LA STRUTTURA ATOMICA - PARTE II

 

 8. LA RADIOATTIVITA'

     Nel 1898 il fisico francese Henry Becquerel (1852-1908), impegnato nello studio del fenomeno della fluorescenza, osservò che alcuni minerali di uranio, sotto l'azione della luce ordinaria, diventavano fluorescenti. Poiché si sapeva, dagli esperimenti che erano stati eseguiti poco tempo prima, che le pareti di vetro dei tubi di scarica, rese fluorescenti dai raggi catodici, generavano a loro volta raggi X, Becquerel pensò che anche i minerali di uranio, dopo essere stati esposti alla luce, potessero emettere raggi X, o qualche altra radiazione simile.

    Egli pertanto, dopo aver esposto al Sole i minerali di uranio, li poneva su lastre fotografiche avvolte con carta nera, notando che le stesse rimanevano impressionate. Una fortuita circostanza volle che in una giornata di cattivo tempo, i minerali di uranio finissero riposti in un cassetto sopra alcune lastre fotografiche ancora avvolte nel loro involucro protettivo, in attesa del ritorno del Sole per poter riprendere gli esperimenti. Quando in seguito Becquerel utilizzò quelle lastre fotografiche notò, con sorpresa, che esse presentavano delle macchie nere, come se fossero già state usate.

    Egli aveva scoperto, quasi per caso, che le radiazioni capaci di impressionare le lastre fotografiche venivano emesse indipendentemente dall'esposizione dei minerali di uranio alla luce del Sole, e che quindi la proprietà di irradiare era insita nella sostanza stessa, e non dipendeva da fattori esterni.

    Successivamente i coniugi Curie (Pierre e Marya Sklodowska, premi Nobel per la fisica nel 1903) dedicarono tutta la loro vita allo studio di questo fenomeno, che da loro venne chiamato "radioattività".

    Fu osservato, fra l'altro, che queste radiazioni ionizzano l'aria. L'aria ionizzata è conduttrice di elettricità e infatti, un elettroscopio carico(*), quando gli si avvicina una sostanza radioattiva, si scarica rapidamente. L'esperienza mostrava inoltre che la velocità di scarica dell'elettroscopio dipendeva direttamente dalla quantità di materia radioattiva presente nel campione di roccia utilizzato.

    I coniugi Curie, avendo notato il mancato accordo tra la velocità di scarica dell'elettroscopio ad opera di un campione di pechblenda (minerale di uranio) e la quantità di uranio che esso conteneva, supposero che nel minerale fossero presenti tracce, irrilevabili all'analisi chimica ordinaria, di una sostanza estremamente radioattiva.

    Alla fine di un lungo ed impegnativo lavoro, i Curie riuscirono ad estrarre da alcune tonnellate di pechblenda pochi decigrammi di due elementi altamente radioattivi, a cui essi stessi dettero il nome di polonio, per onorare la Polonia, terra natale di Marya Sklodowska, e di radio, sostanza 400 volte più radioattiva dell'uranio.

    Lo studio sulla natura di queste radiazioni venne condotto soprattutto dal fisico inglese di origine neozelandese Ernest Rutherford, uno dei più grandi fisici sperimentali che il mondo scientifico abbia mai conosciuto.

    Egli pose un pezzetto di una sostanza radioattiva in una cavità ricavata all'interno di un blocchetto di piombo, che aveva la funzione di trattenere la radiazione, ma che presentava un canalicolo attraverso il quale la radiazione stessa poteva uscire. All'esterno venivano poste due piastre elettriche (o anche le espansioni di un magnete) in modo che la radiazione venisse sottoposta all'azione di un campo elettrico (o magnetico).

    Si poteva così osservare che la radiazione proveniente dalla sostanza radioattiva si divideva in tre parti: la prima subiva una forte deviazione verso il polo positivo del campo elettrico, la seconda risultava deviata dalla parte opposta, ma in minor misura; la terza, infine, procedeva in linea retta senza risentire dell'effetto del campo. Successivamente si chiarì che le radiazioni deviate dal campo elettrico erano di natura corpuscolare e possedevano carica elettrica, mentre quella che procedeva senza risentire della presenza del campo elettrico era una radiazione simile ai raggi X.

     La prima radiazione venne chiamata "raggi b", ed identificata più tardi con un flusso di elettroni; la seconda venne chiamata "raggi a", e riconosciuta in seguito come un flusso di ioni elio (cioè atomi di elio privati dei due elettroni periferici); la terza venne chiamata "raggi g" (raggi gamma).

