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De Bello Gallico
Il De bello Gallico narra le campagne condotte da Cesare in Gallia tra gli anni
58 e 52: sette libri per sette anni di guerra. La prima campagna ebbe lo scopo
di arginare i movimenti migratori verso sud, prima degli Elvezi, poi dei Germani
di Ariovisto (l. I).
Sconfitti Elvezi e Germani, la guerra diventa ben presto offensiva: dapprima
contro i Belgi e i Nervi, popolazione della Gallia belgica (l. II), poi contro i
Veneti e gli Aquitani, con la conquista di tutti i territori che dal nord
scendono lungo la costa atlantica fino ai Pirenei (l. III).
Respinti i Téncteri e gli Usìpeti Cesare, giudicando completa la pacificazione
della Gallia, compie una rapida puntata oltre il Reno e insegue le popolazioni
germaniche che si rifugiano nelle foreste dell'interno; successivamente tenta
anche uno sbarco in Britannia, con scarsi risultati (l. IV).
Migliori successi Cesare in Britannia li ottiene l'anno dopo; ma intanto ha
inizio l'insurrezione gallica (l. V). La rivolta è favorita dai Tréviri,
popolazione germanica stanziata tra il Reno e la Mosa; Cesare compie un'altra
spedizione oltre il Reno, poi, tornato in Gallia, pone termine alla sollevazione
degli Eburoni (l. VI). Mentre Cesare è in Italia per seguire più da vicino le
pericolose vicende politiche che stanno svolgendosi a Roma, si svolge in Gallia
la più rivolta antiromana, campeggiata da Vercingetoríge, re degli Arveni. Dopo
duri scontri e alterne vicende, Cesare assedia infine l'avversario ad Alesia, lo
sconfigge e lo fa prigioniero (l. VII). La conquista della Gallia transalpina è
compiuta.
Gli avvenimenti degli ultimi due anni della guerra gallica (51 - 50) sono
narrati nell'VIII libro, composto da Aulo Irzio, generale dell'esercito di
Cesare: un'opera che collega gli avvenimenti della guerra gallica all'inizio
della guerra civile.
(Testo/Traduzione)
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Libro I
Libro II
Libro III
Libro IV
Libro V
Libro VI
Libro VII
Libro VIII
Libro IV Traduzione
1
L'inverno successivo, nell'anno di consolato di Cn. Pompeo e M. Crasso, gli
Usipeti e pure
i Tenteri, popoli germanici, con un gran numero di uomini oltrepassarono il
Reno, non
lontano dal mare in cui il fiume sfocia. Motivo della loro migrazione fu che,
tormentati
per molti anni dagli attacchi degli Svevi, si trovavano in difficoltà e non
potevano
coltivare i loro campi. Gli Svevi, tra tutti i Germani, sono il popolo più
numeroso ed
agguerrito in assoluto. Si dice che siano formati da cento tribù: ognuna
fornisce
annualmente mille soldati, che vengono portati a combattere fuori dai loro
territori contro
i popoli vicini. Chi è rimasto a casa, provvede a mantenere sé e gli altri;
l'anno seguente
si avvicendano: quest'ultimi vanno a combattere, i primi rimangono in patria.
Così non
tralasciano né l'agricoltura, né la teoria e la pratica delle armi. E non hanno
terreni
privati o divisi, nessuno può rimanere più di un anno nello stesso luogo per
praticare
l'agricoltura. Si nutrono poco di frumento, vivono soprattutto di latte e carne
ovina,
praticano molto la caccia. Il tipo di alimentazione, l'esercizio quotidiano e la
vita
libera che conducono (fin da piccoli, infatti, non sono sottoposti ad alcun
dovere o
disciplina e non fanno assolutamente. nulla contro la propria volontà)
accrescono le loro
forze e li rendono uomini dal fisico imponente. Sono abituati a lavarsi nei
fiumi e a
portare come vestito, in quelle regioni freddissime, solo delle pelli che,
piccole come
sono, lasciano scoperta gran parte del corpo.
2
Concedono libero accesso ai mercanti, più per aver modo di vendere il loro
bottino di
guerra che per desiderio di comprare prodotti d'importazione. Anzi, i Germani
non fanno uso
di puledri importati (al contrario dei Galli, che per essi hanno una vera
passione e li
acquistano a caro prezzo), ma sfruttano i cavalli della loro regione, piccoli e
sgraziati,
rendendoli con l'esercizio quotidiano robustissimi animali da fatica. Durante
gli scontri
di cavalleria spesso smontano da cavallo e combattono a piedi; hanno addestrato
a rimanere
sul posto i cavalli, presso i quali rapidamente riparano, se necessario; secondo
il loro
modo di vedere, non c'è niente di più vergognoso o inerte che usare la sella.
Così, per
quanto pochi siano, osano attaccare qualsiasi gruppo di cavalieri che montino su
sella, non
importa quanto numeroso. Non permettono assolutamente l'importazione del vino,
perché
ritengono che indebolisca la capacità di sopportare la fatica e che infiacchisca
gli animi.
3
Reputano vanto principale per la propria nazione che le regioni di confine, per
il tratto
più ampio possibile, siano disabitate: è segno che moltissimi popoli non sono in
grado di
resistere alla loro forza militare. A tal proposito corre voce che, in una zona
di confine
degli Svevi, le campagne siano spopolate per seicento miglia. Un'altra parte del
loro
territorio confina con gli Ubi, popolo un tempo numeroso e fiorente, per quanto
possano
esserlo i Germani. Gli Ubi sono un po' più civili rispetto alle altre genti
della loro
razza perché, vivendo lungo il Reno, sono visitati di frequente dai mercanti e,
per ragioni
di vicinanza, hanno assorbito i costumi dei Galli. Gli Svevi li avevano spesso
affrontati
in guerra, ma non erano riusciti a scacciarli dalle loro terre per via del loro
numero e
della loro importanza; tuttavia, li avevano costretti a versare tributi,
rendendoli molto
meno potenti e forti.
