DALLA CRITICA AL CONSUMO, AL CONSUMO CRITICO

di Wolfang Sachs e Francesco Gesualdi
Bari 25 Febbraio 1999

(Intervento di Wolfang Sachs)

Grazie a voi che siete venuti qua e per la vostra curiosità. Uno si sente un pochino come un paracadutista che viene buttato giù in terra straniera e che deve cominciare a farsi un'idea su che cosa succede. Voi non mi conoscete, io non conosco voi, nonostante questo dobbiamo divertirci per due ore o più.

Innanzitutto sento che il mio compito è esigente, perché capisco che negli incontri precedenti c'era sempre qualcuno che ha portato un'esperienza vissuta, qualcuno che racconta una storia, anzi storielle umane di un Paese, di un popolo. Questo io non lo farò, ma offrirò, invece, qualche riflessione come il giornalista di professione, cercando di tracciare un quadro più complessivo, questo per forza sarà più astratto. Quindi quello che cercherò di fare in 35 minuti è di proporre la mia storia del mondo d'oggi; in altri termini di proporre un quadro un po' complessivo in cui si potrebbe inserire la ricerca per un consumo nuovo e più critico; perché la ricerca di un consumo critico può andare bene per te e per la tua anima, però, in fondo, è un'azione di importanza pubblica, di importanza politica. Quindi bisogna capire un pochino quali sono le correnti anche sotterranee che ci sono oggi nel mondo. Quindi cercherò nei miei 5 capitoli, in particolare nei primi due, di individuare quei due conflitti che caratterizzeranno il paesaggio politico del secolo che verrà.

Il 1° capitolo si chiama: "Il nuovo bipolarismo", ovvero "La crisi della giustizia"; il secondo sarà "L'impasse ecologico", ovvero "La crisi della natura".

Questi due grandi conflitti determineranno tanti problemi, tante crisi negli anni che verranno, poi da questo sfondo vorrei focalizzare su quei grandi ideali che animano i Comboniani, come tutti voi, i grandi ideali della giustizia. Voglio chiedermi: c'è forse un nuovo colore della giustizia oggi? Rispondendo a questi 2 grandi conflitti ai quali ho accennato. Dopo di che arriviamo al mio 3° capitolo che si chiama "Verso un benessere capace di giustizia", e infine "Meno, ma meglio".

Il nuovo bipolarismo

Comincio con questo primo riflettore sul mondo d'oggi, il nuovo bipolarismo. Noi siamo tutti abituati a guardare il mondo in termini Nord - Sud. Tutte le tematiche di sviluppo girano intorno ai ricchi e ai poveri, il Nord e il Sud.

Le pubblicazioni che sono qui sul tavolo hanno come asse centrale del mondo di oggi, la divisione tra Paesi del Nord e Paesi del Sud. Io credo che questo orientamento è oggi arrivato al capolinea. La grande divisione tra poveri e ricchi nel mondo non è più lungo la divisione fra Nazioni, ma è lungo una divisione che attraversa tutti i Paesi. Quello che è successo negli ultimi 50 anni dello sviluppo, (e noi in questo libro Dizionario dello Sviluppo abbiamo fatto questa ricerca) e sono 50 anni che si parla in termini di sviluppo dell'altra metà del mondo. La nostra scoperta è che per la prima volta dopo 50 anni si è parlato dell'altra metà del mondo come di un'area sottosviluppata; è stato Truman che ha chiamato per la prima volta l'altra metà del mondo con questo termine che oggi sembra così naturale, è tutto sommato una percezione recente che ci dà una visione particolare del mondo in termini di sviluppo.

Lo sviluppo in questi 50 anni ha avuto un grande risultato: ha creato una classe consumistica mondiale, ha creato un mondo di persone che hanno tante cose in comune, che hanno più cose in comune di tante nazioni. Chi è questa classe consumistica del mondo? Non è così difficile fare una prima valutazione. Mettiamo quelli che possiedono una macchina, che forse hanno un conto in banca, che forse hanno una certa prospettiva di occupazione. Abbiamo più o meno 400 milioni di macchine al mondo, mettiamo tre persone a macchina, quindi un miliardo e duecento milioni hanno accesso ad una macchina. Su sei miliardi di cittadini nel mondo, quindi arriviamo al 20% della popolazione mondiale che fa parte in modo molto approssimativo della classe consumistica del mondo; ormai questo gruppo ha anche un'aspirazione comune, quella di fare bella figura sul mercato mondiale, di aver successo economico, di entrare nello stesso circuito di merci, di immagini, di turismo e così via.

Dall'altra parte, però, dappertutto ci sono coloro che non fanno parte di questo circuito del mercato dell'economia globale e che non hanno neanche accesso a molti di questi simboli della classe consumistica mondiale, sono quelli che più o meno sono esclusi da questo circuito. Si trovano dappertutto, in Botswana, in India, come in Germania: solo forse su scala diversa. In tendenza, questa parte della popolazione è superflua per il funzionamento del mercato mondiale e così  in gran parte è trattata, come una popolazione superflua, dimenticata, invisibile. Si può pure dire che abbiamo una minoranza sociale consumistica nel mondo, verso un mondo maggioritario ma socialmente invisibile. Questa suddivisione c'è dovunque, il fatto certo è questa classe consumistica ha la sua roccaforte nei Paesi del Nord. Questa classe si trova ovunque, ha anche succursali in Messico, Botswana, in India ecc. La classe media in India è tra 80 - 120 milioni, come la Germania, poi esiste l'inverso certo, se abbiamo in India mettiamo 100 milioni che fanno parte di questa classe media, ci sono altri 850 milioni che non ne fanno parte, che tendenzialmente fanno parte degli esclusi. Ci troviamo di fronte ad un mondo davvero maggioritario nell'ombra. In Germania la fetta di gente esclusa è più piccola, forse 20-25%.

Quello che voglio sottolineare è che questa separazione tra quelli che sono dentro e quelli che rimangono fuori c'è ovunque, anzi va rafforzandosi perché i ceti medi sono economicamente stimolati, vogliono reggere la concorrenza sul mercato globale, così riescono anche ad incassare tanti sussidi, tanti aiuti, per rafforzarsi, per renderli forti per questa gara sui mercati mondiali.

Una prima conclusione di questo quadro complessivo è che non è tanto importante la divisione tra le nazioni, quanto quella tra la classe consumistica, questo mondo minoritario, però preminente, e dall'altra parte un mondo maggioritario ma invisibile. Entriamo quindi in una nuova era di bipolarismo. Non più il bipolarismo tra est ed ovest, ma il bipolarismo tra nord e sud che pervade però tutti i Paesi

L'impasse ecologico, la crisi della natura

Affrontiamo adesso il mio 2° capitolo: "l'impasse ecologico, la crisi della natura".

In primo luogo dovete togliervi dalla mente quello che è stata la percezione dell'ambiente di questi ultimi 20 - 25 anni; si intendeva per politica ambientale, la politica che intendeva tenere pulita l'aria, l'acqua ed anche il suolo. Quindi si sono cercate le tracce di sostanze nocive, velenose e così via. Questo ben venga, come tutte le buone intenzioni, l'idea politica nasconde l'utopia di una società pulita, ma non è così. Una società pulita può anche produrre un effetto serra e può anche distruggere specie di piante e di animali, e può anche distruggere paesaggi. Una società pulita può essere ancora molto distruttiva per la natura, quello che invece è importante non è guardare alla fine di questo ciclo, non guardare le emissioni lasciate nell'ambiente, ma più importante è guardare quello che viene messo dentro, vedere la voracità della nostra società, le megatonnellate che vengono mangiate per far vivere il nostro sistema di produzione e di consumo.

Solo quando trattiamo la natura da un lato come una miniera da dove vengono prese per esempio acqua, petrolio suolo e dall'altra parte come una discarica dove vengono rilasciati plastica, CO2, rumore, uno veramente  si rende conto di quello che vuol dire veramente il problema ambientale: sono le megatonnellate di risorse naturali che vengono impiegate. Se uno fa questo, si arriva alle problematiche politiche: perché dobbiamo renderci conto che negli ultimi 50 anni l'umanità ha perso un terzo del suolo fertile (è' del suolo fertile che tutti noi viviamo), ha perso il 40% delle foreste primarie, in solo 50 anni. Un'altra cifra che desta in me interesse per far capire qual è l'impatto dell'uomo sulla natura, è che tutti i bacini artificiali d'acqua messi tutti insieme sono 5 volte più grandi di volume di tutti i fiumi del mondo messi insieme.

