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Miele ghiacciato
di Fiore aka Mu

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Capitolo quinto:

FEDRA CONTRO PORTIERE

 

Splendido dono.

Camminavo cercando di assorbire i colori, i suoni, il calore di quel giugno gentile dei miei ventidue anni.

Guardavo ogni cosa contenta, sorridevo al nulla e il nulla mi rispondeva.

 

Erano passati più o meno dieci giorni. Non che fosse realmente mutato qualcosa dentro di me, semplicemente avevo ritrovato il mio equilibrio fragilissimo di non ricordi.

E così sembrava essere cosa buona il mio ritorno a ritmi antichi. Certo… giorni sereni, pure. Se non fosse stato che stava per arrivare il diciassette, se non fosse che ora dovevo sfoderare la più grande faccia di basalto per rientrare gloriosamente in quell’edificio…

Se non fosse che mi avevano già telefonato troppe volte dalla palestra.

Se… sarebbe stato davvero un giorno placidamente inerte, quello.

Bene. A quel punto dovevo davvero tornare la Takako di sempre, quella elettrica e vitale, quella che ha imparato a sorridere perché così chiedono, quella che non ha storia e quindi non ha dolore.

E potrebbe sembrare che io ne ridessi o ne fossi, in fondo, soddisfatta.

Potrebbe.

Se lo pensate, fottetevi.

 

Entrai. Dalla platea potevo vedere i compagni, in silenzio, ascoltare Hori.

Respirai forte l’odore della finzione che ormai era vita.

Certo Fedra sarebbe ugualmente morta, ma ormai non sapevo se sarei morta con lei.

 

“Ta… Ailing!”.

Mi voltai.

La mano sulla mia spalla, Hiroyuki mi sorrideva. Credo che fosse davvero felice di vedermi. Anche se sono sempre stata diffidente nei confronti di chi dimostrava affetto per me, Hiroyuki mi parve pulito.

“Ciao”.

Lo so. Avrebbe voluto chiedere come stavo, ma non lo fece. Hori aveva già incrociato con il suo sguardo duro, giustamente teatrale, il mio muso insignificante.

Agitai la mano: “Hori-san!”.

Mi guardò davvero con distacco, come volesse punirmi di una colpa che non mi sentivo di avere commesso…

Mi avvicinai.

“Ailing… -iniziò torvo, perfettamente coerentemente con il suo ruolo- dovevi tornare una settimana fa!”

“Hori… dai… sii comprensivo”, cercò di calmarlo Hiroyuki.

“Fatti i fatti tuoi! -gli gridò l’altro- Spero tu abbia un’ottima giustificazione… e ugualmente cercati una parte di supporto, perché giusto quella puoi preparare in una settimana!”.

Mantenevo il mio sguardo asciutto, fiero su Hori, non mi intimoriva, né preoccupava la sua rabbia. Semplice riconoscimento delle mie capacità.

Lo so. Sono una presuntuosa del cazzo.

 

“Je te l’ai prédit, mais tu n’as pas voulu: sur mes justes remords tes pleurs ont prévalu. Je mourais ce matin digne d’être pleurée; j’ai suivi tes conseils, je meurs déshonorée’’.

 

Questa fu la mia risposta.

Sorrise la mia anima aspra alla vista del volto di Hori che mi fissava incredulo, stupito.

“Allora? gli chiesi supponente- Credi che possa fare Panope?”

“Credo che tu possa fare Fedra… ancora…”.

Alzai le spalle e salii sul palco. Sorridevo nel corpo e forse un po’ anche nell’anima.

I ricordi erano tornati al loro giusto posto, inerti e lontani da me. Non potevano più toccarmi, né ferirmi.

Tornava lenta, gocciolante la mia normalità e avrei recitato la mia prima Fedra, dopo avere provato solo qualche giorno prima del funerale e ora ne avevo ancora una manciata per coordinarmi con gli altri… perché in realtà io la parte la conoscevo già a memoria, senza averla proprio studiata, la avevo imparata, ancora prima che nella mia lingua, in francese. Mi piaceva quel suono musicale, ritmato e, forse, nel profondo, io la avevo imparata perché Fedra divideva con me quello stesso dolore per un peccato impronunciabile.

 

“Sei proprio matta come un cavallo! Ma come diavolo hai fatto a impararla a memoria?”.

Hiroyuki mi guardava davvero stupito, incredulo. Si avvicinò Mizuki, lei sì avrebbe recitato le poche parole di Panope.

“Complimenti… evidentemente tu non hai nemmeno bisogno di venire qui per avere la parte…”.

