Storie de Il
Gladiatore
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Storie
ispirate dal film Il Gladiatore |
Lettura sconsigliata ai minori di anni 18 |
UNDERGROUND RAILROAD
di
Lalla Usai
Veniva così definita, “Ferrovia Sotterranea” l’associazione segreta
abolizionista che, prima della Guerra di Secessione, aiutava gli schiavi
fuggiaschi a raggiungere i territori liberi del Nord. Ne facevano parte sia
persone di colore, come Nat Turner e Harriett Tubman che bianchi, come il
famoso John Brown.
Località Old Black Oaks, Virginia Settentrionale ,Agosto 1859
SWING LOW SWEET CHARIOT[1]
(Dondola piano, dolce piccolo carro)
Nessuno se lo sarebbe mai aspettato. Masta[2]
Josh Tucker era un uomo grande e grosso, che cavalcava, andava a caccia, la sera prima aveva riso e bevuto in compagnia degli amici, pareva il ritratto
della salute e non aveva ancora compiuto i cinquant’anni. Dove taglia taglia,
la falce: il grano e le erbacce, l’erba verde e quella secca, aveva sentenziato
Big Mama, quando aveva saputo, ostentando la solita espressione di sempre. Era
stato un bravo padrone, Masta Josh, e Dio ne avrebbe tenuto conto, quando si
fosse trattato di pesare sulla bilancia che avrebbe deciso il futuro della sua
anima immortale le buone e le cattive azioni, le virtù e i vizi.
“Swing low, sweet chariot…”
La voce della vecchia era ancora quella ferma di tanti
anni prima. Quante volte aveva accompagnato la sua gente nell’ultimo viaggio?
-Basta, fate tacere quella maledetta vecchia!
La Signora aveva parlato, e Big Mama si limitò ad
abbassare la voce, senza smettere di cantare. Masta Tucker era stato un
peccatore, aveva bisogno delle preghiere per evitare l’inferno, e a lei
dell’anima degli altri importava più di quanto mai fosse importato alla
Signora. Era un’egoista, quella. Non aveva mai voluto bene a Masta Tucker ma
tutti alla Casa Grande dicevano che l’aveva sposato per i soldi, come del resto
era normale, tutte le donne della sua condizione si sposavano per quelli.
Tutti quanti alla Casa Grande dicevano che la Signora non
avesse sangue dentro le vene, come i serpenti e i gechi. E non si sbagliavano.
Quando avevano riportato indietro dai campi il corpo del padrone, fulminato da
un’apoplessia mentre soprintendeva a certi lavori, nessuno l’aveva vista
versare una lacrima. Aveva tirato fuori dall’armadio i vestiti neri che aveva
indossato per un anno dopo la morte di suo padre, dato disposizioni per le
esequie, come se la faccenda intera riguardasse un estraneo e non l’uomo con il
quale aveva diviso metà della sua vita. E ordinato a tutti quanti, lì dentro,
liberi o schiavi che fossero, di prendere il lutto.
Come se alla mia gente importasse qualcosa, pensava Big
Mama, senza smettere di biascicare tra i quattro denti che le erano rimasti la
cicca di tabacco e quel canto triste e struggente che avrebbe accompagnato
l’anima di Masta Tucker al cospetto dell’Altissimo e magari anche ammorbidito
il suo rigore nei confronti di quell’uomo che era stato un peccatore impenitente,
aveva frequentato i bordelli anche dopo il matrimonio e mantenuto un’amante
fissa e la figlia nata dal loro rapporto proprio lì, alla piantagione, sotto il
naso di sua moglie. Povero Masta Tucker, con gli schiavi non era mai stato
cattivo, non aveva mai fatto battere nessuno o smembrato le famiglie per
vendere i loro componenti. Se non pregherò io per lui, non lo faranno gli
altri, questo è sicuro, sua moglie, che non l’ha mai amato, i suoi figli, un
ragazzo e una ragazza dall’aria sciocca. E lui finirà all’inferno, a pestare
brace insieme ai diavoli che lo punzecchieranno con i loro forconi per tutta
l’eternità.
Avrebbe chiesto a qualcuno dei neri di Old Black Oaks di
pregare per l’anima del vecchio Masta, anche se sapeva che la avrebbero riso in
faccia e quelli più scapestrati magari le avrebbero risposto che non era più
tempo di schiavi e di padroni e che, presto, il vento del Nord avrebbe portato
la libertà e la giustizia. In quanto a Tucker, che marcisse pure all’inferno.
Forse Leah e Pearl avrebbero pregato per lui, se glielo avesse chiesto:
l’amante che gli aveva dato tutto ciò che la sua legittima moglie non si era
mai sognata di dargli, e la sua figlia bastarda che era bella come un sogno e
aveva la pelle del colore sbagliato, come sempre succede quando un bianco mette
un figlio in corpo a una nera.
Big Mama sputò la cicca in un angolo, la spiaccicò sul
pavimento con il piede. Ripensò a quel che aveva origliato, e questa volta le
sue vecchie orecchie non l’avevano tradita, facendole capire fischi per
fiaschi, ciò che aveva sentito era tutto vero. Leah e Pearl non avrebbero
accompagnato Masta Tucker nel suo ultimo viaggio, perché sarebbero state
portate via prima. La Signora le aveva vendute.
Il padrone aveva promesso loro tante volte che prima o
poi avrebbe avviato le pratiche perché fossero affrancate. Ne aveva già parlato
con il suo notaio. Ma quando stringeva tra le braccia il lungo corpo bruno di
Leah, le sussurrava “Tempo ce n’è”. Era come se, affrancandola, avesse temuto
di perderla, e l’avrebbe perduta. Allora lei gli accennava un sì con la testa,
prima di socchiudere i grandi occhi dolci e di accondiscendere alle sue voglie.
Si fidava di lui, e lo amava come il primo giorno. Non può esserci amore se non
c’è fiducia, e poi Masta Tucker era bello, gentile e appassionato. L’aveva
sistemata in una casetta pulita, nel bel mezzo della piantagione, e non aveva
mai permesso che si spaccasse la schiena nei campi, anzi, le piaceva vederle
indossare vestiti di seta e ornarsi i lobi delle orecchie con grandi cerchi
d’oro. Aveva voluto che la figlia nata dal loro amore imparasse a leggere e
scrivere e, in questo, Pearl si era sempre dimostrata più sveglia e
intelligente dei suoi fratellastri bianchi, un ragazzo grasso, dall’aria
torpida, e una ragazza segaligna e petulante, che aveva trovato marito solo in
grazia della sua dote. Proprio come Miz[3]
Lou Ella, sua madre, una peste la pigliasse.
Tempo ce n’è… Invece non ce n’era stato. Dove taglia,
taglia, la falce: il grano e le erbacce, l’erba secca e quella appena
germogliata. Perché la morte non guarda in faccia nessuno.
LEAH
La più matura delle due donne aveva faticato a mascherare
l’ansia nella speranza che l’altra non se ne accorgesse o, quantomeno, l’attribuisse
al dolore. Aveva voluto bene a Masta Tucker, e gli doveva riconoscenza: non
fosse stato per lui, avrebbe avuto un altro destino, sicuramente molto più
amaro. Le donne come lei non venivano acquistate perché consumassero la loro
giovinezza faticando nei campi come le bestie: finivano nei bordelli, di
solito. A meno che un qualche ricco signore stufo della moglie scipita che
aveva dovuto sposare per interesse non le comprasse per scaldargli il letto e
offrisse loro una vita più decente, almeno fintantoché il fisico reggeva. Poi…
Dio ci avrebbe pensato, al dopo.
Leah era una griffe[4]
di trentacinque anni e Masta Tucker l’aveva acquistata, diciannove anni prima,
nel più rinomato mercato d’uomini di New Orleans, con l’intenzione di regalarla a sua moglie. Silenziosa, mite,
ordinata e di aspetto molto attraente, sarebbe diventata la sua cameriera
personale. Invece non lo divenne mai, ma forse questo Masta Tucker lo sapeva da
subito.
Masta Tucker… Non le aveva mai consentito di chiamarlo
Josh, neppure quando erano soli, lontani da occhi e orecchie indiscrete. Le
convenzioni non lo permettevano, nonostante una consuetudine fatta di anni
insieme e una figlia. Un piccolo, banale rimpianto, l’unico che l’avrebbe
accompagnata, quando si fosse trovata a ripensare al passato, all’ amore,
perché almeno da parte sua tale era stato, nel bene e nel male, amore destinato
ad andare aldilà delle ipocrisie e delle regole invalse perché non era niente
di diverso e quello sarebbe rimasto, finché il Signore non le avesse fermato il
cuore e spento il respiro. Anche se Masta Tucker era bianco, era il suo
proprietario e aveva una moglie. Anche se lei era solo una schiava negra,
costretta a chiamarlo padrone perfino nell’intimità.
Leah rivolse uno sguardo obliquo alla figlia, distogliendo
però subito gli occhi, perché non glieli vedesse lucidi di lacrime e le
domandasse qualcosa che esigesse una risposta. Figlia di una griffe e di un
bianco, Pearl era più chiara di lei. Ma comunque più scura di suo padre. Fosse
stata come certe meticcie che aveva conosciuto, tanto chiare da potersi
spacciare per bianche… Forse il destino che l’aspettava sarebbe stato meno
amaro.
PEARL
Pearl Tucker era molto alta. Più di qualsiasi donna e
anche più di parecchi uomini. Aveva compiuto da poco i diciassette anni, quindi
sarebbe cresciuta ancora. Portava i capelli, che erano neri come l’inchiostro,
raccolti in una grossa treccia e, quando li scioglieva, le incorniciavano la
faccia come una nuvola vaporosa. Non era molto scura e, se avesse fatto uso
costante di certi impiastri, forse… Ma era inutile parlargliene, avrebbe
risposto sono orgogliosa di come sono e messo a tacere tutti quanti, anche sua
madre. Era forte, determinata. Non avrebbe avuto una vita facile. Per giunta
era bella e per una schiava la bellezza, il carattere e l’intelligenza non sono
qualità, ma sempre e solo una maledizione più pesante di un macigno.
Si sorrise nello specchio, come le streghe: aveva denti
bianchi, una bella bocca carnosa. Come sua madre. Da lei aveva preso l’ovale del
volto e il taglio degli occhi, che erano però color nocciola, come quelli di
Masta Tucker. Chiunque, le dicevano alla piantagione, avrebbe potuto perdere la
testa per lei, né nera né bianca, e bella come una fata. Anche un signore come
suo padre, un uomo che, in cambio del suo amore le avrebbe dato una casa
confortevole, dei vestiti eleganti, una vita che le altre avrebbero invidiato.
Stupide. La realtà era più dura delle pietre e amore una parola e quello
soltanto. Equivoca, sporca, ingannatrice. Sua madre c’era cascata. Solo lei
poteva chiamare amore quello che c’era stato tra lei e il suo padrone. Non era
stato amore ciò che aveva legato Masta Tucker e quella moglie odiosa che gli
era stata imposta dalle circostanze e dal calcolo. Ma non era stato amore
nemmeno quel che suo padre, l’Uomo Bianco, il Padrone, aveva provato per sua
madre, la schiava, la donna da niente, e grazie al quale lei stava al mondo. Da
parte di Leah, forse, ma non dell’altro. Amore. Piacere. Leah era bella. Ed era
nera. E non era libera di costruirsi da sé il suo destino.
