ANTONIO, IL DINOSAURO DI CASA NOSTRA

 

    In un tiepido pomeriggio d’inverno di una decina di anni fa, un giovane triestino, orefice di professione ma con l’hobby della mineralogia, si trovava a passeggiare all’interno di una cava abbandonata nei pressi del Villaggio del Pescatore, sul Carso triestino, alla ricerca di minerali da aggiungere alla sua collezione, quando si imbatté in quello che sembrava essere il frammento di un grande osso pietrificato che spuntava dalla roccia.

    Non essendo esperto di fossili, ma nella convinzione di avere individuato qualche cosa di interessante, decise di chiedere aiuto ad un amico paleontologo dilettante, ma con alle spalle una lunga esperienza nel campo dei ritrovamenti fossili, e questi capì immediatamente che l’oggetto che affiorava dalla parete della montagna doveva essere il femore di un grande vertebrato. E siccome il reperto si trovava imprigionato in terreni molto antichi corrispondenti a un periodo geologico in cui i grossi mammiferi non erano ancora comparsi, non poteva che trattarsi di un osso di dinosauro.

    I due amici decisero di non divulgare il ritrovamento fino a che non fossero stati ben sicuri di ciò che avevano scoperto. L’esperto paleontologo prelevò allora dal reperto un minuscolo pezzetto per effettuare delle analisi più accurate. Ne ricavò una sezione sottile che osservò al microscopio e confrontò con alcune foto dello stesso tipo pubblicate su un libro specialistico fino a individuare quella che combaciava con il frammento raccolto nella cava. Egli in questo modo non solo ebbe la conferma che si trattava di un osso di dinosauro, ma riuscì anche ad individuarne la specie. L’osso era appartenuto, non vi era ombra di dubbio, ad un adrosauro, o dinosauro a becco d’anatra, vissuto più di ottanta milioni di anni fa.

    A quel punto i due amici si rivolsero alla professoressa Maria Letizia Zucchi, docente di paleontologia presso l’Università di Trieste, la quale confermò trattarsi di un reperto fossile che poteva rappresentare solo la parte emersa di altri dello stesso tipo nascosti nella roccia. Frattanto la notizia di importanti ritrovamenti fossili sul Carso triestino si era diffusa fra gli addetti ai lavori e i giornalisti si affrettarono a pubblicarla sulla stampa locale.

    I due ricercatori dilettanti a quel punto indicarono con precisione il luogo del loro ritrovamento al direttore del Museo di Storia Naturale di Trieste il quale organizzò i lavori per l’estrazione dalla roccia di quello che risulterà essere un rettile intero lungo quattro metri e che affettuosamente fu battezzato “Antonio” ma forse troppo affrettatamente perché in realtà sembra si tratti di una femmina.

 

1. DINOSAURI OVUNQUE

    Fino a quindici anni fa si riteneva impossibile che in Italia esistessero fossili di dinosauri in quanto nel periodo in cui vissero i grandi rettili la nostra penisola era un mare costellato di piccole isole: una zona inospitale quindi per animali che vivevano sulla terraferma. Da alcuni anni però resti di dinosauri compaiono un po’ dovunque in Italia e anche in altre zone del pianeta che venivano giudicate inadatte alla vita di questi antichi rettili.

    Orme, o piste di dinosauri, sono state osservate in Trentino e in Istria e un intero esemplare di giovane età, cui è stato dato il nome di “Ciro” (Ciruzzo per i locali), è stato rinvenuto nei pressi di Benevento. Inoltre, dopo il ritrovamento di “Antonio”, un esemplare simile è stato scoperto, sempre dai due amici triestini, sui monti Lepini nei pressi di Roma dove si erano recati per trascorrere un periodo di vacanza-studio proprio perché la zona presenta caratteristiche litologiche e stratigrafiche molto simili a quelle in cui fu rinvenuto il fossile di dinosauro sul Carso triestino.   