4
Nella stessa situazione si trovarono gli Usipeti e i Tenteri, già nominati, che
ressero per
parecchi anni agli assalti degli Svevi, ma alla fine vennero scacciati dai loro
territori
e, dopo aver vagato tre anni per molte regioni della Germania, giunsero al Reno,
nel paese
dei Menapi che possedevano campi, case e villaggi su entrambe le rive del fiume;
i Menapi,
atterriti dall'arrivo di una massa così numerosa, abbandonarono gli edifici
sull'altra
sponda del fiume e, disposti presidi al di qua del Reno, cercavano di impedire
il passaggio
ai Germani. Quest'ultimi, dopo tentativi d'ogni sorta, non potendo combattere
perché a
corto di navi, né riuscendo a passare di nascosto per la sorveglianza dei Menapi,
finsero
di rientrare in patria, ma dopo tre giorni di cammino tornarono indietro: in una
sola notte
la cavalleria coprì tutto il tragitto e piombò inattesa sugli ignari Menapi, che
erano
rientrati nei loro villaggi d'oltre Reno senza timore, perché i loro esploratori
avevano
confermato la partenza dei nemici. I Germani fecero strage dei Menapi e,
impadronitisi
delle loro navi, attraversarono il fiume prima che sull'altra sponda giungesse
notizia
dell'accaduto; occupati tutti gli edifici dei Menapi, si servirono delle loro
provviste per
la restante parte dell'inverno.
5
Informato di tali avvenimenti, Cesare, che temeva la debolezza di carattere dei
Galli,
volubili nel prendere decisioni e per lo più desiderosi di rivolgimenti, stimò
di non
doversi assolutamente fidare di essi. I Galli, infatti, hanno la seguente
abitudine:
costringono, anche loro malgrado, i viandanti a fermarsi e si informano su ciò
che ciascuno
di essi ha saputo o sentito su qualsiasi argomento; nelle città, la gente
attornia i
mercanti e li obbliga a dire da dove provengano e che cosa lì abbiano saputo;
poi, sulla
scorta delle voci e delle notizie udite, spesso decidono su questioni della
massima
importanza e devono ben presto pentirsene, perché prestano fede a dicerie
infondate, in
quanto la maggior parte degli interpellati risponde cose non vere pur di
compiacerli.
6
Cesare, che conosceva tale abitudine, per non andare incontro a una guerra
troppo pesante,
partì alla volta dell'esercito prima del solito. Appena giunto, apprese che i
suoi sospetti
si erano avverati: parecchi popoli avevano inviato ambascerie ai Germani,
chiedendo che
varcassero il Reno e promettendo di esaudire ogni loro richiesta. I Germani,
attratti da
tali speranze, già si stavano spingendo più lontano ed erano pervenuti nelle
terre degli
Eburoni e dei Condrusi, clienti dei Treveri. Cesare convocò i principi della
Gallia, ma
ritenne opportuno dissimulare ciò di cui era invece al corrente; li blandì, li
rassicurò,
chiese i contingenti di cavalleria e prese la risoluzione di muovere guerra ai
Germani.
7
Preparate le scorte di grano e arruolati i cavalieri, marciò verso i territori
in cui era
segnalata la presenza dei Germani. Cesare si trovava a pochi giorni di distanza,
quando gli
si presentarono emissari dei Germani che parlarono nei termini seguenti: non
erano i
Germani a muovere per primi guerra al popolo romano, ma non avrebbero rinunciato
allo
scontro, se provocati, perché avevano la consuetudine, tramandata dai padri, di
difendersi
e di non implorare gli aggressori, chiunque essi fossero. Tuttavia precisavano
di esser
giunti contro il loro volere, scacciati dalla patria; se i Romani volevano il
loro
sostegno, i Germani avrebbero potuto diventare utili alleati; chiedevano
l'assegnazione di
nuovi territori oppure il permesso di mantenere le regioni occupate con le armi.
Erano
inferiori solo agli Svevi, che neppure gli dèi immortali potevano uguagliare; ma
di tutti
gli altri popoli sulla terra non ce n'era uno che i Germani non potessero
superare.
8
A tali parole Cesare rispose come gli sembrò più opportuno; ma ecco come terminò
il suo
discorso: non poteva stringere con loro alcuna alleanza, se rimanevano in Gallia;
e non era
giusto che occupasse le terre altrui chi non era riuscito a difendere le
proprie; in Gallia
non c'erano regioni libere da poter assegnare - tanto meno a un gruppo così
numeroso -
senza danneggiare nessuno, ma concedeva loro, se lo volevano, di stabilirsi nei
territori
degli Ubi, che gli avevano inviato emissari per lamentarsi dei soprusi degli
Svevi e per
chiedergli aiuto: ne avrebbe dato ordine agli Ubi.
9
I membri dell'ambasceria dissero che avrebbero riferito e che si sarebbero
ripresentati
dopo tre giorni con la risposta. Chiesero a Cesare, però, di non avanzare
ulteriormente nel
frattempo. Cesare dichiarò di non poter concedere neppure questo. Era venuto a
conoscenza,
infatti, che i Germani, alcuni giorni prima, avevano inviato gran parte della
cavalleria al
di là della Mosa, nella regione degli Ambivariti, a scopo di razzia e in cerca
di grano.
Riteneva, dunque, che stessero aspettando i loro cavalieri e che, a tal fine,
cercassero di
prendere tempo.
