LA STRUTTURA ATOMICA - PARTE I

  

1.  PREMESSA

     La materia non può che essere continua o discontinua. Difatti, già nell’antica Grecia, alcuni filosofi pensavano che dividendo un corpo in parti sempre più piccole il processo sarebbe continuato all’infinito, mentre altri ritenevano che ad un certo punto si sarebbe incontrato un frammento di dimensioni minime non più divisibile. I primi erano i seguaci di Aristotele, mentre i secondi erano coloro che aderivano alle idee di Leucippo e del suo discepolo Democrito (colui che “il mondo a caso pone” e che per questo motivo Dante condannerà all’inferno).

    Oggi sappiamo che avevano ragione i sostenitori della teoria della struttura discontinua e corpuscolare della materia tuttavia le loro idee, frutto di una geniale intuizione, non avevano il supporto di alcuna prova sperimentale in quanto i filosofi greci pervenivano alle loro conclusioni esclusivamente attraverso il ragionamento.

    Colui che dimostrò, senza ombra di dubbio, l’esistenza di quelle particelle elementari e fondamentali della materia, che Democrito aveva chiamato atomi (cioè “indivisibili”), fu lo scienziato inglese John Dalton. Egli, dopo aver preso in esame le prime leggi ponderali della chimica, cioè quella di Antoine Lavoisier sulla conservazione della massa (1785), quella di Joseph-Louis Proust sulle proporzioni definite (1801) e soprattutto la sua sulle proporzioni multiple (1807), concluse che quelle leggi si potevano spiegare solo ammettendo che gli elementi fossero fatti di atomi.

     Il ragionamento che portò Dalton alla formulazione della sua teoria fu il seguente. Perché mai – egli si chiese - gli elementi che formano i composti (come mostrava la legge di Proust) partecipano alla reazione secondo valori in peso definiti e interi? L’acqua, ad esempio, si forma facendo reagire esattamente 8 parti in peso di ossigeno e 1 parte in peso di idrogeno e mai si ottiene acqua facendo reagire quantità qualsiasi di quegli stessi elementi (ad esempio 8,1 o 7,9 parti di ossigeno per una di idrogeno). Se la materia fosse continua quest’ultima possibilità dovrebbe verificarsi, mentre solo se la materia fosse di natura atomistica, la legge delle proporzioni definite e costanti troverebbe giustificazione coerente.

     La sua idea fu ulteriormente rafforzata dalla scoperta, da lui stesso effettuata, che due elementi erano in grado di combinarsi secondo più proporzioni. Ad esempio, ossigeno e idrogeno, oltre all’acqua, formano anche acqua ossigenata, ma mentre nel primo caso lo fanno combinandosi secondo un rapporto in peso di 8 a 1, nel secondo di 16 a 1. Se quindi si immaginava che la molecola di acqua (cioè il frammento più piccolo di questo composto) era formata dall’unione di un atomo di ossigeno con uno di idrogeno, il peso dell’atomo di ossigeno doveva essere 8 volte quello dell’atomo di idrogeno e quindi nella molecola di acqua ossigenata vi dovevano essere due atomi di ossigeno legati ad uno di idrogeno. (In realtà l’atomo di ossigeno pesa non 8, bensì 16 volte di più dell’atomo di idrogeno, ma il ragionamento che porta alla visione corpuscolare della materia conserva il suo rigore logico.)

    Accettato quindi come oggetto esistente, i chimici, tuttavia, si resero subito conto che l'atomo non poteva essere, come immaginava Dalton e come suggeriva anche il nome che gli era stato assegnato, una semplice pallina di materia omogenea e indivisibile. I limiti di tale modello apparvero evidenti non appena ci si chiese come gli atomi potessero stare uniti insieme a formare aggregati, e quali fossero le forze e i meccanismi in grado di determinare la formazione di alcuni legami e la rottura di altri. I fisici, d'altra parte, avevano l'esigenza di spiegare il fenomeno dell'elettricità, una forma di energia la cui origine e natura doveva risiedere necessariamente negli atomi, visto che un corpo materiale poteva venire elettrizzato anche per semplice strofinio.

