L’ISOLA
DELLA CONA
Le genti dell’estremo nord-est del nostro Paese hanno sempre dimostrato
grande sensibilità e rispetto nei confronti della natura nonché una
particolare attenzione verso le tematiche riguardanti la salvaguardia
dell’ambiente e i problemi connessi con l’uso razionale delle risorse
naturali e territoriali. È questo forse il motivo per cui nella nostra Regione,
prima che altrove, si è sentita l’esigenza di regolamentare con leggi
studiate ad hoc la salvaguardia del territorio nel momento in cui si
avvertiva più forte l’impatto ambientale conseguente
all’industrializzazione e agli insediamenti produttivi.
Da questa situazione contingente nasceva quindi la necessità di
individuare modalità, discipline e limiti finalizzati ad uno sviluppo economico
sostenibile e ad una crescita sociale equilibrata per evitare il degrado,
altrimenti irreparabile, del territorio più direttamente interessato alla
pressione tecnologica, e ne scaturiva altresì l’esigenza di una tutela degli
ecosistemi naturali. Soltanto incanalando il processo innovatore in corso entro
direttive che non alterassero gli ecosistemi naturali, si sarebbe potuta elevare
la qualità della vita anche attraverso una sana, ordinata e costruttiva
politica dell’ambiente e del territorio.
Nacque così, dopo un lungo periodo di studi iniziato nei primi anni
’70, il P.U.R. (Piano Urbanistico Regionale), un progetto di pianificazione
del territorio su scala regionale che vide la luce nel 1976, ma di cui la
concomitanza con la tragedia del terremoto e la conseguente necessità di
interventi straordinari, ritardò l’approvazione fino al 1978.
L’obiettivo principale di tale strumento legislativo era quello di
individuare le zone di particolare vocazione produttiva (agricoltura, centri
industriali e commerciali, insediamenti residenziali e turistici, ecc.) e quelle
di maggiore valore naturalistico e ambientale. Allo scopo fu realizzata una
carta della regione raffigurante l’assetto territoriale generale con la
destinazione delle singole aree cui si sarebbero dovuti attenere gli Enti Locali
subordinati (Comuni e Province) nella loro programmazione. La Regione si
riservava il compito di approvare i singoli piani regolatori dopo aver
verificato che gli stessi fossero conformi al quadro di pianificazione generale.
In realtà con questo studio si era voluto soprattutto garantire una
particolare protezione a quegli ambienti naturali che, se lasciati liberi da
vincoli di tutela, avrebbero potuto essere oggetto di forzata utilizzazione
produttiva e quindi in pratica venire distrutti o irrimediabilmente danneggiati.
Per salvare queste zone da speculazione impropria il P.U.R. aveva infatti
previsto la realizzazione di 14 parchi naturali e di ben 76 ambiti di tutela
ambientale, 45 dei quali inclusi nei parchi stessi per un totale di 230.000
ettari di area protetta, pari ad oltre il 30% della intera superficie regionale.
La funzione dei parchi doveva essere sia quella di legare alcuni ambiti
di tutela in unità territoriali più vaste, sia di destinare ad uso ricreativo
e sociale aree di particolare valore ecologico, scientifico e paesaggistico. Dei
14 parchi previsti dal Piano 4 erano montani, 2 speciali (carsico e lagunare) e
8 fluviali, fra cui quello dell’Isonzo.
Il piano di tutela ambientale previsto dal P.U.R. era molto ambizioso e
contemporaneamente di complessa e delicata attuazione tanto che, per il suo
concreto avvio, si dovette aspettare il 1983 quando, con apposita legge
regionale, la n. 11, si dettarono le norme specifiche suggerite dalla
pianificazione regionale. La legge applicativa tuttavia si dimostrò nei fatti
inadeguata al progetto del P.U.R., tanto che agli inizi degli anni ‘90 la
quasi totalità dei parchi previsti era ancora lontana dalla effettiva
istituzione.
Pur tra innumerevoli difficoltà, tuttavia, alcune iniziative erano state
avviate con risultati positivi, quando l’entrata in vigore di una legge di
Stato, la n. 394 del 1991, che sull’argomento dettava norme e regole generali,
come ad esempio il divieto assoluto di caccia nelle aree protette, in netto
contrasto con gli indirizzi regionali, provocava un brusco arresto del processo
in corso e in molti casi un ripensamento di alcuni Enti Locali. Il divieto di
caccia, quale presupposto irrinunciabile all’istituzione di qualsiasi area
naturale protetta, fu motivo di conflittualità molto aspra fra le associazioni
venatorie e il legislatore regionale, che si vide fortemente condizionato nel
suo lavoro di adeguamento alle direttive nazionali.