Pearl strinse i pugni fino a veder sbiancare le nocche.
Amore maledetto, capace solo di portare sofferenza. Amore amaro, univoco, non
ricambiato… si può morire, per l’oggetto del proprio desiderio, senza che a costui
importi niente di noi. E così era stato, tra sua madre e l’uomo a cui Pearl
doveva la vita.
-Pearl…
L’aveva chiamata così, semplicemente per nome, mentre la
portavano via. La Signora l’aveva venduta, e non si sarebbero mai più riviste
se non nei sogni, come sempre succedeva. Se Masta Tucker le avesse amate sul
serio, non avrebbe permesso che questo accadesse. Non avrebbe dilazionato il
momento di affrancarle al punto di morire senza averlo fatto e lasciarle,
schiave, in balia di una che le aveva sempre odiate. A trentacinque anni, Leah
non sarebbe finita dove la Signora avrebbe voluto che finisse, era troppo
vecchia. L’aveva comprata un piccolo proprietario terriero perché gli
assistesse la madre invalida, e sarebbe stato già abbastanza umiliante anche quello,
lavare le natiche flaccide della vecchia, ripulirla dei suoi escrementi, per
una che in vita sua non aveva fatto altro che scaldare il letto del padrone.
Doveva essersi detta così da sé sola, Miz Lou Ella, la Signora, mentre guardava
la negra a causa della quale aveva dovuto inghiottire l’umiliazione del
tradimento, andarsene via su di una vecchia carretta condotta da un omiciattolo
scalcagnato: il suo nuovo padrone.
Pearl ricacciò indietro le lacrime. Quel che non era
accaduto a sua madre sarebbe accaduto a lei, che di anni ne aveva solo
diciassette. Qualcuno degli schiavi, origliando di nascosto i discorsi della
padrona, aveva sentito che l’avrebbero portata in città. Qualcun altro aveva
visto la Signora parlare con Masta Deveraux, ed era inutile pregare che non
fosse vero. Se l’avessero portata in città, Pearl sapeva che sarebbe finita in
un bordello. Se fosse stata venduta a Deveraux… Quell’uomo era un pervertito,
tutti quanti lo sapevano.
L’alba del giorno successivo avrebbe fatto conoscere anche
a lei il suo nuovo destino. Ancora una volta, Pearl si morse a sangue le
labbra. Era giusto che fossero gli altri e non lei a deciderlo, solo perché era
nata con la pelle del colore sbagliato? Dall’altra parte del confine, le era
stato detto, non esistevano liberi e schiavi. E il confine non era lontano. Se
avesse guardato il cielo e Dio l’avesse assistita mantenendolo sgombro dalle
nuvole, avrebbe potuto camminare senza perdere di vista il Piccolo Carro e la
Stella Polare, che avrebbero guidato il suo cammino verso la libertà.
CORAGGIO
E PAURA
Pearl non aveva l’abitudine di poltrire nel letto, e
quella notte in bianco trascorsa stesa su un pagliericcio, con le narici sature
del cattivo odore di Big Mama non avevano certo conciliato oltre il dovuto un sonno
che non sarebbe arrivato mai, per quante porcherie l’avessero costretta ad
inghiottire. Potevano provarci, si era ritrovata a pensare. E per impedire che
ciò accadesse, non aveva messo niente nello stomaco dalla sera prima. Uscire
dalla baracca di Big Mama prima che la portassero via sarebbe stato facile,
tutto sommato. E se qualcuno l’avesse sorpresa a casa sua, poteva tirare in
ballo la scusa che era venuta a prendersi la sua roba, prima di partire. Si era
mostrata rassegnata, per non insospettire Miz Lou Ella e s’era meravigliata da
sé sola di quanto le fosse riuscito facile fingere, con lei e con tutti quanti.
Scivolò
silenziosa via dai quartieri degli schiavi senza che Big Mama, la quale
continuava a russare rumorosamente, si accorgesse di nulla. Fuori, l’aria era
greve di umidità e brulicante d’insetti, in quel primo mattino d’una calda
giornata estiva. Casa sua non era lontana. Doveva smettere di considerarla
tale, anche se non ne aveva conosciuta un’altra: una baracca di tronchi
d’albero, ma linda e abbastanza grande, suddivisa in tre stanzette arredate con
mobilio vecchio ma ancora in buone condizioni, l’angolo di serenità che Masta
Tucker aveva ritagliato per sé e per la famigliola semiclandestina. C’era la
sedia a dondolo preferita dal padrone, in un angolo della stanza più grande e,
sul tavolo, la cesta da lavoro di Leah con le forbici, gli aghi, i rocchetti di
filo e le camicie che cuciva. Ecco, una volta al Nord avrebbe potuto
guadagnarsi da vivere facendo la camiciaia, pensava Pearl. O anche facendo la
bambinaia, visto che non le mancavano i modi e l’educazione, o magari tenendo
compagnia a un’anziana signora… Il
confine non distava più di una cinquantina di miglia e camminando di
buona lena, con l’aiuto di Dio e della fortuna non sarebbe stato impossibile
arrivarci, iniziare dal niente una nuova vita.
La
casa era deserta e silenziosa. Nessuno si era preoccupato di chiudere a chiave
la porta. Forse, Miz Lou Ella, la Signora, l’avrebbe fatta bruciare con tutto
quello che c’era dentro per liberarsi anche dei ricordi, oltre che di sua madre
e di lei. Pearl prese un tascapane, ci stipò dentro un tovagliolo e qualche
biscotto, il coltello a serramanico con l’impugnatura di madreperla che Masta
Tucker aveva dimenticato lì chissà quanto tempo prima… Tutte cose che si
sarebbero potute rivelare utili, in un modo o nell’altro, strada facendo.
Era
bella. Lo specchio glielo diceva. Bella anche così, spettinata e con gli occhi
gonfi di sonno e di pianto. Donna dalla testa ai piedi, con quei fianchi snelli
ma torniti e quel seno prorompente e sodo: nessuno l’avrebbe potuta scambiare
per un ragazzo, pensò soppesando nella mano le forbici da lavoro di sua madre.
Neppure se avesse tagliato i capelli. No, meglio di no. Forse sarebbe stato
comodo fuggire travestita, ma una volta al Nord non avrebbe potuto continuare a
fingersi un uomo e la gente avrebbe guardato con sospetto, come sempre
succedeva, una donna con i capelli corti. Posò le forbici sul tavolo e si
accontentò di raccogliere stretti i suoi lunghi riccioli neri, per poi
nasconderli sotto un fazzoletto. Molti braccianti si coprivano la testa per
difendersi dal sole dell’estate, quando sfacchinavano nei campi. E lei, sul
fazzoletto, avrebbe messo anche il vecchio panama di Masta Tucker e sfidato
chiunque a riconoscerla, infagottata nella camicia e nelle brache da lavoro che
sua madre non aveva potuto finire di rammendare e che se ne stavano
ammonticchiate sul tavolo con tutto quanto il resto.
Si spogliò del suo grembiule di percalle, restò un istante
ancora a fissarsi nello specchio con addosso la biancheria ordinaria che le
aveva cucito sua madre. Ogni volta che qualcosa le riportava alla mente Leah,
che non avrebbe mai più rivisto, durava fatica a ricacciare indietro il pianto.
Ma non era il momento di mettersi a piangere, quello. Tolto via dal letto un
lenzuolo, ne strappò via alcune strisce. Non sarebbe stato semplice farlo da
sola, pensò togliendosi la camiciola, ma non poteva permettersi che qualcuno le
notasse il seno. Era cresciuto parecchio, negli ultimi due anni, si ritrovò a
pensare, ed era parte della sua bellezza, del suo potere seduttivo di donna.
Provava piacere, quando se lo sfiorava, immaginando che le sue dita fossero
quelle di un uomo… Di un uomo da cui non pretendere amore, come Masta Tucker
con sua madre. O da qualcuno dei clienti del bordello dove sarebbe potuta
finire, o, peggio… di quel lurido maiale di Deveraux, a cui gli schiavi
sussurravano che Miz Lou Ella l’avesse venduta.
Fermò la fasciatura con alcuni spilli. Era orribile,
sembrava che nascondesse una ferita grave, le teneva caldo, le rendeva faticoso
il respiro e i seni, così schiacciati, le facevano male. Non devo pensarci, si
disse indossando le brache e la camicia, calcando in testa la paglietta di
Masta Tucker. Non devo pensarci. Afferrò il tascapane, uscì dalla porta e prese
la via dei boschi.
LA
CACCIA
Maledizione.
Lo pensò e non lo disse, perché quella parola non faceva parte del vocabolario
di una signora bennata, eppure non riusciva a schiodarsela dalla testa. La
madre l’aveva venduta a Mc Dougall perché assistesse la sua vecchia, e l’aveva
guardata andare via, rassegnata al suo nuovo destino, con dipinta sulla faccia
la solita aria melensa che hanno tutti quanti i negri quando vengono portati
via e non sanno come e dove andranno a finire. La figlia, invece… Era scappata.
Mai successo, da cinquant’anni a quella parte, ad Old Black Oaks. L’ultimo a
provarci era stato uno stalliere e gli avevano tagliato i garretti, prima di
somministrargli cento frustate. Sopravvissuto per miracolo al trattamento, non
ci aveva più provato, si diceva, ma erano altri tempi, allora. Il Nord non
s’immischiava nelle faccende del Sud, non c’erano gli abolizionisti, né
donnette come quella Harriett Beecher Stowe, pronte a mettere il Sud alla gogna
con il suo stupido libro,[5]
o avvocati carrieristi[6]
che minacciavano seriamente di occupare la Casa Bianca e far piazza pulita di
tutto, infischiandosene dell’economia, delle consuetudini, delle necessità di
un mondo che non conoscevano. Brutti tempi, si disse la Signora. Ma una cosa
era certa: quella Pearl non l’avrebbe passata liscia.
-
Maschio o femmina?
Robertson
si era limitato a salutarla con un cenno della testa e un mezzo inchino,
portandosi la mano all’ampia tesa del cappello, quindi s’era accomodato, con la
sua giacca che puzzava di cane e i suoi calzoni sudici, sulla più bella
poltrona del salotto.
-
Una ragazza. L’avevo promessa a Deveraux e mi è stato insegnato a non mancare
di parola.
Deveraux.
A sentirlo nominare, Robertson ghignò mettendo in mostra i denti gialli e
macchiati.
-
La prenderemo, com’è vero Dio. Ha per le mani qualcosa che la mula[7]
si portava addosso… Qualcosa che non è stato lavato di recente?
-
Aveva un armadio pieno di vestiti. - rispose la signora aggrottando le sopracciglia
con aria piccata, e Robertson comprese tutto quanto.
I
cani, legati alla palizzata coi lunghi guinzagli di cuoio abbaiavano inquieti.
Erano quattro coonhound addestrati a seguire la pista, e l’altro… Miz Lou Ella
non aveva mai visto un mostro simile: grosso come un pony, il mantello tigrato
segnato dalle cicatrici, il muso corto e largo punteggiato da occhi feroci,
poderose zanne gialle nella caverna rossa delle fauci.
