LA
STRUTTURA ATOMICA - PARTE I 1.
PREMESSA
La materia non può che essere continua o discontinua. Difatti, già
nell’antica Grecia, alcuni filosofi pensavano che dividendo un corpo in parti
sempre più piccole il processo sarebbe continuato all’infinito, mentre altri
ritenevano che ad un certo punto si sarebbe incontrato un frammento di
dimensioni minime non più divisibile. I primi erano i seguaci di Aristotele,
mentre i secondi erano coloro che aderivano alle idee di Leucippo e del suo
discepolo Democrito (colui che “il mondo a caso pone” e che per questo
motivo Dante condannerà all’inferno).
Oggi sappiamo che avevano ragione i sostenitori della teoria della
struttura discontinua e corpuscolare della materia tuttavia le loro idee, frutto
di una geniale intuizione, non avevano il supporto di alcuna prova sperimentale
in quanto i filosofi greci pervenivano alle loro conclusioni esclusivamente
attraverso il ragionamento.
Colui che dimostrò, senza ombra di dubbio, l’esistenza di quelle
particelle elementari e fondamentali della materia, che Democrito aveva chiamato
atomi (cioè “indivisibili”), fu lo scienziato inglese John Dalton. Egli,
dopo aver preso in esame le prime leggi ponderali della chimica, cioè quella di
Antoine Lavoisier sulla conservazione della massa (1785), quella di Joseph-Louis
Proust sulle proporzioni definite (1801) e soprattutto la sua sulle proporzioni
multiple (1807), concluse che quelle leggi si potevano spiegare solo ammettendo
che gli elementi fossero fatti di atomi.
Il ragionamento che portò Dalton alla formulazione della sua
teoria fu il seguente. Perché mai – egli si chiese - gli elementi che formano
i composti (come mostrava la legge di Proust) partecipano alla reazione secondo
valori in peso definiti e interi? L’acqua, ad esempio, si forma facendo
reagire esattamente 8 parti in peso di ossigeno e 1 parte in peso di idrogeno e
mai si ottiene acqua facendo reagire quantità qualsiasi di quegli stessi
elementi (ad esempio 8,1 o 7,9 parti di ossigeno per una di idrogeno). Se la
materia fosse continua quest’ultima possibilità dovrebbe verificarsi, mentre
solo se la materia fosse di natura atomistica, la legge delle proporzioni
definite e costanti troverebbe giustificazione coerente.
La sua idea fu ulteriormente rafforzata dalla scoperta, da lui stesso
effettuata, che due elementi erano in grado di combinarsi secondo più
proporzioni. Ad esempio, ossigeno e idrogeno, oltre all’acqua, formano anche
acqua ossigenata, ma mentre nel primo caso lo fanno combinandosi secondo un
rapporto in peso di 8 a 1, nel secondo di 16 a 1. Se quindi si immaginava che la
molecola di acqua (cioè il frammento più piccolo di questo composto) era
formata dall’unione di un atomo di ossigeno con uno di idrogeno, il peso
dell’atomo di ossigeno doveva essere 8 volte quello dell’atomo di idrogeno e
quindi nella molecola di acqua ossigenata vi dovevano essere due atomi di
ossigeno legati ad uno di idrogeno. (In realtà l’atomo di ossigeno pesa non
8, bensì 16 volte di più dell’atomo di idrogeno, ma il ragionamento che
porta alla visione corpuscolare della materia conserva il suo rigore logico.)
Accettato quindi come oggetto esistente, i chimici, tuttavia, si resero
subito conto che l'atomo non poteva essere, come immaginava Dalton e come
suggeriva anche il nome che gli era stato assegnato, una semplice pallina di
materia omogenea e indivisibile. I limiti di tale modello apparvero evidenti non
appena ci si chiese come gli atomi potessero stare uniti insieme a formare
aggregati, e quali fossero le forze e i meccanismi in grado di determinare la
formazione di alcuni legami e la rottura di altri. I fisici, d'altra parte,
avevano l'esigenza di spiegare il fenomeno dell'elettricità, una forma di
energia la cui origine e natura doveva risiedere necessariamente negli atomi,
visto che un corpo materiale poteva venire elettrizzato anche per semplice
strofinio.