Il processo di revisione della normativa regionale, dopo un iter
estremamente sofferto e travagliato, si concludeva con la legge regionale n. 42
del 30 settembre 1996 con la quale ci si adeguava alle normative statali. Tale
operazione comportò di fatto la riduzione della superficie complessiva delle
aree protette dal 30% previsto dal P.U.R. ad un misero 6,6%.
1. LA RISERVA NATURALE DELLA
FOCE DELL’ISONZO
La Regione, nel 1978, aveva riconosciuto come meritevole di tutela
l’intero tratto, in territorio italiano, del fiume Isonzo. Questo parco
fluviale venne indicato dal P.U.R. con il numero 14 e comprendeva una superficie
di 3.600 ettari circa che affiancava il fiume lungo tutti i suoi 40 kilometri di
percorso, dal confine politico alla foce.
Considerato che la parte alta e quella bassa del fiume presentavano
caratteri e problemi diversi sia dal punto di vista ambientale che da quello
economico i 6 comuni della bassa (4 goriziani e 2 friulani), autonomamente,
attuarono un piano di Conservazione e Sviluppo nella zona di loro competenza.
Nasceva così una prima fase di realizzazione concreta del parco fluviale
dell’Isonzo, comprendente due ambiti di tutela ambientale in prossimità della
foce e precisamente quello dell’Isola della Cona indicato con la sigla E-19
(1.150 ettari circa) e il sito E-18 corrispondente al Bosco Grande (30 ettari
circa).
A questo punto, per comprendere come si è giunti alla odierna
sistemazione di un’area (che sembrava irrimediabilmente degradata) consentendo
il ritorno di diverse specie di uccelli e di altri animali, è indispensabile
ripercorrere le tappe evolutive che hanno preceduto la situazione attuale.
L’assetto geomorfologico della zona circostante la foce dell’Isonzo
ha subito nei secoli modificazioni consistenti causate da eventi naturali e da
interventi dell’uomo. In epoca preistorica il corso del fiume, regolato
esclusivamente dalle forze della natura, sfociava con diverse ramificazioni in
un ampio tratto dell’Adriatico compreso grossomodo fra gli abitati di
Monfalcone e Grado. I diversi rami deltizi attualmente si sono ridotti,
soprattutto per intervento dell’uomo, ad un unico sbocco ad estuario,
denominato Sdobba.
Le frequenti esondazioni del fiume, le cui acque inondavano i terreni
circostanti, necessitavano, al fine di rendere quelle terre abitabili e
soprattutto coltivabili, di importanti interventi per il prosciugamento della
zona. Le prime opere di drenaggio, favorite da una sufficiente pendenza del
terreno, risalgono al tempo dei Romani quando la poderosa organizzazione di quel
popolo, che si avvaleva del lavoro degli schiavi, bonificò quelle che erano
state le plaghe paludose di epoche preistoriche. Alcuni secoli più tardi, però,
il declino dell’impero romano e le successive invasioni barbariche che si
protrassero fino all’anno 1000, mutarono la situazione ambientale che cominciò
a deteriorarsi per il venire meno di una rigorosa gestione del territorio. La
naturale inclinazione della zona all’impaludamento, complice l’aumento del
livello del mare e il contemporaneo abbassamento del suolo, finì per
trasformare quelle che erano diventate fertili campagne in paludi malsane. I
canali artificiali di bonifica necessitavano di regolare manutenzione che
divenne invece sempre più rara lasciando via libera alla progressiva invasione,
sulle terre bonificate, sia delle acque del fiume sia di quelle marine.
L’estensione delle aree lagunari salmastre e le inondazioni periodiche
provocarono impaludamenti sempre più vasti, che finirono per favorire la
diffusione della malaria. Come conseguenza di questa grave epidemia, intorno al
1500, gli abitanti di quelle zone si erano ridotti a poche centinaia di unità
ed Aquileia, che nel periodo del suo maggior fulgore era una città di 100.000
abitanti, era divenuta un villaggio inospitale.
Con l’avvento del Patriarcato di Aquileia, si assiste alla ripresa
economica di tutta la zona e con essa al rilancio di quelle opere di bonifica
che saranno completate solo più tardi sotto l’impero austro-ungarico. Maria
Teresa d’Austria, in particolare, sottopose il territorio paludoso dell’agro
aquileiese ad una massiccia opera di smaltimento delle acque (le cosiddette
“bonifiche teresiane”) con una fitta rete di canali che seguivano le
direttrici delle antiche opere romane. Le successive piene del fiume,
conseguenti anche alle modifiche operate dall’uomo, finiranno per creare
situazioni territoriali nuove. Verso la fine del secolo scorso, in occasione di
un’ennesima piena, le acque dell’Isonzo, uscite dagli argini, si riversarono
in un piccolo corso di risorgiva chiamato Correntía. Negli anni successivi lo
stretto alveo iniziale del torrente si ampliò e divenne il vero ramo attivo
della foce dell’Isonzo mentre lo Sdobba, da unico estuario, diventava canale
di riserva per i flussi di piena. Oggi il Correntía si chiama Quarantía e fra
esso e lo Sdobba si è venuta a formare l’isola della Cona, attuale fulcro
naturalistico del parco dell’Isonzo. 2. LA SITUAZIONE ATTUALE
Alla fine dell’800 il delta dell’Isonzo versava nuovamente in una
situazione di completo abbandono, privo com’era dei grandi argini di
contenimento e con le canalizzazioni di bonifica praticamente tutte intasate.