Quindi ambientalismo non vuol dire aspirare ad una società pulita, ma vuol dire aspirare ad una economia leggera, ad una economia che prende di meno dalla natura, che riesce a creare benessere prendendo sempre di meno energia e materiali dalla natura. Lì però c'è anche la dimensione sociale, perché se consideriamo che ogni tedesco medio consuma ogni anno 80 tonnellate di materiali solidi, quindi energia concreta, 80 tonnellate è un sacco di cose, però questo non si vede nel singolo cittadino, ma non ci si rende conto che tutti i prodotti che noi abbiamo ci collegano con tanti posti nella nostra società e nel mondo. I prodotti sono come una ragnatela che ci collegano attraverso il globo o, se volete, come una spina che ci collega alla rete elettrica nell'intero Paese. Quindi sono un punto di ingresso o un punto di arrivo di una cosa più grande, ed è importante capire, dal punto di vista ambientale, che ogni prodotto porta, come noi lo chiamiamo, uno zaino ecologico, vuol dire che porta in sé un peso a carico della natura, che è stato accumulato attraverso la sua vita. Per esempio un chilo di rame non è solo un chilo di rame, ma un contenuto di 500 kg di materiali. Per estrarlo bisogna aprire una montagna, scavare una miniera, trasportarlo, sottoporlo a processi di raffinamento e così via per arrivare ad ottenere un chilo di rame, mobilitando 500 kg di natura. Nel caso del rame è molto probabile che questi zaini ecologici debbano essere portati dagli altri, non da noi, a noi arriva il rame. Tutti questi fardelli ecologici che il rame comporta spesso vengono lasciati fuori dalle nostre frontiere, in molti casi in Paesi più deboli del sud o dell'est. E' importante rendersi conto che il problema ambientale è un problema del peso materiale. Quindi ambientalismo vuol dire aspirare ad una società più leggera, che materialmente pesa di meno sulla materia e su altri popoli.

Verso un benessere capace di giustizia

Affrontiamo il 3° capitolo: "Verso un benessere capace di giustizia".

Nell'era dello sviluppo si aveva un'idea particolare della giustizia, la quale è da paragonarsi ad una torta che cresce sempre, in modo che tutti possono gradualmente averne una fetta più grande, senza che nessuno sacrifichi niente. Questa è, io credo, l'idea basilare della giustizia internazionale, anche della giustizia nazionale; è anche un'idea socialdemocratica della giustizia, trovare la giustizia attraverso lo sviluppo. Questa idea funzionerebbe qualora  lo sviluppo fosse senza fine, senza capolinea, se lo sviluppo potesse continuare senza limiti. Noi non ci troviamo più in questa situazione: si avvertono sempre più limiti fisici. E' necessario quindi partire dalla consapevolezza che viviamo in un mondo chiuso, limitato, e che alla fine anche lo sviluppo si urterà con limiti più fisici. Questo comporta delle conseguenze, prima di tutto con la giustizia. La conseguenza è che il nostro benessere non può essere diffuso ovunque nel mondo. E' impossibile aspirare ad una eguaglianza nella quale tutti possono condividere lo stesso standard di vita, perché se tutti seguissero il nostro esempio, avremmo bisogno di 5, 6 pianeti che servano da miniera o discarica. In altri termini noi abbiamo creato un benessere che è strutturalmente oligarchico; non solo oligarchico perché non vogliamo condividere, anche questo, ci sarebbe una catastrofe se cominciassimo a condividere il nostro benessere. Noi possiamo democratizzare il nostro benessere solo con l'effetto che l'ospitalità della biosfera dell'uomo sarebbe seriamente minacciata: andremmo verso turbolenze biosferiche se democratizzassimo il nostro benessere.

Si può dire, per esperienza di questi anni, che ci troviamo davanti a due soglie dalla giustizia: voi sapete che il socialismo aveva sempre portato avanti l'aspirazione alla giustizia. Questo risale ai primi dell' '800 in cui si è fatta una scoperta importante e che cioè c'è una soglia inferiore della giustizia, sotto la quale non è possibile avere giustizia. Esiste un livello di progresso tecnologico con il quale tutti possono essere sfamati, invece se non arriviamo a questo livello inferiore non sarebbe abbastanza per sfamare tutti.

La scoperta del socialismo nel secolo scorso era che adesso che abbiamo acquistato questa  capacità tecnologica, potremo fare veramente giustizia nel mondo, perché abbiamo una certa forza tecnica, abbiamo i mezzi ormai. Questa sembra essere un'intuizione giusta. Solo oggi, negli ultimi decenni abbiamo di nuovo un'altra scoperta: che ci sia una nuova soglia superiore oltre la quale non è possibile avere giustizia. Questa è l'intuizione ambientalista, ecologista; l'intuizione che la ricchezza ed il progresso tecnologico, oltre un certo limite, diventa non democratico, diventa strutturalmente oligarchico.

Certo io parlo della società delle automobili, che non può essere generalizzata nel mondo, lo stesso vale per il consumo e l'alimentazione di carne, o l'agricoltura chimica. Tutte queste cose non possono essere generalizzate e se lo sono minacciano la biosfera, come si prevede già in Cina. In altri termini il Nord utilizza in modo eccessivo lo spazio ambientale e va oltre quello che spetta al Nord. Ad esempio non solo in Italia, ma anche in Germania, cresce il consumo di salmone, pesce che non è catturato in Germania, si tratta di salmoni di allevamento che vengono allevati con la farina di pesce che viene dal Perù, dal Cile, dalla costa latino-americana dell'oceano Pacifico e lì comincia una grave crisi della pesca. Si fanno già sentire le conseguenze sull'alimentazione dei popoli lì, perché ci vogliono 5 kg di pesce per produrre 1 kg di farina di pesce per produrre ancora 1 kg di salmone. Quindi noi, mangiando il salmone in verità mangiamo 5 kg di pesce. Noi siamo al vertice della catena alimentare ed il contenuto del nostro consumo di salmone è l'alimentazione per molte altre persone nel mondo a cui noi sottraiamo risorse che sono estremamente vitali per altri popoli. Questo vuol dire che il nord occupa in modo eccessivo il suo spazio ambientale e questo ha una conseguenza importante su come intendere la giustizia.

Da tanti anni anche i Missionari Comboniani, tutti esperti dello sviluppo, quando si sono occupati della giustizia sono andati al sud per cercare i poveri. Tutti i documenti delle Nazioni Unite, tutti i discorsi sulla giustizia degli ultimi 50 anni, si traducono nell'educare i ceti poveri sempre con l'intenzione di alzare il livello di vita verso i più ricchi; quasi mai si pensava di trasformare o anzi di abbassare i vertici, perché ci sono sempre due possibilità per combattere per l'ingiustizia o alzi il povero o abbassi il ricco. Interessante è vedere come tutta la tradizione della filosofia, fino all'Illuminismo, dalla filosofia greca fino al 700, quando si parlava di giustizia si sono puntati sempre i riflettori sul ricco. Aspirare alla giustizia in primo luogo vuol dire far cambiare il ricco. Mi sembra che questa nozione classica oggi stia riemergendo di nuovo, visto che siamo in un economia finita, visto che dobbiamo fare i conti con il mondo finito: per questo motivo mi sembra oggi che la giustizia non può essere separata dalla sufficienza; perché vuol sempre dire di imparare a servirsi di meno cose, imparare a pesare sempre meno sul mondo; in breve giustizia vuol dire imparare a prendere meno, invece di dare di più. Quindi in una nozione post-sviluppista della giustizia, la sufficienza acquista un valore importante, anzi strategico.

Meno, ma meglio

Questo mi fa arrivare al mio ultimo capitolo: "Meno, ma meglio". Alcune riflessioni per toglierci la paura. Questo suggerisce la possibilità che forse in una società ricca fra i benestanti, forse la ricerca della sufficienza del consumo cauto, della frugalità, può aumentare un altro tipo di ricchezza. In particolare voglio un po' giocare su una contraddizione che si apre oggi, che è ricchezza dei beni e ricchezza di tempo.