-
Devil. Se si attacca a qualcosa di vivo, non molla la presa finché non l’ha
finita.
Bene.
A trovarsi davanti quell’orrore che pareva uscito da un incubo, quella
puttanella di Pearl si sarebbe pentita mille volte di ciò che aveva combinato.
Ma… Deveraux o se non lui la madama di qualche bordello sarebbero stati
disposti a portarsi via una faccia e un corpo sfregiati dai morsi?
-
La pagherò a cose fatte, Robertson. Spari, se è necessario, ma non la uccida. E
faccia attenzione che quel suo… cane non la storpi. E’ giovane, non troppo
scura, una bella ragazza. Vale parecchio.
-
Farò come desidera. Non avrà di che lamentarsi, glielo garantisco.
Le
sorrise ancora una volta, la bocca sghemba sui denti gialli. Gliel’avrebbe
riportata a casa sana, salva e tutta intera. Avrebbe provveduto Deveraux a
guastarla, visto che l’aveva comprata proprio per quello. Gli piaceva rompere i
suoi giocattoli, al francese, come fanno i bambini discoli, e qualche volta il
gioco gli era sfuggito di mano. Certo, Miz Lou Ella doveva odiarla proprio, la
ragazza, per averla promessa a uno come quello, pensò Robertson gettando ai
suoi cani una sottana che le era appartenuta. Le bestie tesero al massimo i
guinzagli e, latrando con i loro vocioni cavernosi, cominciarono ad annusare
l’indumento. Presto, molto presto, la caccia sarebbe cominciata.
PIOGGIA
Aveva
sentito il latrato della muta, attutito dalla lontananza. Cani da caccia.
Dovevano aver scovato conigli, daini o chissà che altro, si disse Pearl
appoggiandosi morta di caldo e di stanchezza al tronco viscido d’una grossa
quercia. Era anche possibile che cercassero lei, comunque e non sarebbe stato
facile nascondersi al naso dei cani. Quanto distava il confine? Si era forse
persa, ed era scesa più a sud, invece di salire verso il nord, come aveva
creduto? Infilò la mano nel tascapane, ne trasse fuori due biscotti secchi e
induriti che masticò di malavoglia. Quando le era venuta sete, s’era chinata a
bere dalle pozzanghere, acqua che sapeva di terra e di fango, e così sarebbe
stato finché non si fosse trovata al sicuro. Ma come e quando? La mano,
frugando alla cieca nel tascapane, aveva urtato contro qualcosa di metallico,
freddo e pesante che non era il coltello di Masta Tucker. Era la sua Remington
Derringer, finita lì dentro chissà come, e magari le sarebbe potuta tornare
utile, anche se non sapeva usarla, anzi, le armi le avevano sempre messo paura,
evitava perfino di guardarle. Alzare il cane, puntare, premere il grilletto…
Non doveva essere difficile e, all’occorrenza, avrebbe sparato, lo sapeva.
Anche a costo di dover uccidere. Lo avrebbe fatto per difendersi. Non c’è
niente di più forte dell’istinto di conservazione, in qualsivoglia essere
vivente, uomo o animale che esso sia.
I
latrati dei cani si fecero più vicini, minacciosi. I cacciatori di negri, per
evitare alle loro prede danni che potessero in qualche modo pregiudicarne il
valore, ricorrevano all’ausilio dei bloodhound e dei coonhound, grossi segugi
di gran fiuto e aspetto formidabile ma estremamente mansueti. Pearl aveva
tuttavia sentito dire che della muta di Robertson, il più rinomato cacciatore di
schiavi fuggiaschi di tutta la regione, quello che sicuramente Miz Lou Ella le
aveva messo alle calcagna, faceva parte anche un feroce bandog[8]
addestrato al combattimento, che lui era solito sguinzagliare per ridurre alla
ragione a suon di morsi le prede più riottose. Le prede più riottose, già. Come
lei.
Il
cielo si era rannuvolato, e grosse gocce di pioggia avevano cominciato a cadere
senza fermarsi, accelerando, anzi, il loro ritmo e infittendosi fino a
trasformarsi in una cortina che pregiudicava la visibilità. Un temporale estivo
che si sarebbe esaurito in fretta, come capitava di frequente da quelle parti e
in quella stagione. Anche se le entrava nei vestiti e nelle scarpe, Pearl
benedisse quell’acqua. I cacciatori dicevano che la pioggia cancellava l’odore
delle prede, confondendo i cani. Era Dio che la mandava, come la pistola che
aveva trovato nel tascapane. Avrebbe dissolto le sue tracce, mandato in
confusione Robertson, la sua dannata muta di segugi e il suo bandog. Soprattutto
quello. Uno dei neri di Masta Tucker l’aveva visto, e l’ aveva descritto grosso
come un vitello, brutto come il diavolo e altrettanto cattivo. Un incontro da
non augurarsi, pensò Pearl, mentre lasciava che la pioggia calda e abbondante
le inzuppasse i vestiti arrivando a bagnarle la pelle.
LA TRAPPOLA
Altrettanto
rapidamente di com’era scoppiato, il temporale estivo cessò. Pearl si sentiva fradicia fino alle ossa, ma
soprattutto stanca. Il confine era ancora molto lontano? Si sarebbe fermata a
riposarsi se…
Forse
il cacciatore e la sua muta se n’erano andati, disturbati dalla pioggia e dal
fango. Anche lei sarebbe tornata volentieri sui suoi passi, si ritrovò a
pensare, a quella piccola casa accogliente e calda, all’abbraccio rassicurante
di sua madre, alle parole di quell’uomo che non poteva chiamare padre, anche se
lo era, e che aveva promesso di regalarle la libertà. Ma quella casa non era
più sua, la madre l’aveva portata via un nuovo padrone e Masta Tucker giaceva
sotto due metri di terra. Se fosse tornata indietro, qualcuno avrebbe portato
via anche lei. Un uomo malvagio, dicevano, uno che trattava le sue nere come i
bambini cattivi trattano i loro giocattoli.
Faceva
caldo, eppure Pearl rabbrividì, mentre la brezza della sera le asciugava di
dosso l’acqua del temporale. Era inciampata nel fango, una caviglia le faceva
male e, inzaccherata com’era, nemmeno sua madre l’avrebbe riconosciuta, se
avesse potuto vederla. Stentò a trattenere le lacrime, pensando a Leah e a quel
che doveva essere stato di lei. Ma non era tempo di piangere, si disse da sé
sola, quando i cani spuntarono fuori dai cespugli, seguiti dall’uomo a cavallo.
Quattro
segugi, un sudicio cacciatore di pelli in sella a un ronzino spelacchiato. Non
c’era bisogno d’un purosangue per inseguire, acchiappare e riportare indietro
una povera ragazza terrorizzata, in fuga dal suo destino. Il bandog aveva una
grossa testa, piccoli occhi rossi e feroci e muscoli come molle pronte a
scattare, ma si accontentava di ringhiare, accucciato ai piedi del cavallo, in
attesa di un ordine del suo padrone. Robertson, era proprio lui, smontò di
sella.
-Andiamo,
non rendermi la vita difficile…
Il
mento le tremava. Tornò indietro senza dare le spalle all’altro, fino alla
grande quercia, inciampò nelle radici riuscendo a stento a mantenersi in piedi.
-Vieni
qui, ragazza. Non ti succederà niente, se…
Non
ti accadrà niente. Come no. Lo chiamava niente, finire prostituta in un
bordello, o trastullo di un pervertito come quel Deveraux. Miz Lou Ella la
odiava. Miz Lou Ella gliel’avrebbe fatta pagare,solo per punirla del fatto di
stare al mondo e perché Masta Tucker aveva avuto la pessima idea di morire prima di poterle regalare la libertà, come
le aveva promesso tante volte.
-Pearl…
Ti chiami così, vero?
La
voce era mielosa, lo sguardo falso. La mano della ragazza sentiva, nel
tascapane, il freddo della canna d’acciaio. Tirò fuori la pistola, la puntò
sull’uomo. Chissà, forse non era neanche carica, pensava Robertson, ma non
poteva rischiare.
-Butta
a terra la pistola, Pearl…
Il
bandog continuava a ringhiare, nell’attesa che il padrone comandasse l’attacco.
-Non
vorrai che questa bestiaccia rovini il tuo bel faccino… Getta a terra la
pistola, Pearl.
No,
le diceva il sangue che le batteva convulso dentro le orecchie. Non farlo. Non
dargli retta. Non è finita, poche miglia e sarai libera… Alzò la pistola in
direzione dell’uomo, ma questi, abile a sparare più di quanto non lo fosse lei,
fece fuoco per primo.
“Non
la uccida” gli aveva raccomandato Miz Lou Ella. “E non la sfregi. E’ bella, e
vale un mucchio di soldi”.
Lui
aveva sparato per difendersi, mirato alla spalla. Il dolore l’avrebbe costretta
a gettare via la pistola. Il dolore, e i denti di Devil, che le stringevano in
una morsa il polso delicato.
Il
dolore, già. Fuoco vivo che le penetrava dentro mordendola più forte dei denti
del bandog, mentre il sole tramontava dietro l’orizzonte, seminascosto dalle
nuvole. Non lasciarti andare, Pearl. Non svenire proprio adesso. Non è finita,
pochi chilometri e sarai al sicuro, ti ha preso alla spalla, non alle gambe.
Puoi ancora scappare e devi farcela, per l’amor di Dio… Non morirai schiava.
Anzi, non morirai proprio, se stringerai i denti e…
Quattro
ombre spuntarono fuori dal cespuglio, lo stesso da cui Pearl aveva visto
sbucare i cani, pochi minuti prima. Le code basse, le orecchie tese, i lunghi
denti bianchi completamente scoperti, nella gola un rombare cupo che sarebbe
presto esploso in un terrificante ululato. Lupi. Il cavallo s’impennò e fuggì
via, i segugi si rannicchiarono ai piedi della quercia, spaventati e tremanti
come cuccioli. Il bandog lasciò andare
il polso di Pearl e si piantò a gambe divaricate di fronte alle belve dal pelo
irto e dalle fauci rosse. Neppure lui avrebbe avuto scampo contro quattro lupi,
ma era stato addestrato ad attaccare, e attaccò.
E’
finita, pensava Pearl mentre gli occhi le si velavano. E’… finita… Schiava o
libera, sarebbe morta, e non c’era possibilità alcuna di sfuggire al destino.
Il dolore alla spalla si fece sempre più penoso e insopportabile; le forze le
vennero meno e scivolò a terra, augurandosi che i lupi non la facessero
soffrire troppo, quindi cadde nell’ottundimento completo e totale
dell’incoscienza.
MAX D. MERRITT
Quella
stanza e quel letto non erano il paradiso o l’inferno, ma qualcosa di
estremamente normale, che avrebbe potuto vedere in qualsiasi momento, da
qualsiasi parte. Anche da Miz Lou Ella, ma quella non era casa sua. Grazie al
cielo. Mobilio non troppo ricercato, di una semplicità spartana.Gli Spartani,
ricordò tra il sonno e la veglia, erano quel popolo antico che amava la guerra
e detestava il lusso. Come il padrone di quella stanza, si disse da sé sola.
