Capitolo sesto: FINZIONE, REALTA’. SENTIMENTI, APATIA. “Vi ascolto” “Cielo! Che dirle? E come cominciare?” “Basta, vi prego, offendermi con assurdi timori” “O corruccio di Venere! O collera fatale! In quali errori si smarrì mia madre per amore…”. “Va beeene… basta così per oggi… Ailing vieni qua!”. Prove generali. Mancavano soltanto tre giorni. Niente ansia, solo il giusto timore di sbagliare… Hori mi chiamò quando tutti gli altri si erano ormai già dileguati, ognuno pronto a riprendere la sua vita, ognuno indipendentemente dal compagno che, fino a pochi minuti prima, gli era accanto sul palco. Mi avvicinai sbuffando al mio regista. “Che c’è?” “Va bene, tutto a posto… solo… ti vedo un po’ distante… voglio una Fedra colpevole, sofferente… e la voglio perché so che puoi darmela… ti ho lasciato la parte e sai quanto avrei voluto togliertela… domani fammi almeno vedere il dolore” “Farò il possibile”. Perfetto. Io non so se amassi davvero recitare, era qualcosa di cui non avrei potuto fare a meno, ma per ragioni totalmente diverse dalla passione. Recitavo da un tempo indefinito, ormai, e continuavo a farlo perché mi dava da mangiare. Letteralmente. Recitavo per denaro, se non mi avesse fatto così schifo pensarlo. Recitavo per non avere casa, luogo, per non pensare, perché stavo meglio in quel mondo di finzioni che nella realtà. Ma non era la mia vita. No. Per nulla. Ero brava, è vero. Lo so. Ma perché non poteva essere altrimenti: la vita per me era un palco infinito, per non morire ogni volta che trovavo la mia immagine a richiamarmi alla realtà, io dovevo vivere di un’irrealtà teatrale in ogni istante. Per questo quel giorno a Hokkaido mi aveva ucciso l’anima fino al punto di doverne fuggire. Già. Hokkaido… Cercavo disperata di non pensare. Perché in quei giorni di sole, in quei giorni in cui ormai tentavo di abituarmi alla mia età che stava di nuovo, inesorabile, per aumentare ancora, non era più solo il passato antico. Lo ammetto. Se fino a quel maledetto giorno del funerale io potevo permettermi di fuggire solo da quello che in me c’era, c’è, di orrendo e doloroso, ora doveva fuggire anche alle mie emozioni. Per paura, naturalmente. Potevo controllare le mie azioni, il mio tempo, le mie parole… ma non i miei sentimenti. Mi riempivo i giorni di nulla pur di non dovere ammettere che lui mi mancava. Lui. E non era possibile conoscere la ragione di quella mancanza, non era possibile impedire al mio cuore di cercare disperatamente di evitare che il ricordo del suo viso si annullasse. Ugualmente avrei rifiutato con tutte le mie forze di rincontrare Wakashimazu. “Ehi… finalmente!”. Taro mi aspettava appoggiato alla parete esterna del teatro. Forse fu la prima volta che lo guardai in quel modo. Prima di salutarlo, di iniziare a camminare accanto a lui, lo osservai per qualche secondo: quando era stato che da bambino era divenuto ragazzo? E quando, da ragazzo, uomo? Nella mia mente il tempo era un concetto troppo dilatato o troppo cristallizzato. Non riuscivo a percepire un momento di passaggio… eppure… quel giorno mi accorsi per la prima volta che Taro era un uomo. E, forse, avrebbe finalmente potuto trovare la forza di essere se stesso, sempre, non solo quando era con me. O con me e Kojiro. Ma già noi tre creavamo un mondo falsato, un gioco in cui ognuno tentava di sentire il minor male possibile. Equilibrio fragilissimo il nostro. Perché si intrecciavano troppe volte i sentimenti e mai venivano a sciogliere i nodi. Taro. Un uomo. I suoi occhi erano rimasti quelli di sempre, immagine di un’innocenza violentata troppo presto, troppo a lungo. Il viso regolare, pulito, solo i capelli, un po’ più lunghi, un po’ meno curati. Apparentemente ancora ragazzo, nonostante la sua altezza, che comunque ancora era nulla al confronto con Kojiro. Apparentemente. In realtà un uomo. Me ne resi conto davvero solo allora. “Ciao”, gli dissi semplicemente, già sulla strada per incontrare Kojiro. “Allora Shibuya ti ha permesso di saltare gli