Storie de Il Gladiatore
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Storie ispirate dal film Il
Gladiatore |
Lettura
sconsigliata ai minori di anni 18 |
Massimo
l’Immortale
CROCE DEL SUD
Parte prima
I GUARDIANI DEI SOGNI
Ragazzina delle medie, credo di non aver mai letto
“Piccole donne”. In compenso, ero una divoratrice ingorda delle saghe marinaresche
di Salgari. Un po’ cresciuta, ho scoperto Conrad: “Lord Jim”, “Cuore di
tenebra”, “Nostromo”…Quindi Stevenson e i suoi racconti ambientati nei Mari del
Sud. Cresciuta ancora un pochino, ho pensato di ricavarne materiale per
un’altra storia. Ecco qui la prima parte.
IL NAUFRAGO
Novembre 1860,
acque al largo dell’Isola di Norfolk, Australia occidentale
Chissà se sono
ancora più forte della follia, si ritrovò a pensare l’uomo. Aveva perso la
cognizione del tempo e non riusciva a pensare a come sarebbe finita, né quando.
Era sceso in mare con quella zattera di tronchi tenuti insieme da quattro liane
marce, credendo di essere più forte di tutto quanto, del sole che lo accecava,
del fuoco che gli bruciava dentro, dei pescicani che lo seguivano come ombre
agili e sinistre, le sagome affusolate che s’intravedevano nitide sotto il pelo
dell’acqua. Gli squali erano i secondini che impedivano ai forzati di evadere,
dicevano le guardie. O, in caso contrario, li giustiziavano. Eppure, qualcuno
che ci provava c’era sempre. La morte, anche la peggiore, è comunque da
preferirsi alle catene: retorica della peggior specie, tutta quanta. Se è la
vita che ti pesa e decidi di farla finita, è in un altro modo che scegli di
morire: sparandoti in bocca, legandoti un cappio al collo e lasciandoti
penzolare giù, aprendoti le vene dei polsi con una lama tagliente o
concedendoti il sonno senza dolore e senza risveglio dell’oppio. Perché tutto
finisca, presto. Ma se è la libertà che cerchi, allora speri, e lotti fino alla
fine, come un pesce che continua a dibattersi, malgrado l’amo che gli lacera le
viscere. Fino alla fine. Anche se sai che in mare hai una possibilità
infinitesimale di trovare quello che cerchi, e la certezza quasi matematica che
il tuo coraggio finirà bruciato dalla sete e dalla salsedine, beccato dagli
uccelli, sbranato dai pescicani. A meno di non essere… quello che sono io. Ma
quando finirà? Finirà, pensò. E chiuse gli occhi.
L’ALTRA META’ DEL
MONDO
Barlee Lake, Australia, Territorio di Sud-Ovest,
McCloskey Estate, cinque mesi prima.
- C’è sempre da fare, qui. L’importante è averne
voglia. Questa è una terra che dà. Ma pretende.
E’ quel che succede
dappertutto, avrebbe voluto rispondergli. Preferì abbassare gli occhi, e
tenerselo dentro, perché non aveva soltanto bisogno di un tetto sopra la testa
e qualcosa da mettere sotto i denti, ma anche di stordirsi dalla fatica. Per
dimenticare. Ed erano tante le cose che voleva lasciarsi alle spalle.
- Il vostro nome?
- Max Merritt.
- Non siete inglese.
- Americano.
McCloskey gli
sorrise, come a volergli dire non lo sono più nemmeno io, dacché ho messo piede
qui, più di vent’anni fa. Questa terra si prende anche la tua identità passata,
e finisci con l’appartenerle. E da quel momento, ciò che eri, inglese,
scozzese, americano, non conta più niente, è un retaggio del passato da
ignorare quando non da dimenticare.
- Qual era la vostra occupazione…in America?
- Allevavo cavalli.
L’altro assentì con
una smorfia. Era lungo e magro, con una faccia color cuoio solcata dalle rughe
e incorniciata da una grottesca barba senza baffi, ormai quasi completamente
grigia. Gli ricordò Abe Lincoln, il Presidente.
- Ci sono parecchi
cavalli, qui. Baderete a loro. Ma vi chiederò di fare anche dell’altro, quando sarà
il momento. E c’è molto lavoro da fare. Sapete… tosare le pecore?
- Non l’ho mai fatto. Ma sono svelto ad imparare.
- Avete mai…scavato pozzi, coltivato la terra?
- Sì.
- Sapete sparare?
Che domande, si
trovò a pensare Max Merritt. In America, tutti giravano armati. Lì forse era
diverso, ma la sostanza dell’affare non cambiava. Assentì brevemente, senza
staccare da quelli del suo interlocutore gli occhi azzurri, scintillanti. Ci
sono i dingo[1], continuò l’altro. Si mangiano le pecore. Gli
emù[2], e i canguri che devastano i pascoli.
- E i nativi. Sono come topi di fogna, quelli.
Gli occhi
dell’americano si strinsero. E fu come se una luce nera offuscasse la loro
trasparenza.
- Sono uomini anche loro.
- Siete… un predicatore, forse?
No, semplicemente
un uomo in fuga da un paese dove i nativi sono considerati parassiti e i neri
animali da fatica. Un uomo in fuga dal suo destino e da una giustizia che
giustizia non è. Ma forse era meglio lasciargli credere che fosse stata
semplicemente la sua irrequietezza, a portarlo dall’altra parte del mondo. O
l’essersi cacciato nei pasticci per i begli occhi di una donna. O forse per
aver violato la legge. Ma in Australia la gente non era abituata ad indagare
sul passato degli altri. Era il futuro, e quello soltanto, che contava.
IL CANTO DELLA TERRA
Non l’aveva
accomodato nei quartieri dove alloggiavano gli altri braccianti della tenuta,
ma da solo, nella baracca in riva di un laghetto artificiale e che, in origine,
doveva essere stata un deposito per gli attrezzi. Ne fu grato a McCloskey,
anche se nessuno si era preoccupato di gettar via le cianfrusaglie di tutti i
generi che ingombravano le due stanzette, ed era stato costretto a provvedere
da solo alla bisogna. Poco gliene importava di stancarsi, ma dopo aver sgobbato
dall’alba al tramonto ed oltre, era crollato a corpo morto sulla branda e aveva
dormito il suo solito sonno pesante e senza sogni.