Solo all’inizio di questo secolo vennero ripresi ancora una volta i lavori di
bonifica sottraendo a laguna e palude una buona parte del territorio. Frattanto
l’abbondante apporto di sabbie fluviali del Canale Quarantía stava provocando
una rapida espansione verso il mare del cuneo sabbioso emerso e minacciava
l’interrimento del porto di Monfalcone. Inoltre mentre il delta del Quarantía
si ampliava quello dello Sdobba, non più alimentato dalle acque del fiume,
subiva una progressiva erosione. Era urgente pertanto intervenire con una serie
di strutture murarie che si concretizzarono in opere di protezione dei litorali
e in uno sbarramento (tuttora visibile parallelamente alla strada sterrata che
conduce all’Isola della Cona) che decretò l’estinzione del Quarantía e il
ripristino del ramo di Sdobba.
Negli ultimi anni del secolo scorso per proteggere dalle acque marine le
terre bonificate, si iniziarono le opere di arginatura tuttora esistenti lungo
l’arco costiero fra Monfalcone e Grado, che di fatto hanno trasformato
quell’area in un polder, cioè in un terreno agrario posto sotto il livello
del mare.
Fino agli anni ‘50 il delta fluviale, continuamente arricchito dai
detriti sabbiosi trasportati dal fiume, si opponeva efficacemente alle
mareggiate e alle correnti marine che tendevano a disperderlo e quindi
rallentava l’avanzata dei processi erosivi costieri. Successivamente la
situazione cambiò e si fece preoccupante durante gli anni ‘60 e ‘70 a causa
della costruzione di una diga in territorio sloveno e della erezione di opere di
difesa delle sponde lungo il corso medio del fiume. In seguito a questi
interventi, gli apporti solidi dell’Isonzo diminuirono notevolmente provocando
un vistoso rallentamento nell’ampliamento verso il mare della barra di foce
deltizia. Se a questi lavori eseguiti dall’uomo si aggiunge il fenomeno della
subsidenza, ovvero l’abbassamento del suolo dovuto al drenaggio necessario per
lo sfruttamento agrario del terreno, si comprende la situazione di rischio in
cui si veniva a trovare la fascia costiera. L’Isonzo da solo non riusciva più
ad opporsi all’azione del mare: era necessario il contributo costante
dell’uomo che doveva concorrere al mantenimento di un ambiente naturale molto
fragile qual è quello del delta fluviale.
La foce dell’Isonzo, come d’altronde tutte le zone umide, rappresenta
un ambiente estremamente delicato che richiede per la sua conservazione una
gestione particolarmente attenta e tempestiva. Due sono le strategie che in
questi casi si confrontano: quella degli interventi o della conservazione attiva
e quella dell’abbandono o della conservazione passiva. Da un lato si propende,
attraverso opere di arginatura, ad orientare e correggere l’andamento
spontaneo della natura, dall’altro si preferisce operare nel rispetto del
paesaggio che spontaneamente crea aspetti di indubbio interesse naturalistico.
La strada migliore è certamente quella mista, cioè determinata sia dagli
interventi dell’uomo progettati sul rispetto dell’ambiente, sia
dall’assecondare l’evoluzione naturale della linea di costa dovuta
all’azione morfologica del moto ondoso e delle correnti sull’apporto solido
del fiume stesso.
La superficie attuale della intera Riserva Naturale dell’Isonzo occupa
una vasta zona circostante la foce vera e propria, nonché la parte terminale
del fiume, per una superficie complessiva di circa 2.400 ettari. Il territorio
è in gran parte incluso nel Comune di Staranzano e in parti minori nei Comuni
di S. Canzian d’Isonzo, Grado e Fiumicello. I sei comuni inizialmente
interessati al progetto di conservazione e ripristino della zona si sono quindi
ridotti a quattro: tre in provincia di Gorizia e il quarto (Fiumicello) in
provincia di Udine. Questi quattro comuni, insieme con la Regione Friuli-Venezia
Giulia, rappresentata dall’Azienda dei Parchi e delle Foreste Regionali,
formano l’ente che ha il compito e la responsabilità di gestire l’area
protetta.
