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 SPECIALE

No alla guerra preventiva!

Documento sulla situazione internazionale

Direzione Nazionale Sinistra Giovanile
25 febbraio 2003

"L’uso della forza si misura con i principi e le finalità che lo guidano, con la certezza che solo l’ONU può assumere la titolarità di questo strumento, commisurato alle crisi e responsabile delle possibili conseguenze."
(documento congressuale Sg, Chiusi, ottobre 2001)

Dopo l’11 settembre 2001 l’intera comunità internazionale aveva condiviso l’assunzione della lotta al terrorismo internazionale quale priorità da perseguire in modo congiunto, con la formazione di alleanze ampie e plurali, e soprattutto nell’ambito e con il sostegno delle Nazioni Unite. L’intervento militare in Afghanistan, con il suo drammatico bagaglio di perdite umane, era stato valutato proprio un anno fa necessario nell’ambito di tale impegno.

La strategia di contrasto al terrorismo internazionale non può però vivere solo nella sua dimensione militare: se abbiamo ritenuto, e continuiamo a ritenere, che l’uso della forza sia -a determinate condizioni- legittimo e necessario, mai abbiamo pensato che questo potesse da solo risolvere alcuna situazione di crisi internazionale. Il principio fondamentale del primato della politica sulla logica militare implica che l’uso della forza sia non solo commisurato e guidato, ma soprattutto inserito in una strategia di più ampia portata.

Ciò che un anno fa si delineava come un’articolazione di percorsi volti a contrastare e a prevenire attività di terrore a livello internazionale è andata perdendo i suoi tratti non militari – i più fondamentali per rendere quella strategia davvero efficace:

  • L’Afghanistan, "liberato" dal regime dei taliban, appare ben lontano dal vivere una stagione di stabilità politica, ripristino dei diritti umani, ricostruzione economica, e le condizioni di vita dei suoi abitanti restano per molti versi inaccettabili;
  • il lavoro di "intelligence" appare sempre più rivolto alla ricerca di nuove figure di nemico che all’effettivo ritrovamento di chi un anno fa si voleva "vivo o morto";
  • l’impegno ad affiancare al contrasto diretto la prevenzione, a "prosciugare le paludi dell’odio", e quindi a sviluppare scenari di maggiore giustizia sociale ed a risolvere con tempestività ed equità i numerosi focolai di conflitto presenti nel mondo (in particolare quello Mediorientale), è andato scomparendo non solo dall’iniziativa ma anche dalla retorica di gran parte degli attori politici rilevanti;
  • l’inedita e fondamentale collaborazione avvenuta all’interno della coalizione contro il terrorismo internazionale viene sempre più spesso e con maggior forza messa in discussione dall’irresponsabile ricorso a categorie concettuali quali lo "scontro di civiltà" e la "guerra del bene contro il male", che rischia di creare fratture insanabili ed infondate tra il mondo arabo-musulmano e l’occidente.

Quello che poteva profilarsi come un "nuovo corso" nella politica estera americana dopo l’11 settembre, la fine dell’isolazionismo "texano" ed un rinnovato impegno nel concertare iniziative multilaterali, oggi ha definitivamente ceduto il passo ad una dottrina di unilateralismo radicale, incurante degli equilibri globali e dei principi della legalità internazionale, irriverente rispetto agli organismi sovranazionali. L’esplicitarsi di una contrapposizione con l’Unione Europea, le continue affermazioni di autosufficienza rispetto alle Nazioni Unite, e la rinuncia alla ricerca di alleanze fanno pensare ad un nuovo isolazionismo americano, fondato sull’ossessione della difesa nazionale, su diffusi sentimenti di paura nella società americana, e sulla spregiudicatezza della supremazia economica ma soprattutto militare.

"Lo sviluppo e la prosperità future dell’Iraq e della sua popolazione verrebbero notevolmente agevolate dall’instaurazione della democrazia e dello Stato di diritto nel paese, dalla cooperazione regionale e dal miglioramento dei rapporti con la comunità internazionale…"
(Risoluzione del Parlamento Europeo sulla situazione in Iraq dieci anni dopo la guerra del Golfo, novembre 2001)

Saddam Hussein è Presidente della Repubblica Irachena dal 1979. Alle ultime elezioni, nel 1995, ha ottenuto il 99,9% dei voti. Possono candidarsi alle elezioni solo membri del partito Baath. Sia l’ONU che l’Unione Europea hanno ripetutamente condannato le violazioni di diritti umani in Iraq.