10
La Mosa nasce dai monti Vosgi, nella regione dei Lingoni; a non più di ottanta
miglia di
distanza dall'Oceano, si getta nel Reno. Il Reno nasce nella regione dei Leponzi,
un popolo
delle Alpi, scorre vorticoso per lungo tratto nelle terre dei Nantuati, degli
Elvezi, dei
Sequani, dei Mediomatrici, dei Triboci e dei Treveri; poi, nei pressi
dell'Oceano, si
divide in diversi rami e forma molte isole di notevoli dimensioni, per la
maggior parte
abitate da genti incolte e barbare, alcune delle quali si ritiene che vivano di
pesci e di
uova d'uccelli. Sfocia con molte diramazioni nell'Oceano.
11
Cesare non distava più di dodici miglia dal nemico, quando i membri
dell'ambasceria
ritornarono, secondo gli accordi. Gli si presentarono che era in marcia e lo
pregavano,
invano, di non avanzare ulteriormente. Gli chiedevano, allora, di dar ordine
alla
cavalleria, posta all'avanguardia, di non aprire le ostilità e gli domandavano
il permesso
di inviare un'ambasceria agli Ubi: se i capi e il senato degli Ubi avessero
fornito
garanzie mediante un giuramento solenne, si dichiaravano pronti ad accettare le
condizioni
proposte da Cesare. Ma, per condurre a termine le operazioni necessarie,
chiedevano tre
giorni di tempo. Cesare riteneva che la richiesta mirasse sempre a consentire,
nei tre
giorni di tregua, il rientro dei cavalieri che si erano allontanati; tuttavia,
disse che
per quel giorno si sarebbe spinto in avanti non oltre le quattro miglia, al solo
scopo di
rifornirsi d'acqua, ma comandò che l'indomani si presentassero lì nel maggior
numero
possibile per conoscere la sua risposta. Al tempo stesso, ai prefetti della
cavalleria, che
precedeva l'esercito, manda dei messi con l'ordine di non provocare a battaglia
i nemici e
di difendersi, in caso di attacco, fino al suo arrivo con le legioni.
12
Ma i nemici, non appena videro la nostra cavalleria - benché contasse circa
cinquemila
unità, mentre essi non erano più di ottocento, non essendo ancora rientrati i
cavalieri che
avevano varcato la Mosa in cerca di grano - si lanciarono all'attacco e
scompaginarono in
breve tempo i nostri, che non nutrivano alcun timore, in quanto l'ambasceria dei
Germani
aveva appena lasciato Cesare chiedendo, per quel giorno, tregua. Quando i nostri
riuscirono
a opporre resistenza, gli avversari, secondo la loro tecnica abituale, balzarono
a terra e,
ferendo al ventre i cavalli, disarcionarono molti dei nostri e costrinsero alla
fuga i
superstiti, premendoli e terrorizzandoli al punto che non cessarono la ritirata
se non
quando furono in vista del nostro esercito in marcia. Nello scontro perdono la
vita
settantaquattro nostri cavalieri, tra cui l'aquitano Pisone, uomo di grandissimo
valore e
di alto lignaggio: un suo avo aveva tenuto la suprema autorità tra la sua gente
e ricevuto
dal senato di Roma il titolo di amico. Pisone, accorso in aiuto del fratello
circondato dai
nemici, era riuscito a liberarlo; disarcionato - il suo cavallo era stato
colpito -
resistette con estremo valore finché ebbe forza: poi, circondato da molti
avversari, cadde.
Il fratello, che aveva già lasciato la mischia, lo vide da lontano: sferzato il
cavallo, si
gettò sui nemici e rimase ucciso.
13
Dopo tale scontro, Cesare ormai non stimava giusto ascoltare gli ambasciatori o
accogliere
le proposte di un popolo che, dopo aver chiesto pace, aveva deliberatamente
aperto le
ostilità con agguati e imboscate; d'altro canto, considerava pura follia
aspettare che il
numero dei nemici aumentasse con il rientro della cavalleria e, ben conoscendo
la
volubilità dei Galli, intuiva quanto prestigio i Germani avessero già acquisito
con una
sola battaglia; perciò, riteneva di non dover assolutamente concedere loro il
tempo di
prendere decisioni. Aveva già assunto tali risoluzioni e informato i legati e il
questore
che non intendeva differire l'attacco neppure di un giorno, quando si presentò
un'occasione
veramente favorevole: proprio la mattina seguente i Germani, sempre con la
stessa perfida
ipocrisia, si presentarono al campo di Cesare, in gran numero, con tutti i
principi e i più
anziani. Volevano, a detta loro, sia chiedere perdono per l'attacco sferrato il
giorno
precedente contro gli accordi e le loro stesse richieste, sia ottenere, se
possibile, una
dilazione: ma il solo scopo era di tendere una trappola. Cesare, lieto che gli
si fossero
offerti, ordinò di trattenerli, portò fuori dall'accampamento tutte le sue
truppe e ordinò
alla cavalleria di chiudere lo schieramento, ritenendola ancora scossa per la
recente
sconfitta.
14
Disposto l'esercito su tre file, percorse rapidamente otto miglia e piombò sul
campo nemico
prima che i Germani potessero rendersi conto di cosa stava accadendo. I nemici,
atterriti
per più di una ragione, dall'arrivo improvviso dei nostri, dall'assenza dei
loro, dal non
avere il tempo di prendere alcuna decisione, né di correre alle armi, erano
incerti se
conveniva affrontare i Romani, difendere l'accampamento o darsi alla fuga. I
rumori e la
confusione davano il segno del timore che regnava tra i nemici; i nostri,
irritati dal
proditorio attacco del giorno precedente, fecero irruzione nel campo avversario.