Si trattava quindi di costruire un modello di atomo, in grado di
descrivere con maggiore precisione e dettaglio i fenomeni naturali. Per fare ciò
era necessario indagare a fondo la struttura più intima della materia e alla
fine gli scienziati riuscirono in effetti a costruire un modello di atomo molto
accurato e preciso. Vediamo allora di ripercorrere le tappe fondamentali della
lunga e faticosa ricerca sperimentale che ha condotto alla scoperta della
struttura dettagliata dell’atomo anche perché si tratta di uno degli esempi
più istruttivi di applicazione del metodo scientifico un metodo di indagine
della natura guidato dalla intelligenza dell’uomo e fatto di osservazioni, di
esperimenti, di ipotesi, di dubbi, di ripensamenti, di intuizioni e di errori. 2. I FENOMENI ELETTROLITICI
Le prime indicazioni che l'atomo non poteva essere una particella
omogenea, vennero dall'analisi dei fenomeni di elettrolisi. Con questo termine
si indicano quei fenomeni che si osservano quando, in certi liquidi, si
immergono due sbarrette metalliche, dette elettrodi, collegate ad un generatore
di corrente continua (ad es. una pila). La vaschetta che contiene il liquido con
immersi gli elettrodi collegati rispettivamente al polo positivo (anodo) e a
quello negativo (catodo) del generatore di corrente continua, si chiama “cella
elettrolitica”.
L'interpretazione dei fenomeni di elettrolisi è piuttosto complessa ma a
noi interessa solo osservare che durante il passaggio della corrente elettrica
nella cella elettrolitica, si ha sempre comparsa o scomparsa di materia agli
elettrodi. Michael Faraday, già nel lontano 1834, riassunse gli aspetti
quantitativi di questo fenomeno in due leggi che portano il suo nome. Esse sono
le seguenti:
Ora, poiché i dati sperimentali mettevano in luce che un numero
determinato di particelle, ad esempio quelle presenti in una mole (6,022·1023),
trasportava una quantità determinata di elettricità, ad esempio 96.487
coulomb, era plausibile l'interpretazione che il fisico George Johstone Stoney,
nel 1874, dette del fenomeno.
Lo scienziato inglese suppose che fossero i singoli atomi o le singole
molecole a trasportare un ben preciso frammento di carica elettrica e a queste
supposte particelle cariche di elettricità venne anche assegnato un nome. Esse
vennero chiamate ioni (un termine che deriva dal verbo greco "hiemi"
che vuol dire corro, mi affretto, a sottolineare la caratteristica mobilità di
questi corpuscoli). Le cariche elettriche possono essere positive o negative:
gli ioni con carica positiva sono detti cationi, perché durante
l’elettrolisi si dirigono verso il catodo, quelli con carica negativa anioni,
perché sono attratti dall’anodo.
Se l'intuizione di Stoney fosse corretta, la quantità minima di
elettricità potrebbe venire determinata dividendo i 96.487 coulomb trasportati
da una mole di materia per il numero di particelle contenute in essa, ossia per
il numero di Avogadro. Si otterrebbe, in questo modo, il valore di 1,6·10-19
coulomb. Pertanto, un atomo (o un gruppo di atomi uniti insieme) trasporterebbe
in soluzione la quantità di carica elettrica indicata sopra, o un suo multiplo.
Ad esempio, l'atomo di argento porterebbe su di sé la quantità di carica pari
esattamente al valore citato, mentre l'atomo di rame ne porterebbe una quantità
doppia. Lo stesso Stoney propose il nome di elettrone per indicare la carica
elettrica elementare (positiva o negativa) trasportata dagli ioni, quindi dette
ad esso un significato diverso da quello che ha oggi l'elettrone.
Inizialmente si riteneva che fosse il passaggio della corrente elettrica
a determinare la separazione (lisi) dei componenti della soluzione, ma
successivamente, il chimico svedese Svante Arrhenius (1859-1927), analizzando a
fondo i dati sperimentali, intuì che essi potevano anche essere interpretati
immaginando che in soluzione, indipendentemente dal passaggio della corrente,
fossero già presenti frammenti di materia carichi positivamente e
negativamente. Con Arrhenius si faceva quindi strada l'idea che gli atomi non
fossero entità indivisibili, ma strutture complesse, scindibili in frammenti più
piccoli carichi di elettricità.