    Il fenomeno della radioattività metteva in luce, fra l'altro, che l'atomo, oltre ad espellere elettroni, emetteva anche particelle positive. In questo modo la struttura uniforme del modello atomico di Thomson veniva ulteriormente messa in dubbio e il termine di "atomo" (nel senso di struttura indivisibile) andava perdendo, con sempre maggiore evidenza, il suo significato primitivo. Tuttavia, l'esperimento decisivo, quello che avrebbe cambiato radicalmente il modello, doveva ancora essere eseguito. 

(*) L'elettroscopio è uno strumento, costituito di due foglioline metalliche sospese ad un'asta, che serve per accertare la presenza di una carica elettrica su un corpo. Quando l'elettroscopio è scarico le foglioline sono chiuse, e sistemate in posizione verticale; quando l'elettroscopio è carico, le foglioline divergono perché le loro cariche elettriche hanno lo stesso segno e quindi si respingono.

  

9. IL MODELLO ATOMICO DI RHUTERFORD

     Ernest Rhuterford, nel 1908, al conseguimento del premio Nobel per la chimica (e non per la fisica, come sarebbe stato logico attendersi), per le sue ricerche sulla radioattività, aveva commentato: "Nella mia vita di sperimentatore, ho assistito a molte trasformazioni, ma la più stupefacente di tutte è stata quella che mi ha trasformato da fisico in chimico" Queste parole, dette da uno scienziato eclettico, quale fu Rhuterford, che fra l'altro operò nelle maggiori Università di tutto il mondo, fanno riflettere sulla interdisciplinarietà della ricerca scientifica: una scoperta in un determinato campo del sapere, può condurre a risultati di notevole interesse anche in altri settori.

    Rhuterford, nel 1911, in uno dei suoi tanti esperimenti divenuti famosi per la semplicità e la genialità dell'impostazione, dimostrò che l'atomo non poteva avere una struttura omogenea, come l'immaginava Thomson, ma doveva possedere un nucleo di dimensioni molto piccole e di carica elettrica positiva, nel quale era concentrata praticamente tutta la sua massa.

    L'esperimento di Rhuterford, nelle sue linee essenziali, consistette nel lanciare, contro una sottilissima fogliolina d'oro, le radiazioni emesse spontaneamente dalle sostanze radioattive ed osservare la loro deviazione (il cosiddetto scattering). Egli così poté notare che la quasi totalità delle particelle a passava indisturbata attraverso la lamina d'oro, ma che una piccola percentuale di esse subiva delle deviazioni. Si trattava normalmente di deviazioni di minima entità ma, cosa sorprendente ed imprevista, alcune deflettevano notevolmente, con angoli anche superiori a 90°. "Era l'evento più incredibile che mi fosse mai capitato di vedere; - commentò successivamente lo stesso Rhuterford - era come sparare un proiettile contro un foglio di carta velina e vederselo tornare indietro, a colpire chi l'aveva sparato".

    Questa osservazione non poteva che avere un’unica spiegazione: l'atomo, nel suo complesso, era un edificio vuoto, con tutta la massa concentrata in un nucleo centrale carico positivamente, molto piccolo e di conseguenza anche molto denso. Gli elettroni, necessariamente, dovevano muoversi su ampie orbite, intorno al nucleo, come i pianeti ruotano intorno al Sole. Per questo motivo, il modello atomico di Rhuterford, venne anche detto modello planetario.

    I fatti sperimentali mostravano che il nucleo doveva possedere dimensioni di circa 10.000 volte minori di quelle dell'atomo intero. Per farci un'idea di queste dimensioni possiamo immaginare di ingrandire un atomo fino a fargli assumere le dimensioni di un ampio salone: il nucleo, al centro, non sarebbe più grande della capocchia di uno spillo.

    Tuttavia, nonostante che il modello di Rhuterford fosse molto seducente, soprattutto per la descrizione unitaria che dava della struttura del micro- e del macrocosmo, esso aveva il difetto di essere assolutamente incompatibile con le leggi della meccanica e dell'elettrodinamica. Secondo queste leggi infatti, un corpo carico di elettricità che si muova con moto che non sia rettilineo ed uniforme, irradia energia a scapito della propria. L'elettrone pertanto, nel suo moto circolare intorno al nucleo, poiché è soggetto ad una continua accelerazione centripeta, e cambia quindi velocità ad ogni istante, dovrebbe irradiare e subire una progressiva diminuzione della propria energia. Ciò lo porterebbe a cadere, seguendo una traiettoria a spirale, sul nucleo. Si ricordi a questo proposito ciò che accadeva agli elettroni quando, urtando contro le pareti del tubo di scarica, emettevano radiazioni elettromagnetiche sotto forma di raggi X, proprio a seguito della decelerazione che subivano penetrando nel vetro.