Qui, chi
riuscì ad armarsi in fretta, per un po' oppose resistenza, combattendo tra i
carri e le
salmerie; gli altri, invece, ossia le donne e i bambini (infatti, avevano
abbandonato le
loro terre e attraversato il Reno con le famiglie) si diedero a una fuga
disordinata. Al
loro inseguimento Cesare inviò la cavalleria.
15
I Germani, uditi i clamori alle spalle, quando videro che i loro venivano
massacrati,
gettarono le armi, abbandonarono le insegne e fuggirono dall'accampamento.
Giunti alla
confluenza della Mosa con il Reno, dove non avevano più speranze di fuga, molti
vennero
uccisi, gli altri si gettarono nel fiume e qui, vinti dalla paura, dalla
stanchezza, dalla
forte corrente, morirono. I nostri, tutti salvi dal primo all'ultimo, con
pochissimi
feriti, rientrarono al campo dopo le apprensioni nutrite per uno scontro così
rischioso,
considerando che il nemico contava quattrocentotrentamila persone. Ai Germani
prigionieri
nell'accampamento Cesare permise di allontanarsi, ma costoro, temendo atroci
supplizi da
parte dei Galli di cui avevano saccheggiato i campi, dissero di voler rimanere
presso di
lui. Cesare concesse loro la libertà.
16
Terminata la guerra con i Germani, Cesare decise che doveva varcare il Reno, per
molte
ragioni, di cui una importantissima: vedendo con quale facilità i Germani
tendevano a
passare in Gallia, voleva che nutrissero timore anche per il proprio paese,
quando si
fossero resi conto che l'esercito del popolo romano poteva e osava oltrepassare
il Reno. Si
aggiungeva un'altra considerazione: la parte della cavalleria degli Usipeti e
dei Tenteri
che, come abbiamo detto, attraversata la Mosa a scopo di razzia e in cerca di
grano, non
aveva partecipato alla battaglia, dopo la fuga dei suoi si era rifugiata al di
là del Reno,
nelle terre dei Sigambri, unendosi a essi. Cesare, per chiedere la consegna di
chi aveva
mosso guerra a lui e alla Gallia, mandò suoi emissari ai Sigambri, che così
risposero: il
Reno segnava i confini del dominio di Roma; se egli riteneva ingiusto che i
Germani, contro
il suo volere, passassero in Gallia, perché pretendeva di aver dominio o potere
al di là
del Reno? Gli Ubi, poi, l'unico popolo d'oltre Reno che avesse inviato a Cesare
emissari,
stringendo alleanza e consegnando ostaggi, lo scongiuravano di intervenire in
loro aiuto
perché incombevano su di loro, pesantemente, gli Svevi; oppure, se ne era
impedito dagli
affari di stato, lo pregavano, almeno, di condurre l'esercito al di là del Reno:
sarebbe
stato un ausilio sufficiente per il presente e una speranza per il futuro. Il
nome e la
fama dell'esercito romano, dopo la vittoria su Ariovisto e il recentissimo
successo, aveva
raggiunto anche le più lontane genti germane: considerati alleati del popolo
romano, gli
Ubi sarebbero stati al sicuro. Promettevano una flotta numerosa per trasportare
l'esercito.
17
Per i motivi che ho ricordato, Cesare aveva deciso di oltrepassare il Reno, ma
riteneva che
l'impiego delle navi non fosse abbastanza sicuro e non lo giudicava consono alla
dignità
sua e del popolo romano. Così, sebbene si presentassero gravi difficoltà per
costruire un
ponte - come la larghezza e la profondità del fiume, la rapidità della corrente
- egli
tuttavia stimava necessario adottare tale soluzione oppure rinunciare
all'impresa. Ecco
come progettò la struttura dei ponte. A distanza di due piedi univa, a due per
volta, travi
lievemente appuntite in basso, del diametro di un piede e mezzo di altezza
commisurata alla
profondità del fiume; poi, mediante macchinari le calava in acqua e con
battipali le
conficcava sul fondo del fiume, non a perpendicolo, come le travi delle
palafitte, ma
oblique e in pendenza, in modo da inclinare nel senso della corrente; più in
basso, alla
distanza di quaranta passi e dirimpetto alle prime travi, ne poneva altre,
sempre legate a
due a due, con inclinazione opposta all'impeto e alla corrente del fiume.
Nell'interstizio
collocava pali dello spessore di due piedi - pari alla distanza delle travi
accoppiate - e,
fissandoli con due arpioni, impediva che esse in cima si toccassero; perciò,
poggiando su
travi separate e ben ribadite in direzione contraria, la struttura del ponte
risultava
tale, da reggere, per necessità naturale, tanto più saldamente, quanto più
impetuosa fosse
la corrente. Sui pali venivano disposte, in senso orizzontale, altre travi su
cui
poggiavano tavole e graticci; inoltre, come sostegno, a valle venivano aggiunti,
obliqui,
pali fissati al resto della struttura per resistere alla corrente impetuosa;
così pure
altre travi, a monte, venivano collocate non lontano dal ponte, allo scopo di
frenare
eventuali tronchi o navi che i barbari avessero lanciato contro la costruzione
per
distruggerla: l'impatto sarebbe stato attutito e i danni al ponte limitati.
18
Da quando ebbe inizio la raccolta del materiale, in dieci giorni il lavoro fu
portato a
termine e l'esercito oltrepassò il fiume. Lasciati saldi presidi su entrambe le
sponde,
Cesare marciò verso il territorio dei Sigambri. Frattanto gli si presentano
ambascerie di
parecchie nazioni, alle cui richieste di pace e alleanza egli risponde
benevolmente e
ordina la consegna di ostaggi. Da quando erano incominciati i lavori per il
ponte, i
Sigambri, su pressione dei Tenteri e degli Usipeti che erano con loro, avevano
preparato la
fuga ed evacuato i loro territori, portando con sé tutti i loro beni e
rifugiandosi in
foreste disabitate.