Gli interventi realizzati in questi ultimi anni al fine di
riportare la zona deltizia dell’Isonzo e in particolare quella dell’Isola
della Cona, ad una situazione precedente a quella dello sfruttamento agrario,
sono stati di varia natura ed efficacia. Utilizzando in parte opere di
arginatura preesistenti, vaste zone sono state riallagate con acqua piovana o
artesiana (cioè proveniente dal sottosuolo), invertendo il funzionamento del
sistema di bonifica delle paludi. In questo modo si sono venute a creare nuove
distese di canneto, uno specchio lacustre poco profondo, praterie umide e aree
palustri: tutto ciò all’interno della cosiddetta “area del Ripristino”,
un sito che si estende su una superficie di circa 50 ettari. All’interno di
questa zona di recupero naturalistico si è provveduto inoltre alla creazione di
una serie di isolotti fangosi e di uno in ghiaia (la cosiddetta “vecia coriera”)
finalizzati alla sosta e alla nidificazione di uccelli acquatici.
Attraverso questi interventi di ripristino il nostro Paese poteva
destinare a zona umida una parte significativa del proprio territorio, come
stabilito dalla Convenzione internazionale di Ramsar, cui aveva aderito. La
convenzione di Ramsar (dal nome della cittadina dell’Iran in cui si firmò
l’accordo) è una delle cinque convenzioni internazionali fra Stati, cui anche
l’Italia partecipa, che hanno lo scopo di garantire una particolare tutela
della fauna selvatica attraverso una gestione del patrimonio naturale più ampia
di quanto non possa essere quella ristretta al proprio ambito territoriale. Con
la Convenzione di Ramsar si è inteso assicurare particolare tutela a quelle
zone umide aventi un habitat specificamente idoneo alla sosta e alla
nidificazione degli uccelli migratori, i quali essendo per l’appunto animali
che si spostano da un luogo ad un altro, rappresentano un patrimonio di valore
internazionale. Nello stesso tempo in quelle aree veniva arrestato
l’intervento disordinato dell’uomo.
Nell’isola della Cona è stato anche costruito un edificio in legno
adibito a Centro Visite e un osservatorio a tre piani (il più basso dei quali
attrezzato per l’osservazione subacquea), detto della “Marinetta”, e
realizzato seguendo le linee costruttive del “casone” lagunare. Inoltre,
percorrendo il sentiero pedonale del “Mondo Unito” così chiamato perché
alla sua realizzazione contribuirono, con lavoro volontario, gli studenti e gli
insegnanti del Collegio internazionale di Duino, è possibile accedere agli
osservatori del “Biancospino” e del “Cioss” (Fischione). E’ stata
infine predisposta un’area di sosta all’aperto con tettoia, mangiatoie e
maneggio per i cavalli domestici adibiti alle visite guidate. 3. CARATTERISTICHE DELLA
RISERVA
L’isola della Cona e più in generale l’area del delta fluviale
dell’Isonzo rappresentano, nonostante le modeste dimensioni del sito, una zona
di notevole interesse naturalistico per l’elevato grado di biodiversità che
contiene. La grande varietà faunistica e più in generale di forme viventi,
rappresenta una caratteristica che dipende in larga misura dalla peculiare
collocazione geografica del territorio. Si tratta infatti di un’area che
delinea il confine fisico di separazione fra la fascia costiera alta e rocciosa
del Carso goriziano e triestino e le basse e sabbiose coste padano-venete con le
ampie spiagge di Grado e Marano, zone umide ed estese lagune. Questo estremo
lembo settentrionale del mare Adriatico, soprattutto in seguito agli interventi
di tutela di questi ultimi anni, è divenuto un preciso punto di riferimento per
molti uccelli, non solo acquatici, e per molte altre specie di animali.
L’isola della Cona (il cui nome, secondo alcuni, sarebbe sinonimo di
insenatura, ansa fluviale, mentre per altri deriverebbe da canna, pronunciato
alla veneta, senza le doppie: “cana”, a ricordare le vaste estensioni
coperte da vegetazione palustre di un tempo) è un sito frequentato
contemporaneamente dalla fauna selvatica e dall’uomo. Da un lato si è cercato
di concentrare gli animali di diverse specie attirandoli attraverso la creazione
di habitat fra loro differenziati e dall’altro fornendo una grande opportunità
e alcune comodità alle persone che desiderano avere un contatto ravvicinato con
la natura. Quest’area oggi rappresenta quindi un autentico paradiso per il
semplice visitatore, ma anche per lo studioso che desideri scoprire i segreti
meccanismi di un ambiente naturale. Un ambiente naturale che paradossalmente
nasce per mano dell’uomo, il quale ha ribaltato una logica di sfruttamento del
territorio per fini consumistici, restituendolo alla sua condizione originaria.
