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Miele ghiacciato
di Fiore aka Mu

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Capitolo settimo:

ANCHE LEI…

 

Kodachi era stata la prima ragazza.

La prima a cui avevo voluto bene davvero, intendo.

No. Non mi ero innamorato di lei, ma questo semplicemente perché io non ero in grado di amare.

La prima donna che era entrata nella mia anima non era altro che una bambina d’alto bordo, in fondo.

 

“Che hai?”.

Takeshi mi fissava sospettoso, fin troppo evidente che il pallone non lo avevo nemmeno visto passare la linea della porta: avessi avuto voglia di impegnarmi sul serio, il tiro debole, per quanto preciso, di Takeshi non sarebbe mai entrato.

“Ha che è un deficiente! E che adesso si leva dai piedi…”.

Kojiro gridava dalla linea di metà campo.

 

Quel giorno ero arrivato clamorosamente in ritardo, non avevo voluto, né potuto, salutare nessuno, solo il tempo di notare gli occhi di una Tigre triste, ferita, sul viso di Kojiro.

Per quanto mi sforzassi di ignorarlo, di fingere che il suo distacco non mi toccasse per niente, in realtà sentivo il peso del nostro contrasto.

Uscii dal campo: la scena iniziava a ripetersi con una costanza preoccupante. I miei pensieri vagavano impazziti lontani dagli allenamenti, verso Ailing… per una donna io stavo rischiando di fottermi il posto di titolare…

Ma in fondo cosa me ne importava?

Sempre titolare in quella squadra da niente, sempre secondo nella nazionale…

 

“Ora mi hai davvero stufato!”.

Di nuovo. Tigre contro lupo, evidentemente.

“Lasciami in pace!”.

Non avevo nessuna voglia di discutere con lui, né di giustificarmi, né di parlare.

“Non te la cavi così… c’è gente che crede in quello che fa, qui, e se la nostra porta è un colabrodo, è solo colpa tua!”

“Non ho più voglia di giocare…”.

Questa volta me la era proprio cercata. In fondo Kojiro mi doveva un pugno da molto tempo e non perse l’occasione. Fece più male la rabbia che mi trasmise della forza con cui la sua mano mi colpì.

“Sei soddisfatto, ora?”.

Mi era di fronte, respirava forte, non per lo sforzo, ma per qualcosa che sembrava opprimergli il petto con tutta la sua violenza.

“Per essere soddisfatto dovrei fracassarti fino a ridurti una larva…”

“Perché non ho parato uno dei tiri cretini di Takeshi?”.

Lo stavo provocando e ne ero perfettamente consapevole. Ma più mi sforzavo di essere tollerante, più cresceva in me il desiderio di farlo tacere una volta per tutte.

 

Quando era successo?

Quando era successo che io e Kojiro, il mio migliore amico, eravamo diventati così?

Perché?

Disgraziato, io sapevo benissimo la ragione…

Fino al momento in cui io avessi continuato a pensare alla Ailing, Kojiro mi avrebbe odiato con tutto se stesso… in fondo, potevo io permettermi di desiderare lei, proprio lei che lui amava così tanto, in modo così pulito? Io che forse volevo solo dimostrare a me stesso di poter avere qualsiasi donna desiderassi?

Kojiro… il mio affetto d’uomo per lui non era mutato, ma la nostra amicizia rotolava in agonia per una donna…

 

“Ken… -Kojiro sembrava essersi calmato, almeno un po’- perché non vai da Takako?”.

Non riuscivo a capire. Mi odiava a causa sua e mi chiedeva perché non la avessi cercata…

“Non mi interessa”, risposi.

“Credi che io sai totalmente stupido?”

“No”

“E allora non mi prendere per il culo!”.

Mi avvicinai lento a Kojiro, non avevo in mente nulla che potesse calmare la sua rabbia e il suo dolore, tanto mi apparivano privi di fondamento.

Va bene, continuavo a pensare ad Ailing, ma magari erano solo impulsi biologici…

“Kojiro… si può sapere cosa hai tu, invece?”.

Lo guardavo, forse con distacco, non saprei dirlo, ma davvero speravo parlasse. A modo suo, con la sua abitudine ad accavallare nelle parole i pensieri, purché parlasse. Spiegasse il mondo triste che sembrava portare dentro.

“Oggi arriva Wakabayashi… passa di qui apposta per salutarci”.