    E' stato calcolato che l'atomo, se fosse costruito secondo il modello proposto da Rutherford, sarebbe destinato a disintegrarsi in una frazione di secondo. L'atomo, invece, per nostra fortuna, è stabile.

    C'era, evidentemente, qualche cosa che non funzionava nel modello proposto da Rhuterford: non rimaneva che cambiare modello, a meno che non si volesse cambiare le leggi della fisica.

  

10. LA SPETTROSCOPIA OTTICA

     I fisici, caparbiamente impegnati nella ricerca di un modello atomico soddisfacente, dopo averle tentate tutte, rivolsero alla fine la loro attenzione alla luce. La luce è una forma di energia, la cui origine deve risiedere nell'atomo, visto che corpi eccitati termicamente o elettricamente emettono luce (si pensi ad esempio al filamento incandescente di una lampadina).

    Vi è un fenomeno luminoso che già Newton, verso la metà del '600, aveva osservato e descritto: quando un raggio di luce solare attraversa un prisma di vetro, si scompone in una fascia continua di colori diversi, alla quale si è dato il nome di "spettro". Il fenomeno prende il nome di dispersione della luce, e i colori presenti nello spettro sono quelli dell'arcobaleno: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e viola. La luce bianca è pertanto una mescolanza di luce di diversi colori.

    Nel 1814 il fisico tedesco Joseph Fraunhofer, osservando attentamente lo spettro solare, ottenuto facendo passare la luce attraverso una sottile fessura posta davanti al prisma, notò che era solcato da numerose righe scure, delle quali però non seppe dare una giustificazione.

    L'esperienza insegna che gli spettri possono essere continui o discontinui. I primi sono emessi da corpi solidi o liquidi resi incandescenti, mentre i secondi sono prodotti da gas portati ad alta temperatura o eccitati da scariche elettriche. Più precisamente, gli spettri discontinui possono essere a bande o a righe; se i gas sono allo stato molecolare, gli spettri sono a bande, mentre se sono allo stato atomico, gli spettri sono a righe.

    Si osserva inoltre che ogni elemento chimico produce un proprio spettro di righe, caratteristico per colore e per posizione delle righe stesse, e che mai si verifica che due elementi di natura diversa diano origine a righe coincidenti.

    Uno spettro a righe luminose è detto spettro di emissione. Viceversa, è detto spettro di assorbimento lo spettro che si forma quando un gas freddo viene attraversato da un fascio di luce bianca: al di là del prisma si vedrà apparire uno spettro luminoso continuo (cioè comprendente tutti i colori) solcato da alcune righe nere.

    Per uno stesso gas si osserva che le righe nere dello spettro di assorbimento corrispondono esattamente alle righe luminose dello spettro di emissione. Tutte le sostanze assorbono infatti le stesse radiazioni che sono in grado di emettere (legge di Kirchoff). Il problema è ora quello di dare un'interpretazione coerente ai fenomeni che abbiamo illustrato.

    Fino a tutto il XIX secolo i fenomeni luminosi erano descritti da due teorie fra loro antitetiche: quella di Isaac Newton (1642-1727) e quella di Christiaan Huygens (1629-1695). Secondo l'idea di Newton la luce era costituita di corpuscoli di vari colori, mentre, secondo Huygens, la luce si propagava per onde. In realtà, alcuni fenomeni luminosi come quello della riflessione, della rifrazione e della stessa dispersione di cui abbiamo appena riferito, potrebbero essere spiegati con la teoria corpuscolare di Newton, immaginando uno sciame di corpuscoli che, emessi dalla sorgente luminosa, rimbalza e devia per gli ostacoli interposti finendo poi per colpire il nostro occhio. Altri fenomeni, però, come la diffrazione e l'interferenza trovano spiegazione coerente solamente se inquadrati all'interno della teoria ondulatoria.

    Diffrazione e interferenza sono due fenomeni per i quali, quando la luce passa attraverso forellini molto piccoli o attraverso fessure molto strette, l'immagine che si raccoglie su uno schermo appare formata da una serie di anelli o di fasce chiare e scure che sfumano gradualmente verso l'esterno.

    Ora, poiché la diffrazione e l'interferenza potevano essere spiegate solo immaginando la luce come un fenomeno ondulatorio, mentre tutti i fenomeni giustificabili con la teoria corpuscolare di Newton, potevano, con altrettanta coerenza essere interpretati con la teoria ondulatoria, quest'ultima finì per prevalere sull'altra.

