villa degli Edwards viene una vecchia signora nera a fare i lavori tre volte la settimana: la donna ha più di novant'anni e cammina curva. Manovra con lenta perizia scope e aspirapolvere, arrancando rigida e anchilosata come una tartaruga. A guardarla mi vien voglia di offrirle una poltrona e di fare io le pulizie, ma anche questo sarebbe uno sbaglio.

Al tramonto la viene a prendere suo nipote con una lussuosa Cadillac color crema e l'aspetta fuori dal cancello. Vado a presentarmi e l'uomo, sulla quarantina, elegante, mi stringe la mano imbarazzato.

E' un medico ma non è riuscito a convincere la nonna a non venir più a fare la serva in casa Edwards. La vecchia è testarda: in quella casa ha lavorato sua madre e anche la madre di sua madre. Non ha bisogno di denaro perché i nipoti sono ricchi e la mantengono nell'agiatezza e anche gli Edwards hanno un'altra donna, una giovane portoricana, che fa davvero le pulizie. E' un rito di nostalgia che andrà avanti finche durerà la vecchia. Stringo più forte la mano del dottore e vorrei stringerla anche agli Edwards.

Oggi andiamo a Lenox Square. Studio la mappa con Sciltian. Io alla guida e lui come navigatore. Non è semplicissimo, sbagliamo due volte strada ma alla fine giungiamo in un piazzale asfaltato largo un paio d'ettari. Il paesaggio è squallido: bassi capannoni e migliaia di auto parcheggiate coi pneumatici che si stanno liquefacendo sotto il sole rovente. Ma ormai conosciamo i segreti di Atlanta, il bello dev'essere sotto terra!

Parcheggiamo anche noi ed entriamo sicuri nel capannone più vicino, spingendo una pesante porta a vetri. Pull vuol dire tirare e push vuole dire spingere, ci sbagliamo ancora qualche volta. Uno scalone mobile ci porta verso le delizie della profondità immergendoci in un'aria profumata con musica di sottofondo. La scala ci lascia su una balconata: un mondo a più livelli si apre davanti a noi che ci affacciamo sbalorditi su di un gigantesco pozzo circolare nella cui vastità ruotano improbabili pterosauri appesi a fili invisibili, plananti con ali di plastica colorata su una vertiginosa spirale di fiori, di vetrine sgargianti, di ristoranti, discoteche, palestre, studi medici e dentistici, parrucchieri per ogni sesso, cinema e teatri.

Curatissime aiuole ci accolgono al terzo livello e mangiamo un hamburger leccandoci i polsi, seduti tra i fiori. Sciltian guarda affascinato uno pterodattilo che col suo becco dentato veleggia verso il suo panino.

Cascatelle d'acqua saltellano di livello in livello per raccogliersi poi nel laghetto sul fondo: la gente passeggia, compra, mangia, beve, chiacchiera e si rilassa senza l'assillo del traffico, dei rumori e dello smog. Mi lascio portare da antichi sogni: sono un astronauta e sono appena arrivato in questa stazione spaziale... fuori non c'è Atlanta ma il nero alieno dello spazio... qui dentro si sta bene, viene spontaneo amare quelli che condividono questo rifugio privilegiato, ci sente uniti come quando con gli amici di gioventù costruivo una capanna o andavo in tenda sui ghiacciai vergini delle Alpi. Siamo animali da tana non scimmie da savana.

I due giovani Edwards mi sfidano ad una gara di pallacanestro: una serie di tiri da varia distanza. Son trent'anni che non tocco un pallone da basket ma in tempi antichi ero stato selezionato per la nazionale giovanile. Mi metto in posizione, afferro il pallone con mani che ricordano ed eseguo un armonico tiro con piegamento sulle gambe: corto di un metro! Il cervello ha dato gli ordini giusti, non si disimparano i movimenti automatici, da qualche parte neuroni han creato ragnatele durature: non si può disimparare a nuotare o ad andare in bicicletta e neanche a tirare a canestro. Gli ordini sono giusti ma gli esecutori si sono indeboliti. Dove son finiti i miei bicipiti? E i dorsali?

