ENRICO FERMI
Il 29 settembre del 2001 si è celebrato il
centenario della nascita di Enrico Fermi: un personaggio di cui, nonostante sia
stato una delle menti più fulgide del XX secolo, il nostro Paese conosce poco e
male le straordinarie qualità intellettuali. Si tratta di un difetto molto
grave della nostra cultura che tiene in scarsa considerazione gli scienziati e
la loro attività di ricerca a cominciare da quello che fu il più grande di
tutti: Galileo Galilei, le cui opere sono studiate più all’estero che in
Italia. Significativo, a questo proposito, è che nelle enciclopedie americane
alla voce Enrico Fermi si legga “american physicist” (fisico americano). 1. GLI ANNI DELLA SCUOLA
I Fermi erano originariamente contadini del Piacentino. Stefano Fermi, il
nonno di Enrico, era un accanito lavoratore, intelligente, ma di mentalità
piuttosto ristretta, che il piccolo Enrico diceva di ricordare bene nonostante
avesse avuto solo quattro anni quando egli morì all’età di 87 anni. La
moglie di Stefano Fermi, Giulia Bergonzi, di 12 anni più giovane, era una donna
molto religiosa e molto amata da figli e nipoti che aveva educato secondo i
precetti della chiesa che tutti osservavano escluso Alberto, il padre di Enrico.
Alberto Fermi, secondo figlio di Stefano, nacque nel 1857 sotto il
dominio austriaco e fu allevato nell’austera parsimonia di una famiglia in cui
da una parte era forte il desiderio di elevarsi socialmente attraverso lo
studio, e dall’altra quello opposto di andare a lavorare il più presto
possibile e guadagnare molto denaro. Alberto non seguì corsi di studio regolari
e dopo qualche impiego saltuario entrò nella compagnia ferroviaria “Alta
Italia”.
La madre di Fermi, Ida de Gattis, originaria di Bari, era una maestra di
14 anni più giovane del padre, sicché nel 1898, al tempo del loro matrimonio,
Alberto Fermi aveva 41 anni e la sposa 27. I due coniugi, trasferitisi a Roma
per motivi di lavoro, vissero dapprima in un appartamento che si trovava in una
palazzina situata nei pressi della stazione ferroviaria dove nacque Enrico e poi
si trasferirono in una nuova casa ubicata nelle vicinanze.
Dopo aver concluso gli studi elementari Enrico, a 10 anni, si iscrive al
liceo-ginnasio Umberto I. Studente modello, già nei primi anni di liceo
dimostra un forte interesse per la fisica e la matematica che studia e
approfondisce con passione affrontando argomenti non compresi nei programmi
scolastici. A 14 anni acquista su una bancarella un libro di fisica, scritto in
latino, che analizza a fondo: questo suo attento lavoro è evidenziato anche
dalle frequenti annotazioni trovate in margine al testo.
A 15 anni, dopo la tragica morte dell’amato fratello Giulio che era
stato l’unico suo amico e compagno di giochi in tenera età, fa amicizia con
Enrico Persico, coetaneo di Giulio, e anch’egli molto interessato alla fisica.
Persico, che farà una brillante carriera universitaria, ricorderà l’amico
come un ragazzo molto intelligente e con idee chiare che gli consentivano di
muoversi in settori della fisica assai complessi con molta disinvoltura. Dotato
di intuito e di mentalità pragmatica, per lui, già a quei tempi, conoscere un
teorema o una legge scientifica voleva dire conoscere il modo di servirsene.
E’ sorprendente il fatto che escluso il fratello Giulio e la moglie, né i
genitori, né i figli abbiano esercitato alcuna influenza
nella vita di Enrico Fermi.
Saltando l’ultimo anno di corso nel luglio del 1918 Fermi consegue la
licenza liceale e quindi partecipa al concorso per l’ammissione alla Scuola
Normale Superiore di Pisa. La prova viene superata con facilità e con le
congratulazioni dei commissari che pronosticano per la giovane matricola un
futuro brillante nel campo della ricerca scientifica. Frattanto quel ragazzo
eccezionale aveva concluso la lettura di un gigantesco trattato di fisica in
nove volumi del russo O. D. Chwolson, un “classico” nel quale l’autore
descriveva, attraverso gli esperimenti condotti dai personaggi che ne furono
protagonisti, la transizione della fisica classica alla nuova fisica. Quei
personaggi erano Planck, Einstein, Poincaré, Sommerfeld e tanti altri, tutti
fisici di grande fama che in seguito Fermi conoscerà personalmente.
Durante gli anni dell’Università Fermi affronta, praticamente da
autodidatta, lo studio di molti argomenti di fisica conseguenti a ricerche
condotte all’estero e poco conosciuti nel nostro Paese anche fra gli esperti,
a conferma dell’arretratezza e del provincialismo scientifico dell’Italia di
quegli anni.