Non era stato il
frinire delle cicale, e neppure il nitrito di qualcuno dei cavalli oltre il
recinto a svegliarlo, la mattina del giorno dopo, ma un canto dolce e monotono,
un mugolio singolarmente melodioso, intervallato da parole cariche di mistero,
pronunciate in una lingua che non conosceva. Aborigeni, pensò. Non li aveva mai
visti, ma sapeva che un paio di loro lavoravano alla fattoria come servi
pastori. McCloskey li aveva definiti “topi di fogna”, ma nel loro canto
sommesso Max Merritt percepì lo spirito stesso della Terra e del Cielo, la
materia di cui sono fatti i sogni.
Quasi
inconsapevolmente, cominciò a cantare anche lui. Aveva una bella voce profonda
e intonata, ma forse non lo avrebbe fatto, se avesse immaginato che qualcuno
potesse ascoltarlo. “I’am a poor pilgrim of sorrow…” Quante volte aveva sentito Pearl[3] cantare sulle note di quella melodia
struggente? “In
a City called Heaven…I will build my home…”
Un paio di giorni
dopo, aveva avuto modo di conoscerli. Il più anziano era piccolo e magro, i
lunghi capelli brizzolati raccolti sulla nuca con un laccio di cuoio adorno di
perline e penne d’uccello. Dimostrava una quarantina d’anni anche se
sicuramente ne aveva di meno e doveva essere il capo della famiglia. C’era una
bambina di sette, otto anni che non lo perdeva d’occhio un attimo: sua figlia,
probabilmente. E poi una giovane coppia e un ragazzo sui quattordici, quindici
anni. Si rassomigliavano, avevano tutti quanti la stessa carnagione color
nerofumo, gli stessi occhi scurissimi, profondi e infossati, gli stessi denti
forti, naso largo e mento sfuggente. Aborigeni. Quelli che padron McCloskey
chiamava “topi di fogna” e ogni mattina levavano il loro sommesso canto
monocorde alla terra, al cielo e ai sogni.
Il capofamiglia si
chiamava Bundara, lavorava lì come servo pastore già da diversi anni e parlava
discretamente l’inglese. Era un uomo mite e gentile, con il quale non gli era
stato difficile stringere amicizia. Conosceva i segreti di tutte le creature
del bush[4], le erbe e i veleni che curano le malattie e
le ferite di uomini e bestie, lanciava il suo boomerang con mira
infallibile. E riusciva a leggerti dentro. Hai qualcosa che ti rode il cuore,
gli aveva detto una volta. E quando lui gli domandò che cosa glielo facesse
credere, rispose:
- Il tuo canto. Non
sogneresti di costruirti la tua casa aldilà delle nuvole, se fossi un uomo
felice.
E’ solo una canzone.
La mia donna la cantava sempre, e la porterò in cuore con altri ricordi che il
tempo che mi è stato dato di vivere non cancellerà. Mai. Finché l’alba vedrà
sorgere il sole, finché cadrà la pioggia… Finché il mondo esisterà. Forse gli
avrebbe raccontato tutto, un giorno. O forse quell’uomo avrebbe scoperto tutto
quanto da solo, se era veramente un mago come dicevano, capace di vedere in
sogno il passato e il futuro degli altri.
Gandjiu e Walbada erano
i suoi fratelli di sangue. Gli aveva detto Bundara. Loro stavano lì da poco, e
ancora non avevano imparato bene la lingua dell’uomo bianco. Boaliri era la
moglie di Walbada: presto avrebbe avuto un figlio. E Bindi[5] era la sua piccolina. Agile e graziosa, aveva
lunghi capelli arruffati e uno sguardo acuto, straordinariamente espressivo.
Come tutti i sordomuti. Povera, piccola Bindi, che non avrebbe potuto sentire
il soffio del vento, la voce degli uccelli e non avrebbe potuto cantare i suoi
sogni. Diventava triste, Bundara il saggio, quando gli diceva di sua figlia. E
Max gli rispondeva che i sogni sarebbe stato il suo cuore a cantarli, ma forse,
se parlava così, era solamente per consolarlo.
DORA
Non le aveva detto
niente, Nathan, sul conto del forestiero: nemmeno a quale incarico lo avrebbe
destinato. Intanto l’aveva sistemato nel capanno degli attrezzi, vicino al
deposito e al paddock dei cavalli. Anche se sapeva. Che fosse maledetto.
Il pensiero le aveva attraversato la mente come una saetta, e si era dovuta
mordere a sangue le labbra per scacciarlo. Nathan era suo marito, il patto che,
consapevolmente, aveva stipulato con lui esigeva che gli portasse rispetto.
Anche se non era facile.
La giornata era
tersa, il cielo senza una nuvola. Non ci pioveva quasi mai, in quel maledetto
posto. Tutto era arido, secco, polveroso, anche quelle immense distese di erba
stenta, inframmezzate da rocce rossastre erose dal vento, dove sembrava che
soltanto i dingo, gli emù, i canguri e le pecore ci vivessero bene. Era stato
grazie a quelle bestie ebeti imbottite di sego e di lana, tanto numerose da
cancellare il verde anemico dei pascoli con il biancore gialliccio dei loro
velli sudici, se Nathan si era arricchito. E se aveva potuto comprarla. Perché
era andata proprio così.
I disegni. Erano
perduti, si ritrovò a pensare. Il posto dove li teneva nascosti non era più
suo, adesso. Non avrebbe osato chiederli indietro al nuovo inquilino, anzi, era
più che probabile fossero finiti anch’essi nell’immondezzaio, al pari delle
altre cianfrusaglie che ingombravano il capanno degli attrezzi, prima di
diventare la casa del nuovo venuto. I carboncini. La carta. I pennelli. I
colori. Non era facile procurarsene altri, in un posto come quello e, in ogni
caso, avrebbe dovuto aspettare chissà quanto. Sarebbe stato doloroso, dover
rinunciare forse per mesi a quella che per lei era diventata una necessità
vitale, al pari del cibo e dell’acqua. Nessuno aveva mai visto i suoi lavori ed
era stato in grado di dirle se valeva la pena continuare, o se perdeva tempo.