Qualcuno mi doveva spiegare cosa diavolo c’entrava quel celebroleso di Wakabayashi! Cosa c’entrava lui nel nostro discorso, cosa c’entrava nella mia vita!

“Quindi?”

“Taro diceva di incontrarci questa sera…”.

Stavo per rispondere che per quanto mi riguardava, quella fiera di supponenza di Wakabayashi poteva fottersi insieme a loro, ma Kojiro non me ne diede il tempo.

“Ho visto Takako, ieri sera…”.

Continuava a passare da un discorso ad un altro, impedendomi di intervenire in qualsiasi caso. Ma ora aveva parlato di lei e, contro ogni mio controllo, posso giurarlo, il cuore mi si era fermato un momento, attentissimo, teso nelle sue emozioni.

Non osai chiedergli di continuare, ma Dio solo sa quanto lo speravo.

“E le ho detto quello che penso…”.

Ovvero? Stava cercando di dirmi che aveva ammesso di essere innamorato di lei? Questo volevano dire quelle parole? Era un modo gentile di dirmi che ora lui poteva stringere la mano di lei quando voleva, mentre io potevo solo sperarlo?

No. Non potevo accettare nemmeno il pensiero. Lei aveva negato di ricambiarlo! Lo aveva detto con una tristezza sincera! Rifiutava i sentimenti di Kojiro! Questo mi aveva detto…

Sentii solo il male. Non c’è logica nei sentimenti. Ora lo so. Allora non potevo saperlo… e così tutto il male, quella mancanza di fiato, di desideri che sentii mentre la mia mente immaginava Kojiro e Takako accanto, si riversò nelle mie ossa, contro di lui.

Perché lo attaccai? Perché calciai così forte pur sapendo che lo avrei massacrato?

Forse questa è una delle poche cose su cui tornerei indietro.

Eppure non mi fermai.

Colpivo irrazionale, ma con una precisione crudele, volendo avrei saputo ammazzarlo. Ma quel desiderio, per lo meno, non mi sfiorò neppure.

Eppure non mi fermai.

Colpivo con freddezza e ricevevo la furia scomposta, cieca, di lui. Sentii il naso pulsare, gli occhi appannarsi sotto i suoi pugni.

Eppure non mi fermai.

E gli diedi una testata.

Cadde a terra ed io mi limitai ad appoggiarmi con una mano al muro. Semplicemente per riprendere fiato.

“Sei un gran figlio di puttana…”.

Kojiro sputò sul cemento polveroso del bordo campo.

Mi chiesi se qualcuno si fosse accorto di noi.

“Sono un gran figlio di puttana…”, ripetei, forse a me stesso.

“Ma si può sapere cosa state combinando?”.

Perfetto. Mancava solo l’allenatore a dirmi cosa dovevo o non dovevo fare…

Kojiro si alzò in fretta.

“Ci scusi… avevamo qualche divergenza da appianare…”, tentò di giustificarci.

“E adesso la appianate a casa per una settimana… perché io non voglio lavorare con le bestie! Siete due cretini! Nessuno sta giocando qui, mettetevelo bene in testa… soprattutto tu Wakashimazu… il motivo per cui non sei ancora stato cacciato dipende dal fatto che tutti si augurano che prima o poi Wakabayashi si fratturi una gamba e tu abbia un senso su questa terra!”.

“Coatch… -non so perché dissi quelle parole- non sospenda Kojiro… sono stato io ad aggredirlo”.

Speravo davvero che avrebbe punito solamente me.

“Non me ne frega niente! Tenete i vostri problemi fuori di qui… e fatevi vedere solo tra una settimana… questo sempre che tu abbia intenzione di giocare sul serio, Wakashimazu. Altrimenti puoi sempre iscriverti al club di karatè…”.

Detta la sua puttanata, l’allenatore se ne andò: rimanevamo di nuovo soli, ad affrontare più che l’altro ognuno se stesso.

“Non ho bisogno del tuo aiuto!”, mi disse Kojiro.

“Non volevo dartelo”

“E allora perché non sei stato zitto? Credi che non sappia cavarmela da solo?”

“Non voglio sensi di colpa”

“E io non voglio debiti”.

Sembrava finita così.

Insomma io avrei ripreso la mia strada, con la stessa rabbia e lo stesso male sentito quando Kojiro mi aveva detto di avere parlato con Ailing. Me ne sarei andato con la stessa speranza di non dovere mai, mai sopportare di vederli insieme.

