AMMAZZANDO IL TEMPO
di

Lorenzo De Marco

 

   Tra le risate echeggianti e il fragore della risacca, Eavy sentì il bisogno di dare sfogo alle sue energie. Afferrò una pietra tonda e liscia, bianca fino quasi a brillare, la ripulì dalla sabbia e dopo averne considerato il peso e la consistenza tra le mani, con gli occhi fissi oltre la linea dell’orizzonte rilassò e tese i muscoli, arretrò di un passo con il piede destro e portando il braccio tutto indietro, lo riportò di scatto in avanti lanciando la pietra con tutta la forza possibile.

   Né Eavy né gli altri ragazzi che gli stavano intorno e che si accingevano ad imitarlo si erano accorti di uno strano raggrinzimento nell’aria a poca distanza da loro.

   L’effetto, più che un raggrinzimento vero e proprio, era più simile al tremolio dell’aria sui tetti delle auto nelle giornate torride. Il fenomeno era circoscritto in una specie di bolla sospesa a pochi metri dalla superficie dell’acqua.

   Proprio nell’attimo in cui Eavy stava portando avanti il braccio per lanciare il sasso, per una frazione di secondo la sfera si contrasse. Una frazione di secondo dopo esplose, espandendosi e avvolgendo tutto quanto intorno. 

   Fu proprio nel momento in cui il sasso si trovò sospeso a pochi millimetri dalle dita che lo avevano scagliato che il Tempo per una inspiegabile, terribile ragione si fermò. 

   La pietra restò ferma nell’aria. Il ragazzo, sul cui volto si poteva leggere la tensione per lo sforzo rimase immobile; i suoi compagni, la sua ragazza, le onde del mare, il vento, le foglie, i fili d’erba, le api, gli uccelli, tutto quanto rimase immobile, fermo come in un quadro, assurdamente realistico, tragicamente reale.

   L’esplosione continuò a propagarsi in ogni direzione come cerchi nell’acqua e ben presto raggiunse la città e la ingoiò. Tutto ciò che era in movimento, macchine, persone, animali si fermò. Semplicemente. Ben presto lo stesso inspiegabile fenomeno avvenne in tutto lo stato. 

   “Si!” Esclamò Uligar, esultante. Ma lo sforzo compiuto gli aveva prosciugato tutte le forze e lo sfinimento lo sopraffece. Il Mago sprofondò prostrato per lo sforzo nell’enorme trono. La testa reclinata sul petto, le braccia sospese oltre i braccioli del regale seggio. Per un lungo, interminabile istante rimase, come sembrò a tutti i suoi servi e allo stesso Imperatore che lo stavano osservando col fiato sospeso, completamente privo di vita. Poi, finalmente, il petto del vecchio si sollevò, sebbene con evidente fatica. Lo stregone immagazzinò quanta più aria poté nei polmoni mentre perle di sudore inondavano abbondantemente la sua faccia barbuta, il suo collo, i suoi polsi, inzuppando le vesti scarlatte. Aprì gli occhi e un mormorio di meravigliato stupore accolse le sue prime parole:”Ho dunque vinto?”

   Ci fu, subito dopo, un intervallo di silenzio durante il quale Uligar, riprendendo lentamente le forze, osservò i presenti. Fu per lui  come un’esperienza nuova: sembrava fosse passato tanto tempo da quando li aveva visti l’ultima volta, ed erano passati invece solo pochi minuti. Il suo sguardo si fermò sul volto e la figura di un uomo alto, imponente, giovane e fiero, troppo fiero, vestito di ricchissime vesti e ornato da preziosi monili. Gli occhi del giovane, puntati con ansia verso di lui, lasciavano tuttavia trapelare un’immensa cupidigia e un’irresistibile volontà di vincere, dovunque e comunque. Era Karkaran, l’Imperatore.