    Si trattava quindi di costruire un modello di atomo, in grado di descrivere con maggiore precisione e dettaglio i fenomeni naturali. Per fare ciò era necessario indagare a fondo la struttura più intima della materia e alla fine gli scienziati riuscirono in effetti a costruire un modello di atomo molto accurato e preciso. Vediamo allora di ripercorrere le tappe fondamentali della lunga e faticosa ricerca sperimentale che ha condotto alla scoperta della struttura dettagliata dell’atomo anche perché si tratta di uno degli esempi più istruttivi di applicazione del metodo scientifico un metodo di indagine della natura guidato dalla intelligenza dell’uomo e fatto di osservazioni, di esperimenti, di ipotesi, di dubbi, di ripensamenti, di intuizioni e di errori.

  

2. I FENOMENI ELETTROLITICI

     Le prime indicazioni che l'atomo non poteva essere una particella omogenea, vennero dall'analisi dei fenomeni di elettrolisi. Con questo termine si indicano quei fenomeni che si osservano quando, in certi liquidi, si immergono due sbarrette metalliche, dette elettrodi, collegate ad un generatore di corrente continua (ad es. una pila). La vaschetta che contiene il liquido con immersi gli elettrodi collegati rispettivamente al polo positivo (anodo) e a quello negativo (catodo) del generatore di corrente continua, si chiama “cella elettrolitica”.

    L'interpretazione dei fenomeni di elettrolisi è piuttosto complessa ma a noi interessa solo osservare che durante il passaggio della corrente elettrica nella cella elettrolitica, si ha sempre comparsa o scomparsa di materia agli elettrodi. Michael Faraday, già nel lontano 1834, riassunse gli aspetti quantitativi di questo fenomeno in due leggi che portano il suo nome. Esse sono le seguenti:

     I legge di Faraday. La massa della sostanza che compare o scompare ad ogni elettrodo di una cella elettrolitica è proporzionale alla quantità di elettricità che passa attraverso il liquido.
      II legge di Faraday. La quantità di carica elettrica che deve fluire in una cella per far comparire o scomparire una mole(*) di sostanza a ciascun elettrodo è di 96.487 coulomb(**), oppure un multiplo intero e piccolo di tale quantità (ad es. il doppio, il triplo, ecc.).

   Se ad esempio si facesse passare la corrente elettrica in una soluzione acquosa di nitrato di argento AgNO3, e in una di solfato di rame CuSO4, nel primo caso si noterebbe che al passaggio di 96.487 coulomb di elettricità si deposita al catodo una mole di argento (107,88 g), mentre, nel secondo caso, per fare depositare al catodo una mole di rame (63,54 g), servirebbe una quantità di elettricità doppia, pari cioè a 192.974 coulomb.

    Ora, poiché i dati sperimentali mettevano in luce che un numero determinato di particelle, ad esempio quelle presenti in una mole (6,022·1023), trasportava una quantità determinata di elettricità, ad esempio 96.487 coulomb, era plausibile l'interpretazione che il fisico George Johstone Stoney, nel 1874, dette del fenomeno.

    Lo scienziato inglese suppose che fossero i singoli atomi o le singole molecole a trasportare un ben preciso frammento di carica elettrica e a queste supposte particelle cariche di elettricità venne anche assegnato un nome. Esse vennero chiamate ioni (un termine che deriva dal verbo greco "hiemi" che vuol dire corro, mi affretto, a sottolineare la caratteristica mobilità di questi corpuscoli). Le cariche elettriche possono essere positive o negative: gli ioni con carica positiva sono detti cationi, perché durante l’elettrolisi si dirigono verso il catodo, quelli con carica negativa anioni, perché sono attratti dall’anodo.