  

11. LA RADIAZIONE ELETTROMAGNETICA

     Gli antichi pensavano che le uniche forze reali operanti in natura fossero quelle che si esercitavano attraverso il contatto diretto fra i corpi (ad esempio attraverso una spinta). Essi pertanto non potevano immaginare che un corpo lontano, come potrebbe essere ad esempio il Sole, fosse in grado di esercitare una forza su un altro corpo col quale non era a contatto, ad esempio la Terra. Questa opinione persistette fino ai tempi di Newton quando i pianeti vennero tolti dalle sfere di cristallo nelle quali erano stati incastonai dai filosofi greci.

    Con Newton le cose cambiarono perché lo scienziato inglese scoprì la legge di gravitazione universale secondo la quale i corpi si attraggono anche senza essere a diretto contatto. Per descrivere l'interazione gravitazionale (e in seguito anche l'interazione fra cariche elettriche e magnetiche) fu usata l'espressione "azione a distanza".

    Anche se non era più indispensabile il contatto diretto, si riteneva tuttavia che fosse comunque essenziale la presenza di un mezzo attraverso il quale si potesse propagare la forza dall'uno all'altro corpo. Fu allora necessario ammettere l'esistenza di una sostanza invisibile che doveva permeare di sé tutto l'Universo, e garantire il collegamento fra i corpi. A questa sostanza venne dato il nome di "etere", in omaggio ad Aristotele, secondo il quale di etere erano formati i corpi celesti.

    Per quanto riguarda la luce, scartata la teoria corpuscolare di Newton, non rimaneva che quella ondulatoria a spiegare tutti i fenomeni luminosi noti a quel tempo. Si sapeva però che le onde, per potersi trasmettere, avevano bisogno di un mezzo. Le onde sonore, ad esempio, si propagano nell'aria e quelle del mare nell'acqua; nel vuoto le onde sonore non si trasmettono e senza il mare non ha senso parlare di onde del mare. Le onde luminose pertanto si propagherebbero anch'esse attraverso un mezzo materiale che sarebbe potuto essere l'etere o un altro mezzo simile all'etere.

    Prima di analizzare le caratteristiche di quello che potremmo chiamare “etere luminifero”, vediamo di chiarire che tipo di onda dovrebbe essere quella luminosa. Le onde, come tutti sanno, possono essere longitudinali o trasversali. Le onde longitudinali sono quelle in cui l'oscillazione delle particelle del mezzo nel quale si trasmettono si effettua nella stessa direzione di propagazione dell'onda: le onde sonore sono onde di questo tipo. Le onde trasversali sono quelle onde in cui le oscillazioni del mezzo in cui si propagano avvengono in direzione perpendicolare a quella di propagazione dell'onda stessa: le onde del mare sono onde di questo tipo. 

    Le onde luminose sono simili alle onde del suono o a quelle del mare? Vi sono molte evidenze sperimentali che depongono a favore della seconda ipotesi. Accenniamo ad una di esse. Se si disponesse di una sottile lamina ricavata tagliando opportunamente un cristallo di tormalina, si potrebbe vedere, attraverso di essa, una sorgente luminosa. Se ora si ponesse una seconda lamina, sopra alla prima, questa potrebbe risultare sistemata in modo tale da lasciare ancora intravedere la sorgente luminosa. Se, però, a questo punto, si ruotasse una delle due lamine sull'altra, si noterebbe la luce affievolirsi sempre più fino a spegnersi del tutto.

    Se l'onda della luce fosse di tipo longitudinale, non si dovrebbe osservare questo fenomeno. Nel caso di onde longitudinali, infatti, le oscillazioni del mezzo avvengono nello stesso senso in cui si propaga il raggio luminoso, per cui la rotazione del cristallo non dovrebbe produrre alcun effetto lungo l'asse. Un cambiamento radicale come la sparizione e la riapparizione della luce potrebbe verificarsi solo nel caso in cui l'onda fosse trasversale e le oscillazioni avvenissero fra i filari degli atomi del cristallo regolarmente disposti, come di trattasse dei ferri di una cancellata.

    Torniamo ora al problema dell'etere. Si pensava, a quel tempo, che qualora l'etere fosse veramente esistito, esso sarebbe dovuto essere una sostanza immobile diffusa in ogni luogo; al suo interno si sarebbero dovuti muovere i corpi celesti, come si muovono i pesci in mare, viaggiare le onde luminose e propagarsi le forze da un corpo all'altro.

