Oltre che
nell'Ovadese, esistono testimonianze dello sfruttamento di terrazzi
auriferi alluvionali in altre parti dell'alto bacino padano, con la
differenza che queste, trovandosi in zone meno temperate e più soggette
alle grandi glaciazioni, non sono direttamente collegate con i giacimenti
auriferi primari, ma si trovano a valle di depositi morenici e distano
talora centinaia di chilometri dagli stessi giacimenti. Se ne
trovano, o sono segnalati, lungo tutto il fronte esterno dell'Anfiteatro
Morenico di Ivrea, lungo il Cervo nella parte meridionale della città di
Biella, lungo la Sesia nei pressi di Gattinara, lungo l'Agogna nei pressi
di Gozzano, lungo il Ticino nei pressi di Varallo Pombia, di Oleggio e di
Cameri, lungo l'Adda nei pressi di Solza.
I depositi
dell'Anfiteatro Morenico di Ivrea sono gli unici dei quali abbiamo qualche
testimonianza storica, ma, contrariamente alla opinione diffusa e divulgata
da molte fonti, compresa la Soprintendenza Archeologica del Piemonte, le
miniere d'oro dei Salassi, citate da Strabone,
non hanno nulla a che vedere con quelle della Bessa, le quali sono indicate
dallo stesso Strabone e da Plinio come miniere di
Ictumuli, con riferimento al vicino villaggio
(oggi S. Secondo di Salussola) e non come appartenenti ad una presunta
popolazione dei Vittimuli, della quale il dottor
Pipino ha recentemente dimostrato l'inesistenza (vedi Pubblicazioni).
Le miniere
sfruttate dai Salassi, si trovavano sul fronte meridionale dell'anfiteatro
morenico di Ivrea, dove si possono osservare discreti resti ai lati di due
fiumi dal nome Dora: nei comuni di Mazzé e di Villareggia, ai due lati
della Dora Baltea, e nei comuni di Borgo d'Ale, Alice e Cavaglià ai lati
della Dora Morta. Le miniere della Bessa, si trovano invece a lato
del cordone morenico orientale dell'Anfiteatro, in area dove,
contrariamente a quanto affermato da funzionari della Soprintendenza, non
risulta la presenza dei Salassi: Plinio ci dice che le miniere
appartenevano ai Romani e che un antico senatoconsulto proibiva ai
pubblicani (concessionari) di utilizzarvi più di 5.000 uomini.
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Le
precise testimonianze dei due autori classici, inquadrate nelle vicende
storiche del tempo, ci consentono di datare i lavori. I Salassi
sfruttavano le loro miniere utilizzando le acque della Dora, deviandole
dal loro corso, cosa che provocava frequenti liti con gli agricoltori
della pianura e che nel 143 a.C. diede pretesto ai Romani per intervenire
e impossessarsi delle stesse miniere, che sfruttarono per circa 40 anni
di contrastato possesso: i lavori ebbero termine intorno al 100 a.C. con
la conquista del territorio meridionale dei Salassi e la costruzione
della colonia di Eporedia (Ivrea). Nel
contempo gli stessi Romani avevano iniziato lo sfruttamento nella zona
della Bessa, i cui giacimenti erano probabilmente già noti e parzialmente
sfruttati dalle popolazioni locali (libiche-vercellesi): il ritrovamento
di monete romane e di reperti ceramici attestano una discreta
frequentazione fra il II e il I secolo a.C. L'abbandono delle
coltivazioni minerarie, nella Bessa come in altre parti della Gallia
Cisalpina, avvenne nella seconda metà del I sec. a.C. per il pressoché
totale esaurimento dei giacimenti e, soprattutto, in ottemperanza alle
leggi che interdivano le coltivazioni minerarie
in Italia, della quale la regione era entrata ufficialmente a far parte.
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L'anfiteatro
morenico di Ivrea, con andamento schematico del vallo romano anti-Salassi
e ubicazione dei cumuli di ciottoli residui delle aurifodinae
(da PIPINO, 2000)
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Per gli altri
depositi padani non abbiamo testimonianze storiche, cosa che può far
pensare a lavori preromani o risalenti a precoci occupazioni militari
romane, analogamente a quanto osservato per l'Ovadese.