La teoria di Arrhenius prese il nome di "dissociazione
elettrolitica" e rappresentò, per così dire, l'aspetto chimico
dell'ipotesi della natura complessa dell'atomo. I risultati determinanti
sarebbero venuti però dal lavoro dei fisici. (*)
La mole è la quantità in grammi di una sostanza pari al suo peso molecolare e
corrispondente ad un ben determinato numero di particelle elementari. 3. LA SCARICA ELETTRICA NEI GAS
RAREFATTI
Lo studio del passaggio dell'elettricità in gas rarefatti iniziò verso
la metà dell'800. Le osservazioni vennero effettuate in tubi di vetro pieni
d'aria o di altri gas, con due piastre metalliche (elettrodi) fissate
all'interno e collegate ad un generatore di corrente continua ad alta tensione(*).
Quando il tubo è pieno d'aria, anche applicando agli elettrodi una
differenza di potenziale molto elevata (ad es. 10.000 volt) non si osserva alcun
fenomeno in quanto l'aria (e più in generale i gas) a pressione normale, non
conduce l'elettricità. (Se l’aria conducesse l’elettricità basterebbe un
fulmine per mandarci tutti all’altro mondo; la cosa diventa pericolosa quando
il fulmine cade in mare perché l'acqua di mare conduce l'elettricità.)
Se però si estrae l'aria dal tubo, per mezzo di una pompa aspirante,
fino a ridurre la pressione a pochi millimetri di mercurio, si nota il passaggio
della corrente elettrica, prima sotto forma di una scintilla che procede a
zigzag, poi sotto forma di una luminosità diffusa che riempie il tubo fino a
fargli assumere l'aspetto familiare di quelli al neon. Il colore della luce
dipende dal gas con il quale è stato riempito il tubo: rosso per il neon, blu
per l'azoto, rosa per l'idrogeno, e così via. Sottraendo ancora aria
dall'interno del tubo, fino a raggiungere pressioni dell'ordine del decimo di
millimetro di mercurio, la luminosità scompare del tutto, mentre diventa
fluorescente la parete di vetro dirimpetto al catodo.
Se ora si volesse dare un'interpretazione a questo fenomeno, è evidente
che debba trattarsi di un "quid" che si sprigiona dal catodo eccitando
prima la materia che si trova nel tubo e poi, quando questa è stata
praticamente eliminata, la zona del tubo posta di fronte ad esso. Nel 1876, il
fisico tedesco Eugen Goldstein, nella convinzione di avere a che fare con una
qualche forma di energia, dette, alla radiazione che emanava dal catodo, il nome
di "raggi catodici".
Alcuni anni più tardi, il fisico inglese William Crookes, per indagare
sulla natura della radiazione catodica, apportò alcune modifiche ai tubi di
scarica. Spostando lateralmente l'anodo, egli osservò che la radiazione
continuava a procedere in linea retta dal catodo verso la parete di fronte
(anticatodo). Se nel tubo veniva introdotto un leggerissimo mulinello,
scorrevole su un binario, si osservava che esso, sotto l'effetto della
radiazione, rotolava, dalla zona del catodo, verso quella opposta. Inoltre,
interrompendo la radiazione catodica con un ostacolo, si poteva osservare, sulla
parete di vetro posta di fronte, il formarsi di un'ombra netta, priva di aloni.
Gli esperimenti mettevano in evidenza che la radiazione che usciva dal
catodo non poteva essere della stessa natura della luce, perché una forma di
energia immateriale non sarebbe stata in grado di spingere un mulinello a pale;
essa inoltre, incontrando un ostacolo, avrebbe dovuto generare, oltre all'ombra,
un alone di penombra molto ben visibile. Le evidenze sperimentali suggerivano
che doveva trattarsi di uno sciame di corpuscoli.
In seguito, Johann Wilhelm Hittorf (1824-1914) dimostrò che i raggi
catodici venivano deviati sia da un campo magnetico(**), sia da un
campo elettrico, e concluse che non solo doveva trattarsi di particelle, ma che
queste dovevano possedere anche una carica elettrica, la quale, tenuto conto del
senso della deviazione, doveva essere di segno negativo. Fu infine deciso di
riservare a queste particelle, e non alle cariche elettriche, come si era fatto
in precedenza, il nome di elettroni.