   Gli aveva ordinato di fare qualcosa per lui. Lo aveva fatto chiamare perché era il migliore, e lui aveva accettato la sfida. E aveva vinto. Vinto…cosa? Non ricordava bene. Ma sapeva di essere riuscito nell’intento. Aveva compiuto una magia così grande che neanche gli dei avevano mai osato tentare. Ma quale magia, non gli riusciva proprio di ricordare.

   Si guardò ancora attorno, intontito e con un senso di vertigine, cercando di mettere a fuoco con gli occhi e con la memoria, i presenti.

   Accanto al sovrano, vi era un altro individuo, magro, dalla faccia spigolosa e dagli occhi sporgenti come quelli di un pesce. Ke… Keenn si, era quello il suo nome. Il suo viso era affilato, paonazzo come le maschere di certi attori che nei teatri interpretano il ruolo di uomini perfidi e crudeli. Aveva un alto incarico politico…si, ecco, era il Consigliere, il braccio destro dell’Imperatore. Più indietro, in seconda fila era schierata la Guardia Imperiale, una squadra di uomini duri, violenti e fedeli fino alla morte al loro sovrano. Coi volti privi di ogni espressione, creava una  sorta di barriera vivente che separava l’Imperatore e il suo seguito di nobili dalla marea di persone che inondava la sala.

   Quei soldati, con la spada sguainata, erano pronti in qualunque momento a fronteggiare un qualsiasi pericolo, lui compreso.

   Un pericolo? Lui? Perché mai poteva rappresentare un pericolo, lui che aveva salvato l’Imperatore e il suo regno e tutto il popolo dalla rovina? Proprio lui che aveva…. aveva cosa? Cosa aveva fatto, maledizione? Un’impresa degna di un dio ma c’era qualcosa che gli sfuggiva, un particolare importante, qualcosa che aveva a che fare con…. era lì sulla punta della lingua, e aveva a che fare con quel senso di oppressione che sentiva crescere alla bocca dello stomaco.

   Il capitano delle guardie se ne stava in disparte, accarezzandosi la barba a punta, corvina come i suoi occhi, impenetrabili ed insidiosi. Dalla sua posizione, a fianco della mastodontica porta accanto al trono poteva abbracciare con lo sguardo tutto il grande salone. 

   Involontariamente il vecchio mago rabbrividì  quando lo sguardo del capitano, che quasi si nascondeva dietro il colorito scuro della sua carnagione incontrò il suo. Una sensazione di panico che gli fece mancare il respiro. Fu un attimo, poi gli occhi scuri e gelidi di quell’uomo guardarono oltre. Uligar si sentì subito più sollevato.  Chiuse gli occhi per un momento. Li riaprì dopo parecchi minuti. Era svenuto o forse si era addormentato. Ma sempre, oltre alla consapevolezza di aver fatto qualcosa di impensabile per un essere mortale, restava quella sensazione di aver trascurato un particolare, una possibilità. 

   La sfera circondò la terra in meno di un minuto. Il moto terrestre si bloccò. Non avvenne lentamente, con una progressiva decelerazione. Il blocco avvenne nel momento in cui fu completamente avvolta da quella Forza. 

   Uligar guardò i servitori che lo attorniavano in ginocchio per assisterlo. Non aveva bisogno dei suoi poteri magici per indovinare quali fossero le brame di quegli sciacalli. Dietro la superficie adorante e preoccupata dei loro sguardi poteva leggere un desiderio implacabile di vederlo morto per far man bassa dei suoi tesori ma soprattutto dei suoi libri di magia, dei suoi poteri. Illusi, perché i suoi libri erano scritti a caratteri indelebili nella sua mente. Nessuno gli avrebbe rubato il suo immenso potere. 

   Ma cosa gli stava succedendo? Non ricordava di aver mai visto quei volti, quelle facce così crudeli, piene delle più abbiette aberrazioni umane eppure, aveva ben  saputo attribuire a ciascuno di essi dei nomi, delle identità ben precise. 

   Tutti continuavano a guardarlo fissamente. Ad un tratto non sopportò più quell’esame e chiuse gli occhi, premendosi le mani contro la faccia, come per cancellare una infinita stanchezza, o un bruttissimo incubo. 