A Pisa conosce Franco Rasetti, l’unico dei “ragazzi di via
Panisperna” ancora vivente (il 10 agosto del 2001 ha varcato la soglia dei
cento anni), con il quale conduce alcuni esperimenti all’interno del
laboratorio di fisica dove aveva libertà d’accesso concessagli dal direttore.
Durante quegli anni tiene anche alcune conferenze sulle più recenti scoperte
nel campo della fisica, in particolare sulla relatività einsteiniana, di cui
sottolinea la grande importanza concettuale (mentre la stragrande maggioranza
dei fisici italiani nutriva una profonda diffidenza verso le teorie di Einstein
perché non ne comprendeva le “astrusità” matematiche) e pubblica anche i
suoi primi lavori. Questa intensa attività non gli impedisce di partecipare
alla vita goliardica di Pisa e di compiere alcune escursioni in montagna: una
passione, questa, che gli rimarrà per tutta la vita. 2. L’INSEGNAMENTO
Fermi si laureò nel luglio del 1922 a pieni voti discutendo una tesi
sperimentale sulla diffrazione dei raggi X, quindi tornò a Roma dove
all’Istituto di Fisica fu incaricato di tenere un corso di Istituzioni di
matematica. Nel 1926 mentre insegnava all’Università di Firenze dove era
arrivato due anni prima, pubblicò il primo lavoro che lo rese famoso a livello
internazionale. Si tratta di quella che oggi viene chiamata la “statistica di
Fermi-Dirac” ossia una legge a cui obbediscono le particelle elementari della
materia come elettroni, protoni e neutroni le quali hanno bisogno di luoghi
diversi su cui disporsi. In parole semplici mentre le particelle di energia,
come ad esempio i fotoni, possono addensarsi tutte insieme nello stesso posto,
le particelle di materia hanno bisogno di un posto per ciascuna di esse (gli
elettroni di un atomo, ad esempio, non possono stare tutti insieme accalcati
vicino al nucleo, ma devono sistemarsi su varie orbite distanziate fra loro).
L’insieme delle particelle di materia che sottostanno alla statistica di Fermi
verranno in seguito chiamate fermioni, mentre le particelle di energia
simili ai fotoni, chiamate bosoni, dal nome del fisico indiano Satyendra
Bose, sottostanno alla cosiddetta “statistica di Bose-Einstein”. La stessa
scoperta di Fermi venne fatta alcuni anni più tardi dal fisico britannico P.A.
Maurice Dirac che la pubblica senza citare il lavoro analogo del fisico italiano
il quale si risentì per il comportamento del collega che giudicò scorretto.
Alla fine del 1926 Fermi vince la cattedra di Fisica teorica (la prima
con questo nome in Italia) presso l’Università di Roma e comincia ad attrarre
intorno a sé un gruppo di giovani di eccezionale talento (Franco Rasetti,
Edoardo Amaldi, Emilio Segrè, Ettore Majorana ed altri) che in seguito
diverranno noti come “i ragazzi di via Panisperna”. Nell’occasione si
dimostrò un insegnante dalle qualità eccezionali e un leader nato:
oltre alle regolari lezioni che teneva dalla cattedra spesso si sedeva ad un
tavolo con quattro o cinque dei suoi migliori allievi e in loro presenza si
destreggiava, fra il noto e l’ignoto, nella soluzione dei problemi che si
affacciavano in quel momento sullo scenario della ricerca scientifica.
I lavori di Fermi nei primi sei anni trascorsi all’Università di Roma
furono prevalentemente di carattere teorico, ma nel 1932 si ebbe la svolta.
Prima di parlarne è importante ricordare che in questo periodo, precisamente
nel 1928, Fermi sposò Laura Capon, una ragazza di origine ebrea da cui ebbe due
figli, Maria e Giulio.
Il 1932 è considerato l’anno di nascita della fisica nucleare perché
esso fu contrassegnato da una serie di scoperte fondamentali relative al nucleo
dell’atomo su cui si focalizzò l’interesse di Fermi.
Nel febbraio di quell’anno James Chadwick dimostra l’esistenza del
neutrone, una particella che era stata più volte teorizzata quale componente
del nucleo atomico, ma che nessuno aveva ancora visto materialmente. Nello
stesso anno viene anche individuato il positone, ossia l’elettrone carico
positivamente e ha inizio una serie di esperimenti che utilizza particelle
subatomiche per disintegrare i nuclei degli atomi.
Fermi decide di partecipare direttamente alla ricerca in
questo campo ma l’Istituto di Fisica, sistemato in un palazzo di via
Panisperna, è privo delle apparecchiature necessarie ed è carente anche
l’officina che dovrebbe costruirle. Fermi non si scoraggia per questo ma si
impegna personalmente nella costruzione degli apparecchi più semplici
(dimostrandosi anche un abile tecnico) e ne progetta degli altri che fa poi
costruire da ditte esterne.