19
Cesare si trattenne pochi giorni nella regione dei Sigambri, dove diede alle
fiamme tutti i
villaggi e le singole abitazioni e distrusse i raccolti, quindi ripiegò nei
territori degli
Ubi, a cui aveva promesso il suo aiuto in caso di attacco degli Svevi. Dagli Ubi
venne a
sapere quanto segue: gli Svevi, messi al corrente dai loro esploratori che si
costruiva un
ponte, tenuta un'assemblea, secondo il loro costume, avevano poi inviato
emissari in tutte
le direzioni, con l'ordine di evacuare le città e di mettere al sicuro nelle
selve i figli,
le mogli e ogni loro bene, mentre tutti gli uomini in grado di combattere
dovevano
radunarsi in un solo luogo, quasi al centro delle regioni controllate dagli
Svevi: si era
stabilito che lì avrebbero atteso l'arrivo dei Romani e combattuto. Cesare,
quando lo
seppe, avendo raggiunto gli scopi che lo avevano spinto ad attraversare il Reno
(incutere
timore ai Germani, punire i Sigambri, liberare gli Ubi dall'oppressione degli
Svevi) e
ritenendo, inoltre, che i diciotto giorni, in tutto, trascorsi al di là del Reno
gli
avessero procurato fama e vantaggi sufficienti, rientrò in Gallia e distrusse il
ponte.
20
Non rimaneva che un'esigua parte dell'estate, tuttavia, benché in quelle regioni
l'inverno
sia precoce, dato che la Gallia è volta a settentrione, Cesare decise di partire
per la
Britannia, perché capiva che da lì giungevano ai nostri nemici aiuti in quasi
tutte le
guerre in Gallia; inoltre, anche se la stagione non bastava per le operazioni
belliche,
riteneva molto utile raggiungere almeno l'isola, vedere che genere di uomini
l'abitasse,
rendersi conto di luoghi, approdi, accessi, notizie quasi tutte ignorate anche
dai Galli. È
difficile, infatti, che uno si spinga fin là, a eccezione dei mercanti, e pure
essi,
all'infuori della costa e delle regioni prospicienti la Gallia, non conoscono
altro.
Infatti, pur avendo convocato mercanti da ogni parte, Cesare non riuscì a sapere
quanto
fosse estesa l'isola, quali e quanti popoli l'abitassero, che tecniche di
combattimento
adottassero, che genere di istituzioni avessero e quali fossero i porti in grado
di
accogliere una flotta di navi di stazza superiore.
21
Allo scopo di raccogliere informazioni in proposito, prima di affrontare
l'impresa, Cesare
manda in avanscoperta una nave da guerra agli ordini di C. Voluseno, ritenendolo
adatto per
la missione. Lo incarica di rientrare al più presto, una volta terminata la
ricognizione.
Dal canto suo, con l'esercito al completo si dirige nei territori dei Morini,
perché da lì
il tragitto verso la Britannia era il più breve. Ordina che qui si radunino le
navi
provenienti da tutte le regioni limitrofe e la flotta allestita l'estate
precedente per la
guerra contro i Veneti. Nel frattempo, le sue manovre vengono risapute e i
mercanti le
riferiscono ai Britanni: da parte di molti popoli dell'isola giungono messi per
promettere
che avrebbero consegnato ostaggi e si sarebbero sottomessi al dominio del popolo
romano.
Cesare li ascolta e, esortandoli a non mutare parere, con benevoli promesse li
rimanda in
patria accompagnati da Commio, che in Britannia godeva di grande autorità:
Cesare ne
stimava il valore e l'intelligenza e lo riteneva fedele al punto che lo aveva
designato re
degli Atrebati dopo averli sconfitti in battaglia. A Commio dà ordine di
prendere contatti
con il maggior numero di popoli per sollecitarli a mettersi sotto la protezione
di Roma e
per annunciare che presto Cesare sarebbe giunto. Voluseno, compiuta la
ricognizione in
tutte le zone, per quanto gli fu possibile, dato che non volle correre il
rischio di
sbarcare e di entrare in contatto con i barbari, raggiunge Cesare quattro giorni
dopo e gli
riferisce ciò che aveva osservato.
22
Mentre per preparare la flotta Cesare si attardava nei territori dei Morini,
molte tribù
della regione gli inviarono emissari per scusarsi della loro condotta passata,
quando,
barbari e ignari delle nostre consuetudini, avevano mosso guerra al popolo
romano: adesso
promettevano ubbidienza ai suoi ordini. Cesare la giudicò una circostanza
veramente
favorevole, perché non voleva lasciarsi un nemico alle spalle e, con l'estate
che volgeva
al termine, non aveva il tempo di sostenere una guerra; inoltre, stimava di non
dover
anteporre un problema di così lieve entità alla Britannia; pretese, allora, la
consegna di
un alto numero di ostaggi. Ricevuti i quali, pose i Morini sotto la propria
protezione.
Circa ottanta navi da carico, numero che giudicava sufficiente per il trasporto
delle
legioni, vennero radunate e munite di tolde. Le navi da guerra di cui disponeva
vennero
suddivise tra il questore, i legati e i prefetti. A esse si aggiungevano altre
diciotto
navi da carico, che erano a otto miglia di distanza e non riuscivano a
raggiungere il porto
per via del vento: le riservò alla cavalleria. Ai legati Q. Titurio Sabino e L.