    Se l'intuizione di Stoney fosse corretta, la quantità minima di elettricità potrebbe venire determinata dividendo i 96.487 coulomb trasportati da una mole di materia per il numero di particelle contenute in essa, ossia per il numero di Avogadro. Si otterrebbe, in questo modo, il valore di 1,6·10-19 coulomb. Pertanto, un atomo (o un gruppo di atomi uniti insieme) trasporterebbe in soluzione la quantità di carica elettrica indicata sopra, o un suo multiplo. Ad esempio, l'atomo di argento porterebbe su di sé la quantità di carica pari esattamente al valore citato, mentre l'atomo di rame ne porterebbe una quantità doppia. Lo stesso Stoney propose il nome di elettrone per indicare la carica elettrica elementare (positiva o negativa) trasportata dagli ioni, quindi dette ad esso un significato diverso da quello che ha oggi l'elettrone.

    Inizialmente si riteneva che fosse il passaggio della corrente elettrica a determinare la separazione (lisi) dei componenti della soluzione, ma successivamente, il chimico svedese Svante Arrhenius (1859-1927), analizzando a fondo i dati sperimentali, intuì che essi potevano anche essere interpretati immaginando che in soluzione, indipendentemente dal passaggio della corrente, fossero già presenti frammenti di materia carichi positivamente e negativamente. Con Arrhenius si faceva quindi strada l'idea che gli atomi non fossero entità indivisibili, ma strutture complesse, scindibili in frammenti più piccoli carichi di elettricità. 

    La teoria di Arrhenius prese il nome di "dissociazione elettrolitica" e rappresentò, per così dire, l'aspetto chimico dell'ipotesi della natura complessa dell'atomo. I risultati determinanti sarebbero venuti però dal lavoro dei fisici.

 (*) La mole è la quantità in grammi di una sostanza pari al suo peso molecolare e corrispondente ad un ben determinato numero di particelle elementari.
(**) Il coulomb è l'unità di carica elettrica nel Sistema Internazionale (SI). Essa corrisponde ad una quantità di elettricità che ne attira o ne respinge (a seconda del segno) un'altra uguale, posta alla distanza di un metro, con la forza di 9·109 newton.

  

3. LA SCARICA ELETTRICA NEI GAS RAREFATTI

     Lo studio del passaggio dell'elettricità in gas rarefatti iniziò verso la metà dell'800. Le osservazioni vennero effettuate in tubi di vetro pieni d'aria o di altri gas, con due piastre metalliche (elettrodi) fissate all'interno e collegate ad un generatore di corrente continua ad alta tensione(*).

    Quando il tubo è pieno d'aria, anche applicando agli elettrodi una differenza di potenziale molto elevata (ad es. 10.000 volt) non si osserva alcun fenomeno in quanto l'aria (e più in generale i gas) a pressione normale, non conduce l'elettricità. (Se l’aria conducesse l’elettricità basterebbe un fulmine per mandarci tutti all’altro mondo; la cosa diventa pericolosa quando il fulmine cade in mare perché l'acqua di mare conduce l'elettricità.)

    Se però si estrae l'aria dal tubo, per mezzo di una pompa aspirante, fino a ridurre la pressione a pochi millimetri di mercurio, si nota il passaggio della corrente elettrica, prima sotto forma di una scintilla che procede a zigzag, poi sotto forma di una luminosità diffusa che riempie il tubo fino a fargli assumere l'aspetto familiare di quelli al neon. Il colore della luce dipende dal gas con il quale è stato riempito il tubo: rosso per il neon, blu per l'azoto, rosa per l'idrogeno, e così via. Sottraendo ancora aria dall'interno del tubo, fino a raggiungere pressioni dell'ordine del decimo di millimetro di mercurio, la luminosità scompare del tutto, mentre diventa fluorescente la parete di vetro dirimpetto al catodo.