L’Istituto di via Panisperna era stato fatto edificare nel 1880 da
Piero Blaserna un goriziano trapiantato a Roma, considerato il padre di tutto ciò
che di straordinario sarebbe poi accaduto in Italia nel campo della fisica. In
realtà Blaserna era nato a Fiumicello, quindi in provincia di Udine, ma studiò
al liceo di Gorizia e poi fu mandato a Vienna a frequentare i corsi universitari
di matematica e fisica. Alla sua morte, avvenuta nel 1918, gli succedette un suo
allievo siciliano, Orso Mario Corbino, un personaggio che si dimostrò
determinante nella organizzazione del gruppo di ricercatori che sotto la guida
di Fermi avrebbe effettuato scoperte eccezionali nel campo della fisica
nucleare.
Di quegli anni è la teoria proposta da Fermi sulla emissione dei raggi
b da parte delle sostanze radioattive. I raggi
b
non sono altro che elettroni emessi dai nuclei degli atomi di alcune sostanze
radioattive quando si trasformano in nuove specie il cui numero atomico
differisce di un’unità dall’atomo di partenza. Per esempio il carbonio
radioattivo (C14) emette spontaneamente un elettrone e diventa azoto
(N14), un elemento che si trova di un posto avanti al carbonio nella
tabella periodica di Mendeleev. A quel tempo era convinzione dei fisici che gli
elettroni espulsi dalle sostanze radioattive provenissero direttamente dal
nucleo degli atomi dove si trovavano legati ai protoni. Il neutrone, in altri
termini, non era altro che un protone con legato a sé un elettrone. Fermi
intuisce invece che nel nucleo non vi sono elettroni, ma questi sono creati
nell’istante stesso in cui avviene la disintegrazione (quindi non preesistono)
e sono subito espulsi. Quando il neutrone si trasforma in protone il nucleo
atomico emette oltre a un elettrone anche un neutrino, il piccolo corpuscolo
neutro teorizzato alcuni anni prima dal fisico austriaco Wolfgang Pauli e a cui
proprio Fermi dette questo nome. Con questa intuizione Fermi pone le basi per
una scoperta che avverrà negli anni seguenti, vale a dire l’esistenza di una
forza detta “forza debole” all’interno del nucleo.
Ma la scoperta che ha dato la svolta al lavoro sperimentale di Fermi e
del suo gruppo proviene dalla Francia quando la figlia di Marie Curie, Irène e
suo marito Frédéric Joliot (anch’essi premi Nobel) annunciarono di avere
scoperto la radioattività artificiale. Essi avevano notato che
“bombardando” una lastra di alluminio con particelle
a
il prodotto della disintegrazione non era stabile, ma entro pochi minuti
emetteva a sua volta particelle cariche (positoni) comportandosi come una
sostanza radioattiva. Anche altri elementi leggeri, se bombardati, si
trasformavano in sostanze radioattive, ma su quelli pesanti le particelle
a
non producevano alcun effetto.
La particelle
a
sono nuclei di elio quindi corpuscoli relativamente pesanti e con carica
positiva. Essi venivano lanciati contro il bersaglio a grandissima velocità,
tuttavia non erano in grado di penetrare nei nuclei degli elementi più pesanti
un po’ perché i numerosi elettroni periferici ne rallentavano la corsa e un
po’ perché quei nuclei, di carica positiva anch’essi, li respingevano
quando la loro distanza dal proiettile diventava piccolissima.
Venuto a conoscenza della scoperta dei coniugi Joliot-Curie, Fermi pensò
di utilizzare i neutroni al posto delle particelle alfa per produrre
radioattività artificiale. I neutroni sono piccoli, non hanno carica elettrica
e non vengono quindi ostacolati nella loro corsa dagli elettroni né respinti
dai protoni positivi dei nuclei, hanno perciò maggiore probabilità di
incontrare un nucleo anche pesante e di penetrarvi. Contro questi vantaggi vi
era però il grosso inconveniente che i neutroni non escono spontaneamente dalla
materia e per ottenerli bisogna bombardare alcune sostanze con particelle
a.
Fermi, come abbiamo già visto, non possedeva un’indole incline ad
arrendersi di fronte alle difficoltà. Egli sapeva che il professor Giulio
Cesare Trabacchi dell’Istituto di Sanità conservava un grammo di radio la cui
emanazione, ossia il gas che l’elemento produce spontaneamente, mescolata a
polvere di berillio, avrebbe liberato i neutroni necessari. Il professor
Trabacchi mise a disposizione del gruppo di Fermi il materiale di cui disponeva
e per questo motivo venne soprannominato la “Divina Provvidenza”. In realtà
tutti i componenti del gruppo avevano un soprannome mutuato dalla gerarchia
ecclesiastica e a Fermi, naturalmente, era stato riservato quello di “Papa”.
