CRITICA LETTERARIA: VITTORIO ALFIERI

 

Luigi De Bellis

 
 
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Individualismo e passionalità della tragedia alfieriana

Il linguaggio alfieriano della "Vita"

La struttura della tragedia alfieriana

Il "sublime" e la morte nella tragedia alfieriana

Caratteri della tragedia alfieriana

 
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CARATTERI DELLA TRAGEDIA ALFIERIANA

di  VITTORE  BRANCA



Contro la tradizione della tragedia classica, tutta conclusa nell'ultima scena, nell'ultima battuta, l'Alfieri adotta la soluzione "aperta" della tragedia barocca, che prolunga la tensione drammatica o in un'azione futura o su una tragica solitudine d'anima. Proprio questo tema della solitudine dell'uomo, dell'urto tutto risolto entro i confini dell'anima, danno vita ai due capolavori, Saul e Mirra. Un'esasperata esigenza di interiorità, un'ansia magnanima di grandezza, una virile tempestosa malinconia segnano i tratti più vigorosamente poetici di tutta l'opera alfieriana e spiegano perché, nelle tragedie, ali eroi appaiano scialbi simboli di ideali generosi ma vaghi, mentre l'anima alfieriana trova la sua espressione più autentica nella cupa grandiosa tetraggine dei tiranni. Cosí le Rime nella storia della tragedia alfieriana si pongono come un primo momento di esperienze espressive, tanto esse prendono origine da situazioni drammatiche, mentre offrono ai momenti più alti della tragedia il risultato di un continuo vigoroso esercizio di linguaggio lirico.

Mentre la tragedia classica, raciniana I, si concludeva in sé, era l'immagine di un universo chiuso e quindi aveva una effettiva unità, la tragedia barocca - forse anche per evadere in qualche modo dagli schemi aristotelici - fa supporre, oltre l'azione rappresentata, un al di là, una continuazione della vicenda oltre il calare del sipario. ("Laisse faire le temps, ta vaillance et ton roi" è la famosa battuta finale del Cid ). Potremmo dire che alla forma chiusa classica si oppone una forma aperta: proprio quella che consente all'Alfieri di prolungare al di là della scena, in angoscia più drammatica perché più misteriosa, la tensione tragica delle più alte fra le sue prime tragedie.

Scorre di sangue (e di qual sangue!) un rio...
Ecco, piena vendetta orrida ottengo;...ma, felice son io?... (Filippo)

- O del celeste sdegno
prima tremenda giustizia di sangue,...
pur giungi, alfine... Io ti ravviso. - Io tremo. (Antigone)
Oreste, vivi: alla tua destra adulta
quest'empio ferro io serbo. In Argo un giorno,
spero, verrai vendicator del padre. (Agamennone)

... Ahi misero fratello!...
già piú non ci ode;... è fuor di sé... Noi sempre,
Pilade, al fianco a lui staremo... (Oreste)

Ho il ferro ancor; trema: or principia appena
la vendetta, che compiere in te giuro. (Rosmunda)

Te preverrò. - Ma l'altre età sapranno,
scevre di tema e di lusinga, il vero. (Ottavia)


Negli ultimi quattro esempi la tragedia si chiude non concludendosi ma introducendo chiaramente un'altra azione drammatica (la vendetta di Oreste, la catarsi del vendicatore, il tormento dei due coniugi legati dal delitto e dall'odio reciproco, il suicidio di Seneca e il suo messaggio ai posteri). Nei primi e più alti esempi (come poi nel Don Garzia) il sipario invece cala non su un nuovo e necessario episodio, ma su una solitudine desolata, su un silenzio raggelato più tragico di qualsiasi aspra vicenda («scioglimento... il più terribile a chi ben riflette: poiché a Creonte... non rimane che l'odio di Tebe, la reggia desolata e deserta, il regno mal sicuro, e l'ira certa, e oramai da lui temuta, dei numi» notava già a proposito dell'Antigone l'Alfieri stesso scrivendo a Ranieri Calsabigi). All'apertura di una nuova azione si sostituisce l'apertura su un'anima, che l'episodio rappresentato ha lasciato sola con se stessa, a misurarsi con se stessa. Sembra che l'Alfieri dalla tradizione della tragedia barocca elegga proprio questa forma, aperta ed enigmatica, per affacciarsi al buio squallore di anime sole colle loro vendette e coi loro odi, sole nella morsa implacabile di passioni sconfinate e dispotiche. Non ha ancora identificato quello che sarà il tema più suo, cosí nella tragedia come nella lirica: la solitudine dell'uomo con se stesso, insieme bramata e aborrita. Quando lo intuirà, quando da una suggestione sottintesa e affidata soltanto come un suggerimento alla fantasia del lettore, passerà a una rappresentazione esplicita, allora nasceranno i due riconosciuti capolavori del teatro alfieriano, Saul e Mirra. L'azione sarà allora tutta raccolta entro un'anima; e l'urto non avverrà piú fra personaggi diversi ma fra le passioni, le perplessità, le ambivalenze di una sola tormentatissima anima, di un personaggio di immane forza spirituale, al di là dei confini mediocri dei comuni mortalí. Il superamento delle esitazioni, dei compromessi, degli egoismi, delle viltà, anche se raggiunto attraverso la morte, rappresenterà - nel re empio-superbo e nella fanciulla empia-innocente - una catarsi solenne e conclusiva («L'Alfieri è riuscito - già notava il Gioberti - a dipingerci un tiranno che sente ripiombare su di se stesso la propria tirannide»).

