C'è una specie di destino letterario in quasi tutti i personaggi romagnoli che talora emergono nelle trasmissioni televisive o in qualche prodotto editoriale. E' il marchio del dialetto non come semplice inflessione della parlata, ma proprio come articolazione del pensiero.
L'ultimo esempio è quel Paolo Cevoli riccionese che, con le storie del suo immaginario (ma non troppo) paese di Roncofritto, sta avendo un successo «da bestia», come direbbe con la lingua dei suoi personaggi, i quali richiamano un po' troppo certa figura di Maurizio Ferrini, uno di quelli delle notti arboriane, l'uomo di fede comunista tutto d'un pezzo, quello che non capiva ma si adeguava. («Mutatis mutandis», c'è un suo fratellino minore, capace di presentarsi come esponente berlusconiano o leghista, e ripetere fideisticamente le sue considerazioni sulla vita e sulla politica?).
Roncofritto, sulla carta geografica della Romagna, è dovunque. E questo fatto, oltre a rappresentarci come caricature esilaranti, è una specie di marchio di fabbrica e d'infamia nello stesso tempo: perché, se ci caratterizza, poi alla fine ci condanna come personaggi e come cultura che non sanno esprimere altro che questo filone ruspante di gente tutta casa e lavoro, niente pensiero astratto, capace soltanto di contare, moltiplicare o sottrarre «bajocc», ruvidi quanto basta nel ridurre la vita a semplici banalità che diventano simbolo di espressioni alte a forza di ripeterle, perché una bojata detta una volta, nella mentalità riminese e romagnola del «pataca», resta una bojata, ma se la ripetete dieci, cento, mille volte, diventa la leggenda del bar, della strada, del borgo, del comune, di quel Roncofritto che è dovunque si lotti contro il tedio come se il tedio fosse il mulino a vento di don Chisciotte e non la proiezione di noi stessi incapaci di conquistarci una dignità mentale (il che sarebbe poi anche una dignità morale). E quella bojata poi ve la ritroverete in qualche libro cosiddetto di storia, in un territorio in cui autori «ad hoc» abbondano anche, anzi soprattutto, se non sono sempre «doc».
L'eroismo plebeo, antintellettuale di questi vari roncofrittesi, il ballo «lissio», la «piadeina, cibo degli dei» (assurta a mitologica citazione di Aldo, Giovanni e Giacomo, con una consacrazione teatrale che fa fremere d'orgoglio gli etnocrati locali, cioè quei burocrati che ci campano allegramente da una vita sulle patacate della povera gente), e poi le varie sagre, dalla porchetta allo gnocco di patata (sempre sponsorizzate da una illustre banca): che cosa non sono, tutte queste cose, se non l'esemplicazione di una «cultura» veloce (da fastfud, scriverebbe il Cevoli), fatta di macchiette che poi non sono tali, perché anche il più «scemo del villaggio» di questa letteratura spicciola, può diventare una carogna, perché credere obbedire e combattere non è mica di una sola parte, quella del duce, e perché quelli come il Ferrini della notte arboriana mica sono solamente una caricatura innocua.
Ad esempio, le teste dure che trent'anni fa «facevano i cinesi», nel senso che pensavano alla dottrina di Mao come verbo da realizzare con ogni mezzo (leggi: rivoluzione con bombe, e non con i bomboloni), anche nella terra dei capitalisti emiliani (rosso sangue, per via di lambrusco, Ferrari, bandiera del Partito e globuli), sono parte del nostro paesaggio umano, anche se poi, cambiando gabbana e cercando prebende, hanno sperato di farsi dimenticare. E spesso ci sono riuscite, quelle teste dure, per merito di altre ancora più dure di loro: ovviamente, nel superiore interesse della Patria pacificata.
Quando nel Municipio di Roncofritto affiggeranno un po' di lapidi, ci sarà da divertirsi. Ne propongo una soltanto: «Alla memoria degli smemorati, un ricordo che sia luminoso esempio di persone in apparenza svanite nel nulla, un pensiero benemerito perché senza pensarci due volte, pensarono in sostanza unicamente a loro stessi. La Città riconoscente non li riconobbe più, tanto erano cambiati. A dimostrazione della perenne verità che sia Franza o sia Spagna, basta che se magna. Non credevano in Dio, ma democraticamente lo consideravano loro pari. Il popolo pose, ed i politici depositarono in banca».
(Chi fa eccezione tra i personaggi romagnoli di cui s'è detto all'inizio, è quel Daniele Luttazzi santarcangiolese, che però scivola troppo nell'umorismo grasso, perdendo la sua intelligenza in trivialità non troppo intelligenti.)