Attualmente si raggiunge l’Isola della Cona superando la diga in
cemento e terra costruita negli anni ’30 al fine di sbarrare il ramo della
Quarantía, che nello stesso tempo unisce l’isola alla terra ferma. Superato
quindi l’argine principale del fiume si accede alla zona detta dei
“Campi”, un’ampia distesa di prati umidi temporaneamente allagati e
intensamente pascolati da oche, cavalli e vacche. L’introduzione di stormi di
oche rappresentò un primo tentativo di ripristino dell’antico equilibrio
esistente fra i grandi erbivori e la lussureggiante vegetazione palustre, ma
l’intervento si dimostrò insufficiente. Si pensò allora a qualche cosa di più
efficace introducendo alcuni cavalli Camargue: una razza che proviene dalla
omonima regione delle foci del Rodano. Oltre ai cavalli, nella bella stagione
pascola nell’Isola della Cona anche una mandria di bovini, che completa
l’effetto determinato dai cavalli nutrendosi in modo ad essi complementare.
I Camargue sono una razza di cavalli particolarmente adatta a vivere
nelle zone umide, in parte anche salmastre, ricche di insetti ematofagi come táfani
e zanzare. I piccoli nascono con il mantello scuro che (verso i 3-4 anni)
diventando chiaro permette di sopportare meglio i raggi cocenti del Sole in
quanto tende a scaldarsi meno di quello scuro. Ciò sembra una chiara risposta
alla selezione naturale nei confronti di insetti che si nutrono del loro sangue
e che sono attratti dai corpi caldi. Questi cavalli sono dotati di zoccoli
larghi e di arti relativamente brevi e pertanto si muovono con facilità nel
fango molle e nell’acqua. Nell’Isola della Cona vivono due gruppi di cavalli
Camargue: uno è stato addestrato per essere utilizzato nelle visite guidate,
nella vigilanza e nei lavori di manutenzione e l’altro è lasciato allo stato
brado più o meno libero di muoversi a suo piacimento ad eccezione delle aree
nelle quali vi sono canneti e boschi in fase di sviluppo. Anche se la loro
dentatura non è particolarmente adatta, i cavalli scortecciano alberi giovani e
rami, pur essendo il pascolo abbondante; si rende pertanto necessario isolare e
proteggere quell’area mediante una recinzione di altezza adeguata.
Il cavallo si nutre preferibilmente delle piante erbacee più facilmente
assimilabili, come graminacee e leguminose, mentre evita quelle coriacee e
pungenti o troppo aromatiche. Inoltre, a differenza delle vacche, quando può,
non si nutre dell’erba cresciuta in prossimità delle sue feci e pertanto il
prato dove pascolano solo cavalli non appare uniformemente rasato, ma a chiazze.
Dove invece il pascolo è misto (cavallo – vacca) il tappeto erboso diventa
uniforme perché le vacche non selezionano sul campo le piante più adatte, ma
inghiottono qualsiasi vegetale: ci penseranno successivamente i batteri
simbionti che vivono nel loro stomaco complesso a digerire le pareti
cellulosiche più resistenti e neutralizzare eventuali sostanze tossiche.
Parcheggiata l’automobile, dopo breve percorso a piedi si arriva al
Centro Visite, la prima struttura di riferimento dove si possono raccogliere le
informazioni per una visita razionale della Riserva naturale e dove esiste un
pannello esplicativo che illustra tutto il percorso. Di fronte è sistemato il
recinto dei cavalli domestici che sono controllati e accuditi da personale
specializzato.
Dal centro visite, percorrendo a piedi un sentiero molto agevole, in 15
minuti si arriva all’Osservatorio della Marinetta che consente la vista sul
ripristino e sulla ricca avifauna ivi presente. La vista spazia su un angolo di
360° e coglie diversi panorami a seconda dell’altezza alla quale ci si pone
all’interno dell’Osservatorio: dalle barene al Canale della Quarantía, dal
bosco degli Alberoni ai Campi e al bosco degli Ontani fino al golfo di Trieste
con il Carso e la penisola istriana. E infine, lontane sullo sfondo, le Prealpi
e le Alpi Giulie.
Prendendo quindi il sentiero del Mondo Unito si giunge all’Osservatorio
del “Cioss” che è posto a cavallo fra la palude d’acqua dolce del
Ripristino e le barene e le velme che si estendono verso il mare.