Storiella di un autore tedesco: Un europeo incontra un pescatore seduto sulla spiaggia che sta guardando il mare e gli chiede come mai non è a pesca. Quello risponde che ha già pescato al mattino presto e che ha già fatto il suo lavoro. L'europeo replica che se il pescatore uscisse in mare un'altra volta potrebbe catturare più pesce. "E poi?" chiede il pescatore. "Poi, se hai più pesce potresti accumulare più cose, comprare una flotta per pescare e vendere di più". E il pescatore: "E poi?". "Poi potresti impiegare gente, fare un impianto di congelamento, acquistare un elicottero per controllare dall'alto i banchi di pesci." "E poi?" "Puoi essere così ricco da concederti di stare lì a guardare l'oceano stando al sole." Questo lo faccio già!" replica il pescatore.

La storia è divertente, però ci lascia perplessi, perché in un certo senso ci ricorda una promessa del progresso: quella di darci tanto tempo libero. Tutto il secolo scorso è stato pieno di questa aspettativa che il progresso tecnico, il progresso economico alla fine sarà il paradiso, perché avremo tanta ricchezza di tempo. In realtà non è andata così, perché? c'è un motivo dietro. Prendete ad esempio l'automobile, uno strumento per risparmiare tempo, però sappiamo esattamente da tanti studi empirici che quelli che possiedono la macchina non spendono meno tempo nella mobilità di quelli che non hanno la macchina; quindi non risparmiano niente in termini di tempo. Perché? Cosa è successo? Quelli che hanno la macchina vanno a destinazioni più lontane, quindi il risparmio di tempo viene tradotto in distanze più lunghe. La potenza che abbiamo acquistato attraverso il processo tecnologico viene subito reinvestito in una spirale di crescita, appunto le lunghe distanze. Così succede dappertutto, oggi succede per esempio nell'e-mail, una volta l'e-mail era una liberazione, perché era tempo risparmiato, ora succede esattamente la stessa cosa che è successa con l'automobile. Le infostrade sono già intasate e occorre già scegliere tra le corsie veloci e quelle più lente. Anche negli USA vendono software che permettono di distinguere tra e-mail più importanti e meno importanti: sempre lo stesso processo, un risparmio di cose, che un frutto di progresso viene reinvestito nella crescita. Se volete, l'utopia dell'abbondanza ha tagliato le gambe all'utopia di liberazione.

Però, al di là di una certa soglia, le cose diventano problematiche: come tutti sanno, è bello avere tante cose Si è fatto uno studio ad Avalos negli Stati Uniti, una famiglia media possiede 254 oggetti, una famiglia media tedesca ne possiede 10.000. E' bello avere tante cose, ma esse devono essere comprate, riposte, curate, riparate, spolverate, smaltite e così via. Ogni oggetto ed ogni appuntamento è un richiamo al nostro tempo, però il giorno ha solo 24 ore. Quindi così cerchiamo di prendere sempre più cose e appuntamenti in un contenitore di tempo finito. Il risultato è chiaro, siamo tutti sotto pressione, stressati, nervosi, la scarsità del tempo serpeggia dappertutto, si può dire anche che la scarsità del tempo è la vendetta della società ricca, la vendetta dell'abbondanza.

Gli psicologi lo sanno bene: se uno si chiede in cosa consiste la soddisfazione dei consumi, sa che c'è un lato interno ed uno esterno, un lato materiale ed uno immateriale. Se voi andate in giro, fare la spesa per la cena e poi siete soddisfatti perché sazi, quella è una soddisfazione materiale; se vi piace cucinare la cucina greca e avere ospiti a cena, questa è una soddisfazione interna, immateriale; Fare una cena con gli altri richiede tempo, usufruire della soddisfazione interna richiede tempo. Voi potete comprare scarpe per la montagna, ma se poi non le usate... Quindi tutti gli oggetti hanno questa dimensione materiale ed immateriale. Usufruire di un oggetto o di un appuntamento vuol dire cogliere l'aspetto materiale e immateriale.

Allora ci troviamo di fronte ad un dilemma: in una società ricca che ha sempre di più rimane sempre meno tempo per cogliere, gustare, coltivare gli aspetti interni, la soddisfazione interna; quindi non è possibile massimizzare allo stesso tempo la soddisfazione materiale e la soddisfazione immateriale. Se volete ottimizzare i vostri consumi, ottimizzare la vostra soddisfazione, dovete per forza limitare la soddisfazione materiale. Qui c'è una certa connessione in una società ricca tra austerità ed edonismo, c'è un collegamento tra frugalità e piacere:  perché piacere vuol sempre dire anche avere imparato a gustare qualcosa, a cogliere a pieno quel piacere che viene offerto da una cosa o da un appuntamento. Cogliere qualcosa a pieno vuol dire avere tempo.

Quindi frugalità è una strategia per cogliere bene le cose e per non farsi distrarre da troppe cose, per questo motivo mi sembra che a lungo termine la frugalità nei consumi non vuol per forza dire una vita peggiore, anzi potrebbe portarci ad una nuova possibilità di soddisfazione e di qualità. Altrimenti succederebbe come ha detto uno scrittore austriaco - ungherese: "In realtà sono una persona diversa e solo che non trovo mai il tempo per dimostrarlo". Grazie.

(Intervento di Francesco Gesualdi)

Voglio dire due parole sul centro che rappresento: è un'iniziativa di popolo, ci tengo a sottolineare che siamo gente profondamente radicata nel popolo, gente che si alza tutte le mattine per andare al lavoro. Il centro si regge sul volontariato, per noi è motivo di orgoglio. Noi siamo profondamente convinti che la democrazia, quella vera, si avrà il giorno che non si delega più né la politica, né l'economia agli esperti. Secondo me gli economisti non devono esistere, è una professione da mettere al bando. Dobbiamo tutti essere capaci di dire la nostra, rispetto a come deve essere organizzata la società. Tutti dobbiamo essere economisti, nel senso che dobbiamo appunto dare il nostro contributo per dire in quale direzione vogliamo che la nostra società vada, come deve essere organizzata per far fronte ai bisogni.

Un mondo che genera impoveriti

Noi siamo una piccola realtà di base che una quindicina di anni fa ha cominciato a fare ricerca su quella che, secondo noi, è una delle contraddizioni più serie della nostra epoca: il fatto che, nonostante il mondo nel quale viviamo produca così tanta ricchezza, nello stesso tempo continua a generare così tanti impoveriti. Tentiamo di dare una fisionomia a questa gente che chiamiamo impoveriti, e non parlo di poveri, parlo di impoveriti volutamente, perché è un fenomeno che si costruisce quotidianamente dalla mattina alla sera.

La povertà non è un fenomeno statico, è un fenomeno dinamico, è un qualcosa che si costruisce. Allora quando parliamo di impoveriti ci riferiamo essenzialmente a quella fascia di persone che costituisce grosso modo il 35% della popolazione mondiale, che la Banca Mondiale definisce come poveri assoluti: persone che da un punto di vista monetario non guadagnano più di un dollaro al giorno. Detto così è solo un modo per esprimersi, quando si pensa agli impoveriti, quelli seri, bisogna pensare a quella gente che non ha un tetto per andare a dormire, gente che dorme sul marciapiede, il capo famiglia e tutta la famiglia, gente che si alza al mattino e che non sa quale prospettiva di lavoro avrà nella giornata; gente che si alza al mattino e non sa se riuscirà ad arrivare alla sera, avendo mangiato un piatto di minestra; gente che non ha assistenza sanitaria, né per sé, né per i propri figli; gente che non può mandare a scuola i propri figli, che non ha un vestito oltre allo straccio che ha indosso, che cammina a piedi nudi. Questa è la realtà di un miliardo e mezzo di persone che vive in questo mondo così opulento, così come noi siamo abituati a vederlo.

Questo è stato il grande interrogativo che ci siamo posti: come mai un mondo così ricco continua a produrre così tanti impoveriti, ricordandoci che proprio perché io condivido pienamente l'analisi di Wolfang Sachs che non si può più fare un'analisi del mondo dividendo tra nazioni ricche e nazioni povere. La realtà è sempre di più di una divisione in classi, è sempre stato così lungo tutta la storia, e a maggior ragione è vero oggi. Gli impoveriti vanno crescendo a dismisura anche nella nostra parte del mondo. Tutti i giorni a Chicago 10.000 persone fanno la coda alle mense dei poveri, per avere un piatto di minestra.