I due Edwards infilano il canestro sorridendo superiorità statunitense. Sciltian tira mettendocela tutta e il primo tiro gli va bene ma gli altri sono troppo da lontano per le sue braccia sottili.

Tocca di nuovo a me: ordino al cervello di amplificare, come se il tabellone fosse posto un metro più lontano. Eseguo e il fluff della rete mi ricorda dimenticati orgasmi sportivi.

I due giovanottoni georgiani mi guardano incuriositi e io passo alla seconda postazione: piegamento e tiro. Fluff! E così dalla terza, dalla quarta e dalla quinta.

- Are you professionist? –

Penso alle cene che mi pagava la Libertas di Biella quando vincevamo una partita: in un certo senso sì, giocavo per mangiare. Mi danno pacche di amicizia e rinunciano alla competizione. Sciltian mi guarda orgoglioso: ho tenuto alto il nome dell’Italia.

C’è una veranda dietro alla villa, immersa nella foresta tropicale del parco, isolata da un fine zanzariera, con due poltrone liberty e un binocolo con montatura da occhiali.

Lo inforco e guardo la giungla: le foglie paiono vicinissime ed enormi, un grosso ragno rosso balza sopra un coleottero giallo iniettandogli il suo veleno paralizzante. Seguo affascinato una liana orlata di polline d'oro su cui camminano in fila indiana centinaia di bruconi verdi e marroni muovendosi come fisarmoniche di un'orchestra lineare.

Il grosso becco di un uccello dal piumaggio blu interrompe la fila prendendosi una

fisarmonica e volando via. I bruconi ricompongono la processione con fatalità assoluta.

Una cascata di bianchi fiori carnosi è frequentata da nuvole di api, vespe e calabroni dai colori e dalle dimensioni insolite. Un colibrì si unisce alla folla, fermo a mezz'aria, sorretto dalle sue ali invisibili. Qualcosa di bruno si tuffa sull'uccello e lo agguanta con fauci da topo. L'animale precipita con la preda in bocca, spalanca le zampe e dischiude una pelle che gli fa da paracadute uscendo a vela dal campo visivo dei miei occhiali-binocolo.

Me li tolgo e guardo l’albero tornato lontano: forse la bestiola è planata sul tetto della casa, dev’essere una delle volpi volanti ospiti, come noi, della famiglia Edwards.

La notte nel giardino esplodono milioni di voci su cui predomina un coro di grilli così possente da far temere insetti da incubo. Non riusciamo a superare il clangore neppure suonando a modo nostro tutti gli strumenti della sala musica.

Mister Edwards torna dopo appena dieci giorni d'Italia. Mi saluta sorridente e mi dice che dormirà nella dependance.

-Didn't you like Italy?-

Ride: gli è piaciuta moltissimo ma non è ricco come gli italiani. Le sue ferie durano solo due settimane, nessuno ad Atlanta gode di ferie più lunghe. Non ho risposte pronte: da noi ad Agosto chiude l'Italia intera. L'ironico georgiano mi parla di Roma deserta, i bellissimi monumenti abbandonati, di Napoli così unica nella sua gente libera da qualsiasi legge compresa quella sanitaria e di quando durante la seconda guerra mondiale arrivò in Italia con l’ottava armata. Devo ringraziarlo per averci liberato?

No, il georgiano parla già del suo paese e ci consiglia una gita a Stone Mountain, il sasso più grande del mondo.

Il giorno dopo, obbedienti, siamo in fila per la teleferica che ci porterà sulla più grande massa monolitica di granito della Terra.

Stone Mountain è il ciottolo di un gigante abbandonato in mezzo ad un prato, una collina fatta di una sola pietra che porta, scolpito su un lato, un altorilievo raffigurante Jefferson Davis, presidente dei confederati, e i suoi generali Lee e Jackson. Il più grande altorilievo del mondo, of course.