Le barene sono distese pianeggianti di fango consolidato che di norma
emergono anche con l’alta marea. Su di esse cresce una vegetazione alofila
(dal greco: “che ama il sale”), cioè resistente alla forte salinità
dell’acqua marina, come ad esempio le diverse specie del genere Limonium
che fioriscono alla fine dell’estate e che nella zona di Grado sono noti come
“fiuri de tapo”, cioè fiori delle barene, isolotti che da quelle parti
vengono considerati dei tappi. Il nome del genere Limonium
non ha niente a che vedere con i limoni, ma deriva da un termine greco che
significa “prato” quindi sarebbero semplicemente piante di prato o meglio,
nel nostro caso, di “prato umido”. Caratteristica è anche la rossa e
succulenta Salicornia europaea una
pianta che in autunno contribuisce a colorare di rosso queste vaste e suggestive
praterie.
Le velme sono invece distese sabbioso-fangose emergenti soltanto nella
fase di bassa marea, spesso tappezzate di vegetazione sommersa e percorse da
ramificati e tortuosi canali di marea chiamati “ghebi” dove vive una quantità
sterminata di invertebrati fra cui predominano gli Anellidi (vermi) e svariate
specie di molluschi e crostacei.
Una passeggiata molto più lunga, che richiede circa un’ora e mezza di
cammino, porta infine alla foce del fiume. Il tracciato si snoda parte in golena
cioè nell’area compresa fra l’argine e il fiume e parte sull’argine
stesso fino ad arrivare a Punta Spigolo. Lungo il percorso si attraversa quindi
la zona delle vasche salate oltre a canneti, barene e velme. 4. LE OSSERVAZIONI
I periodi migliori per le visite all’isola della Cona sono quelli
primaverili e autunnali, soprattutto per coloro che praticano il bird-watching,
cioè l’osservazione degli uccelli attraverso il binocolo, ma la Riserva è
aperta tutto l’anno e ogni stagione assicura ai visitatori una ricchezza
faunistica e una abbondante gamma di specie vegetali non riscontrabile altrove.
Davanti al Centro Visite è stato realizzato uno stagno con diverse
profondità che ospita numerose varietà di rettili e anfibi, oltre naturalmente
a uccelli e pesci. La zona adiacente, cosiddetta dei “Campi”, è soggetta ad
interventi graduali che hanno lo scopo di riportarla un po’ alla volta alle
condizioni primitive e cioè a quelle di prati umidi costantemente allagati e di
aree palustri temporanee.
Nell’area del Recupero naturalistico, specialmente in autunno, dopo che
l’intervento del gruppo inglese del British Trust for Conservation Volunteers,
coadiuvato dal personale della riserva, ha provveduto al taglio della
vegetazione palustre rendendo migliore la visuale, si possono osservare, prima
che partano per i luoghi di svernamento, molti uccelli limicoli, cioè quelle
specie adatte a vivere nel fango. Fra questi è facile riconoscere i beccaccini,
i combattenti (così chiamati per il bellicoso comportamento dei maschi durante
il periodo degli amori) e le pittime reali. Nella stessa zona, dove il terreno
è coperto da un velo d’acqua, è possibile osservare, a distanza
relativamente ravvicinata, i diffidenti ed elusivi chiurli, intenti alla ricerca
di lombrichi o larve di insetti che raggiungono infilando nel fango il lungo
becco ricurvo fino alla profondità di una ventina di centimetri. L’immagine
del chiurlo è stata scelta a simbolo della riserva proprio perché si tratta di
un animale schivo che meglio di altri, anche attraverso il suo malinconico e
flautato richiamo, personifica la natura selvaggia del luogo.
Nel mese di aprile, in particolare, è possibile osservare
contemporaneamente moltissime specie di animali: oltre agli uccelli migratori e
stanziali, agli anfibi, ai rettili e ai mammiferi vi sono molti insetti fra cui
alcune specie di farfalle dai colori sgargianti e le eleganti libellule.
Stagni e paludi in primavera sono brulicanti di invertebrati. Molti
crostacei e molluschi, nei mesi di marzo e aprile, compiono le prime fasi di
sviluppo e si diffondono su vaste superfici divenendo preda di animali più
grossi. Naturalmente nello stesso periodo completa la metamorfosi anche ogni
sorta di insetto: dai Coleotteri acquatici ai Ditteri come zanzare, tafani e
mosche. Non è raro, all’inizio della bella stagione, infilarsi in nugoli di
moscerini, ma niente paura: si tratta normalmente dei maschi delle zanzare, noti
localmente con il nome di “musati”, che si nutrono del polline dei fiori
mentre le femmine succhiano il sangue dei mammiferi.
In una zona in cui terra ed acqua convivono l’una accanto all’altra
abbondano ovviamente gli anfibi (gli animali dalla vita doppia, di acqua e di
terra). In primavera ed estate si possono quindi osservare (e soprattutto udire)
le rane che rappresentano un anello fondamentale della catena trofica. Pochi
sono i predatori che non approfittano di tale risorsa alimentare e fra i più
attivi, in passato, vi erano anche gli uomini che superavano periodi di carestia
nutrendosi abbondantemente di questi anuri (anfibi senza coda). Un anfibio con
la coda, facile da individuare nello stagno, è invece il Tritone punteggiato.