Si
rigirò nel letto: grande, come quello dove sua madre, spesso, aveva dormito con
Masta Tucker. Le lenzuola erano fresche di bucato, il materasso e i cuscini non
troppo soffici. Sapevano di pulito. Anche lei si sentiva fresca e pulita, dopo
che qualcuno aveva lavato via il sangue, il sudore e il fango. Le avevano tolto
la fasciatura che le comprimeva il seno e medicato le ferite. Stava meglio,
adesso, e la carezza della seta sulla pelle era una sensazione piacevole. Seta,
non la cotonina che era abituata a sentirsi addosso. Una camicia bianca, da
uomo. Lunga e larga. La camicia di un uomo grande e grosso, com’era stato Masta
Tucker. Erano stati buoni con lei, il destino, la vita, perfino i quattro lupi
del bosco e, ovviamente, chi l’aveva portata in salvo e al sicuro. Pearl chiuse
gli occhi. Una donna… O un uomo? Chi l’aveva ripulita, curata e cambiata
l’aveva anche vista nuda…
Il
sole di mezzogiorno filtrava attraverso le imposte socchiuse, quando si
svegliò. Non era sola.
-Posso
sapere dove sono?
-Dove
nessuno può nuocerti… ragazza.
-Il
mio nome è Pearl.
-Pearl…
Ti si addice.
Una
bella voce calda e profonda, diversa da quella stridula di Robertson, il
cacciatore di uomini. Chi stava in piedi a fianco del letto, le braccia
conserte, le gambe leggermente divaricate era colui che aveva fatto fuggire i
lupi, Robertson e il suo cagnaccio poi, come il principe delle favole, se l’era
caricata sul suo cavallo bianco e l’aveva portata lì. Salva e al sicuro.
Si
sollevò puntellandosi sui gomiti, gli sorrise per ringraziarlo. Ha fatto tanto
per me… Niente, solo ciò che CHIUNQUE avrebbe fatto, Pearl. In un primo
momento, lo sai, ti avevo presa per un ragazzo… Un ragazzo negro. Uno schiavo
fuggiasco. Poi le aveva tolto le bende, e… Sarebbe arrossita, se solo fosse
stata bianca.
Al…
sicuro? Nessuno, nelle sue condizioni, avrebbe potuto esserlo mai del tutto, ma
le sarebbe piaciuto che quell’uomo le dicesse la verità.
-Sto
molto male?
-Ho
visto parecchio di peggio.
Era
giovane, sulla trentina. Un po’ più basso di Masta Tucker, ma le spalle erano
ancora più larghe. Le piacque la semplice eleganza dei suoi vestiti neri,
calzoni, camicia, stivali al ginocchio, da cavallerizzo. Le piacquero gli occhi
azzurri, il profilo perfetto, le mascelle forti incorniciate da un filo di
barba. La sua era la faccia di un uomo bianco: pallido sotto l’abbronzatura,
labbra delicate, quasi femminee. Le sue mani erano grandi, squadrate; in grado
di uccidere, all’occorrenza, ma anche di accarezzare teneramente il corpo di
una donna, si ritrovò a pensare, e fu costretta a serrare forte le palpebre
sugli occhi, ad inghiottire il groppo che le chiudeva la gola, al pensiero di
ciò che,con tutta probabilità,quelle mani le avevano fatto, anche se, strano a
dirsi, non si era resa conto di niente.
-Le
devo la vita, signore…
-Max.
-Non
oso chiederle che cosa ne sarà di me.
-Qui
sei al sicuro, Pearl.
Dai
lupi, dai cani, dai cacciatori di negri fuggiaschi, da quel maiale di Deveraux…
Doveva crederci? Forse, lui l’avrebbe riportata indietro. C’era una lauta
ricompensa in denaro, per chi lo faceva, e Pearl non osava sperare che quel
bell’uomo al quale doveva la vita e la salvezza fosse diverso dagli altri.
-Appartenevi…
a Josh Tucker?
Pearl
non gli rispose. L’avrebbe riportata indietro, se una risposta affermativa
avesse confermato i suoi sospetti. Questo era suo, c’è lo stemma inciso sulla
lama. E le mostrò il coltello che aveva trovato frugando nel tascapane.
-Josh
Tucker è morto. Non lo sapeva, masta…
-La
gente di qui non m’invita ai matrimoni e ai funerali. E non chiamarmi masta, non
sono il padrone di nessuno. - L’ombra di un marcato disappunto gli aveva fatto
serrare le labbra, aggrottare le sopracciglia spettinate. Era un uomo strano,
si ritrovò a pensare Pearl. Un uomo davvero molto bello.
-Io
odio la schiavitù, ragazza. E’ anche per questo che non m’invitano ai loro
matrimoni e ai loro funerali.
E
a te non importa un fico secco, dei loro matrimoni e dei loro funerali, della
loro spocchia e delle loro arie. Scommetto che qualche vecchia fegatosa come
Miz Lou Ella ha cercato di appiopparti uno spaventapasseri di figlia in moglie,
prima di scoprire che sei quello che sei?
La
mano di Max le sollevò il mento, le sue forti dita le accarezzarono una
guancia, lente e delicate. Pearl si sentì morire, ma era una bella sensazione,
pensò.
-Tu
non appartenevi semplicemente a Josh Tucker. Eri sua figlia, Pearl.
Aveva
una bella voce bassa, un po’ rauca. Già, una figlia che doveva chiamarlo masta
e non papà. Una figlia che, anche davanti a lui, doveva fingere di non essere
quello che era. Come hai fatto a indovinare, bianco? Sei un mago, il diavolo o
che… Semplicemente, so come vanno le cose, da queste parti, ragazzina.
-L’avrò
visto sì e no due volte, ma sono fisionomista: i tuoi occhi hanno l’identico
colore dei suoi.
Rise,
finalmente. Quando lo faceva, sembrava un ragazzino. E i raggi del sole che
filtravano dalla finestra creavano l’illusione di un pulviscolo dorato intorno
alla sua figura, sui suoi capelli.
-Hai
bisogno di qualcosa, Pearl?
-Dei
miei vestiti. Vorrei andarmene.
-I
tuoi vestiti erano in uno stato pietoso, e ho dovuto bruciarli. Te ne procurerò
di nuovi e puliti appena possibile. Non è facile, procurarsi vestiti da donna
in un posto dove donne non ce ne sono.
La
conferma dei suoi sospetti: e il cuore mancò un battito.
SALVA E AL SICURO
Salva
e al sicuro, pensò rigirandosi tra le lenzuola fresche, leggermente profumate
di spigo. Salva e al sicuro in una casa dove non c’erano altre donne se non
lei… La spalla le faceva male: un dolore sordo, lontano. Ma non doveva
trattarsi di qualcosa di grave, non si muore per una ferita del genere.
-Hai fame, Pearl?
La
sua bella voce, ancora una volta. I suoi occhi azzurri e le sue mani forti.
Recava con sé un vassoio, la colazione per l’ospite: uova al bacon, succo di
limone zuccherato allungato con acqua fresca.
-Uno
dei miei artieri è anche un ottimo cuoco. Mangia, Pearl. Per favore.
Il
profumo del cibo le stuzzicava dolorosamente l’appetito, ma chissà se sarebbe
riuscita a inghiottire mezzo boccone di quella roba. E poi, se tentava di sollevare
la forchetta d’argento per portarsela alla bocca, la spalla le mandava al
cervello fitte insopportabilmente acute.
-Perché
non vuoi mangiare? Hai perso un bel po’ di sangue, devi rimetterti in forze.
Sembri
mia madre… Max. Con delicatezza, le prese di mano la forchetta, la imboccò
neanche fosse stata una bambina.
-Quando
riuscirò a lasciare questo letto?
-Cerca
di aver pazienza, Pearl.
-Non
mi piace dipendere dagli altri.
-Hai
una caviglia slogata e quella ferita… Ho dovuto estrarre la pallottola, ripulirla
perché non s’infettasse. Non preoccuparti, anche a me è capitato di dover
dipendere dagli altri e tante di quelle volte che neanche l’immagini. Non è un
delitto ritrovarsi soli, indifesi e terribilmente vulnerabili.
E’
capitato… Anche a te? Possibile? Chiuse gli occhi, non riuscendo a reggere un
attimo ancora il suo sguardo acuto, indagatore.
-Dovrei…
ringraziarla suppongo.
-Dovresti
trattarmi come faccio io con te: senza troppa deferenza tra di noi. In fondo…
-In
fondo mi ha visto nuda.
-Eri
ferita. E terribilmente sporca. Ti ho semplicemente curata e ripulita. Non
volevo averti sulla coscienza, se fossi… beh…
-Morta?
-Eri
più sudicia di un carbonaio, Pearl: mi avresti sicuramente rovinato il
materasso e le lenzuola.
Le
sorrideva, mentre le puliva le labbra con una cocca del tovagliolo. Molto…
materno. Già, un’altra definizione non riusciva a farsela venire in mente,
anche se quella mal si attagliava a un uomo dall’aspetto tanto mascolino. E,
soprattutto, tanto attraente. Erano davvero parecchie, le cose che avrebbe
voluto chiedergli: perché non aveva sentito niente, quando lui aveva estratto
la pallottola? Come aveva fatto a mettere in fuga Robertson, i suoi cagnacci e
quei dannati lupi? E cosa aveva provato quando… quando le aveva strappato via
le bende con cui s’era schiacciata il seno?
-Quanto
ci vorrà per rimettermi in piedi?
-Sette,
otto giorni. Non vedi l’ora di andartene.
-E’
che non voglio abusare della sua ospitalità, Max. E del suo letto.
-Non
preoccuparti, in casa ce ne sono altri. Non così comodi, forse, ma uno come me
se ha sonno dorme anche steso per terra. Il momento verrà, Pearl… E farò in
modo che tu non rischi più quello che hai rischiato, voglio che ci arrivi sana
e salva, al Nord.
Sicuramente
era un abolizionista. Le aveva detto di provare orrore per la schiavitù. La
trattava con deferenza, le aveva ceduto il suo letto. E senza pretendere di
dividerlo con lei, pensò con una punta di rammarico. Sei stata fortunata ad
incontrarlo, Pearl, si disse da sé sola; non fosse stato per lui, quei lupi ti
avrebbero fatta a pezzi o, peggio, Robertson ti avrebbe acchiappata e riportata
da Miz Lou Ella. Certo, non poteva essere altro che quello. Un uomo coraggioso,
capace di rischiare la vita in nome di un ideale del quale, in fondo, poteva
anche non importargliene: era bianco. Era giovane e bello. Presumibilmente era
anche ricco. Chi glielo faceva fare?
-Pearl…
Lasciami
in pace, bianco. Ho sonno, e la spalla mi fa male. Ho voglia di dormire, non di
perdere tempo a chiacchierare con te. Ho fretta di guarire, voglio andarmene
via di qui prima possibile… e non sarai tu a trattenermi.
-Pearl…
Dobbiamo controllare la ferita, rinnovare la medicazione…
Questa
volta non avrebbe usato qualche porcheria per farla dormire, come quando aveva
estratto la pallottola. Non ci sarebbe stato dolore, ma vergogna sì. E tanta.
L’avrebbe vista nuda e lei ne sarebbe stata ben consapevole.
-Non
voglio.