Un gruppo di ragazze in fila dietro a noi ci guarda e ridacchia nel modo complice degli adolescenti. Ne fisso una dritto negli occhi grigi. Arrossisce ma non abbassa lo sguardo:

- Where are you coming from?-

- Rome.-

- Rome? Very curious, you look like foreigners!-

- But we are.-

Tutto il gruppo mi guarda perplesso, poi una dai capelli carota si illumina:

- Jesus! Rome ... Italy?-

- Of course!-

Ridono a scroscetti intermittenti: c'è una Rome anche vicino ad Atlanta, costruita su sette colli in onore di quella dei cesari. Una moretta mi chiede dondolandosi sulle anche come mai potendo vivere a Rome-Italy siamo venuti a Stone Mountain-Georgia.

- To meet people.- Tutto il gruppo sorride lusingato.

La teleferica ci porta sulla cima del sasso. Camminare sulla sommità tonda di Stone Mountain ci fa sentire formiche sulla cupola di un sasso di fiume. Giriamo lo sguardo su un panorama di boschi intatti, non un tetto buca il mare di foglie: gli Stati Uniti sono vuoti e disabitati per un occhio europeo.

Sul gran sasso c'è un bar ristorante con una mostra di cimeli sudisti: bandiere, coccarde, cappelli, divise grigie, armi e banconote della Confederazione. C'è un avviso appeso al muro: Warning! Non buttate queste banconote ... potrebbero servire di nuovo!

Serpeggia ancora in Georgia una vaga speranza di rivincita.

Ritorna anche la signora Edwards con la figlia: non si sono divertite al Circeo? Rispondono di sì ma con scarso entusiasmo. Le guardo girare per casa coi loro grandi culi tedeschi e decido che dobbiamo scorciare la nostra permanenza, ma il volo di ritorno è fissato per la fine del mese. Un'altra ragione per partire è che Sciltian e la Sgnuffi sono andati a curiosare nella dependance aldilà della giungla: un cottage di due stanze costruito sui rami di un grande albero, come la casa di Tarzan o quella di Qui, Quo, Qua. Ci si sale con un montacarichi elettrico, anzi ci si saliva perché la mia bionda Jane nel far su e giù ha bruciato il motore.

Sciltian ed io studiamo la grande carta dell'America del Nord che mi son portato da Roma e decidiamo per Disneyworld, vicino a Orlando, Florida.

Un'occhiata triste al vicino Cape Canaveral, diventato Kennedy e poi tornato Canaveral: quando vent'anni fa l'Apollo 11 partì per la Luna avevo sperato in un progresso rapido dei voli interplanetari per riuscire a fare, prima di morire, un giretto su Marte.

Alle dieci di sera Sciltian lamenta mal di testa. La Sgnuffi gli mette il termometro che annuncia centodue di febbre. Provo con un'aspirina ma a mezzanotte la febbre supera i centoquattro. Il termometro continua a salire e tocca i centosei che sono quasi 41 Celsius! Chiamo la signora Edwards: bisogna far venire un medico! La signora mi guarda come se non avesse capito, ripeto sillabando:

- Please, we need a doctor!-

Scuote la testa prussiana e mi spiega che i medici non vengono a domicilio. Per far visitare Sciltian bisogna portarlo all'ospedale, con l'autoambulanza, se necessario.

Avvolgiamo il Prucino (con il febbrone è tornato piccolo!) in una coperta e la signora viene con noi. Son quasi le due del mattino quando parcheggio davanti ad un pronto soccorso.

Entriamo e subito due infermieri si prendono cura di Sciltian svolgendolo e sdraiandolo su un letto in una stanza dove Varia condizionata è da inverno biellese.

- Prenderà una polmonite...- geme la Sgnuffi.