Poteva anche detestarmi. Io volevo essere Fedra e insieme non avevo nulla da dimostrare.

 

 

“Wakashimazu!”.

Non avevo testa. Non quel giorno. Non per allenarmi.

Assurdo. Totalmente, assolutamente assurdo.

“Wakashimazu, porca miseria! Se hai intenzione di continuare a giocare così prendi tutte le tue cose e vatti a cambiare! Ti voglio vedere qui solo quando avrai intenzione di fare sul serio!”.

Bene.

Se quello era un tentativo dell’allenatore per rendermi più motivato, più partecipe, aveva fallito miseramente.

Lasciai i pali senza rimpianti. Arrivederci e grazie.

 

Non avevo più visto Ailing. Né sentito nulla su di lei. Sparita silenziosa, quasi per caso, così come era arrivata.

Non so se avevo voglia di vederla davvero.

Mi lasciai cadere sugli spalti, gettando a terra la sacca polverosa della mia vita di portiere senza speranza.

A cosa diavolo serviva tutta quella fatica?

Perché la mia giovinezza stava sciogliendosi su quei campi umidi di sogni?

Mi appoggiai premendo con forza contro la pietra tiepida: fissavo gli altri allenarsi con lo stesso impegno di sempre, solo Kojiro pareva strano, affaticato.

Era il suo primo giorno, quello. Dal ritorno da Hokkaido, intendo.

Non una parola, né una telefonata. Kojiro si era presentato sul campo quella mattina come se non avesse nulla da giustificare o da spiegare ed io, che forse avrei voluto fargli anche solo una domanda, lo avevo salutato appena.

Il plettro mi cadde davanti. Una ragazza imbarazzata mi fissava, forse chiedendosi se chinarsi. La fissai per qualche secondo con un’insistenza sfacciata: una donna con il viso di bambina, dolcissimo e fresco.

Raccolsi il plettro e glielo porsi.

“Thank you!”, rispose prima di tornare, rincuorata, a fissare il campo.

Se ne stava lì di fianco a me eppure sembrava non percepire affatto la mia presenza: come inchiodata su qualcosa che non riuscivo a distinguere.

Poi capii. La vidi seguire con gli occhi emozionati qualcosa: Kojiro stava uscendo dal campo per fermarsi un metro sotto di me.

“Vieni giù, deficiente!”.

Appena prima di saltare l’inferriata, vidi la ragazzina stringersi le mani, come per contenere l’emozione.

Mi trovai a sorridere.

Mi dispiace, bambina… il tuo bel capitano ha dato il cuore ad un'altra…

Non era raro che qualche matricola si invaghisse di uno di noi, forse era più per l’immagine di sportivi… non conoscendoci si illudevano a tal punto da ritenersi innamorate di noi… per questo schernii, cinico, il sentimento puerile di quella ragazza per Kojiro.

Non feci in tempo a cercare con lo sguardo Kojiro che già mi aveva afferrato per un gomito e trascinato negli spogliatoi.

“Beh?”, lo sfidavo con lo sguardo.

“Dimmi che ti sei rincretinito di colpo stamattina…”

“Ma cosa diavolo stai dicendo?”

“Sei un deficiente! Cosa stai combinando?”.

Io giuro che non riuscivo a capire.

“Kojiro… -raccolsi tutte le mie forze per mantenere la calma- Si può sapere qual è il problema? Va bene ho giocato da schifo oggi, ma non vedo perché fare tutta ‘sta scena…”.

Il mio capitano appoggiò la fronte contro la parete, quasi ridicolo nel suo gesto di ironica disperazione.

Risi. E rise anche lui.

Mi guardò con gli occhi increspati dal riso: “Con te non ho molto potere… fuori dal campo!”.

Già.

Era stranissimo. Fino al momento in cui Kojiro si rapportava a me come capitano su quell’erba consumata io lo rispettavo profondamente, quasi lo temevo. Poi, usciti dal rettangolo effimero, tutto si dissolveva, indipendentemente da quello che aveva da dirmi, per me tornava il mio amico e come tale mi relazionavo a lui.

Smisi di colpo di ridere.

“Perché ti sei preoccupato?”.

Tornò serio anche lui.

“L’allenatore mi ha detto che sei così… così scazzato da quando sei tornato da Hokkaido…”.

Finsi di non cogliere.

 

 

“Va bene, ragazzi! Allora… se Ailing e Hama si mettono al centro, voglio te a sinistra e voi due sullo sfondo! Dai, muovetevi!”.