    Negli ultimi anni si è fatto più forte l’interesse verso i dinosauri sia per motivi prettamente scientifici sia per motivi, per così dire, commerciali e speculativi. Dell’immagine dei dinosauri si sono impadroniti la stampa fumettistica, il cinema, la televisione e l’industria dei giocattoli che hanno trasformato un gruppo estinto di vertebrati di enorme valore culturale in creature fantascientifiche destinate ad occupare un ruolo simile a quello dei draghi delle antiche leggende.

    Recenti e approfonditi studi hanno cambiato l’immagine che la comunità scientifica si era fatta di questi antichi animali scomparsi 65 milioni di anni fa. Le risposte alle domande riguardanti la loro evoluzione, le ragioni del predominio che hanno esercitato per milioni di anni su tutti gli altri animali e infine la repentina e drammatica scomparsa di queste esotiche creature sono state rivisitate all’interno di nuove conoscenze geologiche e paleogeografiche.

    I dinosauri, che comparvero alla fine dell’Era Paleozoica, cioè circa 250 milioni di anni fa, ebbero il loro grande sviluppo e dominarono la Terra per quasi 180 milioni di anni, cioè per tutta l’Era Mesozoica, alla fine della quale si estinsero misteriosamente in modo repentino. La storia del gruppo si sviluppò in un contesto geografico, climatico e biologico in forte trasformazione e proprio queste modificazioni ambientali influirono notevolmente sull’evoluzione di questi strani animali.

    Il termine “dinosauro” fu coniato dal paleontologo britannico Richard Owen nel 1842 in occasione della presentazione di un suo lavoro sui rettili fossili della Gran Bretagna. Dinosauro vuol dire rettile terribile ma in realtà questi animali non erano così pericolosi come comunemente si crede perché molte specie erano erbivore e quindi passavano tutta la loro esistenza a brucare l'erba per soddisfare le esigenze alimentari di un corpo spesso di proporzioni enormi. Essi inoltre si muovevano lentamente ed avevano un cervello di ridotte dimensioni rispetto alla massa corporea. In verità alcuni, come il Tirannosauro, erano carnivori, ma con tutto quel ben di dio (anche di animali morti) a loro disposizione non avevano assolutamente la necessità di ingaggiare lotte furibonde, come una certa letteratura lascia credere, per procurarsi il cibo.

    Resti fossili di dinosauri sono stati localizzati praticamente in tutte le parti del mondo anche dove a rigore non avrebbero dovuto esserci. I dinosauri sono animali terrestri e a sangue freddo quindi, come abbiamo detto, non avrebbero dovuto trovarsi ad esempio in Italia che a quel tempo era un arcipelago, né nelle fredde regioni polari. Dinosauri sono invece stati trovati in Italia e nell’Antartide. Come hanno fatto questi enormi animali ad attraversare il mare per sistemarsi su di un’isola e come si sono adattati a vivere alle rigide temperature polari? La risposta è che sono state le terre a muoversi, non i dinosauri.

    Una quarantina di anni fa si scoprì che la crosta terrestre non era una massa compatta, come si era sempre creduto, ma un insieme di grandi zolle che si spostano lentamente le une rispetto alle altre allontanandosi o avvicinandosi fra loro, a volte scontrandosi o scivolando l’una sull’altra. Queste zolle di litosfera, alcune delle quali si portano addosso i continenti, si spostano come fossero iceberg in navigazione su un substrato magmatico di consistenza pastosa. Nel loro vagare disordinato, all’inizio del Mesozoico le zolle si avvicinarono in misura tale da portare i continenti a diretto contatto. Si formò allora un unico enorme blocco che Alfred Wegener, il padre della teoria della deriva dei continenti, aveva denominato Pangea, mentre il resto delle zolle, prive del sovraccarico continentale, quindi a un livello altimetrico più basso rispetto al territorio della Pangea, rimase coperto dalle acque che vennero a formare un grande oceano chiamato Panthalassa. Pangea significa “tutto terra” o “tutta una terra” e Panthalassa significa “tutto mare” o “tutto un unico mare”. 