Il Prucino batte i denti e ha gli occhi accesi come lampare: L'efficienza dell'ospedale si scatena lasciandomi ammirato: in venti minuti scrutano Sciltian dentro e fuori come fosse un alieno di cui scoprire i segreti metabolismi: esame del sangue, delle urine, encefalogramma, doppler, radiografie dei polmoni e dei reni. Un otorino gli illumina il fondo della gola e delle orecchie, un internista gli palpa la pancia, un urologo medita sul pipino, un cardiologo gli ausculta il torace.

Nella hall entra un nero pieno di sangue che si regge le budella con le mani e bianchi infermieri lo stendono su un lettino a ruote e partono con un'accelerazione che dà conforto.

Alle due e quaranta il medico responsabile ci chiama: ha in pugno gli esiti di tutte le analisi e sentenzia che si tratta di influenza. Poiché la febbre è ancora alta, ordina che il Prucino venga spogliato ed esposto al gelo artico della stanza. Tento una flebile protesta:

- Ah già - risponde cantilenando l’inglese della Georgia- voi europei mettete coperte su chi ha la febbre, ma quando l'organismo si surriscalda bisogna permettergli di smaltire il calore.-

La Sgnuffi vorrebbe continuare la protesta ma il medico se ne va, ha altro da fare. Sciltian trema sul lettino nudo come un polletto spennato sul banco dei surgelati e mi vien freddo nonostante la giacca. La Sgnuffi guarda con gli occhi a tazzina ma non possiamo opporci a tanta sapiente efficienza. Abbiamo la sensazione di essere scesi da montagne analfabete e di essere in città per la prima volta.

La signora Edwards ci chiama al bureau: le cure son state praticate senza far domande ma non sono gratuite come in Italia e adesso la bella ragazza nera con la cuffia celeste sui riccioli blu notte vuol sapere chi pagherà.

Tiro fuori il portafoglio ma non vuole denaro perché le fatture non sono pronte, vuole solo l'indirizzo. Quando sente Italy sospira rassegnata e mi guarda senza simpatia: e la prima volta che entro in un ospedale americano? Sì. Ho il numero del Medical Care? Non so neppure che cosa sia. Dovrò farmi dare un numero se resto negli Usa. Non resterò. OK.

La signora Edwards offre il proprio recapito ma la bellissima dalla cuffia blu decide di fidarsi della mia pelata rosa e del mio sguardo onesto e dice che riceverò a Roma le fatture da pagare. Quel plurale mi fa venire i brividi ma mi passano vedendo che son passati a Sciltian: la sua temperatura adesso è di appena novantotto gradi, Fahrenheit of course, ossia trentasei gradi e mezzo Celsius. E' guarito. Il mattino di due giorni dopo siamo tutti e tre sulla grande Saab lanciati verso Orlando, dove ho prenotato una stanza ad un Holiday Inn strategicamente ben piazzato rispetto all'entrata di Disneyworld.

 

CAPITOLO XII

LA FLORIDA

- Prendiamo la settantacinque che ci porta dritti fino ad Orlando...- e il mio navigatore allegro come una quaglia alla chiusura della caccia, batte l’indice sulla carta stradale della Florida.

- Quante miglia, navigatore?-

- Quattrocentocinquanta.-

- A cinquantacinque di media ci vorranno otto ore.-

- Diciamo nove, contando le soste.-

- Diciamo. -

La Sgnuffi ascolta distrattamente sdraiata a mo' di Maya sul sedile posteriore.

Sono un po' teso: è la mia prima autostrada statunitense. Sto sulla corsia di destra come faceva il bus della Greyhound e controllo il tachimetro fisso sulle cinquantacinque miglia.

Sulle altre cinque corsie, rade macchine mi sorpassano lentamente. Accelero un po': cinquantotto miglia.

Raggiungo un bus che mantiene la velocità legale, metto la freccia per fare il mio primo sorpasso ma sento un clacson di protesta. Guarda nel retrovisore: a cento metri da me sta arrivando un'auto rossa che dopo mezzo minuto mi raggiunge e mi supera alla folle velocità di sessanta miglia orarie. Rimetto la freccia e sorpasso ma quando cerco di rientrare, cinquanta metri davanti al bus, questi protesta con due colpetti di clacson.