Fermi iniziò quindi gli esperimenti bombardando con i neutroni prima gli
elementi più leggeri e poi via via quelli più pesanti. Con i più leggeri non
ottenne alcun effetto mentre, con somma soddisfazione, notò che le sostanze più
pesanti del fluoro diventavano radioattive. Gli esperimenti si susseguirono
allora a ritmo frenetico e venivano condotti dai componenti del gruppo in aule
diverse. Per dare uniformità agli esperimenti, Fermi propose che
l’irraggiamento dei vari elementi venisse fatto all’interno di una sorta di
cassetta di piombo. Sennonché Edoardo Amaldi e Bruno Pontecorvo, i più giovani
del gruppo (Pontecorvo era fresco di laurea ed aveva da poco compiuto
vent’anni) che per tale motivo erano soprannominati gli “Abati”, avevano
notato che l’intensità della radiazione che si liberava dall’argento sul
quale stavano sperimentando era diversa a seconda che il metallo venisse posto
al centro del contenitore di protezione o in un angolo. Fermi, venuto a
conoscenza dell’anomalia, suggerì di condurre l’esperimento all’esterno
del contenitore di protezione per individuare eventuali anomalie che in realtà
si verificarono tanto da determinare l’ira di Franco Rasetti, il “Cardinale
Vicario” (così chiamato perché affiancava e all'occorrenza sostituiva il
"Papa"), che si arrabbiò molto con i due ragazzi (lui aveva trent’anni)
dando loro degli incapaci e minacciandoli di allontanarli dal gruppo. “Questi
ragazzi non hanno ancora imparato a fare le esperienze pulite!” urlò con tono
severo. Fermi e Rasetti, detto per inciso,
erano temutissimi dagli allievi di fisica per la loro severità.
In realtà i risultati degli esperimenti erano molto discordanti ma la
“colpa” non era dei due sperimentatori bensì della “sora Cesarina” la
donna delle pulizie la quale, all’insaputa dei due fisici, nascondeva sotto il
tavolo della stanza in cui lavoravano Amaldi e Pontecorvo i secchi pieni
d’acqua di cui aveva bisogno per svolgere le sue mansioni. Quindi la presenza
dell’acqua, più o meno prossima alla zona in cui veniva misurata la
radioattività che fuoriusciva dal metallo, contraffaceva i risultati.
Il sospetto che ad alterare le misurazioni fosse l’acqua venne alle
orecchie di Fermi il quale rifece l’esperimento all’interno di un secchio
pieno d’acqua e poi nello stesso secchio, ma vuoto, e i risultati furono
effettivamente diversi. Non fu difficile quindi convincersi che era proprio
l’acqua la causa degli esiti tanto diversi delle misure dei due colleghi,
anche perché in precedenza lui stesso aveva tentato gli esperimenti
all’interno di un blocco di paraffina.
Non si è mai saputo il vero motivo per il quale Fermi decise di
sostituire la protezione di piombo con della paraffina, ma è certo che quando
si accorse che con quella sostanza la radioattività aumentava fino a cento
volte rispetto ai valori precedentemente misurati trovò subito la spiegazione.
La paraffina è una sostanza ricca di idrogeno e i nuclei degli atomi di
idrogeno sono fatti di protoni i quali, essendo particelle con la stessa massa
dei neutroni, quando li incontrano ne rallentano la velocità: come fa una
biglia quando si scontra con un’altra delle sue stesse dimensioni. I neutroni
lenti erano quindi più efficaci nel bombardamento in quanto era più facile la
loro cattura da parte del nucleo del metallo pesante. Ora, poiché la
radioattività è prodotta dalla instabilità del nucleo il quale si disintegra
quando al suo interno sono presenti più neutroni del normale, ecco che i
neutroni lenti indugiando più a lungo in prossimità del nucleo avevano anche
maggiore probabilità di essere catturati. L’acqua, che è una sostanza
altrettanto piena di protoni quanto la paraffina, dovrebbe avere lo stesso
effetto sui neutroni. Non rimaneva che fare l’esperimento cruciale usando
grandi quantità d’acqua. In questo modo si arrivò al famoso esperimento
all’interno della vasca dei pesci rossi del giardino dell’Istituto.
Fermi per la scoperta di sostanze radioattive attraverso l’uso dei
neutroni a bassa energia ricevette il premio Nobel, ma in realtà non capì che
cosa era effettivamente successo irradiando mediante neutroni lenti i nuclei
degli atomi pesanti. I ragazzi di via Panisperna, si seppe più tardi, con i
loro esperimenti avevano ottenuto, senza accorgersene, la prima fissione
dell’atomo, cioè la prima reazione nucleare della storia. Bombardando
l’uranio si erano in effetti ottenute delle sostanze radioattive, che tuttavia
non era facile identificare, anche perché radioattivo era lo stesso uranio. Il
gruppo era convinto di avere prodotto due elementi transuranici, cioè elementi
più pesanti dell’uranio, che vennero anche battezzati con i nomi di
“esperio” e “ausonio” e di cui Fermi parlò in occasione
dell’assegnazione del Nobel, mentre quello che avevano ottenuto era la rottura
in due parti pressoché uguali del nucleo dell’atomo di uranio. 3. L’AMERICA
Nel gennaio del 1937 morì all’improvviso per una polmonite Orso Mario
Corbino che per le sue elevate capacità organizzative era stato soprannominato
“il Padreterno” e Fermi restò privo del sostegno scientifico e politico di
quello che era stato l’influente protettore del gruppo. Lo sostituì Antonino
Lo Surdo e non Fermi come in molti si aspettavano. Erano gli anni in cui la
situazione politica in tutta Europa si andava rapidamente deteriorando tanto da
far presagire un’imminente catastrofe: i nazisti avevano dato inizio alle
persecuzioni razziali e Mussolini si sarebbe inoltrato nel solco del suo sodale
tedesco. A peggiorare la situazione, nel luglio dello stesso anno, morì anche
Guglielmo Marconi il quale, nella sua veste di presidente del CNR e
dell’Accademia d’Italia, era stato un valido sostenitore dei ragazzi di via
Panisperna.