(*)
La tensione, detta anche "differenza di potenziale", è la forza
elettrica di un circuito e rappresenta il lavoro necessario per trasportare una
carica elettrica da un punto all'altro del circuito stesso. L'unità di misura
della tensione, nel SI, è il volt. Si dice che tra due punti vi è la tensione
di 1 volt quando, per trasferire da un punto all'altro la carica di 1 coulomb,
occorre compiere il lavoro di 1 joule. La tensione tra i fili elettrici nelle
nostre case è di 220 volt, mentre quella tra i poli delle comuni pile è di 1,5
volt. 4. LA DETERMINAZIONE DEL RAPPORTO
CARICA/MASSA DELL'ELETTRONE
I primi esperimenti condotti sui tubi di scarica dettero, dei raggi
catodici, solo informazioni di carattere qualitativo. Nel 1897, l'inglese Joseph
John Thomson (1856-1940) modificò opportunamente le apparecchiature allo scopo
di effettuare la misurazione del percorso seguito dai raggi stessi sotto
l'effetto dei campi elettrico e magnetico.
Nel dispositivo usato da Thomson, gli elettroni prodotti dal catodo,
vengono costretti a passare attraverso un piccolo foro praticato nell'anodo.
L'apparecchio intero viene quindi inserito fra le espansioni di una calamita e,
contemporaneamente, fra una coppia di piastre metalliche collegate ad un
generatore di elettricità.
In assenza di campo magnetico e di campo elettrico, il pennello di
elettroni che proviene dal catodo procede in linea retta fino ad incontrare il
vetro del tubo nel punto che gli sta di fronte. Quando è in azione il magnete
(ma non le piastre elettriche), gli elettroni vengono deviati verso il basso.
Disinserendo il magnete, e inserendo le piastre elettriche, si osserva che il
pennello di elettroni devia verso la piastra carica di elettricità positiva.
Ora, dalla fisica si sa che un corpo carico di elettricità, in movimento
all'interno di un campo magnetico, descrive una circonferenza la cui ampiezza
dipende dalla carica elettrica, dalla massa e dalla velocità posseduta dal
corpo, oltre che dall'intensità del campo magnetico in cui si muove.
Come è facilmente intuibile massa e velocità di un corpo
carico di elettricità sono direttamente proporzionali all'ampiezza
della traiettoria percorsa dal corpo stesso. Infatti, quanto più un oggetto è
pesante, e quanto più velocemente procede, tanto più difficilmente potrà
essere deviato dalla sua traiettoria ad opera di una forza esterna e pertanto più
grande sarà il raggio della circonferenza da esso percorsa.
La carica elettrica posseduta dal corpo in movimento e l'intensità del
campo magnetico sono invece inversamente proporzionali all'ampiezza della
traiettoria: la curva percorsa dal corpo sarà infatti tanto più stretta quanto
maggiore sarà la sua carica elettrica e quanto più intenso il campo magnetico
che agisce su di esso.
Nel caso dell'elettrone, indicando con m la sua massa, con e
la sua carica elettrica, con v la sua velocità e con B l'intensità
del campo magnetico entro il quale è costretto a muoversi, si può dimostrare
che il raggio r della traiettoria circolare percorsa da questo corpuscolo
si calcola applicando la seguente formula:
m · v ossia,
anche :
e 1
v
In particolare, il valore del campo magnetico (B) si ottiene facendo uso
di una elettrocalamita: dalla conoscenza delle sue caratteristiche di
costruzione (numero delle spire, intensità della corrente elettrica che
attraversa la bobina, ecc.) è possibile risalire all'intensità del campo
magnetico da essa generato.
La velocità degli elettroni (v) viene invece determinata per via
indiretta. E' possibile infatti, calibrando la carica elettrica sulle piastre
metalliche esterne, in modo tale da controbilanciare esattamente l'effetto del
campo magnetico, ottenere il risultato di far procedere gli elettroni in linea
retta, verso il punto che sta di fronte al catodo. Ora, poiché il valore della
forza elettrica agente sull'elettrone è pari a e∙E (con e=carica
dell'elettrone ed E=intensità del campo elettrico), e quello della forza
magnetica è uguale a e∙v∙B (con e=carica dell'elettrone, v=velocità
dell'elettrone e B=intensità del campo magnetico), nelle condizioni di
equilibrio deve risultare:
e∙E = e∙v∙B, da
cui:
v = E/B
Quindi, misurando l'intensità del campo elettrico, e del campo magnetico
che fa equilibrio ad esso, si può conoscere la velocità degli elettroni. Alla
fine non rimarrà che prendere la misura del raggio della traiettoria circolare
seguita dagli elettroni sotto l'azione del campo magnetico, per ottenere il
valore del rapporto e/m. Tale valore risulta 1,76∙108
coulomb/g.