allenamenti…” “Beh… non proprio… diciamo che non gliel’ho nemmeno chiesto…”. Mi guardò fingendo rimprovero. Inutile. Gli sorrisi. “Sei proprio fuori, tu”. Lo disse come se volesse riderne, ma sentivo la sua malinconia, forse invidiosa persino, verso la mia unica qualità: andare a muso duro contro le persone. Taro lottava da una vita con il suo essere pur di non avere mai motivo di essere criticato, pur di venire accolto dal mondo. Ed io, che al mondo evidentemente sputavo in faccia, dovevo sembrargli in una situazione molto meno dolorosa. In effetti io pensavo raramente alla fatica, al male, che quella vita di perfezione doveva costargli. Pur vivendo in quel meta-mondo in cui mi rifugiavo per fuggire i sentimenti e i ricordi, almeno io non mi preoccupavo mai di ciò che gli altri potevano pensare di me. Mai. E ero indisponente e menefreghista, forse, ma almeno non dipendevo dal giudizio altrui… questo lo ho capito poi con il tempo, ma è così se sono qui a raccontarlo: io non fuggivo il mio passato, i miei ricordi, per timore degli altri. Avevo deciso cosa aveva valore e cosa no e sulla base di questo io vivevo. O sopravvivevo. Ma non era questo che mi chiedevo quel giorno. “Dove andiamo, allora?” “Beh… Kojiro ha detto che possiamo anche cucinare qualcosa noi… che ne dici?” “Cioè rimaniamo a casa?”. Per me quella di Taro era la casa. Indipendentemente dal fatto che io ci stessi vivendo da quattro giorni, da quando lui era finalmente tornato da Hokkaido. “Sì… è un problema?” “No. Tanto non ho fame”. Sia chiaro. Io mangiavo. Non molto, forse, ma quanto mi era sufficiente a rimanere in piedi. Che poi non sentissi mai fame era forse perché la sola cosa che avrei voluto mangiare mi sembrava irraggiungibile. E poi non c’era più Wakashimazu a dirmi che avrei fatto impressione… Evitavo di mangiare giocando con gli udon nella ciotola. “Allora quando partite?”. Kojiro era arrivato presto, con il suo muso incattivito di sempre. E ora mi chiedeva quando me ne sarei andata di nuovo, nascondendo persino a se stesso il dispiacere. “Martedì mattina… la prima è alle nove di sera” “Come va?” “Bene… lavorare con Hiroyuki mi piace” “E tu, Kojiro? Come vanno gli allenamenti?”, gli chiese Taro. “Ma… vanno… se non dovessi occuparmi dei poppanti…”. Mi resi perfettamente conto che Taro fece cadere di proposito quella conversazione. Perché? “Non mangi?”, mi chiese Kojiro, accorgendosi che la mia scodella era ancora piena, ormai fredda. “Mm…”, sospirai. “Cos’è? Bisogna che ci sia Wakashimazu per vederti mangiare?” “Kojiro!”. Taro non si era trattenuto. E ora si era ammutolito a soffrire perché qualche volta, ancora, l’istinto prevaleva sul suo controllo. “Cosa vorresti dire?”, chiesi. Apparentemente calma, nel profondo sapevo che aveva perfettamente ragione. “Niente, niente… lascia perdere”. Perché? Perché dovevo fare del male a Kojiro? Io non volevo, non volevo che lui soffrisse per colpa mia… io non volevo soffrisse nessuno per me. O attraverso di me. Non potevo amare Kojiro, non come lui avrebbe voluto. E ormai non potevo più amarlo neppure nel mio modo casto, amicale. C’era un silenzio intollerabile. Potrei immaginare quasi alla perfezione cosa pensava Taro in quel momento, cosa lo portò a dire quella frase cretina. “Beh… io scendo un momento a vedere se è arrivato un giornale…”. Qualche volta mi faceva davvero cadere ogni speranza. Avrebbe potuto dire, con molta più classe, che ci lasciava soli a scannarci… evitando quella pietosa scusa. Ad ogni modo, evidentemente, per me e Kojiro era il momento di dire la verità. Quella lecita, ovvio. Avessi potuto scegliere, io quel momento lo avrei rimandato per tutta la vita. Ma non potei scegliere. E allora meglio andarci contro. Come sempre. “Si può sapere qual è il problema?”, gli chiesi. “Lo sai benissimo… e comunque, scusa. Non volevo attaccarti così” “Adesso non stiamo discutendo su come avresti dovuto parlarmi. Voglio sapere che diavolo hai!”