Aurunculeio
Cotta affidò il resto dell'esercito col compito di guidarlo contro i Menapi e le
tribù dei
Morini che non avevano inviato ambascerie. Lasciò al legato P. Sulpicio Rufo una
guarnigione giudicata sufficiente, con l'ordine di presidiare il porto.
23
Presi tali provvedimenti, approfittando del tempo favorevole alla navigazione,
salpò
all'incirca dopo mezzanotte e comandò alla cavalleria di raggiungere il porto
successivo
per imbarcarsi e seguirlo. I cavalieri eseguirono gli ordini troppo lentamente;
Cesare,
invece, con le prime navi pervenne alle coste della Britannia verso le nove di
mattina e lì
vide le truppe nemiche, in armi, schierate su tutte le alture circostanti. La
natura del
luogo era tale e le scogliere erano così a precipizio sul mare, che i dardi
scagliati
dall'alto potevano raggiungere il litorale. Avendo giudicato il luogo
assolutamente
inadatto per uno sbarco, gettò l'ancora e fino alle due del pomeriggio attese
l'arrivo
delle altre navi. Nel frattempo, convocati i legati e i tribuni militari, espose
le
informazioni raccolte da Voluseno e il suo piano, invitandoli a compiere tutte
le manovre
al primo cenno e istantaneamente, come richiede la tecnica militare, soprattutto
negli
scontri navali, dove i movimenti sono rapidi e variano continuamente. Dopo
averli
congedati, sfruttando il contemporaneo favore della marea e del vento, diede il
segnale e
levò le ancore. Avanzò per circa sette miglia e mise le navi alla fonda in un
punto in cui
il litorale era aperto e piano.
24
Ma i barbari, avendo inteso i propositi dei Romani, avevano mandato in avanti,
seguiti dal
resto dell'esercito, i cavalieri e gli essedari - reparti che di solito
impiegano in
battaglia - impedendo lo sbarco ai nostri, che incontravano enormi difficoltà:
le navi, per
le loro dimensioni, potevano fermarsi solo al largo; i soldati, poi, non
conoscevano i
luoghi, non avevano le mani libere, erano appesantiti dalle armi e dovevano,
contemporaneamente, scendere dalle navi, resistere alle onde, combattere contro
i nemici. I
barbari, invece, liberi nei movimenti, combattevano dalla terraferma o entravano
appena in
acqua, conoscevano alla perfezione i luoghi, con audacia scagliavano frecce e
lanciavano
alla carica i loro cavalli, abituati a tali operazioni. I nostri, sgomenti per
tutto ciò,
trovandosi di fronte a una tecnica di combattimento del tutto nuova, non si
battevano con
il solito zelo e ardore dimostrato in campo aperto.
25
Quando se ne accorse, Cesare ordinò che le navi da guerra, di forma inconsueta
per i
barbari e facilmente manovrabili, si staccassero un po' dalle imbarcazioni da
carico e,
accelerando a forza di remi, si disponessero sul fianco destro del nemico e, da
qui,
azionassero le fionde, gli archi, le macchine da lancio per costringere gli
avversari alla
ritirata. La manovra si rivelò molto utile. Infatti, i barbari, scossi dalla
forma delle
navi, dal movimento dei remi e dall'insolito genere di macchine da lancio, si
arrestarono e
ripiegarono leggermente. Ma, visto che i nostri soldati, soprattutto per la
profondità
dell'acqua, esitavano, l'aquilifero della decima legione, dopo aver pregato gli
dèi di dare
felice esito all'impresa, gridò: "Saltate giù, commilitoni, se non volete
consegnare
l'aquila al nemico: io, per parte mia, avrò fatto il mio dovere verso la
repubblica e il
comandante". Lo disse a gran voce, poi saltò giù dalla nave e cominciò a correre
contro i
nemici. Allora i nostri, vicendevolmente spronandosi a non permettere un'onta
così grave,
saltarono giù dalla nave, tutti quanti. Anche i soldati delle navi vicine, come
li videro,
li seguirono e avanzarono contro i nemici.
26
Si combatté con accanimento da entrambe le parti. I nostri, tuttavia, erano in
preda allo
scompiglio, non riuscendo a mantenere lo schieramento, ad attestarsi saldamente,
a seguire
le proprie insegne, in quanto ciascuno, appena sbarcato, si univa alle prime in
cui si
imbatteva. I nemici, invece, che conoscevano tutti i bassifondi, non appena dal
litorale
vedevano alcuni dei nostri sbarcare isolati dalle navi, lanciavano i cavalli al
galoppo e
alla carica dei legionari in difficoltà: molti dei loro circondavano pochi dei
nostri,
mentre altri dal fianco destro, scagliavano un nugolo di frecce sul grosso dello
schieramento. Cesare, appena se ne accorse, ordinò di riempire di soldati le
scialuppe
delle navi da guerra e i battelli da ricognizione e li inviò in aiuto di chi
aveva visto in
difficoltà. I nostri, non appena riuscirono ad attestarsi sulla terraferma,
formati i
ranghi, passarono al contrattacco e costrinsero alla fuga gli avversari, ma non
ebbero modo
di protrarre l'inseguimento, perché le navi con la cavalleria avevano perso la
rotta e non
erano riuscite a raggiungere l'isola: solo questo mancò alla solita buona stella
di Cesare.