    Con ogni probabilità la Pangea si formò e si separò numerose volte nel corso della storia del pianeta che dura da 4,5 miliardi di anni e l’ultima volta che si compose fu proprio all’inizio di quella che viene chiamata l’Era Mesozoica (o era degli animali di mezzo) cioè, come abbiamo visto, circa 250 milioni di anni fa. Questo grande unico continente si estendeva a cavallo dell’equatore entro una fascia a clima temperato-caldo e in quell’ambiente si svilupparono i grandi dinosauri che ebbero tempo di evolvere e di distribuirsi su tutto il territorio prima che il grande continente si spaccasse in frammenti che andarono alla deriva trasportati dalle zattere di litosfera.

    Circa 200 milioni di anni fa la Pangea si ruppe in due parti: la Laurasia a Nord e il Gondwana a Sud. Fra questi due blocchi si estendeva un grande oceano chiamato Tetide. Successivamente sia la Laurasia (cosiddetta dai monti Laurenziani del Canada orientale, e da Asia), sia la Terra di Gondwana (il cui nome, da una regione dell’India, fu stabilito dal famoso geologo austriaco, Eduard Suess, vissuto nel XIX secolo) si fratturarono a loro volta in blocchi di minori dimensioni che viaggiarono, trasportati dalle zolle, fino a stabilirsi nella posizione che occupano attualmente. Le terre emerse portarono con sé i fossili dei dinosauri già estinti e quelli che, dopo essersi evoluti in modo indipendente, andarono a morire in zone molto lontane da quelle in cui la specie ebbe origine.

    Quando 65 milioni di anni fa i dinosauri si estinsero definitivamente i continenti erano ben separati fra loro ed ognuno di essi aveva la sua quantità di fossili di dinosauri. Ma che cosa provocò l’estinzione dei dinosauri?

 

2. LE TEORIE SULLA ESTINZIONE DEI DINOSAURI

    Ecco un altro interrogativo che per lunghi anni ha assillato le menti degli scienziati senza trovare una risposta definitiva e convincente. In un primo tempo si pensò che la fine dei dinosauri in realtà non fosse determinata da un’estinzione subitanea, ma da un processo lento e graduale dovuto ai cambiamenti ambientali che mutarono le condizioni geografiche e climatiche in cui i grossi rettili si erano sviluppati e diffusi, come suggeriva le teoria evoluzionistica di Darwin. Secondo i seguaci di questa teoria un abbassamento generale del livello del mare, conseguente al movimento dei continenti, avrebbe provocato l’estinzione dei dinosauri e di tante altre specie, compresi molti invertebrati marini. Si calcola che l’80% delle specie viventi si sia estinta alla fine dell’Era Mesozoica, detta anche “Era dei rettili”, provocando quella che oggi viene chiamata “estinzione di massa”.

    La regressione marina, di cui si è detto, è un fenomeno ben documentato dai geologi; esso avrebbe fatto emergere gran parte dei bordi dei continenti (cioè quella zona coperta da mare poco profondo che viene chiamata “piattaforma continentale”) riducendo lo spazio a disposizione di numerosi animali marini che normalmente vivono in quell’ambiente. La regressione avrebbe inoltre provocato la modifica delle condizioni climatiche con l’instaurarsi sulle terre emerse di climi più continentali, caratterizzati quindi da forti escursioni termiche diurne e inverni più rigidi. I primi a risentire di queste rinnovate condizioni climatiche sarebbero stati proprio i dinosauri, animali a sangue freddo, mentre sarebbero stati avvantaggiati i piccoli mammiferi a sangue caldo che durante il dominio dei rettili avevano avuto a disposizione solo poche e marginali nicchie ecologiche.

    L’idea di un lento e graduale cambiamento delle condizioni ambientali è molto suggestivo e trova concordi soprattutto gli evoluzionisti che mal volentieri accettano l’idea di cambiamenti catastrofici che possano avere svolto un ruolo importante nella storia della Terra. Eppure oggi proprio un evento catastrofico di dimensioni planetarie, causato dalla caduta di uno o più corpi extraterrestri, sembra dare una spiegazione più completa e persuasiva alla scomparsa improvvisa e repentina dei dinosauri.