    Se ora si volesse dare un'interpretazione a questo fenomeno, è evidente che debba trattarsi di un "quid" che si sprigiona dal catodo eccitando prima la materia che si trova nel tubo e poi, quando questa è stata praticamente eliminata, la zona del tubo posta di fronte ad esso. Nel 1876, il fisico tedesco Eugen Goldstein, nella convinzione di avere a che fare con una qualche forma di energia, dette, alla radiazione che emanava dal catodo, il nome di "raggi catodici".

    Alcuni anni più tardi, il fisico inglese William Crookes, per indagare sulla natura della radiazione catodica, apportò alcune modifiche ai tubi di scarica. Spostando lateralmente l'anodo, egli osservò che la radiazione continuava a procedere in linea retta dal catodo verso la parete di fronte (anticatodo). Se nel tubo veniva introdotto un leggerissimo mulinello, scorrevole su un binario, si osservava che esso, sotto l'effetto della radiazione, rotolava, dalla zona del catodo, verso quella opposta. Inoltre, interrompendo la radiazione catodica con un ostacolo, si poteva osservare, sulla parete di vetro posta di fronte, il formarsi di un'ombra netta, priva di aloni.

    Gli esperimenti mettevano in evidenza che la radiazione che usciva dal catodo non poteva essere della stessa natura della luce, perché una forma di energia immateriale non sarebbe stata in grado di spingere un mulinello a pale; essa inoltre, incontrando un ostacolo, avrebbe dovuto generare, oltre all'ombra, un alone di penombra molto ben visibile. Le evidenze sperimentali suggerivano che doveva trattarsi di uno sciame di corpuscoli.

    In seguito, Johann Wilhelm Hittorf (1824-1914) dimostrò che i raggi catodici venivano deviati sia da un campo magnetico(**), sia da un campo elettrico, e concluse che non solo doveva trattarsi di particelle, ma che queste dovevano possedere anche una carica elettrica, la quale, tenuto conto del senso della deviazione, doveva essere di segno negativo. Fu infine deciso di riservare a queste particelle, e non alle cariche elettriche, come si era fatto in precedenza, il nome di elettroni.

   (*) La tensione, detta anche "differenza di potenziale", è la forza elettrica di un circuito e rappresenta il lavoro necessario per trasportare una carica elettrica da un punto all'altro del circuito stesso. L'unità di misura della tensione, nel SI, è il volt. Si dice che tra due punti vi è la tensione di 1 volt quando, per trasferire da un punto all'altro la carica di 1 coulomb, occorre compiere il lavoro di 1 joule. La tensione tra i fili elettrici nelle nostre case è di 220 volt, mentre quella tra i poli delle comuni pile è di 1,5 volt.
(**) In fisica, come sarà meglio chiarito in seguito, si chiama "campo" la regione dello spazio che risente l'effetto di una determinata forza. Avvicinando allo schermo del televisore una calamita, si può osservare lo spostamento dell'immagine in quanto il televisore è sostanzialmente un tubo di scarica. Si sconsiglia tuttavia di fare l'esperimento con il televisore di casa: potrebbe, irrimediabilmente, rovinarsi.

  

4. LA DETERMINAZIONE DEL RAPPORTO CARICA/MASSA DELL'ELETTRONE

     I primi esperimenti condotti sui tubi di scarica dettero, dei raggi catodici, solo informazioni di carattere qualitativo. Nel 1897, l'inglese Joseph John Thomson (1856-1940) modificò opportunamente le apparecchiature allo scopo di effettuare la misurazione del percorso seguito dai raggi stessi sotto l'effetto dei campi elettrico e magnetico.

    Nel dispositivo usato da Thomson, gli elettroni prodotti dal catodo, vengono costretti a passare attraverso un piccolo foro praticato nell'anodo. L'apparecchio intero viene quindi inserito fra le espansioni di una calamita e, contemporaneamente, fra una coppia di piastre metalliche collegate ad un generatore di elettricità.

    In assenza di campo magnetico e di campo elettrico, il pennello di elettroni che proviene dal catodo procede in linea retta fino ad incontrare il vetro del tubo nel punto che gli sta di fronte. Quando è in azione il magnete (ma non le piastre elettriche), gli elettroni vengono deviati verso il basso. Disinserendo il magnete, e inserendo le piastre elettriche, si osserva che il pennello di elettroni devia verso la piastra carica di elettricità positiva.