. Lo volevo davvero? Davvero non lo sapevo? “Ti interessa Wakashimazu, vero? “Ma cosa… che cosa stai dicendo?” “Quello che hai sentito… allora? Ti interessa?” “Ma ti sembra sensato? L’ho visto due giorni in tutta la mia vita!” “E allora?” “Kojiro, per favore…”, pregavo che quel discorso finisse il più velocemente possibile. “Pensi che io mi sia innamorato di te dopo anni?”. Se su molte cose la mente può farmi qualche sgambetto e quindi i miei ricordi potrebbero non essere completamente coerenti, non è questo il caso. Non fu la prima volta che sentii quelle parole, ma è la prima che ricordo alla perfezione. Non trovai nulla da rispondere e forse avrei voluto, per impedirgli di continuare, per impedirgli di farmi e farsi solo male. Invece rimasi zitta, in attesa. Lo vidi prendere fiato, cercare di ricomporre la sua apparenza di uomo imperturbabile. “Se lo pensi sei una stupida! Taka… io mi sono innamorato di te da subito… da quando ti ho dato quel ceffone… te lo ricordi?”. Feci appena di sì con la testa. Me lo ricordavo bene, credo che sarebbe stato impossibile dimenticare il nostro primo incontro, anche volendo. Ci eravamo incontrati in quell’occasione assurda, che avrebbe potuto davvero essere la fine di tutto. Invece era stato l’inizio. L’inizio di quella che io speravo un’amicizia eterna. Taro era venuto dopo. O meglio. Taro è sempre stato, per me. Ma dopo era venuto tra me e Kojiro. Quasi sorrisi ricordando. “Ti vorrei presentare una persona”, avevo detto a Kojiro. E lui, quando si era trovato di fronte proprio Taro Misaki era scoppiato a ridere e a ridere rimanemmo tutti e tre per un tempo splendido che avrei voluto poter ritrovare. Noi tre. Amici. L’illusione di quella speranza si frantumò davanti a me quella sera. “Io… -senza guardare, ascoltavo Kojiro che, tra lunghe pause, continuava a raccontare di sé, di quella parte profondissima e dolorosa dove sono i sentimenti- io… non so perché ho deciso di dirtelo… di parlarti pur sapendo che non c’è posto per me… non nel senso che vorrei io…” “Mi dispiace”. Fu la sola cosa che mi venne di dire. “Sai? sorrideva pur nel male che sentiva, sorrideva sincero- Sei la prima ragazza che riesce a farmi innamorare… e senza volerlo assolutamente!”. Rise piano, quasi timoroso che potessi mal interpretare il suo gesto. Ed io avrei voluto poterlo abbracciare, stringere le sue ossa come facevo con quelle di Taro. Avrei voluto sentire il suo calore, il suo odore acre che mi aveva attraversato l’anima fin dal primo momento. Avrei voluto, ma capivo bene che non era possibile. Rimasi lontana da lui. Fisicamente e, forse, emotivamente. “Mi dispiace”, ripetei. Come se quella semplice frase mi potesse giustificare. Come se avessi qualcosa di cui discolparmi. I sentimenti sono qualcosa di assolutamente irresponsabile. Lo capivo con una lucidità dolorosa solo allora. Kojiro mi amava. Anche io. Ma in due modi differenti e incompatibili. E nessuno di noi due ne aveva colpa. Kojiro amava proprio me. Io non potevo amare né lui né nessun altro, o almeno me ne illudevo. Taro aveva scelto di cancellare l’amore dalla sua vita perché lo avrebbe ucciso. E da qualche parte, forse, anche Wakashimazu stava cercando di capire se stesso. In questo intreccio scombinato non c’era posto per la colpa. Ma io ugualmente la sentivo. Kojiro si accese una sigaretta. “Vuoi?”, mi chiese. Mi alzai per prenderne una e mi afferrò la mano trascinandomi verso di lui. Non con violenza, né cattiveria. Fu solo come se volesse avermi più vicina. “Kojiro… questo cambia le cose…” “Lo so. E vorrei avere la forza di farti incontrare Wakashimazu… ma mi dispiace. Non ci riesco” “Basta con questa storia! io non gridavo mai, non lo feci nemmeno allora, solo usai un tono aspro- Non c’entra nulla lui! Io… io ti voglio bene, Kojiro… ma sai in che modo…”. Ero davvero convinta di quello che dicevo? Stavo giurando che Wakashimazu era per me solo una persona con cui avevo fatto un viaggio… e forse avrei dovuto rimanere zitta. “Perché non vuoi rivederlo?”