Di fronte ad un regime dispotico, responsabile di gravi e massicce violazioni dei diritti umani ed indifferente alle risoluzioni delle Nazioni Unite, è un preciso dovere della comunità internazionale ed un atto di responsabilità, interrogarsi sulle modalità di intervento utili a prevenire o risolvere conflitti, ripristinare o instaurare le condizioni per la democrazia, tutelare i diritti umani, garantire un futuro a questo mondo globale.

Negli anni passati abbiamo avuto diverse occasioni ed altrettanti motivi per confrontarci con il principio del dovere di ingerenza e con la necessità di costruire una reale governance globale:

  • un assetto di regole certe e condivise che introducano il primato della politica nel disordine della globalizzazione economica e finanziaria;
  • un sistema di rappresentanza democratico e trasparente che colmi il deficit di fiducia tra i popoli del mondo e le istituzioni sovranazionali;
  • un’effettiva cessione di sovranità dagli Stati ad organizzazioni regionali e sovranazionali riformate, per rendere efficaci ed operativi gli strumenti della governance globale;
  • un progressivo affermarsi del principio e della pratica del multilateralismo, per superare la logica sia degli accordi bilaterali (le cui condizioni vengono facilmente dettate dall’interlocutore più forte), sia dell’unilateralismo.

Una radicale riforma delle istituzioni sovranazionali, a partire da quelle economiche e finanziarie e dalle Nazioni Unite, è assolutamente prioritaria per dare alle relazioni internazionali, sempre più centrali in un mondo globale, un quadro normativo certo, equo ed universalmente riconosciuto, e per garantire certezza di legalità e legittimità agli attori politici ed istituzionali che entro tale quadro agiscono. Le organizzazioni sovranazionali di carattere regionale, quale l’Unione Europea, possono e devono giocare un ruolo fondamentale nel tracciare un nuovo scenario di governance globale. L’esperienza difficile del coniugare integrazione politica ed economica e valorizzazione delle differenze identitarie e culturali, del superare le strettoie delle crisi di rappresentanza, ma soprattutto il sogno (divenuto progetto e poi realtà) di costruire un’Europa più unita ed in pace, danno all’esperienza europea la forza e l’autorevolezza per assumere un peso determinante nel ridisegnare nuovi assetti globali.

Le attuali situazioni di crisi internazionale, dal Medio Oriente all’Iraq, passando per tutti i luoghi dove, nel mondo, esistono condizioni di conflitto aperto o latente, violazione di diritti umani, guerra civile, distruzione di risorse indispensabili per il futuro del pianeta, mostrano come sia sempre più urgente la ricerca delle modalità di intervento in queste aree. Il sistema delle Nazioni Unite resta per tutta la comunità internazionale l’unico ed il migliore paradigma ad oggi esistente per regolare le controversie internazionali ed intervenire su quelle locali, in un mondo dove la distinzione tra il locale ed il globale appare sempre più sfumata e la necessità di definire regole e priorità su scala globale sempre più evidente.

Per questo crediamo che, in Iraq come ovunque nel mondo, sia necessario affermare la centralità del ruolo delle Nazioni Unite, farne rispettare la legittimità e farne applicare le risoluzioni. La critica al processo di globalizzazione, la consapevolezza dei limiti delle istituzioni internazionali, il ricorso al principio di sovranità nazionale non possono in alcun caso ed in alcuna parte del mondo costituire un alibi o dare giustificazioni per il rifiuto di un governo a rispettare le risoluzioni delle Nazioni Unite.

"Occupare l'Iraq richiederebbe un impegno di anni -forse perfino dieci- che renderebbe Washington agli occhi del mondo islamico una potenza d'occupazione, odiata dall'ostilità dei locali. Insomma, invadere l'Iraq e rimuovere Saddam equivale ad una vittoria di Pirro dai costi umani e politici incalcolabili."
(George Bush, Time, 1998)

La disponibilità del governo iracheno ad accogliere gli ispettori dell’ONU, ed il fatto stesso che il loro lavoro non abbia incontrato in questi mesi ostacoli rilevanti, induce a ritenere possibile che l’obiettivo del disarmo iracheno venga raggiunto attraverso i canali della politica e della diplomazia.