-Se
la ferita si infetterà potresti anche rischiare la vita, dico sul serio.
-Allora
faccia venire un medico.
-Ti
rendi conto di quello che dici?
Lo
sguardo gli si era rabbuiato. Un medico per curare una schiava fuggiasca? In
Virginia? Ragazza mia, tu devi essere completamente pazza. Quell’uomo aveva
ragione, anche se non era facile ammetterlo.
-Pearl,
ti prego, non rendermi la vita difficile.
Le
stesse parole che aveva usato Roberson, quando i suoi cani l’avevano scovata.
Ma Robertson non aveva le sue labbra tenere, i suoi occhi azzurri, i suoi
lunghi capelli ricci. A Robertson non importava un bel niente di lei, la
ragazzina di Miz Lou Ella Tucker altro non era che l’ennesima fonte di
guadagno, quello di acchiappare e riportare indietro i negri che tagliavano la
corda in fondo era il suo mestiere.
Aveva
mani forti, ma anche agili e leggere. L’impiastro a base di erbe che le aveva
messo sulla ferita fece l’effetto di calmare il dolore, e Pearl dimenticò tutto
quanto.
-Sollevati,
devo fasciarti.
Gli
ubbidì malvolentieri. Quell’uomo aveva visto anche troppo di lei. Aveva visto tutto.
Benedetto il momento in cui me ne andrò, pensava. Eppure, il fatto che lui la
trattasse con tutto quel distacco la infastidiva. Lo faceva solo perché era un
gentiluomo e come tale voleva mostrarsi ai suoi occhi? O perché lei non gli
piaceva? Forse gli ripugnava la sua pelle scura, il fatto che fosse una
schiava, forse… Pearl lo guardò sfrontata, scostando le mani con cui stava
cercando di coprirsi i seni. Non sono bella? Si disse da sé sola. Non mi
desideri, bastardo di un bianco? Lui sogghignò, e i grandi occhi trasparenti
gli si ridussero a fessure. Se credi che le tue siano il primo paio di tette
scoperte che vedo sei in errore, bambina. Sicuramente lo pensò, ma non lo
disse.
-Pensa…
che mi resterà una brutta cicatrice?
Le
sorrise, ed era un sorriso vero, questa volta. Tranquilla, resterà solo un
piccolo segno. Non si noterà neppure. Sai, anch’io ne ho una, proprio sotto la
clavicola, tale e quale come te. Il ricordo di una freccia, che mi ha colpito
tanti, tanti anni fa…
Una
freccia. Sicuramente erano stati gli indiani. Tanti anni fa… Ma quanti?
Quell’uomo ne dimostrava sì e no una trentina. Un uomo strano, non c’era alcun
dubbio che tale fosse. Bellissimo, pensò, mentre la guardava con gli occhi
imploranti, le labbra tenere dischiuse sui denti bianchi. Le sembrò triste,
chissà come mai. E Pearl pensò che avrebbe voluto e potuto consolarlo, anche se
era soltanto una schiava in fuga dal suo destino.
-Ti
resterà soltanto un graffietto, che gli uomini faranno carte false per baciare.
Lo sai che bellissima, Pearl?
L’UOMO DEI LUPI
Quando
fu in grado di alzarsi dal letto, Pearl trovò vestiti da donna sulla poltrona.
Roba senza pretese di eleganza, d’un brutto color marrone che senz’altro non
avrebbe valorizzato al meglio la sua luminosa carnagione ambrata. Le donne come
noi, le diceva sempre sua madre, devono vestire di bianco. O di colori accesi:
gli uomini le guarderanno, allora, e le donne bianche potrebbero anche
schiattare dall’invidia. Leah. Chissà che ne era di lei. Quando sarò libera,
farò in modo che possa raggiungermi e saremo di nuovo insieme, pensava Pearl.
Lo pensava sempre, anche se sapeva perfettamente che sarebbe stato impossibile.
Era
pronta per scendere nel salone, come le aveva detto lui, pensò lisciandosi i
vestiti. Lui, Max D. Merritt, un uomo strano e solitario, che per mantenersi
allevava cavalli, non teneva in casa un solo schiavo e aveva fatto stampare una
testa di lupo sulla sua carta intestata e i suoi biglietti da visita. Un uomo
che, in qualsiasi modo si fosse conclusa la sua avventura, le avrebbe inciso
nell’ anima un marchio indelebile.
Si
affacciò alla finestra che dava sul cortile. Era mezzogiorno in punto, pensò.
Quasi ora di scendere nel salone e mangiare seduta alla sua stessa tavola,
servita da un artiere di scuderia che aveva sangue indiano nelle vene. Lui,
immaginò, le avrebbe versato il vino nel bicchiere, sarebbe stato come sempre
dolce e sollecito. Aveva fatto tanto, per lei. Un altro, nei suoi panni,
l’avrebbe rispedita nel posto da cui era venuta, e intascato la ricompensa che
gli spettava, invece… Invece aveva accettato di rischiar d’essere tacciato da
ladro, forse perfino peggio… Il cuore le mancò un battito, quando lo vide.
Teneva per le redini uno dei suoi cavalli ed era seguito da un grosso cane. Mio
Dio, si ritrovò a pensare. Quello non era un cane. Era un enorme lupo nero, e
somigliava a quelli che, un paio di giorni prima, avevano fatto fuggire
Robertson e la sua muta. Gigantesco, fosco, l’aria feroce, e i suoi sospetti
trovarono conferma quando vide gli altri tre grossi animali spuntare da dietro
il fienile. Lo seguivano agitando la
coda, come se fosse stato lui e non uno di loro il capobranco.
Max
era a torso nudo. Aveva spalle poderose, braccia scolpite, una bellissima
schiena lustra di sudore. Come i braccianti neri che lavoravano nella
piantagione di tabacco di Masta Tucker. E un marchio a fuoco proprio sotto la
scapola sinistra, Pearl ne aveva visti troppi per pensare di essersi sbagliata,
malgrado la distanza potesse ingannarla. Capitava, qualche volta, che gli
schiavi venissero marchiati. In certe piantagioni era l’uso comune, in certe
altre il trattamento era riservato solo agli elementi più indocili e riottosi.
Ma quello era indubbiamente ed inequivocabilmente un signore bianco e allora
perché… perché era marchiato a fuoco, come i suoi cavalli? Gliel’avrebbe
chiesto, se avesse potuto. Ma non voleva mostrarsi indiscreta, lasciandogli
capire che lo aveva spiato.
Il
più grosso dei suoi lupi gli si strofinava contro le gambe come un cucciolo
impertinente, e lui gli scarruffò il pelo con la mano aperta. A Pearl parve
splendido e selvaggio, in mezzo a quelle bestie, come un’antica divinità pagana. Portava, appeso al collo a mo’ di
ciondolo una zanna d’animale e aveva una cicatrice, tra il petto e la spalla,
nello stesso punto in cui ce l’aveva lei: la punta di una freccia indiana, con
ogni probabilità. Le sarebbe piaciuto baciargliela, pensò, e fu percorsa da un
brivido che l’attraversò come un fulmine. Anche a sua madre doveva essere
accaduto, con Masta Tucker. Se non si fosse scossa e scrollata di dosso quei
sogni impossibili, pensava Pearl, avrebbe rischiato di fare l’identica fine. Ed
era l’ultima cosa che avrebbe voluto le accadesse, in quel momento.
L’OSPITE
Le
aveva servito il pranzo e versato il vino nel bicchiere, senza aspettare che a
farlo fosse il servitore indiano. Era stato gentile come sempre, come sempre le
aveva sorriso. Le parlava della libertà che presto le avrebbe regalato, e
chissà come, se non comprandola. Ma Miz Lou Ella l’aveva venduta a Deveraux, e
non era persona capace di rimangiarsi le sue promesse, quante volte se n’era
vantata? E poi… Se avesse saputo che Max l’aveva comprata, come comprava i suoi
cavalli, sarebbe fuggita via anche da lui, costasse quel che costasse.
-Non
mangi?
-Non
ho più fame, grazie.
Adesso
che sono guarita, voglio andare via. Al Nord. Mai più schiava, capisci? Mai più
sì padrone, mai più dover tremare al pensiero di finire in un bordello o nelle
grinfie di un maiale come Deveraux per un semplice capriccio del destino. Mai
più dover scappare inseguita da cani da pista e uomini a cavallo, come una
bestia braccata… Avevi promesso che mi
avresti aiutata ad andarmene al Nord, invece sono ancora qui. Mi tieni forse
prigioniera? Ma io potrei scappare via anche da questo posto. Per andare dove?
Fuori ci sono i lupi, Pearl.
-Prima
stavo osservando i suoi cani: sembrano...
-Lupi?
Lo sono. Della razza che qui chiamano timberwolf, anche se le due femmine sono
incrociate con cani.
-Non
sono… pericolosi?
-Solo
con chi è animato da cattive intenzioni, come quel Robertson e il suo mastino.
Ai lupi è stata cucita addosso una pessima nomea che non meritano: sono animali
nobili. Non per niente, nei tempi antichi, erano, con l’aquila, il simbolo
dell’Impero Romano e della sua terribile potenza. Le frottole gratuite sulla
loro malvagità sono venute fuori dopo, per mera comodità degli umani, dei quali
i lupi erano accaniti competitori: i primi allevavano le bestie che gli altri
cercavano in tutti i modi di mangiarsi, e così...
E
così va il mondo: anche a proposito dei neri, si raccontavano frottole curiose,
come quella secondo cui una maledizione biblica avrebbe condannato ineluttabilmente la razza alla schiavitù, si
trovò a pensare Pearl. Era, questo, un argomento che aveva spesso udito dalla
bocca di Miz Lou Ella. Sono gli uomini
ad essere malvagi, non i lupi: gli uomini l’hanno inventata, la schiavitù, mica
le bestie. Le bestie sono migliori di noi, Max.
-Secondo
Eagle Eye,l’ indiano, il lupo sarebbe il mio animale totemico. Lui ci crede, e
ho finito col crederci anch’io.
-Mi
sono sempre piaciuti i cavalli e i cani, anche se uno schiavo non ha tempo per
loro. Da bambina sognavo di correre per i prati con un cane grande e nero come
i suoi, capace di proteggermi da chi mi voleva male. Nei miei sogni l’avevo
chiamato Wolf. Lupo.
Sei
nata schiava, e avevi dei sogni, Pearl… Lo pensò, coprendole la mano con la sua
e stringendogliela piano.
-Te
li farò conoscere, più tardi. Da te si lasceranno accarezzare: sanno per
istinto di chi fidarsi e di chi no. Un po’ come me.
-Che
nome ha potuto mettere a dei lupi? Sono curiosa.
-Il
maschio più grosso si chiama Secutor. Quello con la macchia bianca sul petto
Laniger. Le due femmine, Scortilla e Licisca.
La
grande mano calda non lasciava la sua. Sono nomi strani… Nomi latini, Pearl.
Laniger, per la sua folta pelliccia. Scortilla e Licisca erano i nomi che si
davano alle… alle prostitute. Ti ho scandalizzata, forse? No, una negra impara
molto presto come va il mondo e non si scandalizza più di niente. Forse è per
questo motivo che i bianchi ci credono quello che non siamo. E… Secutor? E’ molto grosso e ha un’aria feroce. E’
quello che ero io, in un’altra vita.