    Ora, dalla fisica si sa che un corpo carico di elettricità, in movimento all'interno di un campo magnetico, descrive una circonferenza la cui ampiezza dipende dalla carica elettrica, dalla massa e dalla velocità posseduta dal corpo, oltre che dall'intensità del campo magnetico in cui si muove.

    Come è facilmente intuibile massa e velocità di un corpo carico di elettricità sono direttamente proporzionali all'ampiezza della traiettoria percorsa dal corpo stesso. Infatti, quanto più un oggetto è pesante, e quanto più velocemente procede, tanto più difficilmente potrà essere deviato dalla sua traiettoria ad opera di una forza esterna e pertanto più grande sarà il raggio della circonferenza da esso percorsa.

    La carica elettrica posseduta dal corpo in movimento e l'intensità del campo magnetico sono invece inversamente proporzionali all'ampiezza della traiettoria: la curva percorsa dal corpo sarà infatti tanto più stretta quanto maggiore sarà la sua carica elettrica e quanto più intenso il campo magnetico che agisce su di esso.

    Nel caso dell'elettrone, indicando con m la sua massa, con e la sua carica elettrica, con v la sua velocità e con B l'intensità del campo magnetico entro il quale è costretto a muoversi, si può dimostrare che il raggio r della traiettoria circolare percorsa da questo corpuscolo si calcola applicando la seguente formula:

                                                                           m · v
                                                                                   r = ————
                                                                                              e · B

 ossia, anche :

                                                                 e          1       v
                                                                               —— =  ——ּ ——
                                                                                  m          r       B

      Tutte le grandezze presenti a secondo membro di quest'ultima equazione possono essere misurate.

    In particolare, il valore del campo magnetico (B) si ottiene facendo uso di una elettrocalamita: dalla conoscenza delle sue caratteristiche di costruzione (numero delle spire, intensità della corrente elettrica che attraversa la bobina, ecc.) è possibile risalire all'intensità del campo magnetico da essa generato.

    La velocità degli elettroni (v) viene invece determinata per via indiretta. E' possibile infatti, calibrando la carica elettrica sulle piastre metalliche esterne, in modo tale da controbilanciare esattamente l'effetto del campo magnetico, ottenere il risultato di far procedere gli elettroni in linea retta, verso il punto che sta di fronte al catodo. Ora, poiché il valore della forza elettrica agente sull'elettrone è pari a e∙E (con e=carica dell'elettrone ed E=intensità del campo elettrico), e quello della forza magnetica è uguale a e∙v∙B (con e=carica dell'elettrone, v=velocità dell'elettrone e B=intensità del campo magnetico), nelle condizioni di equilibrio deve  risultare:

                                                              e∙E = e∙v∙B,

 da cui:  

                                                                                 v = E/B

     Quindi, misurando l'intensità del campo elettrico, e del campo magnetico che fa equilibrio ad esso, si può conoscere la velocità degli elettroni. Alla fine non rimarrà che prendere la misura del raggio della traiettoria circolare seguita dagli elettroni sotto l'azione del campo magnetico, per ottenere il valore del rapporto e/m. Tale valore risulta 1,76∙108 coulomb/g.

    La conoscenza del rapporto e/m dell'elettrone permette quindi di determinare il valore di una delle due grandezze una volta che sia nota l'altra. A quei tempi si conosceva il valore (almeno come ordine di grandezza) della carica elettrica elementare, tuttavia la sua misura precisa e accurata venne ottenuta, nel 1909, dal fisico americano Robert Millikan, insignito poi del premio Nobel nel 1923.