    Nel 1980 un gruppo di ricercatori americani analizzò il contenuto di uno straterello di argilla scoperto l’anno precedente presso Gubbio dalla geologa Isabella Premoli Silva dell’Università di Milano. Il sedimento, che era spesso un centimetro e che separava i terreni del Mesozoico da quelli dell’era successiva, il Cenozoico, all’analisi chimica risultò ricco di iridio, un metallo molto raro nella crosta terrestre ma presente in modo significativo nelle meteoriti e nelle comete. La cosa sorprendente fu che il sottile strato di argilla ricca di iridio successivamente è stato individuato da tante altre parti e sempre in rocce formatesi circa 65 milioni di anni fa.

    La scoperta portò al convincimento che a quel tempo fosse piombato sulla Terra un grande asteroide o una cometa (simile a quella che nel marzo del 1994 colpì Giove) che avrebbe sterminato la maggior parte delle creature presenti, dinosauri compresi. Rimaneva tuttavia il dubbio di come avrebbe potuto un oggetto caduto in un punto preciso della Terra provocare la scomparsa delle specie viventi diffuse su tutto il pianeta. In realtà non fu l’asteroide ad uccidere direttamente i dinosauri cadendo sulle loro teste, ma furono le conseguenze di quell’impatto a determinare una catastrofe ecologica di enormi proporzioni.

    Vennero anche calcolate, sulla base della quantità di iridio che si trovava nello straterello di argilla che avvolgeva tutto il pianeta, le dimensioni che avrebbe dovuto avere il corpo celeste precipitato sulla Terra. Si giunse così alla conclusione che per portare sulla Terra tutto l’iridio esistente, il meteorite avrebbe dovuto avere un diametro di 10 kilometri e formare con l’impatto un cratere largo almeno 180 kilometri.

    La caduta di un asteroide di queste dimensioni avrebbe provocato il sollevamento di una tale massa di detriti e pulviscolo da oscurare il Sole per molti mesi e forse per anni. L’oscuramento prolungato del Sole avrebbe avuto l’effetto di abbassare la temperatura, di impedire la fotosintesi e quindi di far morire gran parte della vegetazione: con essa sarebbero morti di fame gli erbivori e di conseguenza anche i carnivori. In realtà non tutti gli esseri viventi a quel tempo morirono: si salvarono ad esempio alcune piante terrestri e gran parte degli animali di acqua dolce. Pertanto, le teorie che cercano di dare una spiegazione alla morte improvvisa di tante specie diverse, dovrebbero anche giustificare la sopravvivenza di altre.

    La teoria della collisione cosmica aveva bisogno di altre prove per essere accettata. Furono osservati, ad esempio, intorno al golfo del Messico, strati di arenaria e di argilla contenenti fossili, che presentavano anche tracce di increspature che potrebbero essere state causate da onde marine. Sempre nella stessa zona furono rinvenuti strati di tectiti, spessi anche mezzo metro. Le tectiti (dal greco tekton che vuol dire “artefice”, o “colui che fabbrica qualcosa per fusione”) sono delle specie di perle vetrose di colore grigio che si formerebbero a seguito di alte temperature e pressioni associate alle collisioni. In aggiunta a tutto ciò si osservò anche, in diverse zone del globo, uno strato di fuliggine che potrebbe essere la conseguenza di un vasto incendio sviluppato anch’esso a causa della caduta del meteorite.

    In seguito a tutti questi ritrovamenti i geologi si sono fatti l’idea che 65 milioni di anni fa possa essere precipitato nei pressi della costa settentrionale dello Yucatan, in Messico, un enorme oggetto proveniente dallo spazio. Il meteorite avrebbe sollevato un’enorme nuvola di polvere e fango e provocato un’onda di proporzioni gigantesche che avrebbe portato acqua e sabbia fino in luoghi molto lontani da quelli dell’impatto. Il calore e le pressioni elevatissime avrebbero fatto fondere sia la parte più superficiale del meteorite sia la roccia sottostante con la conseguente formazione di tectiti. 