Imparo la prima regola autostradale americana: la tua velocità è cosa tua e della polizia, ma la corsia è sacra.

Resto nella seconda che mi va benissimo, la giornata è serena, fuori fa caldo ma nella Saab è primavera.

Puntiamo su Valdosta che nel nome porta aria di casa mia.

A mezzogiorno affiorano i primi bisogni: la Sgnuffi deve rinfrescarsi e Sciltian e io dobbiamo più volgarmente pisciare. Abbiamo anche appetito. Da quattro ore stiamo correndo, se così si può definire il nostro cauto avanzare, su questa pista per aerei che porta in Florida e abbiamo trovato tre soli distributori di benzina e due rest area di cui non abbiamo saputo valutare il significato perché dalla strada non era visibile alcuna costruzione.

La campagna è piatta, le piante rade e l’erba gialla, si potrebbe essere sulla Mediana di Latina se non fosse per l’esagerata larghezza della strada e per l'assoluta

mancanza di segni dell'inciviltà umana. Alle due siamo quasi a Valdosta, l'appetito 6 diventato fame e Sciltian propone di bagnare l’erba gialla della prateria ma voglio comportarmi da gentiluomo in terra straniera e poi la Sgnuffi sull'erba non riesce proprio a "rinfrescarsi".

Rest Area. Rallento. Solo alberi ma c'è una deviazione e la prendo. Giro intorno ad una collina e mi trovo davanti ad un cottage pitturato di fresco e qua e la', sotto gli alberi, panche e tavoli di legno per picnic. Scendiamo dall'auto: non c'è nessuno. C'è un'aria incantata, da fiaba. Spingo la porta del cottage.

- E' chiuso..-

- Papà, c'è scritto pull, vuol dire tirare.-

Sciltian tira e la porta si apre. Entriamo a disagio in una sala con divanetti imbottiti e tavoli di plastica, Varia e' freschissima, una musichetta sembra venire direttamente dalle lucide pareti celesti.

- Nobody at home?- azzardo schiarendomi la voce. E' come dire grazie alla voce automatica che scandisce l’ora esatta al telefono. La Sgnuffi con un gridolino di sollievo corre ad infilare una monetina da venti cent nella porta di una delle toilette sul fondo. Sciltian ed io ce la caviamo con una moneta in due, tenendo il piede fra la porta e lo stipite: l'italianità affiora anche nei migliori ...

I gabinetti sono lindi e profumati. I rubinetti zampillano al passar delle mani nel lavandino e gli asciugatori soffiano un bel getto d'aria secca e bollente.

Sul lato opposto del salone ci sono le ormai note cassettine con dentro hamburger e quarti di pollo. Scegliamo il nostro pranzo e lo infiliamo nei forni a microonde. Ci sediamo e mangiamo in perfetta solitudine.

- Qui non c'è nessuno...- realizza la Sgnuffi con una vaga paura - ... può succedere di tutto...-

- Se non c'è nessuno non succede niente.-

Logica provocativa. Impedisce l'innesco della discussione, la voce di Sciltian che suggerisce:

- Magari ci controllano con la televisione...-

Guardo tutto intorno e scuoto il capo. E' un enigma tutto americano: delinquenza ce n'é più qui che in Europa ma posti come questo non vengono saccheggiati e restano puliti e funzionanti. I moderni vandali gonfi di crack e di eroina quando entrano nelle rest area diventano cittadini perfetti? Invece di sfondare le porte delle toilette a calci, cacare in mezzo al salone, rompere i vetri delle cassettine piene di cibo, rubare i forni a microonde come farebbero da noi, infilano diligenti monetine e badano a non schizzare urina fuori dalle tazze?