    Il dispositivo di cui si servì Millikan per realizzare il suo esperimento è formato da due piastre parallele al terreno e collegate ad un generatore di corrente continua (ad esempio una serie di pile), che produce, fra le due piastre, un campo elettrico la cui intensità può essere variata a piacimento, inserendo o disinserendo alcune pile. Dopo che dell'olio è stato vaporizzato mediante un nebulizzatore, alcune goccioline, che frattanto si sono elettrizzate per strofinio, passano attraverso il forellino praticato nell'elettrodo superiore e scendono verso la piastra sottostante.

    Quando gli elettrodi non sono collegati alle pile, le goccioline d'olio scendono in caduta libera. Quando però fra i due elettrodi è applicata una certa differenza di potenziale, si osserva che qualche gocciolina rimane sospesa a mezz'aria, altre scendono più o meno velocemente ed altre ancora salgono. Le goccioline che rimangono immobili fra le piastre cariche di elettricità, devono evidentemente portare su di sé una carica tale da consentire al campo elettrico di bilanciare esattamente la forza di gravità che agisce sulle stesse. Variando opportunamente l'intensità del campo elettrico si può arrestare anche la caduta di altre goccioline.

    Millikan osservò che le cariche elettriche portate dalle goccioline d'olio che rimanevano sospese a mezz’aria fra gli elettrodi carichi, pur essendo di diverso valore, tuttavia erano sempre multiple della stessa grandezza. Mai avveniva che una gocciolina portasse su di sé una carica elettrica inferiore al valore di 1,60∙10-19 coulomb. Egli allora considerò questa quantità minima, la carica dell'elettrone.

    Una volta misurata la carica, fu possibile determinare la massa dell'elettrone. Infatti, poiché era noto che il rapporto e/m valeva 1,67∙108 coulomb/g, sostituendo ad e il valore di 1,60∙10-19 coulomb, si ottenne:

                                                    1,60∙10-19 coulomb
                                                 m =  ——————————— = 9,11∙10¯28 grammi.
                                                              1,76∙108 coulomb/g

     L'elettrone diventava così la più piccola particella di materia mai conosciuta. Esso pesa 1836 volte di meno del peso dell'atomo di idrogeno, il più leggero che esista in natura.

  

5. I "RAGGI CANALE" E I "RAGGI X"

     La materia, in condizioni normali, si presenta elettricamente neutra. Era quindi logico pensare che se da essa si era riusciti ad estrarre corpuscoli carichi di elettricità negativa, gli elettroni appunto, dovessero essere presenti residui carichi positivamente. Era altrettanto naturale attendersi che tali frammenti di materia avrebbero dovuto seguire, nell'interno del tubo di scarica, un percorso in senso contrario a quello degli elettroni.

    Venne pertanto praticato un foro nel catodo in modo che le particelle, provenienti dalla zona anodica, potessero attraversarlo. Fu così possibile rendere evidente una radiazione, a cui fu assegnato, da Eugen Goldstein (1850-1930), il nome provvisorio di "raggi canale".

    Anche questa radiazione, sottoposta all'azione del campo magnetico, deviava dalla sua traiettoria, ma in direzione opposta a quella dei raggi catodici. Si trattava perciò di particelle cariche di elettricità positiva, per le quali fu possibile determinare il valore del rapporto carica/massa, utilizzando tecniche analoghe a quelle adottate per l'elettrone.

    Diversamente dai raggi catodici, però, il rapporto carica/massa dei raggi canale, variava al variare del tipo di gas impiegato per riempire il tubo; inoltre, tale rapporto, risultava sempre migliaia di volte più piccolo di quello ricavato per gli elettroni. Quando fu possibile misurare la carica elettrica di questi nuovi corpuscoli, e risultò essere dello stesso valore di quella trovata per l'elettrone (anche se di segno opposto), fu possibile conoscere la massa di tali particelle: essa risultava praticamente identica a quella degli atomi o delle molecole che riempivano il tubo di scarica. I raggi canale, quindi, non erano altro che ioni positivi.