Quindi questo concetto dell'impoverimento, che si va diffondendo a macchia d'olio, che sta entrando prepotentemente anche in casa nostra, io vengo da una regione dove sicuramente l'impoverimento è conosciuto molto di più che in altre parti d'Italia.

L'interrogativo che ci siamo posti è questo. Abbiamo capito subito che andavano rifiutati tutta una serie di luoghi comuni che ci offriva il sistema. La gente è povera a causa dei disastri climatici, perché non ha sufficiente tecnologia, la gente è povera anche perché, dulcis in fundo, fa troppi figli; è sempre il solito sistema, incolpiamo i poveri stessi della loro povertà.

La realtà è un'altra: la povertà è scientificamente organizzata giorno per giorno da un sistema che non è minimamente pensato per soddisfare i bisogni della gente, ma è pensato esclusivamente per servire gli interessi di una classe, che è la dei mercanti. Uno dei meccanismi di fondo di questo sistema è il mercato. Il mercato per sua fisionomia divide la gente in due: quelli che sono utili per il mercato e quelli che sono inutili. Gli utili sono quelli che hanno del denaro da spendere, che sono i consumatori, e che consentono a questo sistema di poter continuare a funzionare secondo la logica che si produce per vendere, si vende per ottenere profitti. Allora ecco la prima constatazione, questo sistema ha la tendenza a coccolare i più ricchi che sono funzionali al sistema del mercato. Viceversa, tutti quegli altri che nel mercato non entrano mai a far parte e che magari se ne stanno quieti a casa loro senza chiedere niente, mi riferisco agli Indios delle foreste, mi riferisco a tutti i vari contadini del Sud del mondo che vivono sul loro campicello senza mai entrare in contatto con la realtà del mercato, ebbene questa gente, siccome è inutile per il mercato, succede un fatto curioso: che il sistema, non avendo interesse a che loro siano più ricchi, toglie loro anche quello che hanno. Se hai un pezzo di terra che mi fa comodo per poterci coltivare qualcosa che poi posso vendere ai ricchi consumatori di un'altra parte del mondo, nessun problema, te lo prendo e te lo porto via. Se peschi in un tratto di mare dove anch'io potrei pescare per ottenere del pesce che poi vendo congelato in un'altra parte del mondo, nessun problema, ti porto via i tuoi pesci. Se siedi su un pezzo di terra sotto il quale ci sono dei minerali che io potrei portare via per venderli in un'altra parte del mondo, nessun problema, ti butto fuori.

Questi sono i meccanismi che generano l'impoverimento, sono i meccanismi dell'espropriazione e sono fenomeni quotidiani in altre parti del mondo. Allora la prima constatazione è proprio questa: lo scoprire che la povertà è costruita giorno per giorno, in base ad un meccanismo che è pensato per soddisfare i bisogni di  una piccola élite.

Allora, quando ci siamo posti il problema del meccanismo, noi eravamo perfettamente consapevoli che non ci interessava soltanto affrontare il perché delle cose, quello che a noi interessa è tentare di risolvere il problema. Io credo che sia fondamentale. Il sapere ha senso solo se serve a far cambiare le cose, altrimenti tanto vale non sapere, è un'altra forma di consumismo, è un altro schiaffo che noi diamo ai sofferenti. Noi dobbiamo porci nell'ottica di conoscere, di studiare, è un dovere fondamentale solo se alla fine del percorso noi ci poniamo l'obiettivo di dire: "Ebbene, ora cosa faccio?". Questo deve essere il motivo che deve animare l'informazione, che deve animare lo studio: per cui tutte le nostre ricerche alla fine del percorso si pongono questo obiettivo: tentare di dare una risposta rispetto a cosa possiamo fare noi e cosa possiamo proporre agli altri.

I protagonisti del sistema

E' chiaro che prima di tutto dobbiamo sapere perché succedono le cose, e abbiamo capito che succedono perché viviamo in un sistema che è stato programmato così. Ma se vogliamo far cambiare le cose, dobbiamo acquisire un'alta conoscenza, dobbiamo tentare di capire chi sono i protagonisti di un sistema che funziona in questa maniera. Qui veniamo ad un altro punto molto importante. Allora, quando noi pensiamo a chi sono gli artefici, a chi sono i padroni del sistema, a chi sono i padroni del sistema, a chi sono coloro che gestiscono il potere ci vengono sempre in mente, innanzitutto i governi. Ed è vero che i governi hanno una buona dose di capacità di gestire le cose, hanno quindi anche una buona dose di responsabilità, ma se ci limitiamo ai governi, sia quello del nord, sia quelli del sud, quindi non facciamo nessuna distinzione, abbiamo solo rammentato una porzione del potere che gestisce davvero i destini del mondo.

Un'altra grande parte è quella delle istituzioni internazionali. Siamo in un momento in cui sempre di più il potere, inteso come organizzazione della funzione economica, si trasferisce a livelli più alti: quindi sono la sede del Fondo Monetario Internazionale, sono la sede della Banca Mondiale, sono la sede dell'Organizzazione Mondiale del Commercio. Ma attenzione, se ci limitiamo solo a tirare in ballo i governi e le istituzioni pubbliche ancora non abbiamo scoperto il vero protagonista del sistema. I veri protagonisti sono le imprese, perché questo sistema è stato studiato ad immagine e somiglianza delle imprese per consentire loro di poter realizzare un profitto alla fine del percorso produttivo. Se vogliamo davvero tentare di capire come possiamo far cambiare le cose, dobbiamo studiare le imprese e, parlando di imprese in un momento in cui stanno  prendendo campo alcune strutture particolari, che sono le multinazionali, è su di esse che ci dobbiamo concentrare.

Le multinazionali nel mondo, secondo la stima che ha fatto l'ONU, sono circa 40.000, ma quelle che contano davvero, si stima che non arrivino a 500, si stima che 500 multinazionali nel mondo controllino circa il 25% di tutto il prodotto lordo mondiale. Si stima che il 60% di tutti i rapporti commerciali avvengono all'interno delle stesse filiali delle multinazionali e di un piccolo gruppo di multinazionali; per cui ecco, l'economia mondiale sta diventando sempre più oligarchica, sta diventando sempre meno democratica, benché questo sistema dica che la concorrenza sia uno dei suoi pilastri fondamentali, è una fandonia: non è vero, stiamo andando sempre di più verso la concentrazione.

E' cronaca di questi giorni, le multinazionali si stanno sposando tra loro, stanno mettendo in comune i capitali perché stiamo vivendo in un epoca dove, per riuscire a vincere la concorrenza mondiale è necessario essere sempre più forti. E' tutto il contrario della concorrenza, di cui il sistema si sciacqua la bocca, a partire dal 1700, da quando Ricardo e Smith cominciarono a porre i fondamenti di questo sistema economico.

Tentiamo di capire in che modo queste imprese che dominano l'economia mondiale generano l'impoverimento del sud del mondo. Vedremo poi che lo generano anche con la nostra collaborazione e con il nostro consenso.