I cumuli della
Bessa, che sono quelli più noti, coprono una superficie di circa 7 Km
quadrati; sono più alti e ordinati degli altri, probabilmente perché
formati in tempi più recenti, sotto il diretto controllo romano, e sono
quindi più evidenti. Alcuni lembi residui del terrazzo alluvionale
originale evidenziano che questo era formato da strati sabbioso ghiaioso
poco o niente auriferi, per uno spessore totale variabile da 3 a 10 metri,
sovrapposti ad uno strato grossolano discretamente aurifero, potente in
media due metri: localmente vi si possono ancora osservare pozzi inclinati
che attraversano la parte sterile e proseguono con piccole gallerie di
assaggio nello stato grossolano di base.
A lato del
terrazzo ricoperto dai cumuli vi sono inoltre terrazzi inferiori,
degradanti verso gli attuali corsi dei torrenti Viona,
Elvo e Olobbia, costituiti da materiale
sabbioso-ghiaioso residuo dei lavaggi e, all'interno di questi, numerosi
canali paralleli, interrati, con sponde costituite da ciottoli giustapposti
a secco. Alcuni di questi sono stati oggetto di scavi archeologici
perché si ritenevano canali di lavaggio ma, come ha dimostrato il dottor
Pipino (vedi pubblicazione “L'oro della Bessa”), servivano soltanto a
consentire il passaggio della torbida sabbiosa attraverso gli enormi mucchi
di sterile che si andavano ammucchiando durante i lavaggi.
Il
sistema di lavaggio è ovviamente quello già indicato per le aurifodinae dell'Ovadese e, avendo il sedimento sterile
un maggiore spessore, non è escluso che in qualche caso si ricorresse anche
al sistema che Plinio chiama “ruina montium”,
consistente nello scavo di gallerie e nell'abbattimento del materiale
sovrastante per mezzo di improvvise ondate, sistema utilizzato ancora
recentemente nelle Americhe col nome di hushing o
booming.
Grazie alla
loro riconosciuta importanza archeologica, le discariche della Bessa sono
andate a costituire una Riserva Naturale Speciale al cui interno sono stati
allestiti numerosi pannelli informativi illustrati, evidente frutto di
ingenti risorse umane ed economiche. Non sempre però i pannelli fanno
corretta opera di informazione, al contrario danno talora notizie ed
interpretazioni sbagliate o prive di fondamento. Viene ad esempio
sostenuto, con tanto di stratigrafia riccamente illustrata, che l'oro era
prevalentemente contenuto negli strati sabbiosi superficiali e che lo
strato grossolano di base era sterile, contrariamente a tutte le evidenze e
a quanto si conosce dalla letteratura.
Anche per il
sistema di lavorazione vengono fornite informazioni tanto errate che
rasentano il grottesco: “Il deposito aurifero, separato dai ciottoli più
pesanti (che venivano accumulati in mucchi a perdita d'occhio sopra le
parti già esaurite) veniva portato in piccoli contenitori (ceste, piccole
zattere sui canali) verso il terrazzo alto dell'Elvo; qui veniva lavato
facendolo scorrere su canali lignei a riseghe, per separare il deposito
pesante, da setacciare”. E' evidente che qui si confonde la coltivazione
industriale dei terrazzi auriferi con la pratica artigianale di "pesca
dell'oro", che riguarda limitatissime manifestazione sciolte contenute
nell'alveo dei torrenti. Ridicola è anche l'interpretazione che si da
ad un doppio canale di sgombero dello sterile, considerato, ed evidenziato
con scavi, come se fosse un canale in elevato di adduzione delle acque, le
cui sponde sono fatte di due file di ciottoli a secco intercalate da pochi
decimetri di materiale sciolto più fine: è facile capire, per chiunque
abbia un po’ di discernimento, che un canale così fatto non avrebbe potuto
trattenere acqua e sarebbe franato al primo impiego.
False notizie
vengono abbondantemente diffuse anche da un Ecomuseo recentemente istituito
in zona, in località Vermogno, dove avrebbe invece dovuto essere allestita
una sezione locale del Museo Storico dell'Oro Italiano.