    Non solo. Il bolide sarebbe penetrato nell’acqua praticamente senza rallentare la sua corsa e avrebbe quindi colpito il fondo del mare con una tale violenza da provocare la rottura della crosta con fuoriuscita di magma. Ma le ripercussioni della collisione avrebbero influito su tutta la litosfera e non solo nel luogo dell’impatto. Vi sarebbe stata quindi una diffusa attività vulcanica con vasti incendi praticamente su tutte le terre emerse. Gli incendi avrebbero anche ridotto la quantità di ossigeno presente nell’aria ed accresciuto quella dell’anidride carbonica provocando l’aumento della temperatura per effetto serra. Altri gas venefici liberati dai vulcani e dalla combustione delle piante avrebbero reso irrespirabile l’atmosfera.

    Naturalmente per avere la prova più convincente dello scenario che abbiamo descritto si sarebbero dovute trovare le tracce del cratere prodotto dal bolide caduto dal cielo. Ebbene, di recente, un gruppo di geologi americani impegnati nella ricerca del petrolio individuarono, attraverso tecniche di prospezione geofisica, un’enorme struttura geologica coperta dai sedimenti marini che potrebbe corrispondere per dimensioni e forma al cratere formato dal bolide caduto 65 milioni di anni fa. La scoperta è stata fatta nei pressi della costa settentrionale dello Yucatan, proprio nella zona che gli scienziati avevano individuato come sede probabile dell’impatto.

    I sostenitori di questa teoria ritengono che quella del ritrovamento del cratere sia la prova incontestabile della caduta del meteorite. Una catastrofe di tali proporzioni fu sicuramente sufficiente a provocare l’estinzione dei dinosauri, e viene anzi da chiedersi come abbiano fatto alcune specie a salvarsi. A questo proposito si ritiene che le piante terrestri abbiano potuto ricostituirsi partendo da semi, da spore o da radici che avrebbero trovato riparo sotto la polvere, aspettando che passasse il momento più brutto del cataclisma. Per quanto riguarda gli animali di acqua dolce, gli esperti pensano che queste creature si siano potute salvare grazie alla loro particolare alimentazione basata su materia organica decomposta in sospensione sulle acque dolci. Per lo stesso motivo si sarebbero salvati vermi, insetti e altri organismi che si nutrivano di materia organica in decomposizione nell’humus e con essi piccoli mammiferi e rettili di piccole dimensioni come lucertole e tartarughe terrestri che trovavano, proprio in quegli organismi, il loro nutrimento.

 

3. ANTONIO, DINOSAURO DEL CARSO

    Sul Carso triestino, a pochi metri dal mare, non è stato trovato solo Antonio ma, insieme ad esso, che rappresenta indubbiamente l’esemplare più prestigioso, un vero e proprio zoo fossile comprendente alcuni piccoli coccodrilli, una grande tartaruga, crostacei, piccoli pesci e alcune piante. Non solo, ma a parere degli esperti, la roccia dovrebbe custodire almeno altri nove esemplari di dinosauri disposti su più livelli, cosa che farebbe ritenere che questi animali, sul suolo italiano, non solo transitassero, ma vi abitassero stabilmente.

    L’importanza del ritrovamento non è circoscritta al fossile in sé (benché esso sia uno dei rappresentanti della specie più integri rinvenuti al mondo), ma anche al luogo in cui è stato trovato che doveva essere un sito asciutto e non umido e paludoso, come si riteneva in precedenza dovesse essere quello più adatto ad accogliere la vita di queste specie. Il rinvenimento paleontologico del Carso triestino rimette in discussione non solo le abitudini alimentari e i comportamenti di questo tipo di dinosauri, ma anche rende necessaria la rivisitazione, da un punto di vista paesaggistico, delle caratteristiche geografiche e morfologiche dell’intero territorio italiano.