La conoscenza del rapporto e/m dell'elettrone permette quindi di
determinare il valore di una delle due grandezze una volta che sia nota l'altra.
A quei tempi si conosceva il valore (almeno come ordine di grandezza) della
carica elettrica elementare, tuttavia la sua misura precisa e accurata venne
ottenuta, nel 1909, dal fisico americano Robert Millikan, insignito poi del
premio Nobel nel 1923.
Il dispositivo di cui si servì Millikan per realizzare il suo
esperimento è formato da due piastre parallele al terreno e collegate ad un
generatore di corrente continua (ad esempio una serie di pile), che produce, fra
le due piastre, un campo elettrico la cui intensità può essere variata a
piacimento, inserendo o disinserendo alcune pile. Dopo che dell'olio è stato
vaporizzato mediante un nebulizzatore, alcune goccioline, che frattanto si sono
elettrizzate per strofinio, passano attraverso il forellino praticato
nell'elettrodo superiore e scendono verso la piastra sottostante.
Quando gli elettrodi non sono collegati alle pile, le goccioline d'olio
scendono in caduta libera. Quando però fra i due elettrodi è applicata una
certa differenza di potenziale, si osserva che qualche gocciolina rimane sospesa
a mezz'aria, altre scendono più o meno velocemente ed altre ancora salgono. Le
goccioline che rimangono immobili fra le piastre cariche di elettricità, devono
evidentemente portare su di sé una carica tale da consentire al campo elettrico
di bilanciare esattamente la forza di gravità che agisce sulle stesse. Variando
opportunamente l'intensità del campo elettrico si può arrestare anche la
caduta di altre goccioline.
Millikan osservò che le cariche elettriche portate dalle goccioline
d'olio che rimanevano sospese a mezz’aria fra gli elettrodi carichi, pur
essendo di diverso valore, tuttavia erano sempre multiple della stessa
grandezza. Mai avveniva che una gocciolina portasse su di sé una carica
elettrica inferiore al valore di 1,60∙10-19 coulomb. Egli
allora considerò questa quantità minima, la carica dell'elettrone.
Una volta misurata la carica, fu possibile determinare la massa
dell'elettrone. Infatti, poiché era noto che il rapporto e/m valeva
1,67∙108 coulomb/g, sostituendo ad e il valore di
1,60∙10-19 coulomb, si ottenne:
L'elettrone diventava così la più piccola particella di materia mai
conosciuta. Esso pesa 1836 volte di meno del peso dell'atomo di idrogeno, il più
leggero che esista in natura. 5. I "RAGGI CANALE" E I
"RAGGI X"
La materia, in condizioni normali, si presenta elettricamente neutra. Era
quindi logico pensare che se da essa si era riusciti ad estrarre corpuscoli
carichi di elettricità negativa, gli elettroni appunto, dovessero essere
presenti residui carichi positivamente. Era altrettanto naturale attendersi che
tali frammenti di materia avrebbero dovuto seguire, nell'interno del tubo di
scarica, un percorso in senso contrario a quello degli elettroni.
Venne pertanto praticato un foro nel catodo in modo che le particelle,
provenienti dalla zona anodica, potessero attraversarlo. Fu così possibile
rendere evidente una radiazione, a cui fu assegnato, da Eugen Goldstein
(1850-1930), il nome provvisorio di "raggi canale".
Anche questa radiazione, sottoposta all'azione del campo magnetico,
deviava dalla sua traiettoria, ma in direzione opposta a quella dei raggi
catodici. Si trattava perciò di particelle cariche di elettricità positiva,
per le quali fu possibile determinare il valore del rapporto carica/massa,
utilizzando tecniche analoghe a quelle adottate per l'elettrone.