    Se per riempire il tubo veniva impiegato l'idrogeno, la massa delle particelle positive risultava la più piccola di tutte. Il fatto che l'idrogeno formasse uno ione di massa inferiore a quella di qualsiasi altro elemento, fece pensare che lo ione idrogeno potesse essere una particella fondamentale. A questa particella fu assegnato pertanto il nome di protone, parola che in greco significa "di primaria importanza".

    Negli stessi anni in cui venivano compiuti gli studi sui raggi catodici e sui raggi canale, Wilhelm Röntgen (1845-1923) premio Nobel per la fisica nel 1901, scoprì un altro tipo di radiazione.

    Egli aveva osservato che i raggi catodici, urtando contro le pareti di vetro del tubo di scarica, o contro un qualsiasi altro ostacolo posto di fronte al catodo (anticatodo), rendevano quella zona fluorescente. Contemporaneamente, da quello stesso punto, usciva una radiazione che rendeva a sua volta fluorescenti alcuni cristalli di platinocianuro di bario (un minerale di colore bianco) posti all'esterno.

    Röntgen chiamò, questa nuova misteriosa radiazione, raggi X. I raggi X non sono di natura corpuscolare ma, anche se invisibili, hanno le stesse caratteristiche della luce. Essi possiedono infatti, fra l'altro, la proprietà di impressionare una lastra fotografica avvolta con carta nera. I raggi X assumeranno grande rilevanza per le loro applicazioni in fisica, in chimica e soprattutto in medicina.

    Oggi conosciamo il motivo per il quale gli elettroni, quando vanno ad urtare contro un ostacolo emettono radiazioni. Gli elettroni veloci hanno una grande energia cinetica e, quando colpiscono una parete che ne rallenta fortemente la corsa, perdono buona parte della loro energia. Questa energia, però, non va dispersa nel nulla ma semplicemente tramutata in un'altra forma. Nel caso del bombardamento elettronico contro l'anticatodo, l'energia riappare sotto forma di raggi X.

  

6. GLI ISOTOPI

     Lo studio delle radiazioni prodotte nei tubi di scarica riservò, alla fine, un'altra sorpresa. Era convinzione, a quel tempo, che ogni singolo elemento fosse costituito di atomi tutti identici. Pertanto, qualora si fosse riempito il tubo di scarica di un gas di una determinata specie chimica, era da aspettarsi che si formasse, sotto l'azione del campo magnetico, un'unica traccia del pennello dei raggi canale.

    J.J. Thomson notò invece, durante un esperimento condotto nel 1912, che riempiendo il tubo di neon, il campo magnetico separava tre tracce distinte, corrispondenti a tre diversi valori del rapporto carica/massa delle particelle del gas in esame. Due di questi valori avrebbero potuto essere attribuiti a particelle di massa identica, ma con carica l'una il doppio dell'altra; il terzo valore era invece quasi sicuramente dovuto alla presenza di particelle di massa diversa. Thomson aveva quindi scoperto che il gas neon non doveva essere costituito di particelle tutte della stessa massa.

    Lo strumento usato da Thomson venne successivamente perfezionato e prese il nome di spettrografo di massa. Si tratta essenzialmente di un generatore di ioni positivi sistemato all'interno di un campo magnetico uniforme. Il campo magnetico, come sappiamo, crea l'effetto di far percorrere agli ioni una traiettoria circolare tale che, dopo un percorso di un arco di 180°, gli ioni stessi vadano a cadere su una lastra fotografica, impressionandola.

    Usando lo spettrografo di massa si scoprì che praticamente tutti gli elementi chimici sono formati dall'insieme di più specie atomiche di massa diversa. Gli atomi diversi dello stesso elemento chimico vennero chiamati isotopi (*).

    Il neon, ad esempio, è costituito di tre isotopi aventi massa atomica rispettivamente 20, 21 e 22, mentre il peso dell'elemento risulta di 20,183. Questo peso medio dipende dalle proporzioni con cui sono mescolati, in natura, i tre tipi di atomi diversi.