Lei sapeva soltanto che traeva forza, dal tracciare sulla carta i segni che
riproducevano scorci di quel paesaggio arido e secco, gli animali selvatici, i
volti di cuoio e di pietra degli aborigeni. Ecco, Bindi aveva sorriso, quando
aveva visto i suoi disegni. La piccola era muta, ma la luce che le brillava in
fondo agli occhi diceva più di mille parole. Era bellina, pensò. Nonostante
quella pelle di un bruno verdastro e quei grossi denti belluini. Lei non
avrebbe mai avuto un figlio suo. Ma forse era meglio così.
Suo figlio avrebbe
avuto dodici anni, pensò. Se le circostanze gli avessero permesso di nascere.
Chissà se sarebbe stato un ragazzo o una bambina. Se sarebbe somigliato a lei.
O a suo padre.
E invece… Invece
era finito nell’immondizia ben prima di nascere. Come i disegni e i colori,
come la sua vita. Il nuovo venuto, colui che si era impadronito del suo rifugio
segreto, era bello. Un selvaggio, che montava a pelo i cavalli e ogni mattina
nuotava nudo nel laghetto, nonostante facesse ancora freddo. Tante volte si era
sorpresa a guardarlo e a rimpiangere di non poterlo ritrarre. Un piccolo
rammarico, in confronto ai dispiaceri che la vita aveva avuto in serbo per lei.
Ma ormai era tardi per piangere sul latte versato.
Eppure, si
ritrovava spesso a crogiolarsi nei ricordi quando, in certi pomeriggi afosi
dell’interminabile, arida estate australe o dei brevi inverni che raramente
portavano la pioggia, si chiudeva nella sua stanza e riviveva il passato.
Avrebbe voluto dormire, ma temeva che i ricordi si trasformassero in incubi. E
allora chiedeva aiuto al laudano per dimenticare.
Non avrebbe dovuto
farlo. Ma d’altronde nessuno, lì, avrebbe trovato riprovevole il suo modo di
agire. Nathan, forse. Ammesso che gliene importasse qualcosa di lei. Tante
volte si era domandata come avesse potuto sposarlo, un individuo come quello,
un uomo ignorante e brutale al quale doveva il crollo dei suoi sogni, la fine
ultima e definitiva di tutte le sue illusioni. O doveva cercarla in se stessa,
la causa di tutti i suoi mali? Eppure, gli errori che l’avevano portata in quel
posto dimenticato da Dio, dove tutto andava a rovescio, l’inverno era estate e
l’estate un inverno che tale non era mai completamente, a dividere l’esistenza
con quell’ignobile individuo, se avesse avuto la possibilità di nascere
un’altra volta, li avrebbe rifatti. Tutti quanti. Ne era più che sicura.
Quando era nata,
non era stato difficile predirle un’esistenza fatata. Come ai fratelli e alle
sorelle che erano venuti al mondo prima e dopo di lei. Come loro, aveva visto
la luce nella sontuosa dimora di un ricco industriale laniero, alla periferia
di Birmingham. Quarant’anni prima. Una vita fatata, già. O non piuttosto,
segnata da un senso di vuoto, d’inutilità e di noia? Da bambina, era stata la
disperazione delle sue istitutrici. I suoi genitori avevano sperato che
crescendo cambiasse. Ed era cambiata. Ma in peggio. Quella creatura pallida,
scialba, che portava i capelli tirati all’indietro e vestiva come una vecchia
maestra, che ricusava le feste da ballo e preferiva, la domenica, insegnare a
leggere e a scrivere alle mogli degli operai della fabbrica di suo padre non
avrebbe mai trovato marito. E fosse bastato quello! Agli occhi della gente del
suo ceto, le opere caritative potevano essere, e sicuramente lo erano,
meritorie anche dal punto di vista della promozione sociale, ma le mani e la
reputazione era meglio non sporcarsele, frequentando di persona certi ambienti.
A chi glielo rimproverava, lei replicava che quella che i suoi congeneri
chiamavano beneficenza in realtà era soltanto ipocrisia. Certo, con i tè e le
canaste per raccogliere fondi a vantaggio degli orfani e delle vedove, con gli
avanzi del guardaroba e della tavola munificamente elargiti ai poveri ci si
sciacquava la coscienza tenendo al contempo mani e abiti puliti. Che quella
ragazza alta, secca, senza attrattive, che non rideva mai e non s’incipriava il
naso covasse in mente pericolose idee sovversive? Era una santa, una fanatica,
una rivoluzionaria? Intanto, di certo si stava preparando un sicuro avvenire di
zitella inacidita, visto che a ventisette anni suonati non aveva ancora
ricevuto una sola proposta di matrimonio. Bella prospettiva, per una che
avrebbe potuto avere tutto e preferiva accontentarsi di niente.
Come al solito, i
suoi genitori avevano contrastato aspramente la decisione di lavorare come
infermiera volontaria presso il piccolo ospedale del dottor Irving. E come al
solito a nulla era servito, perché quando Dora si metteva in testa un’idea,
fosse pure la più strampalata, niente e nessuno sarebbero stati in grado di
distoglierla dai suoi propositi. Certo, dedicando il suo tempo migliore ai
bambini rachitici degli slums e agli altri poveracci che il generoso
dottore curava quasi gratis nel suo scalcinato ospedale, avrebbe messo
definitivamente una bella pietra sopra la speranza di trovare un marito. Ma, in
compenso, aveva trovato un amante.
Erano stati bravi,
lei e il dottor Irving a tenere ben nascosto quel segreto che avrebbe potuto
compromettere la rispettabilità di entrambi. Lui era sposato con una donna
malaticcia, che non aveva mai amato, ma era ricca abbastanza da sovvenzionare
con il denaro della sua cospicua dote le opere caritative del marito, un
idealista che, se avesse messo da parte i suoi scrupoli e scelto meglio i suoi
pazienti, sarebbe potuto diventare un luminare della medicina con fior di
parcelle, invece, per inseguire un utopico sogno di giustizia, tirava a
malapena a campare. Lei sapeva tutto quanto, anche che non avrebbe potuto domandargli
l’impossibile: sapeva tutto quanto di lui, e non era una bambina capace di
illudersi per un gesto, un sorriso, una tenerezza fraintesi.