I meccanismi dell'impoverimento: l'espropriazione

Uno dei meccanismi di fondo è proprio l'espropriazione, di cui ho parlato prima. Potrei citare dei casi concreti: come quello dei piccoli contadini del Bangladesh, che stanno perdendo sempre di più la loro terra a causa dei gamberetti. E' una storia complessa, ve la voglio raccontare perché istruttiva, il Bangladesh è uno dei Paesi del mondo con un'ingiustizia più marcata: c'è una quantità altissima di senza terra. Chi va in Bangladesh e ci sta per un certo periodo, se abita sul limitare delle foreste, se abita nelle campagne, se abita sul limitare del mare vede sempre dei piccoli gruppi familiari che avanzano in fila indiana, il capo famiglia in testa, la moglie col fardello sulla testa, poi i figlioletti, che sono in cerca di un pezzo di terra da poter coltivare, perché là dov'erano prima non hanno più la possibilità di vivere. Ebbene, c'è stato un periodo in cui alcuni piccoli contadini si erano rifugiati nell'estremo lembo di terra a sud del delta, là dove non si sa bene se siamo in mare aperto o su terra ferma, su isolotti che appaiono e scompaiono in base alle maree; ebbene, questi piccoli contadini senza terra, non sapendo più che pesci prendere, perché la prospettiva era o la città a fare i disoccupati o tentare di conquistarsi un altro pezzetto di terra, alcuni avevano scelto la strada di conquistarsi un altro pezzo di terra. Ed erano quindi arrivati all'estremo sud in questa zona di terra che non interessava a nessuno, proprio perché era in questa situazione caratteristica, e, attraverso un lavoro di formiche, avevano creato una serie di sbarramenti in fango, per riuscire a strappare della terra al mare, e, anno dopo anno, erano riusciti a desalinizzare alcuni orticelli ed erano riusciti, utilizzando l'acqua dei fiumi ad ottenere dei campicelli dove coltivavano il loro riso. Potete immaginare la vita di stenti di questi contadini che, però, finalmente avevano un orticello, che gli consentiva di produrre da mangiare per sé e per la propria famiglia. Un bel giorno arrivano dei mercanti dalla capitale, che vogliono acquistare il loro campicello per farne vasche naturali dove poter coltivare gamberetti. La storia i mercanti non la raccontarono ai contadini bengalesi, ma la storia è questa: il Bangladesh, Paese pesantemente indebitato con il nord che naturalmente è consigliato dalla Banca Mondiale del Fondo Monetario Internazionale o, più che consigliato, è ricattato sotto pena di non ricevere più prestiti se non orienta tutta la propria economia verso l'esportazione per pagare le banche ed i governi del nord (il Fondo Monetario Internazionale sta andando in giro per tutti i Paesi del sud imponendo loro di orientare sempre più la propria economia per il pagamento del debito e uno dei pilastri fondamentali è quello di produrre sempre meno per i bisogni della gente e sempre più per l'esportazione perché così possono ottenere valuta pregiata per poter ripagare le banche). Il Bangladesh aveva fatto tutta una serie di ricerche per capire che cosa poteva vendere, è un Paese che non ha un milligrammo di materie prime, ha la iuta, ma non interessa a nessuno, ci sono le fibre artificiali; non ha minerali, non ha agricoltura, non ha risorse, ma ha una grande popolazione.

Da un'indagine di mercato viene fuori che potrebbero vendere in Europa le cosce di rana, quindi si buttano nella cacciagione delle rane, ma dopo due anni si rendono conto che lo sterminio delle rane stava producendo un aumento abnorme di zanzare anofele con conseguente recrudescenza della malaria. Allora dopo un'altra indagine di mercato, si scopre che il mercato europeo e giapponesi sono dei grandi divoratori di gamberetti.

Allora il governo tenta di dirigere l'imprenditoria locale verso tale produzione. E' così che si tenta di convincere i piccoli contadini del delta del Gange nel Golfo del Bengala a vendere i loro campicelli faticosamente sottratti al mare con un sistema di saracinesche per far defluire l'acqua; sembrano vasche naturali ideali per l'allevamento dei gamberetti che non possono essere allevati in mare aperto. Ma i contadini rifiutarono la misera offerta di denaro in cambio della loro terra, si sarebbero ridotti in una situazione peggiore di quella in cui si trovavano. Ma in una notte i loro campi così faticosamente desanlinizzati furono invasi dall'acqua di mare: nottetempo qualcuno, pagato dai mercanti della capitale, avevano rotto gli argini, aveva alzato le saracinesche. Così i contadini furono costretti a cedere i loro campi ai mercanti.

Questo è solo un esempio di come i contadini del sud continuano a perdere terra a favore di un'industria e di un sistema commerciale totalmente orientato a vendere i propri prodotti in un mercato ricco che se ne sta lontano e che genera impoveriti per espropriazione. E' solo uno dei meccanismi E' il meccanismo che genera i poveri assoluti, un miliardo e mezzo di persone.

Il controllo dei prezzi

Ci sono altri meccanismi che inducono impoverimento nel Sud, anche se meno gravi. Immaginate di essere un contadino della Costa d'Avorio che ha un paio di ettari di terra, ne coltiva uno per il sostentamento della propria famiglia e poi, per quanto si tenta di essere autosufficiente, bisogna ben produrre qualche cosa che possa essere sul mercato per ottenere il denaro per comprare una bicicletta, un paio di scarpe, un libro per mandare i propri figli a scuola. Allora per tradizione coloniale i contadini della Costa d'Avorio producono cacao ed ecco che l'avvenire, la possibilità di poter vivere bene o male dipende dal prezzo del cacao. E' uno di quei prodotti su cui c'è un controllo altissimo. Una delle multinazionali che controlla il cacao è la Nestlè, un'altra che non vi sognereste mai di trovare nel settore del cacao, è la Philip Morris, che in realtà è un'industria di tabacco, e che, come tante altre multinazionali, ha capito che se, vuole avere la garanzia di poter continuare a guadagnare, o meglio di non trovarsi mai nel rischio di perdite totali, non deve mai restare legate ad un solo settore, per cui perseguono la logica della diversificazione..

La Philip Morris ha fatto un discorso semplice: la gente potrà smettere di fumare, ma non di mangiare. Ecco perché uno dei suo settori prescelti dalla Philips Morris è quello alimentare, ed ha cominciato qualche anno fa a mangiarsi la General Food, dopo la Kraft e attraverso la Kraft, in Europa, un'impresa svizzera gli ha offerto una forte attività nel settore del caffè e del cacao.

Attraverso vari meccanismi (riuscire a dominare il mercato, speculazioni in borsa) fanno sì che il prezzo del caffè e del cacao si muova a seconda delle loro esigenze, che non rispettano assolutamente i bisogni del contadino. La cosa peggiore per il contadino è l'insicurezza. Una qualsiasi impresa quando si mette a fare qualcosa calcola il costo di produzione ed il guadagno alla vendita. Ogni volta che i prezzi fluttuano al ribasso, per i contadini è la rovina. Un altro meccanismo di fondo che genera la miseria nel sud del mondo è il controllo dei prezzi e questo vale per i piccoli contadini che riforniscono i nostri mercati di caffè, di cacao e di tè.

Il controllo dei salari

C'è tutta una serie di altre persone che sono condizionate nella loro condizione di vita, non tanto dai prezzi, quanto dai salari. Il settore delle banane è dominato da tre grandi multinazionali: Ciquita, Del Monte, Dole. Noi le conosciamo come imprese commerciali, ma in Centro America, in Africa, nelle Filippine la gente le conosce come proprietari di piantagioni che producono banane attraverso il bracciantato. Ecco che allora il destino di questa gente dipende dai salari che percepiscono. Le condizioni di vita dei braccianti che lavorano nelle piantagioni sono disastrose non solo per i bassi salari, ma anche per gli orari lunghi; questa è una costante nel sud del mondo, salari da fame e orari lunghissimi, quando la gente guadagna poco, è disposta a lavorare di più. C'è lavoro minorile, e poi le banane sono un concentrato di sostanze chimiche e di pesticidi. E' un frutto che andrebbe consumato sul posto, quando si pretende che sia lungo 40 cm, di coltivarlo in zone dove si coltivano solo banane, a scapito della varietà botanica che consente alle piante di potersi difendere per via naturale, si pretende di fargli affrontare un viaggio di 3 - 4 mila chilometri, è inevitabile che siano frutti zeppi di sostanze chimiche contro i vermi, i funghi, i batteri; i braccianti sono costretti a subire le irrorazioni di pesticidi dall'aereo mentre lavorano, come anche i loro villaggi.

Il problema dei veleni e delle sostanze chimiche è gravissimo, in tutto il Centro America si calcola che almeno 8.000.000 persone sono diventate sterili a causa dell'uso del DBCP, che è un antivermifugo, che negli Stati Uniti è proibito da anni, perché gli esperimenti sui topi avevano dimostrato che questo prodotto induceva alla sterilità nei mammiferi. La legge statunitense ne ha vietato la vendita, ma non la produzione, e le imprese hanno continuato ad utilizzare queste sostanze e le hanno imposte nelle piantagioni del centro America. 8.000.000 stanno reclamando un indennizzo a causa del fatto che sono diventati sterili. Ecco quindi un'altra via di impoverimento, oltre ai salari molto bassi, sono le condizioni di lavoro.