-Secutor.
Gladiatore. Uno schiavo il cui unico scopo nella vita era uccidere ed essere
ucciso.
L’aveva
visto impallidire, sotto l’abbronzatura, come se dire quello che aveva detto
gli costasse chissà quanta fatica. E con rammarico, lo guardò alzarsi da
tavola, allontanarsi.
IL DUELLO
La
sfida gli era stata recapitata con un biglietto che recava il monogramma e lo
stemma di André Deveraux impressi in un angolo. Domani alle sette, presso le
Tre Querce. Sceglietevi un padrino, allo stesso modo in cui io, Conte André
Deveraux, sceglierò l’arma e la durata del combattimento: spada, all’ultimo
sangue.
Aveva
saputo, Deveraux, che la schiava che avrebbero dovuto vendergli l’aveva
comprata un altro, pagandola alla vedova Tucker più del doppio rispetto a
quanto avevano precedentemente pattuito loro due. La donna non si era
comportata affatto bene con lui, ma un gentiluomo, in nessun caso, potrebbe
esigere soddisfazione da una signora. E allora il sedicente conte se l’era
rifatta con l’acquirente, quel Max D. Merritt a proposito del quale circolavano
le dicerie più stravaganti, ma che senz’altro non aveva mai impugnato una
spada. Da un artiere di scuderia, da un sensale di cavalli, del resto, era
lecito aspettarsi che riuscisse a cavarsela con la pistola, e la schiava che
gli aveva soffiato l’avrebbe pagata con il sangue, oltre che con l’argento dei
dollari, a lui che, al contrario, la spada sapeva come maneggiarla, da bravo
gentiluomo francese nelle cui vene scorreva il sangue di un’antica famiglia
scampata per miracolo alla ghigliottina, in tempo di Rivoluzione.
Accetto
la sfida, Deveraux. Max rise alla sua immagine riflessa nello specchio, e la
sua era una risata amara. Conosco il mondo, si disse da sé solo, più di quanto
credi di conoscerlo tu. Il prezzo dell’oro e del sangue non compreranno una
schiava, ma la sua libertà. Odio la schiavitù. Odio questo mondo destinato a
crollare sotto il peso delle sue ingiustizie. E te, per quello che sei e come
sei. Ho già scelto il padrino:Eagle Eye, l’indiano,e non me ne importa, anche
se questo potrebbe farti storcere il naso. E la spada che impugnerò:ha il
guardamano annerito, l’elsa rovinata dall’ossido. Ma taglia come un rasoio. La
sostanza contro l’apparenza, Deveraux.
Guardò
il biglietto con il complicato stemma gentilizio stampato sopra, lo accartocciò
tra le dita. Il francese, ma quale francese poi, non lo era più da quattro
generazioni almeno, credeva di sapere contro chi avrebbe incrociato la lama
della sua lucida spada d’acciaio. Credeva che si sarebbe preso la sua vita come
in un gioco, lavando in quel modo un torto o un disonore. Sono stupidi, gli
uomini, pensò Max ricacciando i capelli all’indietro e balzando in sella al suo
cavallo. Stupidi e assetati del sangue altrui da sempre, come e peggio delle
bestie. Molto, molto peggio.
Alzò
gli occhi alla finestra illuminata, e la vide. Si era alzata già dal letto,
malgrado fosse tanto presto, ed era così bella, con i capelli neri tutti
spettinati e lo sguardo ancora velato dal sonno. Sentì di desiderarla, e forse
era sbagliato. Voleva andarsene al Nord e lui l’avrebbe accontentata, com’era
giusto che fosse.
CONFORTO
-Eagle
Eye?
-Signorina?
-Come
mai non ho ancora visto il padrone?
Il
vecchio indiano sorrise amaro, e quella smorfia gli inghiottì i lineamenti
solitamente impassibili.
-Si
sta ripulendo il graffio che gli ha fatto Deveraux sul braccio. Niente di
serio, il padrone ha la pelle dura peggio d’un bisonte, signorina.
-Deveraux…
E che c’entra?
Le
era passato un brivido nello sguardo, e a lui non era sfuggito. Le raccontò che
c’era stato un duello tra il padrone e il francese, perché lui aveva a tutti i
costi voluto comprare la sua libertà, malgrado la vedova Tucker l’avesse
promessa a quell’altro. La sfida era all’ultimo sangue, ma il padrone s’era
accontentato di vederlo cadere a terra con la coscia trapassata dalla sua
spada, di sentirlo urlare pietà con la voce di un porco scannato e di sputargli
in faccia un grumo di saliva e tutto il suo disprezzo.
-E
adesso dov’è?
-Nelle
scuderie.
Lo
avrebbe raggiunto per gridargli che la sua libertà non era in vendita e che se
ne voleva andare. Che era stanca di quella prigione. Che…
Aveva
le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci. Quello destro era
fasciato, la benda chiazzata qua e là di sangue fresco. Se ne stava
inginocchiato nella paglia, di fronte a un vecchio cavallo che, con tutta
probabilità, stava trascinando affannosamente gli ultimi istanti della sua
vita. S’era posato sul grembo il muso spelacchiato dell’animale, lo accarezzava
piano, mormorandogli parole senza senso per non farlo sentire solo in
quell’attimo così terribile,proprio come se avesse avuto a che fare con un
cristiano. C’era buio, lì dentro, e Pearl non riusciva a vederlo in faccia, ma
avrebbe giurato che quell’uomo grande e grosso, reduce di fresco da un duello,
nel corso del quale avrebbe potuto ammazzare o essere ammazzato, stesse
piangendo, come i bambini quando gli muore la loro bestiola preferita.
-Max…
No,
non stava piangendo, ma il petto si alzava e si abbassava, come se lo stesse
facendo: un pianto senza lacrime, per questo ancora più doloroso. Perché, si
domandava Pearl, gli uomini bianchi hanno tutta quella vergogna a manifestare i
loro sentimenti?
-Tutti
dobbiamo morire, Max… Questo cavallo mi sembra molto vecchio, e sicuramente ha
avuto un’esistenza felice… con lei.
-Ha
avuto una bella vita, è vero. Povero Pegasus… Libertà, pastura abbondante,
acqua fresca… Sono io che non riesco ad rassegnarmi alla morte di chi mi è
caro, uomo o animale che esso sia.
-Gli
animali vivono meno di noi, Max.
-E
siamo costretti a vederli morire.
E’
normale che sia così: chiamala natura, chiamalo Dio. Potrei dirti, in fondo era
solo un cavallo, ma non ne ho mai posseduto uno, e non so come ci si possa
sentire, quando un vecchio cavallo muore. Un po’ più soli, piccola. Un po’ più
soli.
Gli
cinse le braccia intorno ai fianchi, gli si strinse contro per dare conforto
col suo calore a quel pianto senza lacrime. Alzò la mano, gli passò le dita tra
i capelli. Erano folti e setosi, capelli morbidi di bianco.
-Le
fa molto male il braccio?
-Non
darti pena per me, ragazza.
-Venga
dentro, l’aiuterò a medicarlo. Qualcosa gliela devo, non le pare? Quando facevo
storie per non lasciarmi curare, non mi ha detto che anche una piccola ferita,
se s’infetta, potrebbe causare la morte?
Le
sorrise e le accarezzò lento la guancia vellutata, poi le labbra calde. La
baciò, ed era la prima volta. Un labbro. Poi l’altro. Dolcemente, senza fretta.
Lei non protestò, anzi, s’abbandonò al suo abbraccio, pronta ad imparare quanto
lui le avrebbe insegnato. La sua pelle odorava di muschio e di desiderio, la
grande mano le sfiorò il collo, quindi, attraverso i vestiti, i seni rotondi, i
capezzoli duri come piccoli sassi.
-Ho
comprato la tua libertà da Mrs Tucker. Se non vuoi dimmelo, prima che sia
troppo tardi per tornare indietro.
Pearl
chiuse gli occhi e le lunghe ciglia proiettarono l’ombra di due mezzelune sugli
zigomi alti. Scosse la testa in un breve cenno di diniego. Non in una stalla,
Max. Nel tuo letto. Solo questo gli disse.
Nel
letto dove aveva dormito sola, mentre lui se ne stava rannicchiato in qualche
scomodo divano. Un altro non l’avrebbe fatto, per una negra. E si sarebbe preso
quel che avrebbe voluto infischiandosene di lei, perché una nera non è una
donna: è una schiava. Probabilmente anche Masta Tucker la pensava così, a
proposito di sua madre, di lei e di quella figlia che gli aveva dato glien’era
sempre importato meno di nulla. Non voglio che tu mi metta dentro un figlio,
aveva detto Pearl, mentre Max la spogliava con le sue grosse mani
straordinariamente agili e delicate. Non preoccuparti, non succederà niente di
ciò che temi, e a lei era parso che lo sguardo gli si rabbuiasse.
Aveva
un viso d’angelo, e lo stesso corpo erculeo dei neri che abbattevano gli alberi
nei boschi e caricavano la legna a mani nude sui carretti trainati dai muli.
Sotto la pelle di un delicato color avorio vecchio, muscoli grossi e forti gli
esplodevano sulla schiena, sulle braccia e sul petto, guizzanti come fossero
animati da vita propria. Il corpo di Max era bello e, mentre lo guardava
spogliarsi, Pearl sentì il suo desiderio acuirsi fino a diventare sofferenza.
Si strinse a lui, lasciò che la toccasse. E’ perché tu senta il meno possibile
il dolore della prima volta, le diceva mentre le stuzzicava le punte tese dei
seni con le dita, poi con le labbra e la lingua. No, non è solo per quello… Mi
piace, e piacerà anche a te. Lascerai… che lo faccia anch’io? Lui accennò di sì
con la testa. Ma dopo. Adesso potrei perdere completamente il controllo, e… e
non sarebbe la cosa migliore.
L’accarezzò
e baciò dove lei mai si sarebbe aspettata, prima di prenderla. Pearl urlò di
dolore e gli artigliò la schiena con le unghie, quando sentì dentro di sé il
grosso membro turgido dell’uomo, per la prima volta. Mi ucciderai… Ma il dolore
s’era disciolto nel piacere più intenso che le fosse mai capitato di provare,
fuoco liquido che le scorreva nelle vene al posto del sangue.
IL MARCHIO
-Sei
bellissima, Pearl.
-Ero
convinta che lo dicessi tanto per dire, ma che non l’avessi mai pensato.
-Non
sono mai stato ipocrita né bugiardo, ragazza: quello che penso, lo dico.
-Credevo
che non ti andasse la mia pelle, è così scura…
-
Se una donna mi attrae, il colore della sua pelle è l’ultima cosa a cui penso.
Pearl
abbandonò la testa sul suo largo petto, poi cominciò a baciarlo. Sapeva di
sale, e la rada, corta peluria chiara che aveva sullo sterno e intorno ai
capezzoli le solleticava dolcemente le labbra.
-Anche
tu sei bellissimo. Devono avertelo detto in tante. Quanti anni hai?
-Perché
me lo chiedi? Mi ritieni troppo vecchio per una ragazzina di diciassette anni?
Troppo vecchio… e troppo bianco?
-Così,
a occhio e croce, ne dimostri più o meno trenta.