Bene. Mi sentivo falsamente tranquilla. Tutto era tornato alla normalità. Hori che gridava cosa fare a noi, i suoi “bambini”, Mizuki nera per avere di nuovo una parte idiota, Hiroyuki quasi stucchevole nella sua disponibilità.

Un piccolo mondo di attori strampalati che si ricostituiva solo ora che io ero tornata.

Non sapendo vivere la realtà, io potevo solo sopravvivere nell’illusoria finzione della recitazione.

Dissi due battute in fretta, senza lasciare le giuste pause, né curarmi del mio compagno che cercava di dare il massimo.

“Bene… io non ho più tempo per oggi… sono tornata da poco e devo sistemare ancora un paio di cose”, dissi.

E se fossi stata un’altra, Hori mi avrebbe cacciata dalla compagnia, avrebbe gridato e offeso. Invece dovette accettare rassegnato.

“Hori-san… -sentii Hiroyuki alle mie spalle- posso?..”.

Mi immaginai l’espressione sconfortata di Hori mentre Hiroyuki mi inseguiva trottando.

Uscimmo all’aperto, il sole mi colpì con dolore lo sguardo, mi riparai dietro l’ombra delle mie dita incerte.

“Allora? mi chiese Hiroyuki- Come è andata?”

“A modo suo… è stato tutto piuttosto bello…”, gli risposi in fretta, cercando disperatamente di non tornare con la mente, con l’anima a quel giorno.

Ma ormai era tardi.

“Hiro, senti… sono di fretta… se vuoi prendiamo un caffè insieme un giorno di questi dopo le prove, ok?”

“O…ok… come vuoi. Ti lascio andare…”.

Lo salutai con la mano, in fretta, correndo verso un altro luogo per fuggire ai ricordi che di nuovo sembravano reclamare un posto dentro di me.

 

 

“Non so… ho la testa da un’altra parte…”.

Parlavo mentre Kojiro si toglieva la tuta umida dell’allenamento.

“Mm, mm…”, mugugnò.

“Kojiro? avrei voluto mantenere un tono di distacco insensibile… lo avrei voluto davvero, ma non mi fu possibile- come sta Ailing?”.

Io lo so… lo so che lui era l’ultima persona a cui avrei dovuto fare una domanda del genere, ma mi sembrava ormai il solo modo per non continuare a torturare la mia mente rifiutando e desiderando semplicemente lei.

“Non lo so”.

Era sincero.

“Non vi siete sentiti?”

“Beh… -vidi il suo sguardo di solito fiero e assoluto piegarsi un po’ di fronte alla forza dei suoi sentimenti- non ancora…”

“Perché sei tornato solo oggi?”

“Sono andato a trovare mia madre…”

“E Misaki?”

“È tornato oggi con me…”

“Siete rimasti insieme?”

“No. È passato a riprendermi… gli ho lasciato la macchina per tornare da Hokkaido e lui è venuto a prendermi per portarmi qui…”.

Non aveva molto senso.

Kojiro che invece di tornare immediatamente a Tokyo se ne andava da sua madre e Misaki che rimaneva a Hokkaido per molto più tempo del previsto.

E in tutto questo oceano di assurdità, Ailing sembrava non trovare posto.

 

 

Mettendo piede in palestra, con il fiato corto, rotto dalla malinconia più che dalla corsa, improvvisamente mi venne in mente Wakashimazu.

L’ultimo saluto alla stazione e per me doveva essere un punto fermo. Fine.

Invece mi tornò in mente. O, forse, semplicemente, continuò ad essere da qualche parte nel luogo più soffocato della mia anima.

Non potevo odiarlo e lo avrei voluto con tutta me stessa.

Non riuscivo a non pensare, a non ricordare il suo sguardo sofferente per me, il suo sorriso leggero, sussurrato mentre inghiottivo la soba appiccicosa della stazione.

A me mancava quel ragazzo. Io non so dire per quale maledetta ragione avrei voluto averlo accanto, sentire di nuovo quella mano calda stringere la mia… non avendo la forza di rifiutarne il ricordo, di detestarlo, io avevo scelto di dimenticarmi di lui, di non incontrarlo mai più.

 

Mi guardavo in giro assente, immersa in emozioni che non potevo accettare e mi persi per un istante ad osservare le due ragazze davanti a me. Il mio allenatore le incitava, ora l’una, ora l’altra.

Poi sarebbe toccata a me. Qui non c’era Hori, a sgridarmi proprio perché ero la sua bambina più passionale sul palco; né Mizuki a sputarmi il suo disprezzo invidioso.