Un attacco militare all’Iraq non é necessario, è controproducente, e pericoloso.

  • Non è necessario perché non risponde che ad un pericolo supposto. L’amministrazione Bush presenta la necessità di un intervento militare in Iraq nel quadro della lotta al terrorismo internazionale. Se si esclude il ricorso strumentale al diffuso sentimento di paura del popolo americano, non si vedono elementi che leghino un intervento militare in Iraq alla strategia di contrasto al terrorismo internazionale. La questione del disarmo, ed in particolare dell’eliminazione di armi di distruzione di massa, non solo andrebbe affrontata in termini più globali, ma va in ogni caso perseguita attraverso il lavoro degli ispettori delle Nazioni Unite. E’ evidente che le motivazioni dell’attacco sono legate più ad elementi di politica interna e di interessi economici e geopolitici statunitensi che alla lotta al terrorismo internazionale.
  • Controproducente perché gli esiti di un intervento militare in Iraq sono difficilmente prevedibili, e probabilmente risulterebbero in una destabilizzazione rispetto sia all’assetto futuro del paese, sia agli equilibri geopolitici della regione:

  1. nell’eventualità di una "rimozione dal potere" di Saddam Hussein, si configurerebbe una situazione di protettorato statunitense sull’Iraq, un vero e proprio ritorno agli anni del colonialismo;
  2. un intervento mirato all’indebolimento dell’Iraq modificherebbe gli equilibri politici della regione in modo sostanziale, assegnando un peso maggiore all’Iran, aprendo il "caso Kurdo" con la Turchia, e di fatto ponendo le condizioni per uno smembramento ed una balcanizzazione del territorio iracheno (senza per questo risolvere la questione della nascita del Kurdistan, ma anzi provocando, con tutta probabilità, scontri tra kurdi iracheni e kurdi turchi ed azioni "preventive" della Turchia in territorio iracheno);
  3. l’antiamericanismo presente, spesso in modo latente, nell’opinione pubblica del mondo arabo troverebbe chiara ed univoca espressione (anche in assenza di reale sostegno e solidarietà con il regime di Baghdad), destabilizzando i governi dei paesi arabi che pure hanno finora costituito parte importante della coalizione internazionale contro il terrorismo;
  4. in mancanza di un deciso intervento della comunità internazionale per dare soluzione al conflitto israelo-palestinese secondo le risoluzioni delle Nazioni Unite, con la creazione di uno Stato Palestinese e la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed i paesi arabi, qualsiasi intervento militare nella regione innescherebbe reazioni di odio difficilmente governabili.

  • Pericoloso perché il ricorso alla categoria della guerra preventiva costituisce un precedente nell’ambito delle relazioni internazionali che apre la strada alla possibilità di legittimare un intervento militare sul sospetto anziché sul principio di autodifesa, allargando lo spettro dei potenziali conflitti all’infinito e prospettando scenari di guerra permanente.

L’intervento militare unilaterale che gli Stati Uniti hanno annunciato e preparato ha inoltre già portato il grave effetto di indebolire le Nazioni Unite: qualora infatti l’attacco avvenisse in assenza di una ulteriore risoluzione dell’ONU rispetto alla 1441, esso non troverebbe alcun elemento di legittimità nel quadro del diritto internazionale; nel casi in cui, invece, gli Stati Uniti ottenessero una nuova risoluzione volta a legittimare l’intervento, superando l’attuale contrarietà manifestata da diversi partner europei ed in particolare da tre dei cinque membri con diritto di veto del Consiglio di Sicurezza, il rischio di far apparire gli organismi sovranazionali soggetti a possibili "usi privatistici" sarebbe alto. L’atteggiamento adottato dall’amministrazione Bush indebolisce le Nazioni Unite, portando a delegittimarle sul piano formale nel caso agisca senza il suo consenso, sul piano sostanziale nel caso legga l’esito delle decisioni come una propria vittoria.

Ciò di cui la comunità internazionale ha bisogno è invece, oggi più che mai, un rafforzamento sia formale che sostanziale delle istituzioni sovranazionali, da quelle regionali alle Nazioni Unite.

Più Europa, più ONU.