   “Che mi succede…” mormorò tra sé e mentre nella mente qualcosa cominciava a vorticare velocemente per venire alla superficie, udì il vociare sommesso degli astanti che lui chiudendo gli occhi, aveva temporaneamente ricacciato fuori dal suo mondo psichico.

    Passò ancora altro tempo. La testa gli girava e invece di sentirsi meglio, diventava sempre più debole. Aveva bisogno di dormire ma doveva ricordare, era importante. Doveva ricordare cosa aveva fatto e cosa aveva trascurato. Ecco, quella era la cosa più importante. Ricordare ciò che aveva così stupidamente trascurato.In quel mentre sentì qualcosa afferrarlo e sollevarlo.  Gli sembrò di volare in un buio angosciante, spaventoso e poi di atterrare su un prato fresco e profumato da mille odori e fragranze. Si sentì subito meglio ed aprì nuovamente gli occhi.

    La sfera aveva fermato la sua crescita. Passò forse un solo altro secondo. Poi l’Universo urlò. O almeno, qualcosa che non era umano  gridò.

    Tutti erano su di lui con i volti in ansia e preoccupati per la sua salute: Karkaran, il Divino Imperatore, dalla faccia glabra e dagli occhi dolci; Keenn, il suo Consigliere, dal viso bonaccione e dal naso sempre più rosso a causa dell’elevata pressione sanguigna. Ed ecco lì i suoi fedeli servi, tutti preoccupati e premurosi che facevano a gara chi per accomodargli i cuscini, chi per togliergli  le vesti a che potesse riposare meglio, chi a rimboccargli le coperte.

    “Mio Imperatore” mormorò il vecchio mago.
    “Tranquillo Uligar, tra poco starai meglio: rilassati. Bevi questo elisir, ti ridarà forza.” Karkaran il Grande gli avvicinò alle labbra il calice e lo aiutò a bere la pozione, sollevandogli delicatamente il capo. Dopo che Uligar ebbe finito di bere, gli si sedette con deferenza accanto e rimase in silenzio stringendogli la mano.

    Nel movimento incessante e preciso dell’Universo, qualcosa si era fermato. Il sottile, perfetto, eterno equilibrio si era spezzato. Per sempre.

   I pianeti più vicini alla Terra rallentarono la loro corsa, mutando contemporaneamente la loro forza di gravità e le loro orbite. Al sole toccò subito dopo. Si era innescata una reazione a catena.

    Uligar sentì ogni dubbio e timore sciogliersi come neve al sole. Si lasciò andare e stringendo la mano del suo Imperatore, felice di quanto questo voleva dire, si addormentò tranquillo, vittorioso dopo la grande prova, nel mondo che finalmente gli era tornato familiare. Non udì i ripetuti interrogativi che gli rivolse Karkaran il Magnanimo: “Hai dunque vinto Uligar? Hai vinto? Hai ucciso il Tempo a quei fottuti umani? Saremo dunque noi gli unici padroni dell’universo? Oh, si! Dimmi di si!”.

   Poi l’Imperatore sentì la terra tremare sotto i suoi piedi. Un rombo profondo e assordante fece vibrare ogni cosa. Le grandi vetrate a mosaico esplosero in mille frammenti lanciati in ogni direzione, ferendolo al volto e alle mani. L’oscurità inondò la stanza.

   Mentre la sua vita si spezzava sentì, tra le grida di terrore che si levavano da ogni dove un urlo acutissimo, terribile e disumano. Sembrava il suono di una lacerazione, amplificata fino all’inverosimile. L’ultimo pensiero che gli attraversò la mente fu che forse quell’urlo era il suo.

    La galassia collassò nel giro di 2 minuti. L’intero Universo in 60. Ciò che ne rimase cominciò a contrarsi, attirato da quella anomalia a forma di sfera che una volta era stata la Terra.

 

 

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