C’era solo il quadrato freddo. Sembrava chiamarmi. Con la sua nenia violenta e sibillina, chiamava le mie mani, il mio corpo.

Sfilai in fretta la felpa: “Posso?”, domandai scivolando tra le corde.

“Ailing!”, fu un’esclamazione ibrida quella di Shibuya.

Il mio allenatore sembrava stupito nel vedermi e insieme seccato dalla mia sfacciataggine.

Ma ormai una delle ragazze sul ring mi stava già porgendo i suoi guantoni: “Tieni senpai”.

Li afferrai.

E ora andavo a incominciare.

 

 

“Dove posso trovarla?”

“Chi?”.

Kojiro era strano. Non capivo se fingeva di non capire per tenermi distante da lei o se semplicemente non avesse prestato attenzione.

“Ailing”, dissi, lapidario.

“Dove vive”

“Ma io non lo so, dove vive”.

Stavo diventando nervoso.

“Allora non puoi trovarla”.

Si buttò la sacca sulle spalle e mi lasciò solo, senza nessun altra parola.

 

 

Scesi dal ring un po’ barcollante. Niente di che la kohai con cui mi ero battuta, ma avevo talmente tanta rabbia nel sangue da averle fatto davvero male. Così male che Shibuya mi aveva scaraventata per terra con un pugno nudo. Mi aveva colpita sotto il mento, facendomi rimbombare il cervello in bocca. Punizione per la mia mancanza di controllo.

Tastandomi il viso mi diressi verso la porta.

“Ailing! mi gridò il coatch- Ti voglio qui domani mattina alle sette… se non recuperi puoi scordarti il torneo dei pesi piuma!”.

Non risposi nulla e continuai a camminare verso l’uscita.

“Hai capito?”, mi gridò ancora.

Silenzio.

“Hai capito?”

“Ho capito” e uscii.

 

“Taka!”.

Mi si inondò il cuore di una serenità splendida, semplice gioia di trovarsi di nuovo.

“Taro”, dissi, ma ormai ero già nelle sue braccia dolcissime.

“Sapevo di trovarti qui”, mi disse scombinandomi i capelli mentre mi scioglievo dalla sua stretta.

Sorrisi.

“Sei tornato…”.

 

Il cuore sembrava colmato. Stando seduta su quel divano blu, nella casa tiepida di Taro, sembravo non avere più domande.

Mi mise davanti la mia tazza antica, gialla del colore del sole.

“Allora? Hai già ripreso gli allenamenti?”

“Mm… già… Shibuya mi ha detto quello che pensava della mia svogliatezza…”, dissi indicandomi il mento.

“Non cambia mai niente, in fondo…”.

Avvicinai le labbra al the: vaniglia. Taro detestava quell’aroma, eppure non c’era stata una sola volta in cui non avessi trovato quel the nella sua casa.

Sempre presente. Lo teneva per me.

“Come è andata?”.

Lo vidi lottare con il suo mondo di sovrastrutture e gentilezza. Lottare con rabbia, ma, alla fine, le lacrime vinsero.

Lo guardai sentendo un dolore insostenibile.

“Taro…”.

Lo abbracciai.

“Mi dispiace… -iniziò in sussurro per finire in grido, un grido unico di dolore e rancore- mi dispiace! Mi faccio schifo,… per averti lasciata sola per non essere ritornato subito… per avere accettato di stare dalla parte della Matsuyama per non essere criticato o giudicato… Taka, mi dispiace… mi faccio schifo… schifo…”.

Strinsi di più le braccia, anche se era solo un’illusione, mi parve di poter contenere in me tutte le ossa adulte, forti, di Taro.

“Non c’è problema… io ho capito… mi ha aiutata Wakashimazu…”.

Alle mie parole alzò i suoi occhi rossi verso di me: “Wakashimazu… Kojiro lo rivedeva oggi… chissà se è riuscito a non odiarlo…”

“Che vuoi dire?”

“Lo sai… non credere che Kojiro sia così stupido da non essersene accorto…”

“Che penso a Wakashimazu?”

“Questo non può saperlo… ma hai cercato la mano di Wakashimazu e rifiutato la sua…”

“Mi dispiace…”.

Ero sincera.

“Lo so… vuoi rivederlo? stavo per parlare ma mi chiuse le labbra con la mano- Sì… lui. Vuoi rivederlo?”

“No”

“Allora ti troverà lui”.

 

Capitolo sesto

Capitolo quinto

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