Un brutto giorno,
si ritrovò incinta. A dispetto del suo spirito pratico e poco o nulla incline a
svenevolezze e romanticherie, come sempre succede, non aveva messo in conto che
potesse accadere, né, men che meno, che il generoso, idealista Charles Irving
potesse trattarla in quel modo. Non glielo aveva detto con brutalità, ma
torcendosi le mani e farfugliando qualche scusa. Non poteva, proprio in quel
momento, lasciare la moglie gravemente ammalata. Non l’aveva mai amata, era
lei, Dora, l’unico vero grande amore della sua vita, ma…
- Sarebbe meglio
che tu rinunciassi a questo bambino. Lo dico per il tuo bene.
E lei aveva
rinunciato a tutto. A quell’ipocrita senza coraggio, al figlio che forse
avrebbe voluto… L’aborto, praticato da una vecchia mammana, per poco non
l’aveva uccisa e di certo l’aveva rovinata. Dora era riuscita a stento a
salvare la pelle, ma non avrebbe mai potuto avere altri figli.
Non era stata
necessaria una gran scienza perché sua madre comprendesse a cosa fossero dovute
la febbre altissima e la devastante emorragia che per poco non l’avevano
ammazzata. Non se lo sarebbe mai aspettato, proprio da Dora, quello era
assodato. E come non dubitare che, anche se non glielo diceva apertamente, suo
padre avrebbe preferito saperla morta piuttosto che macchiata da
quell’imperdonabile colpa? In Inghilterra, presso la sua famiglia che non le
nascondeva di tollerarla a stento giusto per soffocare lo scandalo, in quella
sua casa che rassomigliava ogni giorno di più a una prigione senza le sbarre,
non poteva restare. Tramite un intermediario, le era giunta una proposta di
matrimonio dalla lontana Australia. Nathan McCloskey, un ricco allevatore di
pecore merinos, vedovo e padre di due figli piccoli, cercava una donna disposta
a far da madre ai suoi bambini. Lo aveva sposato per procura, senza neppure
conoscerlo. E il giorno stesso si era imbarcata alla volta del suo nuovo
destino. Con qualche timore, ma senza nessun rimpianto.
°°°°°°°°°°
E’ così che va, da
quando i ragazzi sono diventati abbastanza grandi da essere mandati in collegio
a Perth. Pensò Dora, sfiorandosi delicatamente con le dita lo zigomo livido.
Non serviva più a niente, lei, era solo un’estranea in mezzo ai piedi,
un’aristocratica con la puzza al naso la cui sola presenza bastava a McCloskey
per rammentargli la sua pochezza e mandarlo ogni volta in bestia. Benché magro
come un chiodo, era terribilmente forte, e le sue percosse facevano male. Aveva
preso l’abitudine di picchiarla, da quando Terry ed Anne se n’erano andati.
Fosse stata almeno bella, le rinfacciava, invece aveva quarant’anni e quella
faccia tutta rughe e lentiggini. La baldracca più scalcagnata del casino di Red
Rock era meglio di lei. E lui ci andava spesso, a puttane. A Red Rock, perfino
a Perth, quando vi si recava con la scusa degli affari o di andare a trovare i
ragazzi in collegio. E al ritorno non mancava mai di riferirglielo, con lo
sguardo torvo e il fiato che gli puzzava di whisky. Quelle del paese valevano
poco, erano cinque derelitte con la pelle butterata e i denti guasti, ma nel
casino più lussuoso di Perth c’erano due cinesi capaci di mandarti in paradiso
con le loro carezze e una polinesiana alta come un uomo, bella come una dea e
che in inglese sapeva dire soltanto fai di me quello che vuoi.
Dora inghiottì un
sospiro, fissando l’orizzonte senza nuvole. Quante volte aveva augurato a
quell’individuo tutto il male possibile, per poi pentirsene subito dopo?
Il forestiero. Le
piaceva guardarlo cavalcare in lontananza, quindi avvicinarsi il tanto che
bastava perché lei vedesse il riflesso del sole sui suoi capelli, il balenare
azzurro e dorato dello sguardo. Solo una ragazzina ignara delle cose del mondo
poteva chiamare amore un sentimento del genere e lei si mordeva a sangue le
labbra per non pensarci più, ogni volta che quel pensiero intrigante e molesto
le si affacciava alla mente. Le sarebbe piaciuto parlargli. O forse no. Perché
avrebbe potuto scoprire che quello straniero in fuga da un amore finito, dalla
legge, dal destino, dal demonio in persona poteva essere anche lui un bruto, né
più né meno di Nathan.
L’aveva sentito
cantare di un dolore struggente, di una casa aldilà delle nuvole e le era
bastato a capire che il forestiero non poteva essere quel che era Nathan. Poi,
un giorno, lui le era andato vicino con il suo passo silenzioso, e l’aveva
fatta sussultare quando con la sua voce lenta e grave le aveva detto che era
brava, porgendole i disegni e i colori che credeva fossero andati distrutti. E
lei aveva faticato a trattenere le lacrime, a non balbettare mentre, abbozzando
un sorriso, gli aveva detto vi ringrazio, per averne di nuovi avrei dovuto
aspettare chissà quanto.
- Io sarei stato
disposto a lavorare qui anche come bracciante, ma vostro marito ha ritenuto
opportuno riservarmi incarichi di responsabilità. La prossima volta che mi
capiterà di andare a Red Rock vi comprerò carta, pennelli e colori. Ho visto che
c’è un emporio dove vendono anche di queste cose.