. Non capivo. Non capivo perché Kojiro si ostinasse a parlare di lui. “Non mi va…”. Non potevo spiegare che lo avevo semplicemente deciso. Kojiro teneva la mia mano nervoso ed io rimanevo immobile. La mia anima non aveva vita, in quel momento. “Ho capito… non mi interessa… in fondo mi ammazzerebbe saperti con lui… comunque…”. Alzai lo sguardo, finalmente forte per farlo. “Comunque?..”, chiesi piano. “Comunque fai che non ti abbia detto niente… lasciamo perdere questa cosa…”. Chiusi la sua mano nelle mie, non potendo abbracciarlo, ma avendo bisogno di sentirlo vicino, feci quel gesto sussurrato. Le strinsi un po’ come volessi che il loro freddo passasse a lui insieme alla mia anima. “Come vuoi… ma… vorrei dirti una cosa…”. Aspettai, che mi desse il permesso, che accettasse le mie parole. Guardandomi accettò il loro suono. “Io non so se è una grande puttanata… non lo so perché sono proprio come te… ma io credo che avere dei sentimenti sia una cosa splendida… non smettere di averli… e non rifiutarli… hai vissuto la tua vita cercando di essere una rocca insensibile… e ora…”. Non riuscivo ad essere coerente, logica nel parlare. “E ora?”, mi chiese atonale. “E ora… io non voglio che tu smetta di averne… per colpa mia”. Mi guardò sorridendo appena. “Taka… non sarebbe comunque colpa tua… io i sentimenti li ho sempre avuti… solo vorrei non dimostrarli mai…” “Perché?”. Mi tornò in mente quando fu lui a farmi quella stessa domanda. Stavamo andando a prendere Taro e stavo per incontrare per la prima volta Wakashimazu. Kojiro mi chiese perché. Ma era tutt’altra occasione. Solo, sperai che non mi rispondesse come io avevo fatto con lui… “lo sai perché”… “Credo che sia iniziato tutto il giorno in cui mio padre è morto…”. Sentii una fitta insopportabile al petto, sentii il suo dolore, quasi potevo toccarlo. Credo sia molto raro riuscire a vivere così intensamente la sofferenza di un altro, eppure io lo feci, mentre Kojiro, per la prima volta, stava raccontando un pezzo della sua storia. Continuò. “Quel giorno io piangevo… piangevo disperato e tutti venivano lì a consolarmi, a chiedermi come stavo, a dirmi di non stare male che mio padre ora era felice, aveva smesso di soffrire e tutte queste cazzate del caso… lì ho deciso che non avrei mai più mostrato i miei sentimenti… mi faceva schifo la falsità di tutte quelle persone che mi parlavano solo per dovere… mi facevo schifo io stesso perché non ero abbastanza forte da mandarle via, da rifiutarle…”. Accese un’altra sigaretta. Vedevo la fatica che gli costava dire quelle parole, dirle proprio a me, che, in fondo, ero la sola a cui avesse concesso di conoscere i suoi sentimenti. Dal giorno in cui lo avevo conosciuto, credo che Kojiro avesse sentito che io potevo dividere con lui quella rabbia verso il mondo, verso una vita che lo aveva fregato. Senza bisogno di raccontarci, io e Kojiro avevamo capito da subito, senza parole, senza spiegazioni, che entrambi portavamo il male di un passato, seppur diverso, tremendamente doloroso. Per questo dono gentile che ci aveva permesso da sempre di essere vicinissimi senza mai raccontare, ora Kojiro lamentava il suo sentimento per me. Che lo costringeva, per la prima volta, a parlare. “Non so se sono riuscito… se sono diventato abbastanza bravo, ma so che molti credono che io non abbia sentimenti…” “Molti… non tutti…” “A quelli che restano posso sempre chiudere la bocca con un pugno” “Vuoi dare un pugno anche a me, allora?” “No. Tu sei fuori da questo discorso… e comunque ti chiedo di dimenticarti quello che ti ho detto… io lo sapevo! Dovevo stare zitto! Non ho imparato proprio niente…”. No, non ce la facevo più. Non mi importava nulla di quello che avrei dovuto fare secondo logica: quel mio amico vitale stava soffrendo davanti a me, per me ed io volevo solo che quello non fosse un altro motivo per convincerlo della necessità di nascondere i propri sentimenti. Gli appoggiai il palmo sulla guancia, sentii il ruvido di una barba malfatta, il fremere dei nervi. Non ero abituata a sentirlo