Il gruppo di Fermi nel frattempo si era in gran parte dissolto per il trasferimento
dei componenti più rappresentativi in varie Università italiane ed estere e
anche l’Istituto di fisica aveva cambiato sede e si era trasferito da via
Panisperna alla nuova città universitaria. Numerose erano le richieste per
ottenere dal governo fascista fondi per la ricerca, che tardavano ad arrivare e
quando arrivavano erano insufficienti per portare avanti qualsiasi progetto e in
particolare l’idea ambiziosa di Fermi di realizzare l’Istituto Nazionale di
Radioattività dotato di attrezzature equiparabili a quelle dei più importanti
centri europei di ricerca. Nel maggio del 1938 la proposta di Fermi viene
definitivamente affossata e il fisico italiano prende seriamente in
considerazione l’idea di abbandonare il suo Paese. In precedenza Fermi, che si
era recato più volte in America per motivi di studio, aveva maturato una
profonda simpatia per quel Paese soprattutto per l’organizzazione che aveva
notato nei laboratori scientifici da lui visitati. L’occasione di lasciare
l’Italia si presenta nei primi giorni di dicembre del 1938 quando
l’Accademia delle Scienze di Svezia gli comunica che aveva vinto il premio
Nobel per la fisica.
La sera del 6 dicembre del 1938 Fermi parte con la moglie e i due figli
in treno per recarsi a Stoccolma dove il 10 verrà insignito del premio. Dopo la
cerimonia, invece di tornare in Patria, si imbarca con tutta la famiglia sul
transatlantico Franconia per raggiungere gli Stati Uniti e il 2 gennaio
1939 sbarca a New York dove lo aspettava un posto di insegnante alla Columbia
University di quella città. Il giorno stesso del suo arrivo Fermi fa domanda di
naturalizzazione e l’11 luglio 1944 diviene cittadino americano (gli americani
non hanno quindi tutti i torti nel considerare Fermi un loro concittadino). Fra
il 1933 e il 1941 più di cento fisici, in maggioranza ebrei, lasciarono la
Germania, l’Italia, l’Austria, l’Ungheria e altri Paesi europei diretti
verso gli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali. In seguito a
questo esodo di massa il baricentro della fisica mondiale dall’Europa si
trasferisce negli USA. Per farsi un’idea delle dimensioni del fenomeno si
pensi che all’ultimo congresso Solvay, che si teneva a Bruxelles ogni tre
anni, partecipò un unico fisico di origine americana, Ernest Lawrence, tutti
gli altri erano europei.
Come abbiamo detto il motivo che spinse Fermi a lasciare l’Italia fu
indubbiamente di carattere professionale, ma non di secondaria importanza nella
decisione fu l’emanazione delle leggi razziali che prima o poi avrebbero
colpito sua moglie ebrea. Pochi giorni dopo il suo arrivo si sarebbe svolto a
Princeton, l’Università in cui insegnava Einstein, un seminario di fisica a
cui avrebbero partecipato i maggiori cervelli del mondo. Fra questi vi era anche
Niels Bohr che era arrivato quello stesso giorno a New York dove trovò ad
attenderlo sulla banchina del porto Enrico Fermi con la moglie. Bohr era latore
di una notizia sconvolgente.
Pochi giorni prima di Natale del 1938 il fisico tedesco Otto Hahn al
Kaiser Wilhelm Institut di Berlino, bombardando atomi di uranio con neutroni
lenti, come suggerito da Fermi, si era accorto che tra i prodotti della reazione
si trovavano atomi di massa molto inferiore all’uranio. L’osservazione
convinse Hahn che con il bombardamento l’atomo di uranio si era rotto in due
frammenti più o meno delle stesse dimensioni. Egli aveva inoltre notato che i
nuclei degli atomi finali avevano al loro interno complessivamente meno neutroni
dell’atomo iniziale di uranio e che quindi la reazione doveva avere liberato
dei neutroni. Inoltre era stata misurata anche una enorme quantità di energia.
In parole semplici Hahn aveva scoperto la bomba atomica.