Fra i rettili, tipica della zona è la tartaruga d’acqua alla quale in questi
ultimi tempi si è andata aggiungendo una specie americana, la testuggine della
Florida, in concorrenza con quella locale. Ciò è accaduto perché alcuni
visitatori, forse in buona fede, hanno ritenuto di fare opera “meritoria”
liberando un animale che avevano acquistato per tenere in casa. Non è raro
osservare la biscia d’acqua, un serpente lungo anche più di un metro che
nuota agilmente nell’acqua dolce, e in quella di mare che si nutre di rane e
piccoli pesci.
Oltre ai cavalli e alle vacche, nella Riserva sono presenti alcuni altri
mammiferi che hanno tratto beneficio dalla tranquillità del luogo. Verso sera,
ad esempio, è possibile osservare piccoli gruppi di caprioli che, scesi dal
Carso, invadono i campi coltivati interni ed esterni alla Riserva dove il cibo
è abbondante. Risulta meno agevole osservare il comportamento dei mammiferi
dediti a vita notturna, del cui passaggio tuttavia si colgono le tracce. Fra
questi meritano menzione il cinghiale e alcuni mustelidi come la faina, la
puzzola, la donnola e il tasso. Occasionalmente si osservano anche la volpe, lo
sciacallo e il gatto selvatico, oltre naturalmente a numerosissimi roditori.
Spostandosi nell’area cosiddetta del “Recupero naturalistico” si
possono osservare, particolarmente d’inverno, diverse migliaia di anatidi
alcuni dei quali si lasciano ammirare a distanza di pochi metri anche dai
visitatori chiassosi e indisciplinati come sono a volte le scolaresche in
visita, ma che gli animali sanno essere innocui perché in un certo senso
ingabbiati ovvero chiusi all’interno delle aree a loro destinate: il contrario
di quello che si verifica normalmente quando a stare in gabbia sono gli animali.
Fra gli anatidi spiccano le alzavole, i mestoloni (uccelli dotati di un becco
voluminoso a forma di cucchiaio con una sorta di pettine ai lati che consente di
filtrare l’acqua e trattenere il cosiddetto plancton formato da minuscoli
animali e vegetali), le morette (fra cui la rara moretta tabaccata) e i
moriglioni.
Sono particolarmente numerosi i germani reali, gli anatidi nidificanti di
gran lunga più diffusi. Chiamato localmente con il termine di origine slava,
“raza”, quest’anatra è tanto abbondante e popolare da essersi meritata a
Staranzano una apposita festa popolare che si celebra a settembre: “la sagra
delle raze”. In passato era una festa paesana che si celebrava quando migliaia
di uccelli provenienti dall’Europa venivano abbattuti da uccellatori e
cacciatori locali traendone importanti guadagni (per quell’epoca!). Oggi la
festa si celebra ancora, ma le raze che finiscono in padella provengono quasi
esclusivamente dagli allevamenti.
E’ facile osservare dalla Marinetta i fischioni fino a quando la
presenza di questi uccelli rimane circoscritta a pochi esemplari perché in caso
contrario si radunano, per un effetto di attrazione esercitato dal gruppo, in
mare aperto e quindi non sono più visibili dall’Osservatorio. Di fronte al
medesimo, in direzione dell’area del Recupero, si concentrano numerose oche
grigie o oche selvatiche, uccelli reintrodotti da poco. Ad esse si aggiungono
parecchi individui di transito che provengono dalle aree di riproduzione
Centroeuropea.
In primavera e in autunno sono numerosi anche i già ricordati limicoli,
uccelli dalle zampe lunghe e dal becco appuntito come il chiassoso piro-piro (un
uccello dal nome chiaramente onomatopeico) che cerca piccoli invertebrati nelle
zone ricoperte da un sottile velo d’acqua, o gli eleganti Cavalieri d’Italia
la cui presenza è collegata forse ai cavalli. E’ probabile infatti che i
Cavalieri d’Italia abbiano questo nome proprio per la loro predilezione a
frequentare siti pascolati da equini.
Nel canneto prevalgono i passeriformi, uccelli di cui è più facile
udire il canto che vedere fisicamente, come l’usignolo di fiume la cui
presenza si indovina seguendo il cinguettio. Un uccello veramente unico è il
pendolino così chiamato perché fabbrica il nido sui flessibili rami di salice
mossi dal vento.