Quando pensiamo ai prodotti che vengono dal Sud, non pensiamo solo ai prodotti agricoli, pensiamo anche ai prodotti minerari, che naturalmente non riconosciamo più perché sono trasformate nei centomila oggetti che consumiamo. Ci sono altri oggetti che noi possiamo riconoscere immediatamente come le scarpe, i giocattoli, i televisori e che continuano a venire dal sud del mondo, proprio in virtù del fatto che oggi viviamo in un mondo globalizzato.

Oggi impera la  globalizzazione, parola entrata ormai nel vocabolario comune, di cui molti non conoscono però il significato. In maniera molto grezza, consiste nel fatto che il mondo è diventato un'unica area geografica da un punto di vista del mercato, dei capitali e anche da un punto di vista produttivo. E' curioso che mentre l'intento del sistema era quello di creare un mercato unico per i capitali e per i prodotti, poi si è arrivati anche alla globalizzazione della produzione. E' il sistema che hanno creato in 5 secoli di colonialismo che si sta ritorcendo contro i protagonisti, gli architetti stessi di questo sistema economico. In 5 secoli di colonialismo abbiamo buttato fuori così tanta gente che il mercato mondiale che pure faceva gola, alla resa dei conti si è dimostrato un mercato piccolissimo, 1 miliardo, un miliardo e mezzo di persone costituisce il mercato mondiale dei prodotti sofisticati che il nostro sistema industriale sa produrre, tutti gli altri ne sono fuori.

Le multinazionali, soddisfatte in un primo tempo di aver ottenuto un sistema dove è possibile collocare le merci a New York, a Sidney, come nel deserto del Kalahari, quando hanno ottenuto tutto un contesto legislativo mondiale che gli consentiva questo, poi hanno scoperto in realtà che sono in tanti a contendersi un piccolo mercato. Immaginatevi di essere dei mercanti che al mattino sulla piazza del mercato alla fiera pensano di essere in pochi a porre i loro banchetti in una piazza che sarà affollata, invece scoprono il contrario, si rendono conto di essere tanti mercanti, tanti banchetti a tentare di vendere i loro prodotti a pochi passanti, che fareste? Innanzitutto tentereste di mettere dei megafoni potentissimi in modo da attirare l'attenzione dei pochi passanti, la pubblicità, poi naturalmente tentereste di attirare i clienti riabbassando i prezzi. Da una parte bisogna aumentare la pubblicità, un costo, dall'altra parte si diminuiscono i prezzi alla fine dei conti può succedere che la convenienza non c'è più. L'obiettivo è di vendere, di ottenere un guadagno; allora bisogna tentare di rischiare da un'altra parte, bisogna fare in modo che diminuiscano i costi, quali costi? per esempio il lavoro. Tanto ci si adatta! La macchina è programmata ad andare ad una certa velocità non c'è niente da fare, lo stesso se è programmata per assorbire un tot di energia; l'uomo si adatta, per cui è sempre strizzato, questa capacità di adattamento lo rende sfruttabile quando c'è bisogno di comprimere i costi. Tanto è vero che il sistema si è messo in moto nell'atto della globalizzazione per tentare di vincere la concorrenza mondiale, ha tentato di capire come può ottenere un abbassamento dei costi, facendo diminuire i costi del lavoro. Le strategie che ha utilizzato sono quelle di sempre da una parte ha fatto in modo che la resa del lavoro fosse sempre di più accelerata, quindi il progresso tecnologico utilizzato per accelerare il lavoro, per fare in modo che il lavoro renda di più, ma dall'altra parte si è battuta un'altra strada, le imprese si sono rese conto che c'erano Paesi in cui, a causa di un certo passato storico, (la gente era disposta a guadagnare molto meno, 10, 20, anche 30 volte meno di quello che guadagna la gente qui da noi) e che avevano incominciato ad avere anche certe competenze per produrre ciò che ci interessa, così è incominciato il trasferimento della produzione in questa parte del mondo, in tutti quei settori dove è indispensabile un alto utilizzo di manodopera.

Il subappalto del lavoro

Quando hanno deciso di trasferire la produzione non hanno scelto la strada più costosa, perché se uno vuole far produrre le sue scarpe, invece che qui a Bari, in Albania, si suppone che l'imprenditore vada lì ad investire dei soldi, invece c'è un sistema molto meno dispendioso. Si va in Albania, si cerca un imprenditore, non importa se russo, coreano, disposto ad aprire lui una fabbrica e che sappia produrre ciò che serve. E' il sistema dell'appalto, sistema elegante, che consente alle imprese commerciali del nord di poter ottenere tutto ciò che gli serve a costi sempre più bassi, senza avere nessun vincolo legato alla produzione: quando con te non mi conviene più, chiudo con te e vado ad un'altra parte, e siccome tu sei legato a doppio filo con me, ecco che chiudi e ti trasferisci in un altro Paese del mondo. Quando i costi di quel Paese aumentano, ci si trasferisce in un altro che offre costi minori. Il subappalto è cominciato in Corea del Sud, con Taiwan, quando i lavoratori sud coreani hanno conquistato un notevole aumento salariale, le multinazionali hanno messo le imprese locali alle strette, volendo  la garanzia di continuare a fornire i prodotti ad un costo più basso pena l'abbandono degli investimenti in Corea per andare a investire in Indonesia. Quando succede che in Indonesia dopo 2 -3 anni di industrializzazione i lavoratori si organizzano per chiedere di più, si chiude lì e si trasferisce in Vietnam, Cina, in Guatemala, in Madagascar, in Mozambico, luoghi del mondo dove si possa produrre a costi sempre più bassi; ancora si trovano, non solo a costi più bassi, ma anche a condizioni ambientali e sindacali sempre peggiori.

Infatti se andiamo a visitare le fabbriche dove si producono scarpe, vestiti, giocattoli, circuiti elettronici che servono per tutta una serie di nostri consumi, troviamo delle condizioni di lavoro spaventose. Quando parliamo di condizioni di lavoro nel sud non pensiamo solo al lavoro minorile, pensiamo a salari bassi, orari lunghi, diritti sindacali inesistenti, totale mancanza di sicurezza nei posti di lavoro. Ci sono Paesi nel mondo dove fare attività sindacale è un atto da eroi perché il governo è repressivo e qualsiasi tentativo finisce con la galera e addirittura nel sangue, con la gente sgozzata e abbandonata sui bordi dei fossi, come è successo in Indonesia.

Cosa fare allora?

Questa è la situazione nel Sud del mondo e le ragioni che inducono all'impoverimento del Sud. Allora ci poniamo il problema di cosa fare. La prima sensazione che ci assale è quella dell'impotenza di fronte alle grandi istituzioni e alle grandi imprese. Io così piccolo non posso fare niente, siamo pervasi da un senso di impotenza! Ma, anche se per certi versi è vero, non possiamo liquidare la cosa così, dobbiamo fare una riflessione su come sta in piedi il potere: i poteri stanno in piedi perché ricevono il consenso dei propri sudditi. Il consenso a volte è velato semplicemente perché si assiste ad un'ingiustizia, ad un sopruso e si sta zitti. Molto più spesso il sistema di potere sta in piedi perché riceve un consenso attivo da parte nostra, gli eserciti sono una dimostrazione lampante, le guerre si fanno non soltanto perché ci sono i ministri della difesa che ordinano la guerra, ma perché ci sono tanti piccoli soldatini che dicono signorsì. E lo stesso avviene in ambito economico, il sistema sta in piedi perchè noi quotidianamente accettiamo di agire come il sistema ci chiede, senza farci alcun problema. Compriamo un oggetto perché ci fa fare bella figura, investiamo in una banca senza preoccuparci di come utilizzerà i nostri soldi; in regime di disoccupazione accettiamo lavoro in una fabbrica che magari produce spolette per le mine.