    Antonio, come abbiamo detto, era un adrosauro, cioè un dinosauro con il muso appiattito che dominò l’ambiente nell’ultimo periodo dell’Era Mesozoica. Per quanto concerne l’habitat di questi animali e il loro stile di vita, le idee dei paleontologi sono cambiate nel tempo. All’inizio, sviati dal “becco d’anatra”, interpretato come indicatore delle loro abitudini alimentari a base di piante di acqua dolce, gli esperti pensavano che gli adrosauri fossero degli animali che vivevano in zone acquitrinose, presso le foci dei fiumi, verosimilmente insieme con coccodrilli, tartarughe, piccoli mammiferi e anfibi. La lunga coda, compressa lateralmente, come quella dei coccodrilli, veniva considerata un organo natatorio che coadiuvava l’azione di zampe che mostravano, in alcuni reperti ben conservati, una specie di palmatura su quelle anteriori. Inoltre alcuni tubi che si dipartivano dalle cavità nasali per giungere all’interno delle creste che ornavano il cranio, venivano considerati come serbatoi d’aria utilizzati dall’animale per rimanere a lungo sott’acqua.

    In alcuni ritrovamenti successivi si era però notata in corrispondenza del ventre del reperto fossile una struttura “vermiforme” avvolta su sé stessa che venne interpretata come parte dell’intestino con il suo contenuto il quale dimostrava che l’animale si era cibato di piante terrestri. Anche il resto delle parti anatomiche di questo animale, spiegate in modo nuovo, fornivano un’idea diversa delle sue abitudini. La coda, ad esempio, rinforzata da tendini ossificati doveva essere meno mobile di quello che si era pensato in un primo tempo e quindi forse non era molto utile per il movimento  nell’acqua. Inoltre i denti numerosi e forti non fanno pensare ad una dieta costituita dalle tenere piante acquatiche. Infine, i tubi del cranio potevano servire da cassa di risonanza per emettere suoni di tonalità diversa da specie a specie e quindi essi svolgevano un ruolo di richiamo con probabile funzione sessuale.

    Gli adrosauri, pertanto, oggi vengono considerati animali essenzialmente terrestri anche se non si esclude che in circostanze particolari non si possano essere spinti anche in acque poco profonde o in regioni umide e paludose. Queste nuove interpretazioni cambiano anche la paleogeografia del territorio italiano, o quanto meno di quello della zona di nord est.

    La maggior parte dei reperti fossili della cava del Villaggio del Pescatore è ancora dentro la roccia e il lavoro di estrazione sarà lungo e delicato, ma già si intravedono le possibilità di sfruttamento a livello turistico e culturale dell’eccezionale ritrovamento. Si pensa all’eventualità di creare intorno ad un cantiere paleontologico in perenne attività un centro turistico che preveda un museo paleontologico, un albergo, con annessi una serie di servizi e di attrezzature turistiche e ambientali in grado di ospitare, oltre ad un’utenza fissa per un periodo stagionale di quattro o cinque mesi, un turismo giornaliero ricreativo e culturale. Assieme al parco riqualificato e ristrutturato vi dovrebbero trovare sistemazione anche piscine, scuola di nuoto, vela e immersione.

    Si è già pensato al nome della struttura: “Giardino degli Adrosauri”. Esso dovrebbe sorgere sul modello di un’analoga struttura presente sull’Isola d’Ischia dove una cava di pietra abbandonata è stata trasformata in un luogo delizioso con fontane, piante e fiori tipici della flora mediterranea che si affaccia su un mare da sogno. Nella zona da valorizzare e da rilanciare dal punto di vista turistico non mancherebbero eccellenti attrazioni della natura quali la Grotta del dio Mitra, le Foci del Timavo, il Castello di Duino, il Sentiero Rilke e naturalmente il mare con di fronte l’isola della Cona raggiungibile in barca. 

   fine

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