“Allora ci vieni?”.

Ma cosa aveva? Perché era così incoerente? Così incomprensibile?

“Ma dove?”, gli chiesi.

“Fuori con Wakabayashi”.

Mi chiesi seriamente se aveva un solo neurone nel cervello che giocava a solitario… un’immagine cretina, è vero, ma almeno parve allentare un poco la mia tensione.

“Non credo… non me ne frega niente, Kojiro… niente”.

“Verrà anche Takako…”.

Allora aveva proprio deciso di morire…

Lo afferrai per le spalle, costringendolo a guardarmi negli occhi, a smettere di giocare con me.

“Perché continui a parlarmi di lei? Vuoi che ti stringa la mano? Che ti faccia i complimenti per essere riuscito ad averla? Non lo so… dimmi cosa vuoi sentirti dire e poi lasciami in pace!”.

Non ce la facevo. Non potevo sopportare oltre quella sensazione… in realtà non era Kojiro, non era quello che stava cercando di dirmi dall’inizio… ero io. Io che non tolleravo di sentirmi così male per colpa di una donna… io che non riuscivo a non pensarla, a non sperare di rincontrarla e contemporaneamente non sapevo accettare i miei sentimenti.

Cristo, io non sapevo amare!

Continuavo a ripetermi quella frase e ormai non ci credevo più nemmeno io… non ero in grado di vedere lucidamente dentro di me, ma sapevo che era una guerra terribile la mia, una guerra che speravo di poter concludere e che ora, davanti al pensiero che non avrei potuto combattere perché Kojiro aveva vinto indipendentemente da me, mi vedeva senza speranza…

Mi trovai ad odiare la mia inaspettata capacità di desiderare una ragazza con quella violenza… voglio dire…avevo desiderato corpi e labbra e pelle, ma mai un’anima…

Kojiro allontanò da sé le mie mani con uno schiaffo secco.

“Sei proprio un cretino…”.

Non avevo più voglia nemmeno di colpirlo.

Mi sentivo vuoto, una scatola scossa in cui non rimbombava che il nulla.

Appoggiai la schiena alla parete e mi feci scivolare per terra, la testa tra le ginocchia. Come se tutto la stanchezza si fosse riversata improvvisamente su di me, sfibrando ogni mia difesa.

Non so per quanto tempo Kojiro rimase in silenzio a fissarmi.

 

Kodachi era stata la prima.

E ora svaniva persino il suo ricordo doloroso.

Tentavo disperato di convincermi che se i miei pensieri erano tanto spesso tornati ad Ailing in quei giorni era per la sua stranissima immagine, incerta, silenziosa, affascinante perché inafferrabile.

Pensieri corrotti dalla mancanza.

Ma sapevo troppo bene che non erano i pensieri a correre da lei. Era l’anima. Il cuore… se solo avessi saputo accettarlo avrei trovato l’umiltà di domandare di lei… di cercarla…

Valeva la pena.

Era questo che non volevo accettare.

Kodachi svaniva nel mondo morto dei ricordi ed io cercavo di impedirlo: mi illudevo che finché il male sentito per lei fosse rimasto vivo dentro di me, io sarei stato salvo e non avrei mai più voluto bene.

Forse ammiravo Kojiro, forse lo compativo.

Un uomo come lui alla fine si era piegato ai sentimenti.

Decisamente avrei voluto compatirlo e invece mi trovavo a invidiarlo profondamente. Perché anche io avrei voluto la forza di cercarla e di dirle… già… cosa diavolo avrei voluto dirle? Che mi ero invaghito di lei? Ma per favore…

 

“Sì, sei proprio un cretino”.

Sollevai la testa.

Kojiro era ancora lì, che mi guardava immobile. Ma se mi aspettavo uno sguardo duro o supponente o soddisfatto, mi trovai davanti ancora quel viso ferito.

“Hai ragione”.

Mi trovai a dire quella frase senza pensare, vero come mai avrei voluto.

Dal mio angolo tiepido, continuai ad ascoltarlo parlarmi dall’alto.

“Mi hai massacrato per una donna? Fai proprio schifo…”.

Si deve sempre scegliere?

Davvero io dovevo scegliere tra una donna, una insignificante, comunissima donna, e il mio amico?

E poi davvero era una donna qualunque?

I limiti del giusto, del bene, diventavano inafferrabili… l’amicizia è qualcosa di eterno. Questo lo sapevo bene. E l’amore solo una gran scocciatura… sapevo bene anche questo.