Eh già, anche se
Red Rock distava oltre cinquanta miglia dalla fattoria, ed era un buco che
contava meno di mille abitanti, c’era proprio tutto: la scuola, la chiesa, il
medico, il barbiere e il beccamorti, il bordello, l’emporio gestito da un
cinese in cui era possibile trovare ogni cosa, dagli aghi alla farina. C’era
l’ufficio dello sceriffo. Un buon diavolo, il vecchio Dawson; non mancava, a
scadenze fisse, di far loro visita allo scopo recondito ma non troppo di
gustarsi un bell’arrosto di montone, anche se la ragione ufficiale era che al
podere lavoravano alcuni deportati: un paio di pastori e una giovane sguattera,
ladruncoli colti in flagrante mentre svuotavano le tasche di certi rispettabili
signori nell’elegante quartiere londinese di Chelsea. Non criminali pericolosi,
ma il dovere è dovere. E dalle mani della vecchia Lowless, la governante,
uscivano manicaretti davvero squisiti.
- Se poi mi
capitasse di spingermi fino a Perth, ve ne comprerò di quelli buoni. Il vostro
talento merita il meglio. Ah, un’ultima cosa. Se avete bisogno di uno studio
dove lavorare tranquilla, il capanno dove mi hanno sistemato è a vostra
disposizione. A me basta e avanza la stanzetta piccola, l’ingresso è
indipendente e non vi disturberei… A meno di non cedere alla tentazione di
venire ad ammirare le vostre opere.
Dora l’aveva
guardato allontanarsi, dopo aver sistemato in sella al cavallo la piccola
indigena sordomuta che lo seguiva ovunque andasse, come un cagnolino fedele.
Quell’uomo grande e forte non mancava di dimostrarsi sempre molto tenero con la
bambina. Aveva belle qualità, chiunque egli fosse, qualsiasi fossero i motivi
che lo avevano costretto a nascondersi in quell’angolo sperduto di mondo.
Vorrei poterlo ritrarre. Si disse da sé sola. E lo farò, prima o poi. Si
ripromise.
Tante volte si era
sorpresa a fantasticare sul suo conto. Attraente, carismatico, forte senza
arroganza, gentile senza infingimenti, quell’uomo aveva in sé tutte le qualità
per far innamorare una donna. Anche lei. E non doveva, per ragioni di decenza,
perché aveva un marito, per non soffrire ancora. Le piaceva intrattenersi a
scambiare con lui quattro chiacchiere, ma anche quelle conversazioni tanto
cortesi quanto impersonalmente corrette dovevano finire. Domani, si era detta
Dora tante volte. Lui era americano, non conosceva quei posti abbastanza da
essere in grado di evitarne i molti pericoli che nascondevano. Doveva
avvertirlo che da quelle parti c’erano serpenti dal veleno che non lasciava
scampo, le zecche della febbre e certi lucertoloni chiamati goanna[6] i cui
artigli causavano ferite che non si rimarginavano. E che gli emù avevano nel
piede un unghione affilato come un coltello, con il quale avrebbero potuto
aprire il ventre ad un uomo. Doveva avvertirlo, prima possibile. E poi voltare
la testa dall’altra parte, quando lo avrebbe incontrato. Ma non poteva negare a
se stessa che non ne sarebbe stata capace.
A CITY CALLED HEAVEN
(Una Città chiamata Paradiso)
“Quel che senti per
lui potrebbe farti soffrire, signora.”
Eppure, non ne
aveva mai parlato con nessuno, con quell’indigeno meno che mai. Ma le era
bastato guardare dentro i suoi occhi scuri e infossati, per comprendere che
quel che dicevano di lui era tutto vero, Bundara lo sciamano riusciva a leggere
dentro l’anima delle persone.
Forse non gli era
stato necessario leggerle dentro per sapere che suo marito, il padrone, la
picchiava. Per quello, bastavano e avanzavano i lividi. Perfino un aborigeno,
un selvaggio, vedendoli si sarebbe sentito autorizzato a compatirla. E a
comprendere come mai guardava così il forestiero dagli occhi azzurri e
inquieti. Li aveva visti uscire insieme a cavallo, o sedersi accanto, e parlare
fitto fitto, felici della certezza di poter condividere qualcosa d’importante.
Malgrado rischiasse di bruciarsi l’anima ancora una volta, la signora, perché
quell’uomo non era come tutti gli altri.
Quello non era un
uomo come gli altri. Eh, già. Glielo aveva detto. Che cosa glielo facesse
credere, a quel sudicio selvaggio, le riusciva difficile immaginarlo.
Gliel’avevano rivelato, forse, i suoi stupidi sogni?
C’era un vecchio
tavolo con due sedie, nella stanzetta che era la sua casa. Una sella e dei
finimenti gettati in un angolo, la sua carabina, le pistole e i coltelli appesi
alla parete di fronte alla finestra. Una stretta branda militare appoggiata al
muro, dove lui giaceva incosciente, il respiro breve e affannoso, la fronte che
gli scottava come il fuoco e la gamba destra fasciata con una spessa benda zuppa
di sangue.
Dora non riponeva
una grande fiducia nella misera scienza di Bundara. Prima di bendargli la
ferita, gliel’aveva lavata con l’infuso di tea tree[7] e coperta con un cataplasma a base di erbe
secche e radici masticate. L’odore dolciastro del sangue, del sudore e della
carne infetta aleggiava tutt’intorno, mescolato a quello penetrante, aromatico
dei medicamenti usati dallo sciamano e che di certo non sarebbero serviti a
niente. Max Merritt avrebbe avuto bisogno di un medico, ma Red Rock era troppo
lontana e in quelle condizioni non sarebbe stato in grado di affrontare il
viaggio. Se non l’aveva ucciso l’emorragia, avrebbe provveduto la cancrena,
pensò la donna mordendosi il labbro e sforzandosi di non piangere.
Era capitato il
pomeriggio del giorno prima. La piccola Bindi, mentre stava raccogliendo radici
e uova di lucertola nel bush, era stata assalita da un emù, l’uomo aveva
cercato di difenderla e… Dora si sforzò di non piangere, di non maledire la
figlia dello sciamano. Era il destino, non lei, il solo colpevole di quel che
era accaduto.
Giuro che questa
volta sarà l’ultima, si era detta prima di scendere da cavallo e raggiungerlo.
Lui era appiedato e guardava la testa crespa di Bindi scomparire e poi emergere
dal mare piatto dell’erba in mezzo al quale la bambina stava cercando qualche
tesoro da portare a suo padre, ossa calcinate di piccoli animali, radici dalle
proprietà medicamentose, uova commestibili.