Diversamente dai raggi catodici, però, il rapporto carica/massa dei
raggi canale, variava al variare del tipo di gas impiegato per riempire il tubo;
inoltre, tale rapporto, risultava sempre migliaia di volte più piccolo di
quello ricavato per gli elettroni. Quando fu possibile misurare la carica
elettrica di questi nuovi corpuscoli, e risultò essere dello stesso valore di
quella trovata per l'elettrone (anche se di segno opposto), fu possibile
conoscere la massa di tali particelle: essa risultava praticamente identica a
quella degli atomi o delle molecole che riempivano il tubo di scarica. I raggi
canale, quindi, non erano altro che ioni positivi.
Se per riempire il tubo veniva impiegato l'idrogeno, la massa delle
particelle positive risultava la più piccola di tutte. Il fatto che l'idrogeno
formasse uno ione di massa inferiore a quella di qualsiasi altro elemento, fece
pensare che lo ione idrogeno potesse essere una particella fondamentale. A
questa particella fu assegnato pertanto il nome di protone, parola che in greco
significa "di primaria importanza".
Negli stessi anni in cui venivano compiuti gli studi sui raggi catodici e
sui raggi canale, Wilhelm Röntgen (1845-1923) premio Nobel per la fisica nel
1901, scoprì un altro tipo di radiazione.
Egli aveva osservato che i raggi catodici, urtando contro le pareti di
vetro del tubo di scarica, o contro un qualsiasi altro ostacolo posto di fronte
al catodo (anticatodo), rendevano quella zona fluorescente. Contemporaneamente,
da quello stesso punto, usciva una radiazione che rendeva a sua volta
fluorescenti alcuni cristalli di platinocianuro di bario (un minerale di colore
bianco) posti all'esterno.
Röntgen chiamò, questa nuova misteriosa radiazione, raggi X. I raggi X
non sono di natura corpuscolare ma, anche se invisibili, hanno le stesse
caratteristiche della luce. Essi possiedono infatti, fra l'altro, la proprietà
di impressionare una lastra fotografica avvolta con carta nera. I raggi X
assumeranno grande rilevanza per le loro applicazioni in fisica, in chimica e
soprattutto in medicina.
Oggi conosciamo il motivo per il quale gli elettroni, quando vanno ad
urtare contro un ostacolo emettono radiazioni. Gli elettroni veloci hanno una
grande energia cinetica e, quando colpiscono una parete che ne rallenta
fortemente la corsa, perdono buona parte della loro energia. Questa energia,
però, non va dispersa nel nulla ma semplicemente tramutata in un'altra forma.
Nel caso del bombardamento elettronico contro l'anticatodo, l'energia riappare
sotto forma di raggi X. 6. GLI ISOTOPI
Lo studio delle radiazioni prodotte nei tubi di scarica riservò, alla
fine, un'altra sorpresa. Era convinzione, a quel tempo, che ogni singolo
elemento fosse costituito di atomi tutti identici. Pertanto, qualora si fosse
riempito il tubo di scarica di un gas di una determinata specie chimica, era da
aspettarsi che si formasse, sotto l'azione del campo magnetico, un'unica traccia
del pennello dei raggi canale.
J.J. Thomson notò invece, durante un esperimento condotto nel 1912, che
riempiendo il tubo di neon, il campo magnetico separava tre tracce distinte,
corrispondenti a tre diversi valori del rapporto carica/massa delle particelle
del gas in esame. Due di questi valori avrebbero potuto essere attribuiti a
particelle di massa identica, ma con carica l'una il doppio dell'altra; il terzo
valore era invece quasi sicuramente dovuto alla presenza di particelle di massa
diversa. Thomson aveva quindi scoperto che il gas neon non doveva essere
costituito di particelle tutte della stessa massa.
Lo strumento usato da Thomson venne successivamente perfezionato e prese
il nome di spettrografo di massa. Si tratta essenzialmente di un
generatore di ioni positivi sistemato all'interno di un campo magnetico
uniforme. Il campo magnetico, come sappiamo, crea l'effetto di far percorrere
agli ioni una traiettoria circolare tale che, dopo un percorso di un arco di 180°,
gli ioni stessi vadano a cadere su una lastra fotografica, impressionandola.
Usando lo spettrografo di massa si scoprì che praticamente tutti gli
elementi chimici sono formati dall'insieme di più specie atomiche di massa
diversa. Gli atomi diversi dello stesso elemento chimico vennero chiamati isotopi
(*).
Il neon, ad esempio, è costituito di tre isotopi aventi massa atomica
rispettivamente 20, 21 e 22, mentre il peso dell'elemento risulta di 20,183.