Egli decise quindi di informare la comunità scientifica del risultato
dei suoi esperimenti e per farlo scelse di scrivere ad una sua ex allieva, la
scienziata austriaca Lise Meitner, in esilio a Stoccolma in quanto ebrea, la
quale a sua volta ne parlò con il nipote Otto Frisch che era giunto in quella
città per trascorrere le vacanze di Natale con la zia. Quando Frisch tornò a
Copenaghen raccontò ogni cosa al fisico danese Niels Bohr, del quale era
assistente. Qualche giorno dopo Bohr partì per New York e così la notizia varcò
l’Atlantico.
Quando Fermi venne informato dei risultati degli esperimenti di Hahn
formulò l’ipotesi che la reazione di fissione (o rottura) dell’atomo di
uranio potesse essere una reazione a catena, cioè una reazione che si sosteneva
da sola, perché i neutroni che si liberavano ad ogni rottura dell’atomo di
uranio avrebbero essi stessi rotto altri atomi e la reazione innescata da pochi
neutroni iniziali sarebbe poi continuata da sola. Si trattava ora di riprodurre
l’esperimento di Hahn ed accertarsi se il comportamento dell’uranio
corrispondeva alle previsioni. Per fare questo Fermi riunì alla Columbia
University i maggiori specialisti del settore. Fra questi vi era Leo Szilard, un
fisico ungherese con il quale Fermi incontrò molte difficoltà a collaborare,
il quale si rese immediatamente conto che il risultato di quegli esperimenti
poteva avere sviluppi militari. In un primo tempo riuscì a mettere in contatto
Fermi con un ammiraglio dello Stato maggiore della Marina Americana, ma da quel
colloquio non sortì alcun effetto perché questi non sembrò rendersi conto
dell’importanza della scoperta.
Szilard insieme con altri due fisici che lavoravano con lui al progetto
andò allora a trovare Einstein, che stava trascorrendo un periodo di vacanza a
Long Island, e lo persuase a firmare una lettera indirizzata al presidente
Roosevelt in cui il capo dello Stato americano veniva informato della scoperta
che preludeva alla realizzazione di una bomba a base di uranio molto più
potente di quelle convenzionali. Roosevelt comprese immediatamente
l’importanza della scoperta e si rese conto che era necessario agire in fretta
per prevenire i nazisti e la loro follia distruttiva.
In realtà la scoperta era già di dominio pubblico e qualsiasi
scienziato avrebbe potuto utilizzare le informazioni esistenti per costruire un
ordigno di immensa potenza. Fermi, che rispetto agli altri aveva il vantaggio
derivatogli dall’esperienza acquistata operando con i neutroni, si mise subito
al lavoro e osservò che il numero dei neutroni prodotti dalla fissione
dipendeva dalla purezza del materiale usato e dalla efficacia del moderatore.
L’acqua e la paraffina che il fisico italiano aveva usato nei primi
esperimenti ora risultavano inutilizzabili perché assorbivano troppi neutroni
rallentando eccessivamente il processo. Il carbonio, sotto forma di grafite,
sarebbe stato più appropriato e Szilard concordò con questa scelta ma la
disponibilità della sostanza era scarsa e non vi erano fondi sufficienti per
acquistarne dell’altra: Szilard, da abile politico qual era, riuscì comunque
a rifornire i laboratori dell’Università di un grosso quantitativo di
grafite.
Frattanto gli esperimenti mettevano in luce che a scindersi non era tutto
l’uranio contenuto nel prodotto naturale ma solo l’isotopo di massa 235
mentre l’altro, quello di massa 238, colpito dai neutroni, si trasformava in
altre sostanze più pesanti e radioattive. L’uranio naturale è in realtà una
miscela di due tipi di atomi entrambi con 92 elettroni e quindi con 92 protoni
nel nucleo, ma l’uno con tre neutroni in meno dell’altro. Ora, poiché a
scindersi era quello di massa 235 che rappresentava solo lo 0,7% del totale era
necessario separare i due tipi di atomi, ovvero arricchire il prodotto naturale
in U235. Mentre si studiava il modo più conveniente per separare i
due isotopi Fermi scoprì l’esistenza di un altro esplosivo, il plutonio, un
elemento transuranico che non esiste in natura ma si forma per trasformazione
dell’uranio 238 bombardato con neutroni lenti. Anche il plutonio, bombardato a
sua volta da neutroni lenti teoricamente dovrebbe fissionarsi. Lo studio sulle
proprietà del Pu239 non solo confermò che l’elemento era
fissionabile, ma che aveva anche vita lunga tanto da poter essere separato dagli
altri prodotti della reazione e accumulato.