Il dottor Pipino
aveva infatti sempre manifestato un grande interesse per la Bessa e, nel
1985 e nel 1986, vi aveva organizzato, con la collaborazione dell'esperto
locale Giacomo Calleri, manifestazioni che ebbero
un grande risalto e contribuirono a far conoscere la località in Italia e
all'estero (vedi, nell'Archivio del Museo, Documenti Bessa n. 14).
Nel 1989 aveva allestito a Biella una mostra specifica sull'oro della
Bessa, che ebbe molto successo (v. La Stampa, 5 aprile 1989), e aveva
avviato contatti con il Sindaco d Zubiena per l'allestimento permanente di
un Museo a Vergogno: i contatti si concretizzarono con un preciso progetto,
che prevedeva l'allestimento di idonea struttura e il trasferimento in loco
del materiale di interesse locale, ma poi, dopo un lungo silenzio da parte
dell'Amministrazione comunale, questa affidò l'incarico ad una associazione
locale, provocando il giusto risentimento del dottor Pipino, tenuto
all'oscuro di tutto (v. Il Biellese, 20 nov.
1998, e L'Eco di Biella, 23 nov. 1998).
Nasceva così,
con il concorso di diversi enti e l'esborso di ingenti risorse di denaro
pubblico, una locale cellula dell'Ecomuseo del Biellese, intitolata “Museo
dell'Oro e della Bessa”, la quale, secondo i principi degli ecomusei,
avrebbe dovuto raccogliere e rappresentare la tradizione storica locale,
basata ovviamente sulla più fedele aderenza alla realtà. L'obbiettivo
non è stato però centrato perché, oltre alla mancanza di tangibili
testimonianze (che invece abbondano al Museo Storico dell'Oro Italiano), si
sprecano disinformazioni e divulgazione di false notizie.
Anzitutto,
nell'illustrazione dei motivi e dei fatti all'origine della costituzione,
viene pervicacemente omesso ogni riferimento al dottor Pipino e si sostiene
che tutto sarebbe nato per volontà della locale associazione, a partire dal
1980: a testimonianza vengono proposti alcuni articoli di giornali , privi
però di data, articoli che, come verificabile nella raccolta del Museo
Storico risalgono al 1986 e testimoniano lo sviluppo assunto localmente
dall'attività amatoriale di “pesca dell'oro” a seguito delle manifestazioni
organizzate dal dottor Pipino.
La maggior
parte dello spazio della piccola struttura viene poi riservato ad altre
località aurifere italiane ed estere, con un incredibile ingombro di
improbabili riproduzioni moderne di antichi strumenti. Viene inoltre
data molta enfasi ad una raccolta di campioni di polvere d'oro che si
dicono provenienti da diversi fiumi della Val Padana, mentre è notorio che
la maggior parte di essi è stata raccolta negli impianti di cave di sabbia,
a seguito delle indicazioni pubblicate nel 1984 dal dottor Pipino: ma se a
quel tempo era possibile collegare l'oro recuperato negli impianti ai
vicini corsi d'acqua, in seguito la cosa non è più credibile, data l'avvenuta
proibizione di cavare nei fiumi e, quindi, la provenienza del materiale da
trattare anche da luoghi molto distanti dagli impianti stessi.
Notizie
storiche assolutamente false e prive di fondamento vengono ancora divulgate
attraverso accurati e costosi pannelli, oltre che via Internet. Ne
proponiamo qualche esempio: “…Nell'anno 898…(concessione)…dell'imperatore
Arnolfo verso il vescovo di Padova Vichingo per tutto l'oro che si trovava
nel suo episcopato”; “…i duchi di Milano nel 1519 vietarono la pesca
dell'oro nel Ticino senza l'apposita licenza rilasciata da loro stessi”;
“…Georg Bauer (Georgius
Agricola)..geologo, mineralogista, umanista e cultore di tecniche
metallurgiche e minerarie”; “…Nel 1855 una società Franco-Sarda ottenne la
concessione per l'estrazione dell'oro nell'Orba”.
Cosa dire di tutto questo? C'è
soltanto da rammaricarsi che venga sprecato tanto denaro pubblico per
diffondere notizie così manifestamente false e notare che per sapere
veramente qualcosa dell'Oro della Bessa occorre ancora recarsi al Museo
Storico dell'Oro Italiano, dove si trovano molti materiali originali
raccolti con passione e competenza senza alcun aggravio per le finanze
pubbliche.
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