    Anche l'idrogeno risulta costituito da una pleiade di tre tipi diversi di atomi: il più leggero, di massa unitaria, prende il nome di protio (o prozio), quello di massa doppia si chiama deuterio e il terzo, di massa tripla, tritio (o trizio). Il peso atomico dell'elemento idrogeno è 1,008.

    Per indicare gli isotopi si usa scrivere il simbolo dell'elemento con a fianco due numeri; l'uno, scritto in alto, detto numero di massa, indica, in pratica, il peso atomico dell'isotopo e l'altro, scritto in basso, detto numero atomico, individua la specie chimica (ovvero il posto che l'elemento occupa nel sistema periodico di Mendeleev). I tre isotopi dell'idrogeno hanno i seguenti simboli: 1H1, 1H2, 1H3; gli isotopi del neon si indicano invece nel modo seguente: 10Ne20, 10Ne21, 10Ne22.

    E' interessante osservare che quando ai tempi di Cannizzaro si decise di assegnare il valore 1 al peso dell'atomo di idrogeno, si assegnò in effetti, tale valore, al peso di un atomo medio dell'idrogeno, e non, come si credeva, a quello di un singolo atomo. Vedremo in seguito come verrà risolto il problema relativo alla definizione dell'unità di massa atomica.

 (*) Isotopo deriva dalle parole greche isos e topos che significano "stesso posto". Ciò si riferisce al fatto che gli isotopi di uno stesso elemento occupano la stessa posizione (cioè la stessa casella) all'interno del Sistema periodico di Mendeleev che, come tutti sanno, è la tabella che raccoglie ordinatamente gli elementi chimici noti.

  

7. IL MODELLO ATOMICO DI THOMSON

     Subito dopo la scoperta degli elettroni, quando ancora non si aveva un'idea precisa di come fosse distribuita la carica positiva, vennero formulati i primi modelli di atomo. Il più noto di questi fu proposto, nel 1904, da Joseph John Thomson.

    Si tratta di un modello che potremmo definire pieno a cariche diffuse. Secondo lo scienziato inglese l'atomo doveva essere costituito da una sfera omogenea di elettricità positiva, ma senza peso, nella quale si trovavano disseminati gli elettroni, come si trattasse di uvetta nel panettone. Per questo motivo all'atomo di Thomson venne anche assegnato il nome irriverente (ma efficace) di "modello a panettone".

    Il modello non era, come a volte si vuol far credere, una costruzione ingenua e banale: si trattava, invece, di una struttura fisica perfettamente coerente e sostenuta da rigorosi calcoli matematici. La situazione di equilibrio, all'interno dell'atomo, si realizzava, secondo Thomson, perché le forze di repulsione degli elettroni con carica negativa venivano bilanciate dall'attrazione esercitata dalla carica positiva, diffusa all'interno dell'atomo, sugli elettroni stessi.

    Quando l'atomo veniva eccitato, cioè quando riceveva energia dall'esterno, gli elettroni entravano in oscillazione ed emettevano radiazioni di varia natura. Se l'eccitazione era molto intensa, poteva accadere che qualche elettrone venisse espulso, trasformando l'atomo in ione. Un atomo privato di alcuni elettroni conserva praticamente la stessa massa, ma assume carica positiva.

    Ora, poiché Thomson pensava (erroneamente) che la massa degli atomi fosse dovuta esclusivamente agli elettroni, e poiché un elettrone pesa 1/1836 della massa dell'atomo di idrogeno, quest'atomo avrebbe dovuto contenere 1836 elettroni. Gli altri atomi, pesano decine e centinaia di volte di più dell'atomo di idrogeno e quindi avrebbero dovuto contenere al loro interno decine e centinaia di migliaia di elettroni. Un atomo con tanti elettroni a muoversi al suo interno pareva, già "ad occhio", una struttura poco verosimile; fu tuttavia un fondamentale esperimento condotto dal fisico inglese Ernest Rutherford (1871-1937) a dimostrare che il modello di Thomson era del tutto inadeguato. 

1. continua

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