Questi sono i meccanismi che consentono al potere di stare in piedi con la nostra partecipazione attiva. Allora di tutto ciò che succede nel mondo, non possiamo più dire che la responsabilità è di chi comanda, la responsabilità è anche di chi obbedisce senza porsi nessun problema, questa è la nostra responsabilità. Ma nello stesso tempo questa nostra posizione è anche una posizione di potere: se è vero che piccoli gesti permettono il sistema, è anche vero che questi stessi gesti, fatti in altro modo, in senso responsabile e critico possono indurre il sistema a cambiare rotta.

Da questo punto di vista Padre Zanotelli  paragona il potere alla statua di Nabucodonosor, imperatore babilonese, che si era fatto costruire un'imponente statua fatta in una pietra inattaccabile per impressionare i sudditi, ma la statua aveva un difetto, i piedi di argilla, materiale che si indurisce ai raggi del sole e riesce a sostenere un peso elevato, ma se prende acqua diventa fragile ed il peso che sta sopra crolla. Noi rappresentiamo la base del potere, a noi sta consentire al potere di consolidarsi o se vogliamo che quest'argilla diventi una poltiglia che un po' alla volta crolli. Gli  strumenti che abbiamo a disposizione per ottenere che il potere cada è proprio quello di cominciare ad agire attraverso i piccoli gesti quotidiani, ponendoci degli interrogativi rispetto alle richieste che ci fa il sistema, acconsentendo solo alle richieste in linea con i nostri principi. Dobbiamo cominciare a fare dei gesti di persone responsabili, che non accettano di fare assolutamente nulla, semplicemente perché gli viene comandato, ma che hanno la pretesa di filtrare tutto dal proprio cervello e dalla propria anima.

Una volta capito questo si tratta di vedere quali sono gli strumenti che abbiamo a disposizione per tentare di indurre il sistema a comportarsi in modo diverso. Siccome le imprese sono il fulcro di questo sistema, è su di esse che concentriamo la nostra attenzione, anche perché con le imprese abbiamo contatti quotidiani, non soltanto perché entriamo nelle loro fabbriche, ma anche perché entriamo nei loro supermercati; ogni volta che compriamo un prodotto, noi lo compriamo da un'impresa. Per cui i nostri rapporti con le imprese sono continui, quotidiani, da quando ci alziamo al mattino fino alla sera. Ecco che si pone il problema di sapere se collaboriamo con un'impresa che si comporta bene o male.

La denuncia

Allora, visto il nostro stretto rapporto con le imprese, si tratta di capire cosa possiamo fare per indurle a comportarsi in modo diverso. Si rimane stupiti nell'apprendere quante cose è possibile fare, tanto da avere in fine l'impressione di non riuscire a farle tutte. La realtà delle persone impegnate non è quella di chi ha il senso di non poter fare nulla, ma di non riuscire a fare tutto quello che vorrebbe fare. Prima ancora che attraverso il consumo, le imprese si possono condizionare attraverso la denuncia. L'obiettivo delle imprese è vendere, esse sanno che si rivolgono ad un mercato che va acquistando sempre più sensibilità rispetto a certi temi. L'immagine è importante per poter vendere e la cattiva pubblicità è certo ciò che le imprese temono di più, per cui ogni volta che si trovano di fronte ad un movimento di consumatori che pubblicamente denunciano una malefatta dell'impresa, la prendono sempre sul serio: hanno paura di finire sui giornali, che la loro immagine possa essere compromessa, e un'immagine compromessa alla fine si trasforma in diminuzione di vendite. La prima cosa che abbiamo a disposizione non costa nulla: la denuncia. E' fondamentale mostrare il proprio disaccordo, perché le imprese si avvalgono del nostro silenzio per dire che agiscono in nome nostro.

Noi dobbiamo togliere questa possibilità alle imprese e dobbiamo utilizzare molto di più lo strumento della denuncia, non fosse altro che per far loro sapere che non siamo d'accordo, questo si può trasformare in una leva per indurre a comportarsi diversamente. Su questo si sono basate le nostre campagne e quelle internazionali, con l'invio di cartoline in cui si esprimeva il disaccordo con i loro modo di trattare i lavoratori. Abbiamo scritto alla Chicco per far sapere che non siamo d'accordo che abbiano licenziato 87 famiglie che hanno perso i loro figli in un incendio del '93 perché erano chiusi a chiavi nella fabbrica. Dopo 6 mesi di campagna con l'invio di 6.000 cartoline, un po' di pubblicità sui giornali ed in televisione sono stati sufficienti per indurre Artsana, un'impresa multinazionale italiana che possiede il marchio Chicco, a capitolare: ha costituito un fondo per risarcire le vittime dell'incendio, ha firmato un codice di condotta con i sindacati. Non sottovalutiamo quindi il potere della denuncia, che in fine non costa niente, o solo un francobollo su una cartolina.

Il boicottaggio

Entrando nell'ambito del consumo abbiamo a disposizione almeno tre leve. La prima è quella del boicottaggio: i consumatori si organizzano e non comprano più i prodotti di quell'impresa finché non accetta le nostre richieste. Questo è il senso del boicottaggio che non si limita soltanto a chiedere ai consumatori di incrociare le braccia, ma tenta di creare una rete di alleanze per far sentire all'impresa che ha contro tutta la società civile. Tali alleanze sono con la Chiesa, con i politici, con i sindacati, con le associazioni di ogni natura. E' un'arma micidiale per le imprese.

Nel 1995 è bastata una settimana di boicottaggio in Germania a convincere la Shell, potentissima società petrolifera, a non affondare una piattaforma petrolifera nel Mare del Nord. Per ammissione della Shell, è stato il boicottaggio dei consumatori tedeschi a indurla ad abbandonare questo progetto. Attualmente in Germania c'è una discreta sensibilità intorno a questi temi e si è riusciti a coinvolgere il 10, 20% dei consumatori. Infatti per il boicottaggio non è necessario coinvolgere il 100% dei consumatori, qualcuno dice che basterebbe il 3 - 5%. Anche questa cifra apparentemente modesta, in termini di globalizzazione è una cosa impegnativa, ma non impossibile. Questa è la ragione per cui il boicottaggio si organizza solo per cose grosse, che debbano essere fermate in tutti i modi.

Il consumo critico

Un altro strumento è il consumo critico, che consiste nell'andare a fare la spesa chiedendosi di continuo se il prodotto che stiamo per comprare ha una storia che noi condividiamo. Questo è il senso del consumo critico, porsi un sacco di domande e comprare il prodotto solo se ha una storia ambientale e sociale che noi condividiamo; e non solo la storia personale, ma il comportamento generale dell'impresa che vi sta dietro. Infatti sappiamo che le multinazionali hanno la caratteristica di possedere decine, anzi centinaia di altre imprese. Per esempio il formaggio Osella , che nella pubblicità offre un'immagine bucolica di una linda fattoria, appartiene alla Philip Morris, che è una grossa multinazionale.

Ecco che il consumo critico consiste anche nel porsi molte domande sulla storia del prodotto e sul comportamento dell'impresa, di qui l'importanza dell'informazione. A che vale porsi delle domande se alla fine non sappiamo dare delle risposte, non sono un consumatore critico, ma frustrato, non servo a nessuno. Per cui il nostro grande impegno è quello di riuscire ad ottenere delle informazioni. E' questa una delle ragioni per cui ci siamo impegnati a presentare una petizione popolare al Parlamento italiano una legge che obblighi le imprese a fare tutti gli anni un rapporto socio ambientale. Noi pretendiamo che l'impresa smetta di mettere il profitto davanti a tutto, di arrogarsi il diritto di tenere all'oscuro i consumatori. Noi vogliamo trasparenza da parte delle imprese e che ogni anno, come sono costrette a depositare un bilancio economico alla Camera di Commercio, così vogliamo che  facciano un rapporto sociale in cui descrivano la filiera produttiva, le caratteristiche e le implicazioni ambientali che stanno dietro ai prodotti, prima di tutto quello dei rapporti di lavoro negli stabilimenti che sono appaltati in Italia e all'estero.