-Trentatré.
-Non
sono molti. Tra mio padre e mia madre c’era più differenza. Ma lui non l’amava.
Che
cosa te lo fa credere? Beh, era altro, quel che lui le chiedeva, e non era
amore. Mia madre era una bella donna, tenera e appassionata. Lei sì che gli
voleva bene… Povera illusa. E’ morto senza mantenere le sue promesse e lei è
finita a lavare il sedere di una vecchia paralitica. Io invece… Non fosse stato
per te, sarei finita anche peggio: in un bordello. O in casa di Deveraux, quel
porco. Sarebbe successo con loro, è successo con te. Del resto, è quasi
impossibile che una nera a diciassette anni sia ancora vergine. Sai, sono
contenta che sia successo con te e non con un altro.
La
pelle chiara rabbrividiva, al tocco delle sue carezze; e gli occhi che la
fissavano le sorridevano gentili.
-Volevo
chiederti…
-Quello
che vuoi, principessa.
-Petali
di fiori. Vorrei prepararmi dell’acqua profumata. Violette… E rose.
Gli
occhi che la guardavano teneri e divertiti divennero torvi. Non voglio sentirti
quell’odore addosso, Pearl. Detesto il profumo delle rose. Se ti accontenti,
nel giardino ho seminato lavanda e verbena. Ma le rose… No.
Non
gli domandò come mai detestasse un odore così buono e non volesse sentirglielo
addosso. Il suo profumo se lo sarebbe fatto con lavanda e verbena e lui non le
avrebbe detto niente. Il tuo cuore è pieno di segreti… E la tua pelle di segni:
sul collo,sopra la clavicola, sul braccio, sulla schiena… Il lungo indice
sottile e scuro gli accarezzò il marchio che aveva poco sotto la scapola
sinistra. Un marchio, già, altro non era, come quelli con cui venivano segnati
gli animali e i neri riottosi. Una bruciatura, chissà quanto dolore aveva
sentito, nella quale si distinguevano a malapena una stella a cinque punte e
una lettera P. Certi meticci, si ritrovò a pensare, avevano l’incarnato e i
capelli talmente chiari da potersi scambiare facilmente per bianchi. Forse Max
era nato schiavo. Ma il sangue nero, questo Pearl ben lo sapeva, per quanto si
lo possa annacquare con generazioni e generazioni di incroci, non si riesce mai
a diluirlo del tutto e lascia, sul corpo di chi ne possiede anche una goccia
solamente, dei segni inconfutabili: mani lunghe e sottili, unghie livide,
labbra e capezzoli scuri…
Gli
prese la mano, gliela baciò: le dita, il palmo, il dorso segnato dal rilievo
delle vene. Era grande, callosa e forte, la mano un po’ tozza di un contadino.
Le unghie erano corte e smangiate. Rosee, non livide. La carnagione era
pallida, sotto l’abbronzatura. Aveva perfino qualche lentiggine dorata, sotto
gli occhi e sul naso. Era quasi impossibile che un negro avesse delle
lentiggini.
La
mano della ragazza continuava a esplorare la sua pelle morbida in un gesto che
lui credeva esprimesse unicamente tenerezza e desiderio, anche se così non era.
Voglio conoscerti meglio. Sapere chi sei. Avere la certezza che, forse, sei
quello che sono io, perché la gente come Miz Lou Ella dice sempre che basta una
sola goccia di sangue negro per collocare un uomo nel posto che gli spetta. La
bocca gli sfiorò le labbra, poi scese lungo il mento e sul collo ispidi di
barba. Quindi sul petto. Le piaceva, così grande e forte e magnificamente
modellato. E… sensibile, pensò, sfiorandogli un capezzolo con la lingua. Max
aveva capezzoli, labbra e gengive di un rosa delicato. Era un bianco, non aveva
in corpo neanche una goccia di sangue negro. Su quello non potevano esserci
dubbi.
-Perché
hai tutte queste cicatrici?
Lui
le sorrise socchiudendo gli occhi da gatto: Pearl non era ancora riuscita a
capire se fossero azzurri o verdi.
-Pensa
a quel che è successo stamattina. Non è la prima volta che sfido qualcuno a
duello.
E
non sempre la fortuna gira come vorresti. Sei stato ferito, diverse volte. Ma
quello che non riesco a spiegarmi, è il marchio a fuoco sulla tua schiena. Una
stella a cinque punte. E una P.
-P come Pearl. Già dalla prima delle mie molte vite, sapevo che ti avrei
incontrata.
HARRIETT
Il
tempo era passato, e Pearl aveva cercato di dimenticare quelle parole che Max
le aveva sussurrato a mezza voce, le lunghe ciglia abbassate sugli occhi,
mentre se la stringeva contro. C’era riuscita, forse perché quelli che si
preparavano per quell’angolo di mondo erano gran brutti tempi e solo accanto a
lui si sentiva forte. Gli cucinava i cibi che gli piacevano, aveva imparato a
conoscere i suoi cavalli e i lupi che lo seguivano come fossero stati cani
qualsiasi. La notte, gli dava il suo amore, e non gli domandava niente, solo di
essere amata e protetta. Capitava a volte che sparisse per qualche giorno.
Quando tornava, aveva gli occhi velati di tristezza, solchi profondi di
preoccupazione scavati sulla fronte, ma con lei era il solito di sempre. E le
bastava.
L’autunno
stava ingiallendo le foglie degli alberi e il vento del nord presto avrebbe
portato via il tepore della bella stagione, quando la vide per la prima volta.
Montava a cavallo come un uomo, e come un uomo vestiva e si muoveva. L’avrebbe
creduta tale, non l’avesse vista con i suoi occhi baciare Max nella stessa
maniera in cui lo baciava lei, e ne fu addolorata. Quando poi si voltò e,
nascosta dietro la finestra, Pearl poté vederla meglio, il suo dolore si
tramutò in furia. La donna, anzi, la maledetta puttana, era una nera come lei.
Infagottata dentro camicia e brache da uomo, le spalle un po’ curve, i capelli
tagliati corti e spruzzati di grigio, dimostrava almeno cinquant’anni. Come
aveva potuto, Max…
-Tornerò
tra qualche giorno.
E
se non tornassi?
Non
aveva osato chiederglielo, ma sapeva che così poteva essere. La rivolta di John
Brown e dei suoi stava dilagando in tutta la Virginia, andarsene in giro era
pericoloso per i neri e per i bianchi. Se non andrò lo impiccheranno, le aveva
detto, afferrandola per le braccia dopodiché, con un piede a terra e l’altro
infilato nella staffa aveva aggiunto
che John Brown era stato catturato. Il suo tentativo di saccheggiare l’arsenale
di Harper’s Ferry e di armare gli schiavi negri era fallito: lo avrebbero
impiccato, l’ultima speranza che ciò non accadesse era lui. Un colpo di mano.
Uno contro tutti. Una follia. Non mi succederà niente, le aveva spiegato, e
sembrava l’unico che ci credesse sul serio. In quanto a te, ti lascio in buone
mani. Nelle mani di quella vecchia megera vestita da uomo, che aveva grandi
borse sotto gli occhi e dormiva nella foresteria con gli uomini? Di quella
donnaccia che lei aveva sempre rifiutato d’incontrare?
-Non
essere ingiusta con lei, Pearl. Non giudicare senza conoscerla.
Max
l’aveva accusata di trarre conclusioni affrettate, a proposito di quella
vecchia puttana dalla brutta faccia. Una cagna che non aveva ancora spento i
bollori e a cui piaceva strofinarsi addosso a un uomo giovane e bello. Al suo
uomo. Da Eagle Eye, Pearl aveva appreso che si chiamava Harriett Tubman e che
del padrone era amica di vecchia data.
1700 ANNI
Lo
aspettava già da diversi giorni, spingendo lo sguardo in fondo al sentiero
polveroso dal quale sarebbe dovuto spuntare il suo cavallo, preceduto da
qualcuno di quei suoi cagnacci che sembravano lupi, sporco anche lui, con il
pelo puzzolente e le zampe inzaccherare di fango, invece nulla. Da sette giorni
a quella parte, non succedeva niente. John Brown era stato preso e impiccato,
la voce aveva fatto in fretta a diffondersi. Era del tutto inutile che lui se
ne stesse ancora in giro. Perché non tornava alla sua casa, ai suoi cavalli… A
lei, che continuava ad aspettarlo come sua madre aveva aspettato Masta Tucker…
Pearl scosse la testa, scompigliandosi tutti i riccioli e si sforzò di
reprimere un singhiozzo.
-Ti
chiami Pearl.
La
mano che se si era posata sopra la spalla era sottile, ma forte come il ferro,
coi palmi segnati dai calli e spesse unghie ingiallite.
-Sei
in pena per lui.
Avrebbe
voluto urlarle lasciami stare, maledetta strega, ma dalla gola le uscì
solamente un nuovo singhiozzo, e un lungo brivido la scosse tutta quanta. Se
Max non era ancora tornato, era anche possibile chi fosse morto. Tutto era
possibile, a quel punto.
-Brown
è morto, Pearl. Ma la speranza della nostra gente no, e forse è per questo
motivo che Max non torna.
Voleva
darle a intendere che aveva preso il posto di John Brown, sostituendosi a lui
come capo della rivolta antischiavista?
-Lo
conosco da tanti anni. Lui odia questo stato di cose.
-Perché
non vuoi tacere, vecchia pazza?Come fai a dire di conoscerlo da tanti anni se
ha la metà di quelli che hai tu?
Un
sorriso in cui sarcasmo e compassione facevano a pugni tra di loro spaccò in
due la faccia rugosa di Harriett. Le mani adunche si strinsero sulle spalle di
Pearl, le unghie dure quasi le affondarono nella carne, attraverso i vestiti.
-Stammi
a sentire, ragazzina. E’ necessario che tu lo faccia: per il bene tuo… E di
Max. E’ stato proprio lui a chiedermi… di parlarti di ciò di cui non ha mai
avuto il coraggio di dirti niente. Ti ha nascosto molte cose del suo passato,
ma non devi volergliene: non ti ha mai voluta ingannare.
Pearl
si strofinò col dorso della mano la punta del naso, senza schiodare dal viso di
Harriett il suo sguardo interrogativo e furioso. Parla, maledetta te. Avrebbe
voluto dirglielo, ma rivolgere la parola a quella donna era per lei lo stesso
che sputare sangue.
-Avevo
più o meno l’età tua ed ero scappata perché ero stanca di sentirmi addosso le
mani dell’intendente. Era vecchio, aveva la testa tignosa e puzzava come un
branco di moffette. Ma era bianco, e non si poteva dirgli di no. Io ero carina,
non quanto te, forse, ma accidenti se mi guardavano, neri e bianchi. Avevo la
testa piena di sogni, di rabbia e di schifo e, quando non ne ho potuto più,
sono scappata. Mi è successo quasi come a te, lui m’ha tolta dai guai, nascosta
a casa sua… Non qui, da un’altra parte, ma non chiedermi dove. Sognavo
d’andarmene al Nord, ma dividere lo stesso tetto con quel gran pezzo d’uomo mi
ha fatto presto cambiare idea, specialmente dopo che lui l’ha fatta cambiare a
me, a proposito di certe faccende tra uomini e donne… Max era un uomo molto
generoso: anche in amore, come ben sai.