  • Per questo valutiamo positivamente il fatto che, dopo l’esplicitarsi in modo netto delle differenti posizioni dei governi europei, l’ultimo Consiglio Europeo del 17 febbraio sia giunto a conclusioni condivise. Il primo dato politicamente rilevante è che l’Unione Europea sia riuscita a trovare una posizione comune. Inoltre, pur presentando il documento alcuni elementi di ambiguità – propri di una prima soluzione di compromesso tra posizioni differenti -, esso contiene in modo esplicito il riferimento alle Nazioni Unite quale "centro dell’ordine internazionale", riconosce al Consiglio di Sicurezza la "piena responsabilità di gestire il disarmo dell’Iraq", garantendogli il "pieno sostegno" dell’Unione Europea, ed afferma la volontà di perseguire gli obiettivi della risoluzione 1441 "pacificamente".
  • Per questo, qualunque sia l’esito delle decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, noi non potremmo che ritenerle legittime nel quadro del diritto internazionale. Qualora si arrivasse, nella situazione presente, ad una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzi un intervento militare in Iraq, però, continueremo a ritenere sbagliata questa scelta. Senza mettere in discussione la legittimità delle istituzioni internazionali e quindi delle loro decisioni, senza offrire il fianco ai detrattori delle Nazioni Unite, noi saremo contro questa guerra con o senza l’avvallo dell’ONU.

Per tutte queste ragioni abbiamo promosso, insieme a tutte le associazioni e le forze politiche e sociali che si ritrovano nel comitato "Fermiamo la guerra", la grande manifestazione del 15 febbraio, che ha fatto emergere con chiarezza, in Italia ed in tanti altri Paesi del mondo, una diffusa volontà di scongiurare in ogni modo un intervento militare in Iraq. E’ forse la prima volta che una mobilitazione dell’opinione pubblica avviene a livello realmente globale, con la richiesta esplicita e netta di milioni di persone di essere rappresentati fedelmente da chi li governa. Chi, come il governo italiano, rifiuta di vedere l’importanza di un tale movimento d'opinione e di dargli rappresentanza politica non solo compie un gesto di miopia politica, ma indebolisce la fiducia di tanti cittadini nelle istituzioni democratiche.

Il nostro obiettivo è fermare la guerra.

Per questo continueremo a mobilitarci e ad esercitare pressione politica come individui, come organizzazione e attraverso l’ampio e plurale comitato "Fermiamo la guerra" perché:

  • Le Nazioni Unite:

  1. non approvino alcuna risoluzione che legittimi operazioni militari contro l’Iraq nella situazione presente;
  2. garantiscano agli ispettori tutto il tempo necessario affinché completino il proprio lavoro;
  3. definiscano in relazione a questo le tappe e le modalità per la fine dell’embargo.

  • L’Unione Europea continui ad esprimersi unitariamente ed operare nelle sedi opportune per:

  1. scongiurare un intervento militare in Iraq;
  2. promuovere un reale e coerente impegno politico e diplomatico della comunità internazionale volto a far rispettare la risoluzione 1441 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite;
  3. contribuire a creare le condizioni per il rispetto dei diritti umani e per la democrazia in Iraq;
  4. una immediata e giusta soluzione al conflitto israelo-palestinese, con la creazione in tempi rapidi di uno stato palestinese e la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi.

  • I governi dei Paesi europei, in particolare quelli che siedono nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, agiscano in modo coerente con le conclusioni del Consiglio Europeo del 17 febbraio che hanno sottoscritto.

  • Il governo italiano:

  1. non fornisca alcun supporto politico, diplomatico, operativo e logistico a qualunque azione che configuri un coinvolgimento dell’Italia in direzione della guerra;
  2. si impegni concretamente a dar seguito alle indicazioni contenute nelle conclusioni del Consiglio Europeo del 17 febbraio, a concordare in sede europea ogni sua posizione futura rispetto alla crisi irachena, e a sottoporre alla discussione e al voto del Parlamento qualsiasi atto a questo relativo.

  • Il Parlamento, le forze politiche ed i singoli parlamentari colgano la responsabilità di rappresentare la volontà della grande maggioranza del Paese.

  • Il Partito Socialista Europeo e l’Internazionale Socialista:

  1. adottino una posizione contraria ad operazioni militari in Iraq nella situazione attuale;
  2. accelerino una riflessione interna sulla funzione delle forze politiche internazionali;
  3. svolgano un ruolo di maggiore coordinamento tra i partiti nazionali che ne fanno parte.

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Ultimo aggiornamento: 19 agosto 2003

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