    Nel 1887 il fisico statunitense Albert Michelson (1852-1931) ideò un ingegnoso dispositivo che avrebbe consentito di misurare lo spostamento della nostra Terra attraverso l'etere immobile. L'esperimento tuttavia non riuscì e questo insuccesso lasciò perplesso il mondo dei fisici. Alcuni anni più tardi, nel 1906, l'allora ventiseienne Albert Einstein dedusse, dal fallimento dell'esperimento di Michelson, che nell'Universo non poteva esserci nulla di assolutamente fermo. Il concetto di quiete e di moto potevano essere definiti solamente per confronto fra oggetti che erano comunque tutti in movimento. Pertanto l'etere, quale mezzo immobile entro il quale gli altri corpi si sarebbero dovuti muovere, non poteva esistere. In realtà Einstein non rigettò pregiudizialmente l'idea dell'etere, egli affermò semplicemente che non era tecnicamente possibile condurre un qualsiasi esperimento capace di rendere manifesta questa particolare sostanza. E poiché nella scienza conta solo ciò che può essere sperimentato, era illogico voler insistere sulla presenza dell'etere, anche in considerazione del fatto che nel frattempo si stava facendo strada l'idea dell'esistenza di onde elettromagnetiche, cioè di onde che, come vedremo meglio in seguito, potrebbero non aver bisogno di alcun sostegno per propagarsi.

    Vediamo innanzitutto cosa sono le onde elettromagnetiche. Immaginiamo allora di eseguire il seguente esperimento. Avviciniamo il polo sud di una calamita a forma di sbarra, al polo nord di un ago magnetico, vedremo che questo gli si avvicina. Ruotando ora la calamita di 180° in modo che sia il polo nord di essa ad avvicinarsi al polo sud dell'ago calamitato, noteremo che questo gli si allontana. Continuando a ruotare la calamita, si osserva che la punta dell'ago magnetico continua ad andare avanti e indietro.

    Un tempo, anche questo fenomeno veniva interpretato come il risultato di un'azione a distanza della calamita sull'ago magnetico, immaginando un mezzo interposto fra ago magnetico e calamita, ma in seguito si intuì che il fenomeno poteva essere spiegato in modo più lineare facendo ricorso al concetto di campo.

    Con il termine di campo, o meglio, di "campo di una grandezza" si indica, in fisica, l'insieme dei valori che una determinata grandezza assume in ogni punto di una certa regione dello spazio, in conseguenza dell'esistenza di una fonte energetica.

   Il campo gravitazionale del Sole, ad esempio, è quella zona dello spazio intorno al Sole in cui il vettore forza gravitazionale ha un valore definito in ogni punto. Un corpo (per esempio la nostra Terra), collocato entro questo spazio, sarà soggetto ad una forza che dipende dal valore del campo gravitazionale creato dal Sole in quel determinato punto.

    Analogamente si dice che esiste un campo magnetico (ad esempio fra le espansioni polari di una calamita) nello spazio in cui un opportuno rivelatore (ad esempio l'ago calamitato di una bussola) subisce una forza che tende a spostarlo. La calamita quindi, crea intorno a sé una certa condizione alla quale l'ago magnetico reagisce.

    Se ora riportassimo su un piano cartesiano la posizione della punta dell'ago magnetico oscillante nel tempo per effetto della rotazione della nostra calamita, otterremmo il diagramma di un'onda. Possiamo quindi immaginare che la rotazione della calamita produca un'onda di energia nello spazio. La punta dell'ago magnetico, che si trova sistemata in questo spazio, subisce alternativamente l'azione della cresta e del ventre dell'onda di energia che la calamita produce ruotando, comportandosi come si comporterebbe un galleggiante che venisse spostato in su e in giù dall'onda del mare.

    Si potrebbe dimostrare che cariche elettriche in movimento, per esempio all'interno di un filo metallico, producono, oltre ad un campo elettrico, anche  un campo magnetico esattamente identico a quello prodotto da una calamita. D'altra parte, anche una calamita in movimento, produce intorno a sé oltre ad un campo magnetico, un campo elettrico. E' evidente allora che fra campo elettrico e campo magnetico debbano esistere relazioni molto strette che si manifestano, fra l'altro, nella possibilità di generare il primo mediante il secondo, e viceversa.

    Nel 1865, il fisico scozzese James Clerk Maxwell (1831-1879), sintetizzò, in alcune celebri equazioni, i risultati sperimentali relativi ai fenomeni elettrici e magnetici alla luce del concetto di campo. Queste equazioni lasciavano prevedere che i campi elettrico e magnetico potessero distaccarsi dai mezzi materiali che li avevano generati e viaggiare nello spazio sotto forma di onde elettromagnetiche.