-E
tu sei una dannata bugiarda, Harriett. Come puoi pretendere che prenda per
buone queste… queste fandonie?Devi essere pazza.
-Non
sono fandonie, anche se non è facile crederci. Ascoltami, per favore.
Le
raccontò della Ferrovia Sotterranea, e degli schiavi fatti fuggire al Nord. Lui
le aveva detto tante volte di odiare la schiavitù e, non fosse stato bianco,
Harriett sarebbe stata perfino tentata di credere che l’avesse provata sulla
sua pelle, per sentirne con cognizione di causa una tale violenta avversione.
S’era accorta che lui non parlava volentieri di certi argomenti, che era molto
riservato a proposito della sua vita e dei suoi trascorsi. Aveva perfino
dubitato che quell’uomo dagli occhi limpidi fosse un criminale: come spiegare
diversamente il marchio impresso con un ferro rovente sulla sua schiena? Finché
un giorno…
-Finché
un giorno mentre mi teneva tra le braccia, decise di raccontarmi tutto. Non
credo che non mi avesse detto niente, prima, perché temeva che potessi tagliare
la corda, una volta saputa la verità. Gli ho voluto bene, a quel benedetto
uomo, ma credo di non averlo mai capito.Vent’anni fa, Max D. Merritt era
identico a com’è adesso: stessa pelle liscia, stessi capelli dorati, stessi
grandi occhi chiari, stessi muscoli forti. Io, invece ero diversa: bellina, e
ingenua, nonostante avessi visto troppo. Quanti anni ho? Quaranta, che tu ci
creda o meno: è quello che ho passato a caricarmene sul groppone venti di più.
Tu sei stata fortunata: Max mi ha detto che sei la figlia del padrone e che,
anche se si faceva chiamare Masta e non papà, per te e per tua madre ha sempre
avuto un occhio di riguardo, finché è campato. Mi ha anche detto che ti ha
insegnato a leggere e a scrivere. E che i libri della sua biblioteca ti
piacevano, specialmente quelli che parlavano di un passato molto lontano…
Quando
tornerai, dovrai rendermi conto di aver raccontato le mie faccende a quella
megera. Quando tornerai. Se tornerai.
Harriett
Tubman continuava a parlare e Pearl ad ascoltarla, malgrado tutto. Se sai
leggere e scrivere, se sai qualcosa di come andava il mondo tanti anni fa,
forse farai meno fatica a credere a quel che ti devo dire. Io, invece, ho
faticato parecchio a crederci, tesoro, finché… Finché non sono arrivati gli
sgherri del mio padrone per prendermi e portarmi indietro e uno di loro
gli ha sparato in pieno petto. Beh, non
è morto. E’ crollato a terra e, pochi minuti dopo, era già in piedi davanti a
me, con tutto il suo sangue sopra la camicia, ed era vivo, mi capisci? Si è
scrollato la polvere di dosso, strappato via quello straccio bagnato, e poi mi
ha chiesto di portargli una camicia pulita. Quell’uomo non può morire, Pearl.
Me l’ha detto lui, e poi l’ho visto con i miei occhi, anche se è difficile
crederci.
-Non
credo una parola di quello che dici. Tu sei pazza, donna…
-Se
non credi alle mie parole, pensa alle sue stranezze. L’hai mai visto piangere?
-Agli
uomini s’insegna a non farlo. Non ci vedo niente di così strano.
-E
i nomi strampalati che mette ai suoi cani e ai suoi cavalli?
Sono
nomi latini, vecchia pazza. Max è un uomo colto, gli ho visto spesso libri per
le mani… Sa molto di storia antica, è la sua passione, si sa, ognuno ha le sue
piccole, innocenti manie. E le cicatrici che gli segnano il corpo? Gli hai
notato i graffi sul collo, il marchio a fuoco sulla schiena? E poi… Lo sai che
odia l’odore della menta e delle rose, almeno quanto odia la schiavitù? Ti sei
mai domandata perché, ragazzina?
Chiediglielo,
quando torna. Sarà la volta buona che ti dirà che il collo gliel’ha graffiato
una tigre e la schiena marchiata il padrone che lo faceva combattere a morte di
fronte a centinaia di persone che strepitavano, pagavano e scommettevano su
quale dei due contendenti sarebbe crepato prima, come adesso si fa con i galli.
Ti dirà che foglie di menta e petali di rose venivano sparsi nei luoghi dove si
svolgevano questi spettacoli, perché la gente non fosse disturbata dalla puzza
del sangue e del sudore. Ti racconterà tutto quanto, come ha fatto con me. Ti
dirà che è stato ucciso a tradimento da un re crudele e riportato in vita da
una donna disposta ad affrontare tutti i diavoli dell’inferno per avere il suo
amore. Ti dirà che ha 1700 anni e non può né piangere, né morire.
IL RITORNO
…E
allora farai quello che ho fatto io, ragazza: lo lascerai, ma non perché
proverai orrore di ciò che è stato che è e che sarà. Ti farà compassione, poveretto,
destinato a vivere finché girerà il mondo, ad avere sempre i trentatré anni che
aveva quando l’hanno ammazzato e riportato indietro dall’altro mondo, a patire
le pene dell’inferno senza poter versare una lacrima quando vedrà avvizzire
come l’erba stenta dell’inverno e poi morire chi gli è caro, uomo o animale che
esso sia.
Tu
sei pazza, vecchia… Non voglio più ascoltarti. Invece aveva continuato ad
ascoltarla e a pensare che le stesse raccontando assurde fandonie. E la verità
era peggio delle bugie di Harriett: Max era morto. Non sarebbe più tornato, per
stringerla tra le braccia e ridere con lei. Max s’era fatto ammazzare perché
odiava la schiavitù e aveva voluto combatterla con tutte le sue forze. No, non
l’aveva provata sulla sua pelle, come sosteneva quella là. Né l’aveva
conosciuta e salvata vent’anni prima e tenuta a casa sua come aveva fatto con
lei. A volte, le aveva detto Harriett, sento una terribile nostalgia di quello
che è stato tra di noi: i suoi baci, le sue carezze… Max era splendido, e
sapeva bene come farti impazzire. Ora, lui quel che era è rimasto, io sono un
vecchio catafascio e non ho ancora quarant’anni. E’ per questo che l’ho
lasciato… E’ per questo che lo lascerai.
Dalla
curva in fondo al sentiero, era spuntato Secutor, il prediletto tra i suoi
lupi, zoppo e inzaccherato come aveva immaginato. Quindi il grande sauro
lanciato in un galoppo furioso e i suoi lunghi capelli che battevano nel vento.
Era tornato: sconfitto, deluso, forse ferito. Sporco di sangue e di fango, come
il suo grosso cane nero. Pearl avrebbe ringraziato Dio per com’erano andate le
cose. L’avrebbe aiutato a lavarsi il sudore e la sporcizia di dosso, gli
avrebbe servito una cena calda, quindi… Forse lui aveva bisogno di consolarsi,
di trovare un po’ di conforto in qualcuno. In lei. Nelle sue mani, nella sua
bocca e nel suo corpo, che lo avrebbero fatto impazzire di piacere, anche
quella notte.
Lo
guardò levarsi di dosso la camicia, gli notò i segni rossi delle bastonate
sulla schiena, i graffi e gli ematomi. Aveva imparato da Big Mama a curare con
le erbe le conseguenze di certi incidenti e più di lei doveva saperne Eagle
Eye, l’indiano. Max era venuto fuori dalla sciagurata faccenda di John Brown e
della sua mancata rivoluzione con il morale a pezzi ma senza troppi danni,
pensò Pearl lasciandogli scorrere la mano lungo il costato. Niente di rotto,
solo ematomi e graffi superficiali: se l’era cavata a buon mercato, poteva
andargli veramente molto peggio… Finché non notò il segno violaceo della corda
intorno al suo bel collo robusto.
-Mi
hanno impiccato, Pearl.
…A
un ramo non abbastanza forte da reggerti, che si è spezzato, e… No, amore, non
al ramo di un albero: alla forca. Ma io non sono morto, perché… Perché NON PUOI
MORIRE? Dimmi che qualcuno ha sparato alla corda, che un angelo del cielo ha
fatto in modo che si spezzasse, ma non cercare di farmi credere in cose nelle
quali non potrei credere mai, Max…
-Il
mio nome è Maximus Decimus Meridius e sono nato nell’Anno Novecentesimo dalla
Fondazione di Roma nella Provincia Senatoria dell’Ispania Baetica. Sono stato
contadino, soldato, generale, schiavo e gladiatore, sotto il regno di Marco
Aurelio Antonino e di Lucio Aurelio Antonino Commodo, suo figlio, che è morto
per mano mia.
Pazzo,
pazzo anche tu. Vieni a letto, Max, hai solamente bisogno di riposare e di
dimenticare. Non puoi pretendere di reggere da solo il peso del mondo sulle tue
spalle come… Come… Mi pare che si chiamasse Atlante. Ho letto la sua storia su
uno dei libri di Masta Tucker. Come parecchi gentiluomini del Sud, anche lui
era terribilmente ignorante ma spendeva un patrimonio in libri che neanche
apriva. A me piaceva leggere, invece, imparare cose che non so. Marco Aurelio… Era
un uomo saggio, se non ricordo male. Il figlio, invece, un sanguinario tiranno
che si divertiva a combattere con i gladiatori nella grande arena di Roma…
Dove
io e lui ci siamo ammazzati l’un l’altro, Pearl. Quello che ti ha detto
Harriett è tutto vero. E’ stata sua sorella Lucilla a riportarmi indietro dal
mondo dei morti grazie alla magia. Mi amava. E non sapeva a cosa andava
incontro.
Non
proverai orrore per lui, quando saprai, Pearl: solo compassione nei riguardi di
un uomo che non può invecchiare né morire ed è costretto a guardare impotente
chi gli è caro avvizzire come l’erba dell’inverno e andarsene. E allora lo
lascerai come l’ho lasciato io, per maledire le tue notti da sola….
-Max…
-Sì,
principessa?
Pearl
lasciò che lui l’abbracciasse, affondò il suo viso nell’ampio petto nudo
dell’uomo perché le narici percepissero un’ultima volta l’odore della sua
pelle, le labbra il suo sapore salato.
-Mi
avevi promesso che… E adesso è arrivato il momento: voglio andarmene al Nord.
FINE
Lalla, 12/03/02
[1] Swing low… (Negro Spiritual) (N.d.A.).
[2] Masta = master, padrone, nell’inglese
sgrammaticato degli schiavi (N.d.A.).
[3] Miz = mistress, padrona (N.d.A.).
[4] Griffe = persona di colore, nata da un
genitore di puro sangue nero e da un genitore mulatto (N.d.A.).
[5] ”La Capanna dello Zio Tom”, un
vero e proprio pamphlet antischiavista (N.d.A.).
[6] Lou Ella allude all’abolizionista Abramo
Lincoln, futuro Presidente degli Stati Uniti (N.d.A.).
[7] Mula = Termine con il quale venivano
definite le giovani schiave nere (N.d.A.).
[8] Bandog = cane addestrato al combattimento, simile al pitbull, ma molto più grosso (N.d.A.).