- Mi sono domandata
tante volte perché avete scelto di vivere in un posto come questo. - Gli aveva
chiesto.
- Perché se fossi rimasto in Virginia non avrei avuto alternative:
sarei stato costretto a tradire il mio paese o la mia coscienza. E io sono un
uomo d’onore.
- La
vostra…coscienza?
- La mia patria
stava per impormi di combattere per difendere il diritto dei bianchi di tenere
i neri in schiavitù. E se ho disertato non è stato per vigliaccheria.
Non le aveva detto
altro, ed era corso via veloce, quando aveva visto l’emù assalire Bindi. La
terra è luogo d’esilio e di dolore, diceva la canzone che era solito cantare. E
chi soffre sogna di costruirsi la casa in una città chiamata Paradiso. Era
stata una donna ad insegnargliela: una giovane schiava in fuga dal suo destino.
La penombra era
opprimente come d’estate, malgrado non fosse neppure ancora iniziata la
primavera. Opprimente come il tanfo dolciastro che si mescolava all’odore acuto
del tea tree. Quando l’uomo era stato soccorso, sembrava che niente
potesse arrestare la copiosa emorragia che lo stava uccidendo. Sicuramente,
l’artiglio dell’emù gli aveva reciso l’arteria femorale. Eppure, il pomeriggio
del giorno dopo, era ancora vivo. Malconcio, sì. Incosciente e febbricitante.
Ma vivo.
Potessi fare
qualcosa per salvarlo, pensò Dora, guardandolo. Pur grande e forte, le ricordò
un piccolo bambino indifeso, come quello che non era nato perché lei non
l’aveva voluto. Doveva essere più giovane di lei, anche se non abbastanza da
poterle essere figlio. Trenta, trentacinque anni. Portava i capelli tagliati
corti e il viso, mortalmente pallido sotto l’abbronzatura, era incorniciato da
una barba incolta. Era diverso da come aveva immaginato che fosse guardandolo
da lontano montare a pelo i cavalli più indocili del paddock, o
sguazzare nudo nel laghetto. Intelligente, sensibile. Parlava bene. Gli piaceva
leggere. C’era un vecchio libro dalle pagine ingiallite, posato aperto sul
tavolo, accanto al lume a petrolio. Le Meditazioni di Marco Aurelio. In
latino.
Potessi… fare…
qualcosa… Con le dita, gli scostò delicatamente dalla fronte i capelli sudati.
Aveva quattro segni sottili alla base del collo e vistose cicatrici sulle
braccia e sul petto. Così forte, pensò. E così indifeso. Era bello come un dio
greco, e Dora lasciò ancora una volta che quel sentimento riprovevole la
travolgesse. Per poi vergognarsi di se stessa.
Sta morendo. Pensò.
Sta morendo e non è giusto. Se avesse trovato il modo di lavare la sua ferita…
Era stata infermiera, in un recente passato. Charles tante volte le aveva
parlato delle teorie di Semmellweiss[8] che aveva studiato e condivideva. Un
bollitore, una stufa, acqua e bende pulite… Non c’era un momento da perdere.
Dora scostò il
lenzuolo e si morse le labbra, guardando il suo grande corpo nudo e perfetto
abbandonato sul materasso chiazzato di sangue, come una cosa morta. Con le
forbici da lavoro che le pendevano sul petto appese a una catenella d’argento,
iniziò freneticamente a tagliare le bende…
Non aveva sentito
il passo leggero di Bundara. La vita non lo sta lasciando, le aveva detto,
quando lei si era voltata e gli aveva sgranato gli occhi sulla faccia. Dorme
perché gli ho dato l’erba del sonno. Il signor Merritt non è come tutti quanti
gli altri uomini: lui non può morire.
Quando l’hai
scoperto? E come? Avrebbe voluto chiederglielo, ma Bundara se n’era già andato.
Nello stesso modo in cui l’aveva scoperto lei, posando gli occhi sulla carne
sana e intatta, dove, secondo logica, avrebbe dovuto esserci una brutta ferita.
O forse glielo avevano rivelato i suoi sogni e la sua magia. Era pazzesco,
tutto quanto, eppure non poteva esserci altra spiegazione plausibile, a quel
che i suoi occhi avevano visto e vedevano. Con un panno umido, ripulì via dalla
sua pelle il lezzo dolciastro del sudore e l’aroma acuto dell’olio di tea
tree. Puoi essere quel che vuoi, Max Merritt, si disse da sé sola. Per me
resterai sempre l’uomo migliore che abbia mai conosciuto… L’unico uomo decente
che abbia mai incontrato sulla mia strada.
SEGRETI
Chissà se, non
fosse stato ciò che era, l’avrebbe messa a repentaglio ugualmente, la sua vita,
per salvare quella di un’aborigena sordomuta. Chissà. Il cuore dell’uomo è un
mistero, si disse Dora, guardandolo sonnecchiare, accogliendo con un sorriso
che equivaleva a un bentornato il suo risveglio.
Non avete paura… Di
me? Glielo avrebbe domandato, pensava l’uomo. Anche se niente lasciava intuire
che così potesse essere. La signora era stata gentile con lui, gli aveva
sistemato i cuscini dietro la schiena perché stesse più comodo e tenuto la scodella
della minestra, invitandolo a mangiarla tutta, neanche fosse stato un bambino.
Non solo non aveva paura di lui, era anzi felice che la sua strana natura lo
avesse preservato da quel che sarebbe potuto accadergli, se fosse stato un uomo
come tutti quanti gli altri, di questo poteva averne la certezza, anche se non
glielo avrebbe confermato, né, men che meno, gliene avrebbe rivelato le
ragioni. Perché quello era solo uno sconosciuto capitato lì da un mondo
lontano, e lei una signora sposata… Dora McCloskey era una donna molto sola.
Molto infelice. Quel bruto che aveva sposato la picchiava. Per quali motivi
aveva voluto punire se stessa, legandosi a un uomo del genere?
- Bundara mi ha
raccontato cose curiose sul vostro conto, signore. Cose a cui mi è stato
difficile credere.