 

Oh figli miei!... - Fui padre.
Eccoti solo, o re; non un ti resta
dei tanti amici, o servi tuoi. - Sei paga,
d'inesorabil Dio terribil ira?

............... - Empia Filiste, 
me. troverai,. ma almen da re, qui... morto. - (Saul)

Oh Ciniro! ... Mi vedi... 
presso al morire... Io vendicarti... seppi,...
e punir me... Tu stesso, a viva forza,
l'orrido arcano... dal cor... mi strappasti...
Ma, poiché sol colla mia vita... egli esce...
dal labro mio,... men rea... mi moro...
..................Quand'io....tel... chiesi,... 
darmi... allora,... Euricléa, dovevi il ferro...
io moriva... innocente;... empia... ora... muojo. (Mirra)

Dalla forma aperta l'Alfieri torna cosí alla forma chiusa e conclusa, classica e neoclassica, attraverso una sublimazione in certo modo lirica della tragedia: una sublimazione che è insieme l'ideale approdo del suo lungo e difficile esercizio drammatico e il punto più alto del suo messaggio poetico.
Come nella vita l'Alfieri mirò a un ideale di bellezza eroica, cosí nella sua opera di scrittore puntò decisamente verso un'assoluta intimità drammatico-lirica, in cui l'anima dell'uomo, cioè la «sua» anima, fosse non tanto al centro dell'uníverso, quanto l'universo stesso. Ed è proprio nel rigore col quale perseguí questa sua vocazione che egli, come tutti i grandi artisti, pur vivendo la tradizione culturale del suo tempo, la trascese risolutamente: non perché romantico o protoromantico, ma per il suo potente e prepotente temperamento poetico. La solitudine dolorosa ed eroica, la malinconia patetica ma virile (mai romanticamente languida), l'ansia di grandezza e di magnanimità in ogni campo: insomma tutti gli accenti più alti dello scrittore risalgono a questa risoluta fedeltà, a questa esclusiva attenzione ai problemi dell'anima, della «sua» anima. «Je suis moi merce la matière de mea livres... chaque homme porte la forme entière de l'humaine condition» è l'epigrafe che l'Alfieri, con parole del «familiarissimo» Montaigne, avrebbe potuto scrivere in fronte alla sua opera. E di fatti anche le pagine apparentemente più lontane da questa vocazione (i trattati politici, le commedie, le satire...) valgono soprattutto come sforzo dello scrittore di chiarire, attraverso un distacco oggettivo o una trattazione teorica, certe pieghe di sé a se stesso drammaticamente.
L'attenzione alle esigenze sempre esasperate della personalità dell'Alfieri si pone cosí come la condizione prima anche per «saper leggere» la sua poesia. Il clima procelloso o pateticamente abbandonato delle pagine più inobliabili della Vita, gli accenti più elevati e più solitari delle rime, i personaggi più forti e suggestivi e la originalissima costruzione delle più caratteristiche tragedie, appaiono ineluttabilmente determinati e imposti da quelle esigenze interiori. Gli eroi, che l'Alfieri porta sulla scena, sono, in generale, al confronto dei tiranni, scialbi e convenzionali o teatrali e eccessivamente altisonanti; proprio perché in essi soprattutto si drappeggia la proclamazione di idee generose ma vaghe, e si gonfia lo sfogo di sentimenti scomposti e falsati dalla retorica politica. Nei loro antagonisti, invece, si riflette l'animo appassionato ed eccessivo, tempestoso e contraddittorio del poeta, tagliato nella stessa stoffa sovrumana dei tiranni, degli uomini nati a grandi cose, virtuose e empie, e ombreggiati sempre da una tristezza della potenza, di sapore tassiano e moltoniano. («La cupidità del tiranno non è di ricchezze, la quale è vilissima cupidità, ... ma è cupidigia di comandare, la quale suole esser fondata sovra la grandezza de l'animo... e chi aspira alle cose malagevoli è di grand'animo»: Tasso, Il forno, 102; I red. 126).