27
I nemici, vinti in battaglia, non appena si riebbero dall'affanno della fuga,
immediatamente inviarono messi a Cesare per offrirgli la resa, promettendo la
consegna di
ostaggi e il rispetto degli ordini che volesse impartire. Insieme a loro giunse
l'atrebate
Commio, l'uomo mandato da Cesare in Britannia in avanscoperta, come in
precedenza avevo
chiarito. Non appena Commio era sceso dalla nave e aveva riferito, come
portavoce, le
richieste di Cesare, i Britanni lo avevano fatto prigioniero e messo in catene;
ora, dopo
la battaglia, lo avevano liberato e, nel domandare pace, attribuivano la
responsabilità
dell'accaduto al popolo, chiedendo di perdonare una colpa dovuta alla
leggerezza. Cesare si
lamentò che i Britanni, dopo aver spontaneamente inviato ambascerie sul
continente per
domandare pace, gli avevano poi mosso guerra senza motivo, ma disse che
perdonava la loro
leggerezza e chiese ostaggi. Una parte venne consegnata immediatamente, altri
invece, fatti
venire da regioni lontane. li avrebbero consegnati - dissero - entro pochi
giorni. Nel
frattempo, diedero disposizione ai loro di ritornare alle campagne; i principi
di tutte le
regioni si riunirono e cominciarono a pregare Cesare di aver riguardo per loro e
per i
rispettivi popoli.
28
Con tali misure la pace era assicurata: quattro giorni dopo il nostro arrivo in
Britannia,
le diciotto navi di cui si è parlato, su cui era imbarcata la cavalleria, dal
porto più
settentrionale salparono con una leggera brezza. Si stavano avvicinando alla
Britannia ed
erano già state avvistate dall'accampamento, quando all'improvviso si levò una
tempesta
così violenta, che nessuna delle navi riuscì a tenere la rotta: alcune vennero
risospinte
verso il porto di partenza, altre con grave pericolo vennero spinte verso la
parte
sud-occidentale dell'isola. Tentarono di gettare l'ancora, ma, sommerse dalla
violenza dei
flutti, furono costrette, sebbene fosse notte, a prendere il largo e a dirigersi
verso il
continente.
29
Capitò che quella notte stessa ci fosse luna piena, momento in cui la marea
nell'Oceano è
più alta, e i nostri non lo sapevano. Così, nello stesso tempo, la marea
sommerse le navi
da guerra impiegate per trasportare l'esercito e poi tirate in secco, mentre la
tempesta
sbatteva l'una contro l'altra le imbarcazioni da carico, che erano all'àncora,
senza che i
nostri avessero la minima possibilità di manovrare o porvi rimedio. Molte navi
rimasero
danneggiate, le altre, perse le funi, le ancore e il resto dell'attrezzatura,
erano
inutilizzabili: un profondo turbamento, com'era inevitabile, si impadronì di
tutto
l'esercito. Non c'erano, infatti, altre navi con cui ritornare, mancava tutto il
necessario
per riparare le barche danneggiate e, poiché tutti pensavano che si dovesse
svernare in
Gallia, sull'isola non si era provvisto il grano per l'inverno.
30
Appena ne furono informati, i principi britanni, che si erano recati da Cesare
dopo la
battaglia, presero accordi: rendendosi conto che i Romani non avevano né
cavalleria, né
navi, né frumento e constatando che dovevano essere ben pochi, viste le
dimensioni
dell'accampamento, ancor più ridotto del solito in quanto Cesare aveva
trasportato le
legioni senza bagagli, ritennero che la cosa migliore fosse ribellarsi,
ostacolare i nostri
nell'approvvigionamento di grano e viveri, protrarre le ostilità fino
all'inverno, perché
erano sicuri che, sconfiggendo i Romani o impedendo loro il ritorno, nessuno in
futuro
sarebbe penetrato in Britannia per portarvi guerra. Così, formata nuovamente una
lega, a
poco a poco cominciarono a lasciare l'accampamento romano e a radunare di
nascosto i loro
uomini dalle campagne.
31
Cesare non conosceva ancora il loro piano, ma dopo il disastro capitato alle
navi e visto
che non gli venivano più consegnati ostaggi, sospettava quello che sarebbe poi
accaduto.
Perciò, si premuniva per qualsiasi evenienza. Ogni giorno, infatti, disponeva
che dalle
campagne portassero grano all'accampamento, si serviva del legname e del bronzo
delle navi
più danneggiate per riparare le altre e ordinava di procurarsi dal continente il
materiale
necessario a tale scopo. Così, grazie allo straordinario impegno dei nostri
soldati, pur
risultando perdute dodici navi, mise le altre in condizione di navigare senza
problemi.
32
Mentre accadevano tali fatti, come di consueto una legione, la settima, era
stata inviata
in cerca di grano (fino ad allora non si nutriva alcun sospetto di guerra, visto
che parte
dei Britanni si trovava nelle campagne, parte frequentava ancora l'accampamento
romano). Le
guardie dislocate alle porte del campo annunziarono a Cesare che, nella
direzione in cui si
era mossa la nostra legione, si vedeva levarsi più polvere del solito. Cesare,
sospettando
che i barbari, come in effetti era, stessero tentando qualche novità, ordinò
alle coorti di
guardia di partire con lui in quella direzione, e a due delle altre di prendere
il loro
posto: le rimanenti avrebbero dovuto armarsi e seguirlo al più presto. A una
certa distanza
dal campo, vide che i suoi erano pressati dal nemico e resistevano a fatica:
sulla legione,
serrata, piovevano frecce da tutti i lati. Ecco che cosa era accaduto: poiché il
grano era
stato raccolto in tutti i campi tranne uno, i nemici, supponendo che i nostri si
sarebbero
qui diretti, di notte si erano nascosti nelle selve; poi, erano piombati
all'improvviso sui
nostri, che si erano sparpagliati e avevano deposto le armi per attendere alla
mietitura.
Ne avevano uccisi pochi, ma gli altri, che non riuscivano a riformare i ranghi
ed erano in
pieno scompiglio, li avevano accerchiati contemporaneamente con i cavalieri e
gli essedari.