Entriamo in Florida. Le auto che ci seguono danno gas e ci sorpassano rombando. Accelero anch'io per simpatia. Sessantacinque miglia orarie e la Sgnuffi mi ricorda con dolcezza che qui per eccesso di velocità si va in galera. Altre auto mi sorpassano: a Roma come i romani, in Florida come i floridiani! Accelero fino a settantacinque miglia, orarie, sorpassando un bus della Greyhound lanciato a sessantacinque: 6 evidente che in Florida la polizia chiude un occhio.

Costeggiamo la grande palude di Okefenokee che noi pronunciamo con stupidi sghignazzi "0 che finocchi" ma in lingua Seminole vuol dire "terra che trema". E' il posto dei grandi caimani ma devo seguire il programma, finché non sarò certo che abbiamo una camera in cui dormire non mi sentirò tranquillo.

Due ore dopo siamo alla periferia di Orlando e il mio navigatore cerca la statale novantadue che a tratti si chiama anche diciassette. E' abbastanza frequente questo tipo di binomia sulle, strade Usa. Ci infiliamo nel petalo sbagliato di uno dei quadrifogli tripli con cui qui si incrociano le autostrade e perdiamo la rotta.

Dopo un disperato girovagare mi fermo sotto un grande cartello a freccia che annuncia MERGE. Ordino al navigatore di trovare la città di Merge sulla carta per sapere dove siamo e fare il punto macchina. Ma sulla carta, Merge non è segnata. Andiamo avanti, a Merge faremo benzina, ci berremo un caffé e chiederemo la strada. Dopo un miglio incontriamo un cartello più grande. WARNING - MERGE. Attenzione Merge. Che vuol dire? Che Merge é città pericolosa?

Il cervello finalmente mi lampeggia: sul mio Commodore 64 "merge" significa mescolare. Su queste strade merge significa che si stanno per mescolare due flussi di traffico diversi. Non esiste una città che si chiami Merge. Dove siamo?

Alla confluenza annunciata un cartello benefattore ci avverte che sotto di noi scorre la Novantadue. Si svolta a destra e via a caccia dell'albergo.

L'Holiday Inn ci appare con la sua tipica insegna verticale: e' una costruzione ampia, di soli due piani. Parcheggio in mezzo a molte auto ed entro con Sciltian per il check-in, la Sgnuffi resta a guardia dei bagagli.

Usciamo dopo pochi minuti con la chiave di una camera, il compito dell'albergo è esaurito. Le stanze sono accessibili solo dall'esterno ed è come avere affittato casa. Attraversiamo un giardino con piscina Jacuzzi a forma di cuore affollata di allegri bagnati e saliamo al primo piano. Su una lunga balconata si affacciano quadroni vetrati e porte numerate: la nostra e' la centocinque. La camera e' grande, perfettamente standard secondo i criteri americani: due vasti letti doppi, moquette dovunque, grande bagno con aspiratore. C'è il problema del quadrone di vetro che da' sulla balconata, non ha persiane ma solo tende che lasciano poco alla privacy quando la luce è accesa, e quando è spenta danno a noi italiani un gran senso di insicurezza. E questo é un altro enigma americano: ci mandano film pieni di violenza ma le loro casette hanno porte di vetro chiuse coi catenaccini che un tempo usavamo nei gabinetti per libero-occupato e finestrone basse assolutamente indifendibili.

Nei film americani capita spesso di vedere che la protagonista inseguita da un maniaco assassino riesce a raggiungere la propria casa, chiude la porta dietro di sé e ... tira il catenaccino! Di solito si appoggia al vetro della porta respirando, misteri delle sceneggiature, di sollievo. Il mostro sfonda il vetro con la mano e gira il catenaccino dando il via ad una seconda sequenza di suspense. Al cinema può essere utile, ma nella vita? Ora anche noi siamo separati dalla balconata che porta alla scala che porta al parcheggio e alla Novantadue da un vetro e una porta chiusa col catenaccino. La Sgnuffi mi si stringe addosso e bisbiglia:

- La Florida e' un posto sicuro?-

- Ma certo! Qui vengono solo bambini e pensionati...- mento per la sua tranquillità.