Esasperata esigenza di intimità anche nella costruzione delle tragedie più originali e più alte: Filippo, Clitennestra, Saul, Mirra - i suoi eroi più grandi perché più soli - chiudono e dibattono nel mistero della loro anima tutto il dramma: le azioni che si svolgono attorno non hanno che il valore di episodi scelti per dar rilievo teatrale alla loro desolazione interiore. Anzi le studiatissime elaborazioni cui lo scrittore sottopose le sue tragedie mirano, in generale, proprio a liberarle di ogni ingombrante riferimento esterno, a ridurre risolutamente l'«ambiente»: mirano cioè alla rappresentazione di una solitudine esasperata e alla conquista di una violenta intimità, le due caratteristiche massime del teatro alfieriano.
Non a caso del resto l'esperienza più propriamente lirica, quella delle Rime - questo «giornale» segreto cui giorno per giorno l'Alfieri affidava le notazioni più rapide e più immediate della folla di « occasioni » che caratterizza il suo esercizio di artista -, si pone proprio come il banco di prova, il punto di passaggio obbligato tanto per il narratore della Vita che per il poeta delle tragedie. E quel tono smisurato, ignaro di qualsiasi semitono morale e sentimentale, quel linguaggio rapido e intenso, quasi un parlare prorompente, quel fremere, quel furore - cioè i caratteri che sono stati identificati come i più originali e i più continui della scrittura dell'Alfieri nei suoi vari momenti - discendono da questo rigore lirico, immane e categorico.
Il rapporto, a prima vista cosí suggestivo, tra la Vita e le Rime - che potrebbe richiamare quello fra lo Zibaldone e i Canti, unico nella storia della nostra poesia - è infatti un rapporto insolitamente rovesciato proprio per la prepotenza dell'esigenza lirica: la notazione in versi, la trasfigurazione degli episodi ha preceduto la narrazione autobiografica. Non si può respingere l'impressione che l'Alfieri, quando volle narrare di sé in prosa, abbia trovato, nelle Rime e nelle note che le accompagnano, una traccia generale e suggestive filigrane particolari.
Nella storia della tragedia alfieriana le rime rappresentano, in certo modo, il libro segreto in cui fermare le prime idee e le prime impressioni, in cui riporre il ricordo dei vari moti dell'anima, in cui saggiare il linguaggio più nuovo, in cui tentare i primi impasti di colore. E se queste note sono spesso nei sonetti ancora incerte, provvisorie, grezze, non è difficile scorgervi le filigrane più preziose del mirabile ordito delle tragedie.
Ma d'altra parte lo stesso linguaggio delle rime è tanto dominato e quasi tiranneggiato dal temperamento eccessivo e drammatico dello scrittore, da tendere - come ho dimostrato al altrove - quasi sempre a un'intonazione coturnata, a una spezzatura teatrale, a una violenza. tragica. I sonetti si pongono, sí, come il primo e più geloso momento nella genesi delle tragedie, ma spesso appaiono folgorati e attratti dal miraggio di quel clima eroico e sovrumano: e spesso nascono da un drammatico urto di sentimenti e di passioni in contrasto, da concitati dibattiti interiori, da furori eroici e da sdegni morali impennantisi su debolezze e incertezze sempre in agguato.
Come i momenti più alti delle sue tragedie, per la loro categorica intimità, ricorrono naturalmente a un linguaggio lirico, cosí le sue rime più inobliabili muovono prevalentemente da situazioni e da atteggiamenti drammatici, in atmosfera tragica. Tragedia, lirica, autobiografia si staccano da quell'unica ricca, generosa matrice sentimentale che abbiamo definito con le amate parole di Montaigne: se ne staccano non quali contemplazioni di se stesso, ma come prorompenti rivelazioni, folgorazioni abbaglianti, impeti di furore. Il riflettersi continuo dei modi dell'una forma in quelli dell'altra, non è effetto di una consuetudine tecnica, quanto espressione di una necessità di fantasia: della suprema «ragione» teatrale dell'Alfieri scrittore, dell'Alfieri «poeta dei gridi dell'anima».

2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it  - Collaborazione tecnica Iolanda Baccarini - iolda@virgilio.it