Nel momento stesso in cui venivano compiute queste ricerche, al fine di
raggiungere un risultato pratico nel più breve tempo possibile, il gruppo
guidato da Fermi si era trasferito a Chicago dove il lavoro di preparazione del
materiale necessario alla costruzione di una pila di uranio e grafite divenne
frenetico sotto la supervisione del fisico americano Arthur H. Compton, che era
stato incaricato di coordinare tutte le operazioni riguardanti la reazione a
catena. Nel novembre del 1942 Fermi giudicò che il materiale disponibile per la
costruzione di un reattore fosse sufficiente e cominciò l’assemblaggio della
struttura che avvenne sotto le tribune di uno stadio in disuso, il quale in
seguito verrà abbattuto e al suo posto costruito un monumento che ricorda
l’evento storico. La pila sarebbe diventata critica con la posa del 57°
strato di uranio e grafite. Il 2 dicembre di quell’anno la pila era pronta e
Fermi ordinò di togliere dalla struttura le barre di cadmio che erano state
inserite per assorbire i neutroni. Completata l’operazione di avvio il sistema
si mise a funzionare producendo una enorme quantità di energia il cui flusso
veniva controllato posizionando opportunamente le barre di cadmio. Era in atto
la prima reazione a catena auto-sostenuta con rilascio controllato di energia.
Mentre la pila funzionava con regolarità uno dei colleghi di Fermi, Eugene
Wigner, stappò un fiasco di Chianti e tutti brindarono al successo
dell’esperimento; quindi, a futura memoria, ognuno appose la propria firma
sulla paglia dello stesso. Il fisico di origine ungherese confesserà più tardi
che fu più difficile trovare a Chicago il vino italiano che far funzionare la
pila atomica. 4. LA BOMBA ATOMICA
La costruzione della pila atomica fu un punto di arrivo e
contemporaneamente un punto di partenza. Già il 6 dicembre del 1941, il giorno
precedente l’attacco giapponese di Pearl Harbor, che determinò l’ingresso
degli Strati Uniti nel conflitto mondiale, quasi avesse avuto un presentimento,
il presidente Roosevelt chiese che venissero intensificate le ricerche e
aumentati i finanziamenti relativi agli esperimenti sull’energia nucleare.
Nell’estate del 1942, prima ancora che entrasse in funzione la pila che Fermi
stava assemblando, Roosevelt avviò il progetto per la costruzione di un ordigno
nucleare che prese il nome di “Progetto Manhattan”.
Gli anni compresi fra il 1943 e il 1944 furono dedicati da Fermi allo
studio del polonio da utilizzare come esplosivo nucleare. Nella primavera del
1943 Fermi si recò in un luogo che per motivi di sicurezza veniva chiamato
“località Y” e che in realtà era il laboratorio di Los Alamos nel New
Mexico, dove il generale Lislie Groves e il fisico Robert Julius Oppenheimer
avevano radunato i migliori fisici nucleari, molti dei quali premi Nobel, al
fine di costruire le prima bomba atomica. Fermi si recò in varie occasioni alla
località Y e nell’autunno del ‘44 vi si stabilì definitivamente. Qui ebbe
l’incarico di dirigere la cosiddetta “Divisione F” (da Fermi) una sezione
di lavoro senza incarichi specifici, alla quale peraltro era stato affidato il
compito di supportare tutte le altre divisioni operanti a Los Alamos nel
risolvere i problemi più complessi che potevano manifestarsi durante il lavoro
dei fisici impegnati nel progetto. In quella circostanza Fermi si occupò anche
di studiare e far funzionare le macchine calcolatrici in uso nel centro. Erano i
prototipi dei moderni computer.
Questo gruppo eccezionale di fisici lavorava a due distinti progetti: la
bomba all’uranio e quella al plutonio in quanto non era ancora ben chiaro
quale sarebbe stato il combustibile migliore da usare, se l’uranio-235 o il
plutonio-239.
La prima bomba atomica, che era al plutonio, venne fatta esplodere nel
deserto di Alamogordo, una località non lontana da Los Alamos, il 16 luglio del
’45 e Fermi assistette all’evento da una distanza di circa 14 kilometri.
Racconta Emilio Segrè, uno dei ragazzi di via Panisperna che si trovava con
lui, che Fermi subito dopo l’esplosione lanciò in aria dei pezzetti di carta
per misurare, in modo empirico, attraverso lo spostamento d’aria, l’energia
sviluppata dall’esplosione. Lo spostamento dei pezzetti di carta fu molto
maggiore di quello che Fermi e gli altri si aspettavano.
Il 6 e il 9 agosto furono sganciate due bombe atomiche sulle città di
Hiroshima e Nagasaki. La prima portava il nome in codice di “Little Boy” ed
era all’uranio, la seconda, chiamata “Fat Man” era al plutonio. Alcuni
giorni dopo quel tragico evento il Giappone firmò l’armistizio ponendo fine
alla Seconda Guerra Mondiale.