Su questo noi stiamo giocando tutto il nostro impegno, cercando di fornire alla gente informazioni corrette. Abbiamo fatto lo sforzo di redigere una Guida al Consumo critico, chiedendo a destra e a manca. E' un lavoro grosso, immane. Se non fossimo l'unico centro in Italia che fa queste ricerche e avessimo al nostro fianco anche strutture più potenti come la Legambiente, il WWF, ma anche il sindacato, i partiti è chiaro che il lavoro sarebbe meno faticoso; per cui sono tanti gli ambiti ai quali dobbiamo bussare e le coscienze che dobbiamo sensibilizzare. Non riteniamo intanto che le imprese non debbano continuare a fare ciò che gli pare, per questo abbiamo chiesto al Parlamento di esprimersi in merito. Lo chiediamo alle forze politiche, principalmente a quelle di sinistra che si esprimano se sono o meno d'accordo di imporre alle imprese questo obbligo, che dal punto di vista produttivo non avrebbe nessun effetto, solo avere due o tre persone che stiano dietro a questo rapporto. Io ho chiesto ad un'impresa che ha un fatturato di 30 miliardi come reagirebbe ad un obbligo di questo genere. Hanno letto il contenuto del rapporto sociale e si sono fermati al secondo rigo. Non accetterebbero assolutamente, perché occorrerebbe organizzare un ufficio apposito, assumere almeno tre persone, con un costo di 300 milioni, cioè l'1%. Per la pubblicità spendono il 5 - 8%, oltre a  circa due miliardi spesi per cose inutili. Dunque non è una questione di spesa, ma di volontà politica, di non voler cedere ad un'esigenza di democrazia.

Su questo vi chiamiamo a dare il vostro contributo, noi abbiamo organizzato la petizione popolare, abbiamo raccolto 160 mila firme, noi cioè non solo il Centro Nuovo Modello di Sviluppo, in provincia di Pisa, ma tutti i gruppi sparsi per l'Italia. Il meridione ha risposto con grande sensibilità: Bari, Crotone, Siracusa, Caserta Napoli. La petizione è solo l'avvio, abbiamo consegnato a Violante 160.000 firme. Però, ora comincia il lavoro serio, cioè trasformare la petizione in un progetto di legge, che una volta firmato da almeno due parlamentari si tratta di farlo avanzare. I rischi che il progetto venga insabbiato sono infiniti, solo se c'è una grande pressione popolare dietro che fa sentire ai parlamentari che la gente vuole un provvedimento di questo genere avremo la possibilità che almeno i Parlamentari si esprimino, perché la cosa più drammatica è che i parlamentari non l'esaminino neanche, perché finito sotto una pila di altri progetti di legge.  Occorre quindi una grande pressione popolare.

Il commercio equo e solidale

L'ultima arma che abbiamo per condizionare le imprese è il consumo alternativo e positivo. Il commercio equo e solidale assume un ruolo fondamentale, perché ogni volta che i consumatori, invece di comprare nei supermercati, comprano attraverso altre catene commerciali che sono caratterizzate da certi principi, non soltanto indeboliscono le catene commerciali tradizionali, ma lanciano un messaggio al sistema. Quindi ecco il commercio equo solidale, cioè un commercio tra persone che tentano di rendersi un servizio reciproco, invece di essere un'occasione che consente ad alcuni di potersi arricchire su altri.

E' veramente un messaggio forte, che può gettare il suo seme di cambiamento di lunga durata. Quindi non sottovalutiamo la possibilità di consumare subito attraverso canali commerciali che ci danno tutta una serie di garanzie e nello stesso tempo rappresentano un'iniziativa di una carica rivoluzionaria enorme.

La sobrietà nei consumi

Finora ho parlato delle scelte di qualità, ma vi sono anche scelte di quantità. Il fatto che il 25 - 20 % della popolazione mondiale debba continuare a consumare l'80% delle risorse della terra, deve finire e non soltanto per motivi etici astratti. Il nostro benessere entra in competizione con le possibilità di questa massa diseredata del mondo di poter migliorare la loro condizione di vita. Siamo malati di obesità, mentre altri esseri scheletrici mancano del necessario; quindi siamo in un mondo dove qualcuno deve dimagrire per consentire agli scheletrici di vivere in maniera dignitosa. Di qui l'obbligo della sobrietà, di consumare di meno.

Il discorso della sobrietà sta cominciando a passare, almeno nei nostri ambienti, però si affaccia subito una domanda alla quale non sappiamo rispondere: come risolviamo i problemi sociali, e quelli dell'occupazione? Perché per riuscire ad avere un assetto produttivo che sia compatibile e non dannoso per l'ambiente, ci sono varie strade a disposizione. Un sistema può essere quello di far godere a tutti la stessa piccola quantità. Un altro sistema può essere quello di sapere quanta anidride carbonica possiamo produrre, la consumiamo in pochi gli altri restano senza.

Verso una società capace di giustizia

Noi dobbiamo fare il discorso ambientalista, senza dimenticare mai il collegamento ad un discorso di giustizia. E qui il problema si fa molto serio, ma allo stesso tempo molto attraente, perché si tratta di capire come riusciamo a garantire benessere, cioè la soddisfazione dei bisogni fondamentali di tutti pur disponendo di meno. Allora, proprio partendo dal tema occupazionale, ci rendiamo conto che non basta esortarci ad un minor consumo, ma bisogna organizzare la società in modo diverso. Proprio a partire dall'occupazione si aprono scenari interessanti. Noi oggi siamo in una situazione in cui il consumo è diventato un valore sociale: se la gente consuma, le fabbriche producono di più e quindi assumono. Questa è la logica. Se uno esorta a consumare di meno, il cerchio non si chiude. Allora secondo noi bisogna fare una serie di riflessioni e chiederci qual è il senso del lavoro. La gente non lavora per gusto, ma perché ricerca una base di sicurezza. Nel sistema costruito sul mercato, la sicurezza passa attraverso gli acquisti, per poter acquistare bisogna avere denaro, per averne bisogna lavorare per avere un salario. Ecco che allora, nel concetto del lavoro ci nascondiamo dietro il tema della sicurezza. Cominciamo col dire: l'obiettivo non è quello di avere un posto di lavoro, ma è quello di avere la sicurezza, di avere da mangiare, da vestire, di poter studiare. Il contadino che si spezza la schiena per tagliare la legna, l'anno in cui fa meno freddo sarà tutto contento di lavorare meno e di avere più tempo per sé. Se fa questo discorso, è perché il suo problema, quello di scaldarsi, è comunque garantito.

Dobbiamo trovare il sistema di organizzare la società in una maniera tale che ci consenta di riprodurre a livello di sistema lo stesso meccanismo che vale per la singola famiglia. Allora quali sono le prospettive che si affacciano davanti? Creiamo un sistema per cui la gente ottiene le sue sicurezze indipendentemente dal lavoro, creiamo una zona di sicurezza sociale che naturalmente è affidata alla collettività come tale. Mi rendo conto di fare dei discorsi bolscevici, ma bisogna avere il coraggio di fare delle proposte che vanno contro corrente.

Bisogna sapere cosa contrapporre al mercato. Rispetto a certe aree del benessere non si può contrapporre che la produzione affidata alla comunità, non si può contrapporre altro che la programmazione applicata alla comunità. Se si hanno a disposizione 5 barili di petrolio bisogno decidere se lasciarli a chi guadagna di più perché li metta nella sua Mercedes, oppure se debbano essere messi a servizio di autobus e di treni per la comunità.

Ecco che partendo dal discorso ambientale si va a finire a parlare su come vogliamo organizzare la società dal punto di vista economico, e diventa fondamentale proprio se pensiamo alla necessità di garantire la giustizia pur disponendo di meno.

La mia esortazione è: non lasciatevi vincere dal senso di impotenza, da quel tarlo che abbiamo dentro di noi che non siamo adatti a pensare ad un'alternativa. Grazie.

(Su cortese concessione di “Associazione Un Solo Mondo” per un commercio equo e solidale Via Dante 189 - 70122  Bari)

Reprints 3: L'onda verdeTerritorio veneto - Indicetorna suReprints 5: Noi siamo una parte della terra

Territorio veneto - Home page Territorio veneto - Indice Territorio veneto - Fonti scientifiche Territorio veneto - Istituzioni Territorio veneto - Media & ipermedia Territorio veneto - Eventi Territorio veneto - Biblioteche banche dati Territorio veneto - Approdi Territorio veneto - Strumenti & ricerche Territorio veneto - Mail box
Questo piccolo sito è stato visitato da territorio veneto - visitatori utenti dal 1 gennaio 2001