Questo peso medio dipende dalle proporzioni con cui sono mescolati, in natura, i
tre tipi di atomi diversi.
Anche l'idrogeno risulta costituito da una pleiade di tre tipi diversi di
atomi: il più leggero, di massa unitaria, prende il nome di protio (o
prozio), quello di massa doppia si chiama deuterio e il terzo, di massa
tripla, tritio (o trizio). Il peso atomico dell'elemento idrogeno è
1,008.
Per indicare gli isotopi si usa scrivere il simbolo dell'elemento con a
fianco due numeri; l'uno, scritto in alto, detto numero
di massa, indica, in pratica, il peso atomico dell'isotopo e l'altro,
scritto in basso, detto numero
atomico, individua la specie chimica (ovvero il posto che l'elemento
occupa nel sistema periodico di Mendeleev). I tre isotopi dell'idrogeno hanno i
seguenti simboli: 1H1, 1H2, 1H3;
gli isotopi del neon si indicano invece nel modo seguente: 10Ne20,
10Ne21, 10Ne22.
E' interessante osservare che quando ai tempi di Cannizzaro si decise di
assegnare il valore 1 al peso dell'atomo di idrogeno, si assegnò in effetti,
tale valore, al peso di un atomo medio dell'idrogeno, e non, come si credeva, a
quello di un singolo atomo. Vedremo in seguito come verrà risolto il problema
relativo alla definizione dell'unità di massa atomica. (*)
Isotopo deriva dalle parole greche isos e topos che significano
"stesso posto". Ciò si riferisce al fatto che gli isotopi di uno
stesso elemento occupano la stessa posizione (cioè la stessa casella)
all'interno del Sistema periodico di Mendeleev che, come tutti sanno, è la
tabella che raccoglie ordinatamente gli elementi chimici noti. 7. IL MODELLO ATOMICO DI THOMSON
Subito dopo la scoperta degli elettroni, quando ancora non si aveva
un'idea precisa di come fosse distribuita la carica positiva, vennero formulati
i primi modelli di atomo. Il più noto di questi fu proposto, nel 1904, da
Joseph John Thomson.
Si tratta di un modello che potremmo definire pieno
a cariche diffuse. Secondo
lo scienziato inglese l'atomo doveva essere costituito da una sfera omogenea di
elettricità positiva, ma senza peso, nella quale si trovavano disseminati gli
elettroni, come si trattasse di uvetta nel panettone. Per questo motivo
all'atomo di Thomson venne anche assegnato il nome irriverente (ma efficace) di
"modello a panettone".
Il modello non era, come a volte si vuol far credere, una costruzione
ingenua e banale: si trattava, invece, di una struttura fisica perfettamente
coerente e sostenuta da rigorosi calcoli matematici. La situazione di
equilibrio, all'interno dell'atomo, si realizzava, secondo Thomson, perché le
forze di repulsione degli elettroni con carica negativa venivano bilanciate
dall'attrazione esercitata dalla carica positiva, diffusa all'interno
dell'atomo, sugli elettroni stessi.
Quando l'atomo veniva eccitato, cioè quando riceveva energia
dall'esterno, gli elettroni entravano in oscillazione ed emettevano radiazioni
di varia natura. Se l'eccitazione era molto intensa, poteva accadere che qualche
elettrone venisse espulso, trasformando l'atomo in ione. Un atomo privato di
alcuni elettroni conserva praticamente la stessa massa, ma assume carica
positiva.
Ora, poiché Thomson pensava (erroneamente) che la massa degli atomi
fosse dovuta esclusivamente agli elettroni, e poiché un elettrone pesa 1/1836
della massa dell'atomo di idrogeno, quest'atomo avrebbe dovuto contenere 1836
elettroni. Gli altri atomi, pesano decine e centinaia di volte di più
dell'atomo di idrogeno e quindi avrebbero dovuto contenere al loro interno
decine e centinaia di migliaia di elettroni. Un atomo con tanti elettroni a
muoversi al suo interno pareva, già "ad occhio", una struttura poco
verosimile; fu tuttavia un fondamentale esperimento condotto dal fisico inglese
Ernest Rutherford (1871-1937) a dimostrare che il modello di Thomson era del tutto inadeguato. 1. continua |