    L'analisi di questo ipotetico fenomeno, condotta alla luce delle equazioni che descrivevano il comportamento dei campi elettrici e magnetici portò alla conclusione che le onde elettromagnetiche dovevano possedere una velocità di propagazione identica a quella della luce (300.000 Km/s). Maxwell non considerò tale corrispondenza come un fatto fortuito e avanzò l'ipotesi che la luce non fosse altro che un insieme di onde elettromagnetiche. Le onde elettromagnetiche, come abbiamo visto, sono generate da cariche elettriche in movimento; pertanto è da ritenere che là dove vi è una sorgente luminosa, per esempio materia incandescente, debbano esserci cariche elettriche in movimento.

    Come abbiamo visto, con l'introduzione del concetto di "campo" diviene superfluo quello di "etere" nel senso che non è più necessario immaginare una sostanza per far oscillare le onde elettromagnetiche in quanto ora è lo spazio stesso a possedere la proprietà fisica di trasmettere questa forma di energia. Si può ancora, se si vuole, continuare a parlare di etere, ma solo per designare questa particolare proprietà dello spazio. 

    I risultati raggiunti da Maxwell, tuttavia, avevano solo validità teorica, ma qualche anno più tardi, il fisico tedesco Heinrich Rudolf Hertz (1857-1894) riuscì a registrare la presenza di onde elettromagnetiche facendo scoccare delle scintille fra due sfere metalliche cariche di elettricità. Queste onde erano di notevole lunghezza. In seguito si è potuto appurare che le onde elettromagnetiche possono avere lunghezze molto variabili e, a seconda di queste, esse corrispondono a radiazioni di natura diversa.

    Le onde elettromagnetiche con lunghezze notevoli (fino a decine di kilometri) sono dette onde radio o onde herziane; quelle con lunghezze di frazioni di millimetro sono i cosiddetti raggi infrarossi, quindi, quelle con lunghezza compresa fra 0,8 mm e 0,4 mm (mm, micrometro=10-6 m) sono le onde luminose, infine, con lunghezze ancora più piccole, seguono i raggi ultravioletti, i raggi X e i  raggi gamma.

    Poiché abbiamo visto che le onde elettromagnetiche sono onde trasversali, prima di procedere, forse è opportuno ricordare le grandezze fondamentali che caratterizzano questo tipo di onde:

    1. l'ampiezza di un onda (A) è la distanza, misurata lungo la verticale, dal punto medio dell'onda alla cresta (massimo).

    2. la lunghezza d'onda (l) è la distanza che separa orizzontalmente due creste successive. Le lunghezze d'onda della luce si esprimono spesso in ångström (Å) (1Å = 10-7 mm).

    3. il periodo (T) è il tempo impiegato da un punto qualsiasi dell'onda a compiere un'oscillazione completa, cioè a tornare al punto di partenza.

    4. la frequenza (n) è il numero delle creste che, in un dato punto, vengono contate nell'unità di tempo. La frequenza è detta anche vibrazioni o cicli al secondo. Essa si misura in hertz (Hz): 1 hertz = 1 ciclo al secondo, o s-1. Fra frequenza e periodo esiste la relazione: n = 1/T.

    Poiché l è la lunghezza dell'onda, la sua velocità (spazio diviso tempo) è data da:

                                                                v = l /T

 ovvero, ricordando la definizione di frequenza, possiamo anche scrivere:  

                                                                v = n×l

     Nel caso della luce, se con c si indica la sua velocità, avremo:

                                                                c = l /T,

 ovvero:                                               

                                                                c =  l×n

 

 12. LE SERIE SPETTRALI DELL'ATOMO DI IDROGENO

     Lo spettro di emissione dell'idrogeno (allo stato atomico) è uno spettro a righe di colori diversi. Le righe osservabili direttamente attraverso lo spettroscopio, quando questo gas viene eccitato ad emettere luce, all'interno di un tubo di scarica, sono 4. Ogni riga corrisponde ad una radiazione elettromagnetica di ben determinata lunghezza d'onda.

    Nel 1885, J. Jacob Balmer, un insegnante svizzero di scuola media, notò che le righe spettrali dell'idrogeno non erano poste a caso, ma secondo un preciso ordine esprimibile con la seguente formula:  

                 n²
l = 3.645,6 × ¾¾¾¾ Å
                    n² - 4

dove n è un numero intero. Dando ad n i valori 3, 4, 5 e 6 si ottengono le lunghezze d'onda (l), espresse in ångström, delle quattro righe visibili dello spettro.