Non gli aveva detto
altro. Cose alle quali siete libera di prestare o meno fede, madame… Dopodiché
si era assopito. Evidentemente le ferite, anche se non potevano ucciderlo,
riuscivano ugualmente a indebolirlo e gli cagionavano sofferenza: l’immortalità
non aveva del tutto cancellato in lui le debolezze intrinseche alla natura
umana.
In un recente
passato, era stato costretto a lasciare il suo Paese per non tradire i principi
in cui credeva. E in quello più lontano? Chi era stato, prima di diventare
quello che era?
Un bell’uomo, si
ritrovò a pensare Dora, trattenendo il respiro per non svegliarlo. Capelli
castani, pelle chiara, lineamenti delicati. Un uomo grande e forte, tra le cui
braccia le sarebbe piaciuto addormentarsi. Non aveva mai sognato. I sogni sono
tempo perso, s’era sempre detta. Ma la realtà che le stava dinanzi era mille
volte più assurda di tutti i sogni che aveva sognato nel corso della sua vita.
- Venite qua,
madame. E sedetevi vicino a me. Non abbiate paura.
- Che cosa vi fa
pensare che ne abbia?
Aveva bellissimi
occhi, Max Merritt. Azzurri, sfumati di verde come l’acqua del mare. Ora
teneri, ora sfrontati, al tempo stesso dolci acuti e feroci. Doveva essere
stato un guerriero, nella sua prima vita: ne portava le tracce impresse sopra
la pelle, segnata da innumerevoli cicatrici, nella voce grave, nello sguardo
intenso, nella presenza imponente. Non abbiate paura. No che non ne aveva.
Neppure dopo aver scoperto, sul suo conto, quella verità che sembrava una folle
menzogna.
Gli sorrise ancora
una volta. Come aveva sorriso ai bambini malati del suo vecchio ospedale, alle
donne del popolo che volevano imparare a leggere… E a Charles Irving. Mi piacerebbe conoscere il vostro passato,
Max.
- E’ presto detto.
Nella mia prima vita, sono stato il comandante delle legioni Felix durante il
regno dell’imperatore Marco Aurelio. Caduto in disgrazia presso il suo
successore, il turpe Lucio Aurelio Antonino Commodo, fui schiavo e gladiatore…
Morii di sua mano, durante un combattimento nell’arena. Ma riuscii a colpirlo a
morte, prima di cadere, vendicando così mia moglie, mio figlio e il mio
signore.
- Una storia
triste.
- Una tragedia che
lo scorrere del tempo non è riuscita a cancellare. Nonostante siano passati
1700 anni, quel che ho visto e vissuto, Marco Aurelio, mia moglie, mio figlio,
perfino quel bastardo del sedicente imperatore fanno ancora parte di me… Nel
bene e nel male.
Bindi. Forse gli
ricordava il suo figlioletto, per quel motivo si era tanto affezionato alla bambina.
E l’avversione che sentiva per la schiavitù, tanto violenta da averlo spinto a
lasciare una casa, una posizione e le sue tranquille certezze in cambio di
un’esistenza precaria in una terra lontana, veniva anch’essa da un passato in
cui quell’esperienza terribile l’aveva provata sulla sua pelle.
- Sarebbe
profondamente sbagliato… e soprattutto ingiusto… se temessi un uomo come voi,
Max.
Gli appoggiò la
mano sulla sua, gliela strinse come avrebbe fatto con un vecchio amico. Doveva
essere stato l’amore di una donna a riportarlo indietro dall’aldilà. Non poteva
essere altrimenti.
- Qual è… il vostro
vero nome, Max?
- Massimo Decimo
Meridio.
Il solenne nome
latino di un grande generale caduto in disgrazia e finito schiavo. Il solenne
nome latino che sicuramente avrebbe preferito nessuno sapesse quando, come
l’ultimo dei delinquenti, era stato coperto di disonore e costretto a giocarsi
la pelle nell’arena davanti alla marmaglia eccitata che reclamava sangue. Il
nome scritto in calce al libro ingiallito che Dora aveva preso in mano.
Osservandolo bene, notò che non si trattava di una copia stampata, ma di un
quaderno dove, chissà quanto tempo prima, con una grafia nervosa e disordinata
erano state annotate alcune massime di un grande sovrano. Di quel sovrano che,
le era stato insegnato dai suoi istitutori, era morto per le febbri e la fatica
in un accampamento, mentre combatteva una guerra infinita contro i nemici
dell’Impero. E adesso quell’uomo che veniva dal passato le raccontava com’erano
andate esattamente le cose: alla maniera dei suoi predecessori, il vecchio
Imperatore avrebbe voluto designare quale erede un uomo in cui riponeva tutta
la sua fiducia. Ma il suo figlio naturale, e chissà se davvero lo era, lo
stravagante, crudele e debosciato Lucio Aurelio Antonino Commodo, lo aveva
ucciso prima che le sue ultime volontà potessero essere conosciute e
rispettate.
- Eravate voi
quell’uomo?
Max accennò di sì
senza parlare. Quindi, sollevatosi a sedere, la guardò. Intensamente, a lungo.
Dovreste vestirvi, pensò Dora mordendosi il labbro. Ma non poteva permettersi
che altri sapessero chi era e doveva continuare con la commedia del ferito
grave, sul cui conto solo lei e Bundara conoscevano la verità. Lei aveva
quarant’anni e un passato, non era una verginella ingenua, eppure il corpo di
quell’uomo la turbava. Perché era sopravvissuto alla sua stessa morte, e
perché… Il cielo sapeva se era bello. Forme proporzionate come una scultura
dell’antichità classica. Pelle di seta tesa sopra grossi muscoli torniti…
Max continuava a
guardarla, ed era come se i suoi occhi chiari la bruciassero fino alle
profondità più segrete del suo orgoglio di donna. Non era mai stata bella e le
dolorose vicissitudini della sua esistenza, oltre al sole spietato delle
lunghe, aride estati australi, l’avevano precocemente sfiorita. Alta e di
ossatura forte, aveva grandi mani solcate dal rilievo delle vene, la pelle
chiara e lentigginosa solcata da troppe rughe, occhi nocciola ombreggiati da
corte ciglia color della ruggine, come la folta massa dei capelli crespi, e un
corpo secco e asciutto, del tutto privo di rotondità e morbidezze femminili.