Sul canneto, ma anche altrove, spesso si vede volteggiare minaccioso il
falco di palude alla ricerca di qualche facile preda che comunque esso catturerà
in modo silenzioso e invisibile nel folto della vegetazione deludendo coloro che
si aspettano fulminee picchiate e furiosi inseguimenti. Nella zona vi sono
tuttavia altri predatori più spettacolari, ma è molto difficile avvistarli
proprio per la rapidità della loro azione. E’ possibile invece, seguendo una
guida esperta, intuire la presenza del predatore dal comportamento delle prede
che si alzano in volo tutte insieme cercando di guadagnare quota il più presto
possibile.
Non è infrequente osservare gli stornelli che, insieme alle ballerine
bianche, si posano sul dorso dei cavalli alla ricerca di larve di insetti e di
acari parassiti che si trovano nel pelo di quegli animali. La scena ci ricorda i
documentari girati nella savana che ci mostrano le bufaghe (dal greco “che si
nutre di buoi”) che camminano sul dorso dei grossi mammiferi africani. Questi
uccelli sono a loro volta preda degli sparvieri. Anche i pesci, come lucci,
carpe e cefali sono presi di mira, oltre che da aironi e cormorani, anche da
qualche raro falco pescatore che in primavera e in autunno fa la sua comparsa
allietando i visitatori con qualche tuffo spettacolare.
La primavera, come dicevamo, è il periodo migliore per i bird-watchers.
Allora è possibile osservare molti uccelli: a quelli che hanno svernato, si
aggiungono i migratori. Marzaiole, gabbianelli e mignattini arrivano a frotte.
Ci si può anche imbattere in cicogne bianche e nere, nei rarissimi luì e in
altri Silvidi relativamente insoliti da queste parti. Poi, andando verso
l’estate, è facile osservare le candide spatole un tempo rare che con il loro
lungo becco a cucchiaio rimestano nei bassi e fangosi fondali cercando il cibo
con il tipico movimento del capo a destra e a sinistra. La spatola è una specie
ecologicamente molto esigente e il fatto che sia tornata a nidificare in queste
zone, dopo secoli di assenza, è la dimostrazione più evidente dell’efficacia
della strategia di conservazione integrale operata nella zona.
Spostandosi verso la parte terminale del fiume, si può osservare la
barra di foce prodotta dai sedimenti fluviali che forma ampie e frastagliate
lingue di terreno in parte sommerse anche durante la fase di bassa marea. La
barra di foce rappresenta una specie di trappola che trattiene ogni cosa buona o
cattiva, sia trasportata dal fiume sia riversata dai flutti marini. La zona è
ricca di avifauna per l’abbondanza di cibo disponibile e per la lontananza dei
predatori terrestri che non possono raggiungere la zona. Il cibo è
rappresentato soprattutto dal pesce che è catturato dai gabbiani presenti in
diverse specie. Vi sono anche cospicui stormi di uccelli che si radunano in
questa zona durante la migrazione. A seconda della stagione si possono osservare
svassi, strolaghe e vari Anatidi. Fra le cose “cattive” vi è l’immensa
quantità di rifiuti che, in parte trasportati dal fiume, in parte scaricati
direttamente in mare e poi sospinti dalle mareggiate, si arenano sulla
cosiddetta “Costa delle Scovasse”. Per eliminare almeno in parte tutta
questa spazzatura, viene chiesto ancora una volta il lavoro dei volontari la cui
fatica potrebbe essere notevolmente alleviata soltanto qualora si evitasse di
gettare rifiuti in terra e in mare come se l’ambiente fosse un’enorme
pattumiera.
Uno spettacolo indubbiamente non comune è rappresentato infine dai cigni
che in stormi numerosi (anche di 100 o 150 individui) si radunano nel tratto di
mare antistante la foce dell’Isonzo. Fino agli anni ’80 era presente solo
qualche sporadico esemplare di questo attraente e leggiadro uccello ma
successivamente, anche in seguito a svariate immissioni, si sono ottenute le
prime riproduzioni in libertà e quindi, oltre a quella di passo, si è andata
consolidando anche la popolazione nidificante. Nonostante il loro incedere
elegante e rassicurante i cigni non sono per nulla pacifici. I maschi adulti si
dimostrano particolarmente aggressivi nei confronti dei piccoli nati di altre
specie e difendono il territorio nuotando a scatti e sollevando le penne del
dorso per sembrare più imponenti e minacciosi: ciò accade specialmente quando
la femmina è intenta a covare le uova in un nido molto particolare che viene
rialzato dagli uccelli stessi col crescere del livello dell’acqua. Per quanto
riguarda il cibo, la concorrenza con gli altri anatidi erbivori è compensata
dal fatto che i cigni vanno a raccogliere le alghe a notevole profondità
portando in superficie nutrimento di cui approfittano anche altre specie. fine |