    La formula di Balmer, in seguito, fu modificata dal fisico svedese Robert Rydberg, per renderla più significativa, nel modo seguente:

                                        1              1          1
                                               ¾¾ = R × (¾¾  -  ¾¾ )           con n = 3, 4, 5, 6...
                                                  l                      n²

 

    Sostituendo ad n il numero 3 si ottiene l = 6.565 Å, valore corrispondente alla lunghezza d'onda della riga di colore rosso-arancio; per valori di n uguali a 4, 5 e 6 si ottengono le lunghezze d'onda delle altre righe osservabili dello spettro; per valori maggiori di 6 si ottengono invece righe non visibili direttamente perché sistemate nella zona ultravioletta dello spettro.

    L'equazione di Balmer, modificata, lasciava prevedere l'esistenza anche di altri gruppi di righe, nella zona dell'ultravioletto e dell'infrarosso. Queste serie di righe successivamente vennero effettivamente identificate nelle zone non visibili dello spettro. La forma generalizzata dell'equazione di Balmer è la seguente:

                                                           1                 1        1
                                                                       ¾¾  =  R × (¾¾ - ¾¾ )
                                                                          l                m²      n²

 dove m e n sono numeri interi, con n > m. Assegnando ad m il valore 1 e ad n i valori 2, 3, 4, ecc. si ottengono le lunghezze d'onda di una serie di righe scoperte dal fisico statunitense Theodore Lyman, nel 1906, nella regione dello spettro ultravioletto dell'idrogeno. Assegnando ad m il valore 3 e ad n i valori 4, 5, 6, ecc. si ottiene un'altra serie di righe che venne individuata dal fisico tedesco Heinrich Friedrich Paschen, nel 1908, nella zona dell'infrarosso sempre dello spettro prodotto da una scarica elettrica in idrogeno rarefatto.

    Per ogni valore di m esiste quindi una serie praticamente infinita di righe. Oltre a quelle di Balmer, di Lyman e di Paschen, a cui abbiamo accennato, vennero osservate, nell'estremo infrarosso, per valori di m=4 e m=5, da Brackett nel 1922, da Pfund nel 1924, altre due serie di righe.

  

13. LO SPETTRO DEL "CORPO NERO".

     Verso la fine del 1800, molti fisici erano interessati allo studio delle radiazioni emesse da corpi incandescenti. Fra le altre cose, si era osservato che un corpo, reso incandescente, assumeva colori diversi a seconda della temperatura a cui veniva portato. Il filamento di una lampadina, ad esempio, assume colori sempre più chiari, passando dal rosso cupo, all'arancione, al giallo e al bianco, a mano a mano che aumenta la sua temperatura, per effetto del passaggio della corrente elettrica. A che cosa corrispondono questi colori?

    Come abbiamo già spiegato, ciò che il nostro occhio percepisce è una luce che equivale alla sovrapposizione di radiazioni di diverso colore (cioè di diversa lunghezza d'onda), emesse dall'oggetto che irradia. L'insieme di queste radiazioni costituisce lo spettro del corpo relativo alla temperatura a cui si trova. Se l'intensità di una di queste radiazioni è nettamente superiore alle altre, il nostro occhio percepisce preferibilmente questa particolare radiazione.

    Il filamento della lampadina, ad esempio, appare rosso attorno ai 500 °C, perché a quella temperatura domina, su tutti gli altri, il colore rosso della radiazione; a 2000 °C il filamento appare invece bianco perché, a quella temperatura, tutte le componenti della luce visibile si assommano.  Un corpo irraggia anche alle basse e alle altissime temperature, solo che in questi casi il nostro occhio non è in grado di vedere alcunché perché esso non è sensibile alla radiazione infrarossa né a quella ultravioletta.

    Tutte queste osservazioni servirono di base per un lavoro sistematico condotto, a partire dal 1893, dai fisici tedeschi H. F. Paschen e Wilhelm Wien. Gli esperimenti vennero effettuati sul cosiddetto "corpo nero".

    Il corpo nero è un oggetto teorico capace di assorbire tutte le radiazioni che lo investono: esso quindi non riflette alcuna radiazione. Un corpo siffatto, pertanto, quando viene riscaldato, emette radiazioni che sono solo quelle che esso stesso produce, come conseguenza del riscaldamento cui è stato sottoposto.