Apparentemente non c’era nulla da scegliere.

“No”, risposi.

Il mio cervello si dimostrava in grado di pensieri articolati nel breve arco di un istante.

“Vuoi sapere cosa le ho detto?”.

No. Non volevo. Bastava immaginarlo.

Fino a che punto la mente può creare immagini che sembrano reali?

“No”

“Che sono innamorato di lei. Da sempre”

“Ti ho detto che non me ne frega niente!”, gridai alzandomi.

“Che sono innamorato di lei dal giorno che l’ho trascinata a schiaffi giù dal davanzale”.

Il mio cuore si fermò. Immobile.

Se anche non avessi voluto sentire oltre, ero bloccato, inerte di fronte a quella frase, una frase che avrebbe potuto essere nulla se non avessi avuto di fronte il volto stravolto di Kojiro a dirmi che non era una frase del genere.

“Lo sapevi, vero?”

“Che cosa?”, gli chiesi e se non tremava la voce, tremava l’anima.

“Che voleva spiaccicarsi dal quinto piano”.

No. Non lo sapevo.

Nel passato impossibile di lei tornava al suo posto un frammento piccolissimo.

“E che l’ho tirata via a schiaffi. Ci siamo conosciuti così”.

Kojiro parlava come se avesse imparato a memoria quello che doveva dire.

Non avevo nulla da rispondere. Davvero.

“Pensavo te lo avesse detto…”

“E perché? Cosa doveva dire a uno che ha visto mezza volta nella sua vita?”.

Chiedevo questo a Kojiro e sentivo il desiderio incontrollabile di correre da lei, se solo avessi saputo dove era. Correre e chiederle perché, perché aveva fatto una cosa del genere. Perché… cosa c’era di così insopportabile nella sua esistenza?

“Ripeto: sei un cretino… comunque se non ti ha detto nulla è solo perché tu sei sparito dalla sua vita… svegliati… non sarà mai lei a cercarti”.

E tornai a non capire assolutamente nulla.

Ma era perché i miei pensieri si erano cristallizzati. Non riuscivo a non torturarmi pensando alle parole di Kojiro: lei aveva tentato di morire, questo era chiaro. Lo capivo persino nell’assurdità di quel momento.

Capivo anche che se la avevo incontrata nella mia vita era perché lui, il ragazzo che mi era di fronte in quel momento, la aveva fermata.

Ma non capivo, non potevo capire perché.

Io di lei sapevo solo che era la sorella bastarda di Matsuyama…

Più o meno un niente.

Kojiro proseguì, inesorabilmente incurante di quello che potevo sentire io. Giusto prezzo per uno che aveva sempre mostrato l’indifferenza più assoluta nei confronti delle emozioni.

“Innamorato di lei da quel giorno… -lo disse come a se stesso- per niente…”.

Non ero abbastanza calmo, freddo per capire. Lui sciolse il significato di quella frase per me.

“Hai capito, adesso? Hai capito che ho perso un’amica oltre che una donna?”.

Sì. Ora capivo. Capivo che lo avevo ferito senza ragione, che avevo colpito il mio amico mentre forse aveva solo bisogno di raccontare il suo male per un rifiuto. Capivo che quello era davvero avere un sentimento, un sentimento così forte da cancellare tutto, la ragione, l’amicizia, il distacco, la lucidità. Un sentimento fortissimo come non avevo mai provato.

“Kojiro… -feci per avvicinarmi a lui, ma, già voltate le spalle, camminava verso la sua solitudine- Kojiro, mi dispiace! Mi dispiace… davvero…”, ma la mia voce forse non lo raggiunse.

“È bello vedere che puoi amare anche tu…”, disse con un cenno del capo, si era fermato, ma non si girò a guardarmi.

“Tanto amare fotte e basta”, dissi con rabbia.

“Lo hai detto”

“E lo ripeterei”

“Hai detto che ami… lei…”

“Questo no… non l’ho detto”.

Fino a che punto sapevo mentire?

“Sbrigati… è alla palestra del centro polisportivo…”.

Perché lo stava dicendo proprio a me, proprio allora?

“Ma…”.

Mi zittì.

“Ti ho detto di sbrigarti… svegliati, Ken. Anche lei”.

“Anche lei che cosa?”

“Anche lei sa amare”.

 

Capitolo ottavo

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