Come se il sole e la sofferenza avessero bruciato anche quelle.
- Che cosa avete fatto
qui? - Le domandò Max sfiorandosi lo zigomo, senza staccare gli occhi dai suoi.
- Ni… niente. Sono
inciampata, ho battuto contro uno spigolo, e…
Nella sua lunga
esistenza, Max aveva imparato a distinguere a colpo sicuro la verità delle
menzogne. E, se anche Dora fosse stata più brava a mentire, sarebbero state le
circostanze a tradirla. Allungò una mano, le sfiorò delicatamente i contorni
ossuti del viso con le dita forti e callose.
- No. E’ stato lui,
vostro marito. Non avreste dovuto sposarlo.
Dora non osò negare
ma nemmeno dirgli che non aveva avuto scelta, perché certi errori si pagano, e
una vita soltanto non basta a scontarli; e si ritrovò stretta tra le braccia
dell’uomo, contro il suo petto caldo. Tuttavia lo respinse, quando le cercò le labbra
con le sue, per consolarla, forse... O perché era una canaglia. Come tutti
quanti gli uomini.
- Sono una donna
sposata, Max.
- Una donna sposata
a un mascalzone inzuppato di whisky, ad un vigliacco che la picchia… Non
dovreste restare con lui un minuto di più.
Dora si morse la
bocca. Per andare dove, se di suo non aveva più niente?
SACRIFICIO
Aveva piovuto, e
parecchio, contrariamente a quel che accadeva di solito da quelle parti quando
la primavera lasciava il posto alle prime avvisaglie dell’estate. Quanto tempo
era passato, da quando aveva messo piede da quelle parti, da quando l’emù lo
aveva ferito e Dora era venuta a conoscenza dei suoi segreti? Pochi mesi, e gli
erano sembrati eterni. Era mercoledì e, come tutti i mercoledì, quale che fosse
il tempo, lo sceriffo Dawson sarebbe venuto a gustarsi il suo cosciotto di
montone arrosto col contorno delle patatine dorate nel burro caldo, e la scusa
era sempre quella di far sentire ai deportati che avevano il suo fiato sul
collo. Anche se erano solo dei ladri di polli, che le circostanze avevano ormai
reso del tutto inoffensivi. Ma quella volta ci sarebbe stata una sorpresa ad
attenderlo. Una gran brutta sorpresa.
Max la guardò
torcersi le mani senza piangere, senza proferire parola. Non piangeva mai, lei,
neppure quando quell’animale di suo marito la batteva e le lasciava ben
visibili i segni lividi delle sue percosse sul viso e sulle braccia. Ma quella
volta Nat McCloskey aveva commesso l’imprudenza di aggredirla mentre Dora
impugnava le sue forbici da lavoro. Lo aveva colpito per difendersi. Non
avrebbe voluto ucciderlo, forse neppure spaventarlo, la sua era stata una
reazione istintiva, come alzare le braccia per ripararsi dai colpi. Invece, la
punta delle forbici gli aveva reciso la carotide, e lui era morto. Per causa
sua.
La giustizia le
avrebbe presentato il conto. La giustizia, dopo la vita e la sfortuna. Max si
morse il labbro.
- Lasciate fare a
me. Io non rischio niente.
Non le era stato possibile
fermarlo, malgrado ci avesse provato. Aveva mostrato il cadavere a Dawson, e si
era accusato di quel che non aveva fatto. Quindi, senza ribellarsi, si era
lasciato ammanettare, ed era salito sul carro.
“Avevano litigato
malamente, due o tre giorni fa. Sono sicuro che il padrone voleva cacciarlo.”
“Una volta che non
stavo bene, la governante Lowless aveva mandato Bindi, la muta, a portare una
caraffa di limonata fresca al signor Merritt che aveva appena finito di domare
un puledro, nel paddock. Quella buona a niente di un’aborigena aveva
lasciato cadere per terra la caraffa, mandandola in pezzi. Il padrone l’ha
colpita con uno schiaffo e lui… lui l’ha aggredito. Era diventato una belva,
sembrava che volesse ammazzarlo.”
“Se la intendevano,
Merritt e la padrona. Li ho visti spesso uscire insieme a cavallo e lei andava
sempre da lui, nella baracca vicino alla cisterna…”
C’erano
testimonianze più che attendibili a suffragare la sua autoaccusa. Nella
migliore delle ipotesi, Max Merritt, l’americano, rischiava di finire deportato
nella colonia penale di Norfolk. Di essere impiccato, in quella peggiore. Dora,
affacciata alla finestra, vide il carro ripartire sotto la pioggia e si asciugò
una lacrima col dorso della mano. Che Dio ti aiuti, gli augurò con il pensiero.
Coraggio, le aveva
detto Bundara. I suoi sogni gli avevano rivelato tutto quanto di quell’uomo.
Cose che anche lei sapeva, per averle viste con i suoi occhi. Non finirà,
mormorò. E tornò dentro.
FINE PRIMA PARTE
Lalla, 26 marzo 2004
Massimo l’Immortale |
[1] Cani selvatici.
[2] Grossi uccelli inetti al volo, simili
agli struzzi.
[3] Si veda un mio racconto precedente, “Underground Railroad”.
[4] La steppa australiana.
[5] Sono i nomi dei protagonisti di alcune
leggende aborigene, con cui ho battezzato i personaggi di questa mia storia.
[6] Di queste informazioni zoologiche debbo
ringraziare Russell Crowe. Mi sembra doveroso farlo, anche se non lo conosco di
persona (purtroppo…), avendole
estrapolate da un’intervista da lui rilasciata qualche anno fa. Nell’ articolo
intitolato “Man on Fire”, parlava, tra le altre cose, del suo amatissimo ranch
e della fauna, domestica e selvatica, che lo popola.
[7] Arbusto dalle cui foglie si estrae un
olio aromatico dal forte potere astringente e disinfettante.
[8] Medico viennese del XIX Secolo,
teorizzatore dell’asepsi.