    Un corpo nero, nella pratica, come abbiamo detto, non esiste; tuttavia, con buona approssimazione può essere considerato tale una cavità, annerita di fuliggine, fatta comunicare con l'esterno attraverso una minuscola finestrella. Riscaldando notevolmente questo corpo, i fisici osservarono che, all'aumentare della temperatura, mentre aumentava l'intensità dell'emissione, diminuiva la lunghezza d'onda della radiazione corrispondente al massimo di energia (è il fenomeno di cui si è parlato all'inizio facendo riferimento al filo della lampadina che veniva portato a temperature sempre più alte).

    Si otteneva in pratica un diagramma nel quale si poteva osservare che, a temperature sempre più elevate, si originano curve a campana sempre più alte e, contemporaneamente, le sommità di tali curve si spostano verso valori di lunghezza d'onda sempre più bassi, cioè verso radiazioni di colore viola.

    Quando si trattò di interpretare i risultati relativi all'emissione del corpo nero, ci si rese conto che la teoria ondulatoria della luce era del tutto inadeguata. In altre parole, i fatti sperimentali non potevano essere giustificati ammettendo che la luce si propaghi per onde. Da Galilei in poi, ogni volta che una teoria si è trovata in disaccordo con i fatti sperimentali, la teoria ha dovuto essere abbandonata. Così avvenne anche in questo caso.

    Nel 1900, il fisico tedesco Max Planck (1858-1947), considerato a ragione uno dei padri della fisica moderna, propose un artifizio matematico attraverso il quale era possibile elaborare una formula in grado di spiegare i dati sperimentali. L'artifizio era quello di immaginare che l'energia radiante che esce dal corpo riscaldato, non venga emessa in modo continuo, come fosse un fluido, ma per quantità discrete, come si trattasse di corpuscoli energetici che escono, uno per volta, ad intervalli regolari di tempo. In un certo senso Planck riesumò la vecchia teoria di Newton dei corpuscoli di luce.

    Il fisico tedesco dette il nome di quantum (“quanto”), al minimo pacchetto di energia che può uscire da un corpo incandescente. L'energia E di un quanto è legata alla frequenza (n) della radiazione dalla relazione seguente:  

 E = h × n

 dove h è una costante, detta costante di Planck (o quanto d'azione) ed ha il valore di 6,63×10-34 joule×s. Si chiama quanto d'azione perché in effetti si tratta proprio di un'azione, ossia di una grandezza fisica che corrisponde per l'appunto al prodotto di un'energia per un tempo.

    Usando la grandezza h×n, lo scienziato tedesco riuscì ad elaborare un'equazione matematica che descriveva perfettamente i risultati sperimentali. Egli tuttavia era convinto di aver adottato semplicemente un artifizio matematico, e che pertanto la sua idea non doveva trovare un riscontro effettivo in natura.

    Ben presto però si accorse che riducendo h×n ad un valore sempre più piccolo, in modo da far riassumere alla radiazione l'aspetto continuo che le attribuiva la teoria elettromagnetica, la sua equazione prendeva le sembianze della formula classica, cioè di quella formula che non era in grado di descrivere i fatti sperimentali.

    A questo punto, vincendo la sua innata prudenza, Planck dovette convincersi che, ben lungi dal rappresentare un semplice espediente di calcolo, il suo postulato doveva avere un'effettiva rispondenza in natura: l'energia elettromagnetica esce ed entra nella materia a "pacchetti", cioè in quantità discrete, come si trattasse di corpuscoli.

    Il quantum di energia, venne riscoperto, alcuni anni più tardi, da Einstein, il quale se ne servì per interpretare il fenomeno fotoelettrico, cioè quel fenomeno per il quale, alcuni metalli, quando vengono investiti da luce di elevata frequenza (ad esempio da luce ultravioletta), emettono elettroni, caricandosi di elettricità positiva. Il quanto di energia luminosa venne chiamato da Einstein "fotone".

    E' importante chiarire bene che il quanto d'azione h×n, non ha un unico valore fisso, ma varia, e anche di molto, in dipendenza della frequenza della radiazione. Valore fisso, e molto piccolo, ha invece la costante h. Poiché le lunghezze d'onda delle radiazioni possono assumere dimensioni che vanno dai kilometri delle onde radio, alle frazioni di ångström dei raggi gamma, anche le corrispondenti energie possono variare in modo rilevante: un fotone della radiazione ultravioletta, ad esempio, possiede un'energia centinaia di volte superiore a quella di un fotone della radiazione infrarossa. Pertanto le radiazioni ultraviolette di una lampada abbronzante, come tutti sanno, sono più pericolose di quelle infrarosse che escono dal termosifone.

2. continua

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