33
La loro tecnica di combattimento con i carri è la seguente: prima corrono in
tutte le
direzioni, scagliano frecce e con i loro cavalli e lo strepito delle ruote
gettano il
panico, in genere, tra le file avversarie, che si disuniscono; poi, quando
riescono a
penetrare tra gli squadroni di cavalleria, scendono dai carri e combattono a
piedi. Nel
frattempo, gli aurighi a poco a poco si allontanano dalla mischia e piazzano i
carri in
modo tale che i loro compagni, nel caso siano incalzati da un gran numero di
nemici,
abbiano la possibilità di mettersi rapidamente al sicuro. Così, nelle battaglie
si
assicurano la mobilità dei cavalieri e la stabilità dei fanti. Grazie alla
pratica e
all'esercizio quotidiano sono capaci di frenare, anche in pendii a precipizio, i
cavalli
lanciati al galoppo, di moderarne la velocità e di cambiare direzione in poco
spazio, di
correre sopra il timone del carro, di tenersi fermi sul giogo dei cavalli e poi,
da qui, di
ritornare sui carri in un attimo.
34
Perciò, mentre i nostri erano disorientati dall'insolita tattica di
combattimento, Cesare
giunse in aiuto nel momento più opportuno: con il suo arrivo, infatti, i nemici
si
arrestarono, i nostri ripresero coraggio. Tuttavia, Cesare ritenne che non fosse
il momento
adatto per sfidare gli avversari e attaccar battaglia, perciò tenne le proprie
posizioni e,
poco dopo, ricondusse le legioni all'accampamento. Mentre si svolgono questi
fatti, tenendo
impegnati tutti i nostri, si ritirarono gli altri Britanni che si trovavano
nelle campagne.
Per parecchi giorni si rovesciarono piogge senza interruzione, che costrinsero i
nostri
nell'accampamento e impedirono ai nemici di attaccare. Nel frattempo, i barbari
inviarono
messaggeri in tutte le direzioni, continuando a insistere sul fatto che i nostri
erano ben
pochi e a spiegare quale bottino, quale possibilità di rendersi per sempre
liberi li
attendesse, se avessero scacciato i Romani dal loro campo. Così, dopo aver
radunato un gran
numero di fanti e cavalieri, mossero sull'accampamento romano.
35
Cesare si rendeva conto che si sarebbe verificata la stessa situazione delle
battaglie
precedenti: il nemico, in caso fosse stato battuto, si sarebbe sottratto a ogni
pericolo
grazie alla sua rapidità di movimento. Tuttavia, disponendo di circa trenta
cavalieri che
l'atrebate Commio, di cui si è già parlato, aveva condotto con sé, Cesare decise
di
schierare dinanzi all'accampamento le legioni, pronte alla battaglia. Lo scontro
ebbe
luogo: i nemici non riuscirono a reggere all'attacco dei legionari a lungo e si
volsero in
fuga. I nostri li inseguirono finché ebbero la forza di correre; dopo averne
uccisi molti,
incendiarono gli edifici in lungo e in largo e rientrarono al campo.
36
Quel giorno stesso a Cesare si presentarono emissari per chiedere pace. Egli
raddoppiò il
numero di ostaggi chiesti in precedenza e ne ordinò la consegna sul continente,
perché non
riteneva opportuno affrontare d'inverno la traversata - l'equinozio era vicino -
con le
navi in cattivo stato. Approfittando di un tempo favorevole, salpò poco dopo la
mezzanotte:
tutte le navi raggiunsero senza danni il continente; solo due imbarcazioni da
carico non
riuscirono ad approdare agli stessi porti delle altre e vennero sospinte un po'
più a sud.
37
Da queste due navi sbarcarono circa trecento dei nostri, che si diressero verso
l'accampamento. I Morini, che Cesare al momento della partenza per la Britannia
aveva
lasciato pacificati, spinti dalla speranza di bottino, circondarono dapprima in
numero non
altissimo i nostri e intimarono loro la resa, se volevano aver salva la vita.
Mentre i
legionari, disposti in cerchio, si difendevano, alle grida dei Morini
sopraggiunsero
rapidamente altri seimila uomini circa. Appena ne fu informato, Cesare, a
sostegno dei
suoi, inviò tutta la cavalleria presente al campo. Nel frattempo, i nostri
ressero all'urto
dei nemici e si batterono con estremo valore per più di quattro ore: subirono
poche perdite
e uccisero molti nemici. E non appena comparve la cavalleria, i nemici gettarono
le armi e
si diedero alla fuga: i nostri ne fecero strage.
38
Il giorno seguente, contro i Morini che si erano ribellati, Cesare inviò il
legato T.
Labieno alla testa delle legioni rientrate dalla Britannia. Le paludi erano in
secca e i
nemici, che non potevano rifugiarvisi come l'anno precedente, non sapevano dove
ripiegare,
perciò si sottomisero quasi tutti all'autorità di Labieno. E i legati Q. Titurio
e L.
Cotta, che avevano guidato le legioni nella regione dei Menapi, ritornarono da
Cesare dopo
aver devastato tutti i campi, distrutto i raccolti, incendiato gli edifici, in
quanto la
popolazione si era rifugiata in massa nel folto dei boschi. Cesare stabilì che
tutte le
legioni ponessero i quartieri d'inverno nelle terre dei Belgi. Lì pervennero gli
ostaggi di
due popoli britanni in tutto; gli altri contravvennero all'impegno di inviarli.
In seguito
a tali imprese, comunicate per lettera da Cesare, il senato decretò venti giorni
di feste
solenni di ringraziamento.
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