Sciltian si infila il costume da bagno e corre in giardino per farsi la sua Jacuzzi. Lo sentiamo strillare perché l’acqua e' bollente mentre un colpo di vento fa piegare le palme fino a terra e dal cielo precipitano jacuzzate d'acqua devastanti. Colto sulla balconata mi sembra di fare un tuffo al contrario: e l’acqua che si tuffa su di me, tiepida e violenta: non è pioggia, è lo scarico di un polifemico sciacquone del cielo.

Sciltian torna ridendo e grondante:

- In questo paese è tutto grande, anche la pioggia!-

Lo scarico si esaurisce in pochi minuti e splende di nuovo un caldissimo sole. I clienti, esperti, sono rimasti nella Jacuzzi bollente.

Non c'è tramonto. La notte cade davvero, come se qualcuno spegnesse il sole con un interruttore.

Usciamo per andare a cena. La statale corre dritta per decine di chilometri punteggiata da hotel e motel: molti hanno il cartello "No vacancy" a significare che non c'è vacanza di stanze e altri invece reclamizzano i loro prezzi che sono meno della metà di quello che ci han chiesto al momento della prenotazione. Dovrò imparare a scegliere tra la sicurezza della camera e la possibilità di un enorme risparmio. Molti motel offrono stanze a dodici dollari che al cambio del momento fanno ventiquattromila lire: posto per quattro, bagno privato con doccia vasca e acqua calda e televisione a colori. A Roma costa di più l'Ostello della Gioventù con brande in corsia, un bagno puzzolente ogni dodici disgraziati e l'unica acqua calda è quella da bere.

Mangiamo un bisteccone per uno in una steak house (costa come due hamburger da Mc Donald's e torniamo in albergo.

La Novantaduesima è tutta uno scintillare di insegne ma quella verticale dell'Holiday Inn e' distinguibilissima. Parcheggio e saliamo la scala fino alla stanza centocinque. My God! C'è qualcuno in camera nostra! La luce è accesa e attraverso la tenda l’enorme culo bianco e lentigginoso di un irlandese dal pelo rosso che si sta levando le calze (gli irlandesi si riconoscono anche da dietro .... ). Blocco la Sgnuffi che vuole irrompere nella stanza e mi affaccio dalla balconata sperando di vedere qualche inserviente dell'albergo a cui chiedere aiuto. La Jacuzzi in giardino e' ovale. La indico a Sciltian che si gratta la testa:

- L'hanno cambiata. Prima era a forma di cuore...-

Questi americani fan miracoli ma a tutto c'è un limite: è più probabile che abbiamo sbagliato hotel.

- Non è il nostro albergo. E' solo uno uguale.-

Torniamo in macchina con un'angoscia sottile: io, lettore e scrittore di fantascienza, almanacco sui mondi paralleli. Se il vuoto è un oceano di particelle virtuali, se anche le traiettorie meno probabili degli elettroni intorno ai nuclei coesistono con quelle più consuete, allora anche la nostra vita è solo una delle molte possibili e si può passare da una all'altra con un piccolo movimento psicologico. Magari mentre tagliavo la bisteccona alla steak house mi sono spostato in un universo parallelo dove tutto è uguale al precedente meno la nostra prenotazione della stanza 105 all'Holiday Inn...

I miei pensieri si infrangono contro una seconda insegna verticale che annuncia in modo identico che stiamo arrivando ad un secondo Holiday Inn. E in questo nella stanza 105 ci sono soltanto le nostre valigie. Passando davanti alla 104 vedo uno scarafaggio rossomarrone di lunghezza atlantinea che mi saluta agitando le lunghissime antenne.

Passeremo tre notti in questo albergo e lui sarà lì tutte e tre le sere a rassicurarmi che siamo nell'universo giusto: sarà lo stesso che ho salvato ad Atlanta?

Sono troppo stanco per pensare e domattina dobbiamo affrontare Disneyworld.

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