così vicino, sempre avevamo mantenuto una strana distanza, come se quel primo schiaffo avesse posto i limiti del nostro contatto. Ne fossi stata capace, avrei pianto. “Grazie…. riuscii infine a dire- mi hai detto una cosa molto bella e anche se non te ne fregherà nulla, se è inutile… io ti ringrazio…” “Mpf… -mi interruppe- non c’è bisogno che tu mi ringrazi…”. Fece per allontanare la mia mano da sé, ma si scontrò con la mia resistenza. “Lasciami stare”, mi chiese. “Perché?” “Non voglio nemmeno la tua, di pietà”. Scostai la mano, ferita. Con quelle parole sembrava avere voluto ammazzare la nostra amicizia. Se davvero c’era mai stata… Credo se ne fosse accorto. Di avermi ucciso con quella frase, intendo. “Scusami… non so controllare le mie emozioni, evidentemente…” “Non è questo…” “Ora cambiano le cose”, disse ripetendo quello che avevo ammesso io poco prima. “Già…”. Taro entrò ad interrompere quello strazio. Quanto tempo era stato lontano? “Ciao… come va?”. Si guardava intorno, cercando di capire cosa fosse accaduto, cosa sentissimo in quel momento io e Kojiro. “Io devo andare, Taro. Grazie della cena”. Per un attimo rimase senza parole, poi fermò Kojiro sull’uscio. “Aspetta! Volevo chiederti… domani arriva Genzo… mi ha chiesto di andare a prenderlo all’aeroporto… vorrebbe salutare sia te che Wakashimazu…”. Qualche volta la sprovvedutezza di Taro rasentava l’impossibile. Con tutto quello che era possibile dire in quel momento, Taro aveva trovato Wakashimazu. La rassegnazione per il suo candore quasi stupido, si mescolò dentro di me ad una sensazione indefinita di mancanza. Abbassai gli occhi a quel nome, malinconicamente ferita senza saperne la ragione. Kojiro incrociò il mio viso triste. “Non so, vuoi fare una bella uscitina a quattro?”, gli rispose aspro. “Beh… lui mi ha detto così… scusami”. “Va beh, va beh… vedremo domani. Ciao. Ciao Taka…”. Uscì. Taro mi guardò rannicchiata ancora sul divano, dove poco prima Kojiro mi era vicino. “Sono proprio un cretino alle volte…” “Dai…” “Davvero. Con tutto quello che potevo dire, proprio di Wakashimazu?” “Lascia stare”. Si lasciò cadere sul divano, appoggiò la testa sulle mie cosce. “Allora?” “Che cosa?”, gli chiesi insensatamente. Non capivo se avevo voglia di parlarne con lui o se avrei preferito rimanere in silenzio a cercare di capire, di sentire nel profondo tutto quello che Kojiro mi aveva detto. “Che è successo?”, mi chiese ancora. Buttai la testa all’indietro. “Sentimenti…”, mi limitai a dire. “Che non si incontrano, vero?” “Già…”. Tornai a guardare il viso di Taro, dall’alto la sua immagine era un po’ stravolta, deformata. Sorrisi un po’, mescolando al male, il ricordo e l’affetto per quell’uomo che ora, appoggiato a me, sembrava sereno. “Mi dispiace tacque per qualche secondo, poi- vuoi venire domani?”. Lo guardai senza capire. “Potresti vedere Wakashimazu” “Ti ho già detto che non voglio vederlo” “Capito”, concluse. Chiuse gli occhi ed io continuai a guardare il suo muso tranquillo, sulle mie ginocchia finalmente a casa. Anche io ero a casa, in quel momento. E chiusi gli occhi cercando il sonno silenzioso, senza dolore. Pensando a Kojiro, al suo amore per me, al suo dolore antico, il pensiero per lui si mescolava violento e incontrollato a quello per chi, senza che io potessi fare nulla, mi faceva di nuovo avere paura. Una paura insostenibile di non essere riuscita in tutti quegli anni ad eliminare i sentimenti da me. “Andiamo a dormire, Taka… tanto non si può scegliere”. Taro si sollevò da me e sparì nella sua stanza. Inzuppai la testa mentre si stava per sdraiare sul futon. “Non si può scegliere, che cosa?”, chiesi. “Di cancellare le persone” “Cioè?”. Alzò la testa dal cassetto dove cercava la maglia per dormire, mi guardò con quell’espressione di sufficienza con cui mi fissava sempre quando mi fingevo stupida. “Non puoi impedire a Wakashimazu di entrare nella tua vita. Perché lo ha già fatto”. Capitolo settimo Capitolo quinto Torna all’indice delle fanfiction |