Con la fine della guerra gli scienziati che avevano lavorato a Los Alamos
si separarono. Fermi tornò a Chicago dove si stava costituendo l’Istituto di
Studi Nucleari e si dedicò alla ricerca riguardante le forze nucleari: egli
ritornava quindi alla teoria che aveva momentaneamente abbandonato per dedicarsi
all’aspetto sperimentale del suo lavoro. Naturalmente l’esperienza
drammatica delle esplosioni nucleari non venne dimenticata e quando i due fisici
americani Edward Teller e Ernst Lawrence sostennero l’opportunità di
costruire ordigni ancora più potenti, cioè la bomba H, utilizzando la fusione
di atomi leggeri invece che la fissione di atomi pesanti, Fermi si oppose
dichiarando che in base a principi etici cogenti riteneva un grave errore
intraprendere lo sviluppo di quell’arma. La bomba H o bomba all’idrogeno
venne invece costruita lo stesso e sperimentata nel novembre del 1952 in un
atollo disabitato dell’Oceano Pacifico.
Fermi, dopo la guerra, tornò in Italia due volte. L’ultima
fu nel 1954 pochi mesi prima della morte e in quell’occasione suggerì ai
fisici del nostro Paese di indirizzare gli studi sull’informatica,
tralasciando quelli sugli acceleratori. Egli che per tutta la vita aveva
approfondito il calcolo che eseguiva servendosi del regolo calcolatore ora
maneggiava con disinvoltura il “Maniac” uno dei primi computer esistenti. Lo
scienziato romano aveva studiato l’uso di questa macchina a Los Alamos durante
il progetto Manhattan sotto la guida di Johann Von Neumann, il più grande
esperto del settore: egli aveva capito l’importanza di questo nuovo congegno
per la soluzione di complesse operazioni matematiche ed ora sollecitava la
creazione a Pisa di un centro di calcolo, che in effetti poi fu realizzato.
Durante quel viaggio cominciò a soffrire di disturbi allo stomaco e al suo
ritorno a Chicago gli fu diagnosticato un tumore incurabile. Morì domenica 28
novembre 1954 all’età di 53 anni e due mesi esatti.
Fermi fu, insieme con Galilei, uno dei grandi geni italiani. Fu uno
scienziato completo: ovvero un teorico profondo conoscitore della matematica, ma
anche uno sperimentale e un tecnico. E come Galilei che costruiva personalmente
i suoi cannocchiali, anche Fermi fabbricò alcune apparecchiature di cui si servì
nei suoi esperimenti.
In tutti i libri di fisica moderna ci sono innumerevoli riferimenti al
suo nome: ad esempio il fermi è l’unità di misura nucleare e il gas
di Fermi, l’energia di Fermi, il livello di Fermi, la costante di Fermi sono
altrettanti fenomeni o comportamenti della natura da lui scoperti o descritti.
Inoltre il centesimo elemento della tabella periodica è stato chiamato, in suo
onore, fermio (Fm). Ma al di fuori dell’ambito scientifico il suo nome e la sua opera sono poco
valorizzati nel Paese che gli ha dato i natali; come a Galilei così a Fermi
sono intitolate solo alcune scuole (prevalentemente istituti tecnici), mentre in
America Istituti di grande prestigio ricordano il suo nome come l’”Enrico
Fermi Institute” e il “Fermi National Accelerator Laboratory”, più noto
con il nome di “Fermilab”.
Sulle tragiche esplosioni di Hiroshima e Nagasaki Fermi non si espresse
mai preferendo mantenere la neutralità del ricercatore. Egli era convinto che
tentare di fermare la ricerca scientifica e il progresso non fosse possibile e
pensava che gli uomini dovessero accettare tutto ciò che la natura tiene in
serbo per loro, anche le cose più sgradevoli e dolorose, perché diceva:
“l’ignoranza non è mai migliore della conoscenza”.
PS. Giulio Fermi, figlio di Enrico, è morto a maggio del 1997 all’età di soli 61 anni. Triste destino quello della famiglia Fermi che ha visto morire prematuramente tutti i componenti maschi: prima il fratello, poi lo stesso Enrico e infine il figlio Giulio a causa di un aneurisma dell’aorta addominale. Giulio si era laureato in biofisica a Berkeley e dopo un breve periodo di lavoro al Naval Laboratory di Washington si trasferisce a Tubinga, in Germania, dove viene assunto come ricercatore presso il Max-Planck-Institut. Dopo un paio di anni, a causa della perdita del lavoro, cade in una profonda depressione da cui si riprenderà solo in seguito all’incontro con il famoso biologo austriaco Max Peruz che lo porterà nel suo laboratorio a Cambridge, in Inghilterra, dove lavorerà fino alla morte. Raramente parlava del padre del quale cercava di scrollarsi di dosso il peso psicologico di uno scienziato tanto famoso e pessimo fu anche il rapporto con l’Italia in cui non volle mai venire nemmeno quando fu invitato in occasione delle celebrazioni per l'anniversario della morte di Fermi. Rasetti è morto il 5 dicembre 2001, all'età di 100 anni compiuti, in un pensionato per anziani alla periferia di Waremme in Belgio dove quindici anni prima era stato colpito da un ictus che ne aveva compromesso la deambulazione. fine |