passi da Intervista a
Ermanno Gorrieri
(Claudio) di Roberto
Franchini: da Modena Storia n. 9 anno III - 9 aprile 1995
Onorevole Gorrieri, i1 25 Aprile che
cosa festeggiamo: la vittoria al termine di una guerra di Liberazione o la
fine di una guerra civile ?
«No. io non sono convinto che sia la giusta definizione che Claudio Pavone
dà nel proprio libro e che utilizza perfino come titolo. Quella spagnola
fu una guerra civile: in Italia fu guerra di Liberazione. perché eravamo
in presenza di una occupazione straniera e di una divisione degli italiani
in ragione del collocarsi al fianco oppure contro i nazisti e i fascisti
(Italiani). Ci sono troppe commistioni tra la guerra patriottica, contro i
tedeschi. e la guerra politica perché la si possa definire una guerra
civile».
La guerra partigiana ha avuto un peso reale dal punto di vista
militare, nella liberazione dell’Italia oppure il merito va attribuito
solo agli Eserciti Alleati?
«La guerra è stata vinta perché ovviamente erano in campo gli Alleati,
tutti gli Alleati. compresi i Russi. Ma la Resistenza fu un fenomeno
europeo e parecchie difficoltà all’esercito tedesco le ha indubbiamente
create: l’insicurezza nelle retrovie delle zone occupate ha tenuto
impegnati reparti numericamente non trascurabili molto a lungo».
Come si immagina i festeggiamenti del 50° della Liberazione: sarà festa
di popolo oppure di pochi ?
«Secondo me nei confronti della Resistenza e della Liberazione c’è un poco
di stanchezza perché in tutto questo cinquantennio vi è stato un abuso di
oleografia e di celebrazioni. E per di più. il giudizio sulla Resistenza a
lungo è stato inquinato dal fatto di essere comunisti o anticomunisti: la
Resistenza è stata fatta coincidere da molti con i comunisti e questo ha
creato distorsioni di giudizio».
Questo è colpa dei comunisti o anche dei non comunisti che non
“parteciparono?
«Nei primi 10-20anni del dopoguerra ci fu una certa tendenza a vantare una
sorta di monopolio e indubbiamente chi aveva partecipato alla lotta
armata, ma era al di fuori di quest’area politica, rimase un po’ assente,
emarginato quasi. Queste celebrazioni “a senso unico” hanno reso ancora
più difficile la partecipazione popolare. Poi le cose sono andate
attenuandosi e sistemandosi e oggi il senso del valore della Resistenza è
un dato acquisito. Purché non si facciano di nuovo troppe celebrazioni».
L‘identificazione con la Liberazione non
è stata forse minoritaria anche perché la Resistenza fu opera di
minoranze, per quanto attive?
«La Resistenza non è stata una lotta spontanea del popolo che si è
sollevato. All’inizio la Resistenza è stata l’iniziativa di minoranze,
che si sono mosse in una atmosfera di terribile paura della gente, la
quale ha rischiato solo o soprattutto per salvare militari alleati o, in
particolare, cittadini ebrei. E stata una lenta maturazione prima di
diventare un sentimento collettivo. Quando si
ricorda la Resistenza si tenda a personificarla nei partigiani: io che
l’ho combattuta in montagna aggiungo che si tende a dimenticare che chi
ha contribuito più di tutti è stata la popolazione dell’Appennino.
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Ha pagato prima sul piano
economico, perché all’inizio noi non riuscivamo ad avere rifornimenti e
si mangiava “addosso” alla gente, poi con le rappresaglie subìte e con
gli incendi dei loro beni. Insomma. vissero in una continua ininterrotta
paura. Pensi come si sarà sentita una donna di montagna. con due figli
piccoli e un marito al fronte, quando di notte udiva bussare alla porta
sconosciuti che chiedevano ospitalità. A volte con buone maniere, a
volte di malagrazia».
Le ripropongo la domanda di prima. Vi è mai stato un momento nel quale
la resistenza divenne sentimento corale, espressione della maggioranza
della popolazione?
«Dall’8 settembre ‘43 arriviamo al giugno del 1944: alla liberazione di
Roma e allo sbarco in Normandia. La vittoria pare imminente e in montagna
arrivano 6-7 mila nuovi combattenti. C’è un periodo di trasformazione
dell’atteggiamento della popolazione: vi è grande euforia e un conseguente
grande impegno che va dall’estate fino all’ottobre. Poi cadono le nuove
speranze. Sopravvivono l’avversione e la disponibilità ad aiutare i
partigiani. ma con grande paura. Vi è sempre stata nella gente una grande
lotta tra i loro sentimenti a favore della libertà e della Liberazione e
la grande paura nella vita quotidiana”.
Gorrieri a sx e Don Prandi a dx
Quale giudizio dà oggi degli omicidi
compiuti o attribuiti ai partigiani rossi ?
lnsomma, sono stati quasi l’effetto naturale del motivo per cui i
comunisti partecipavano alla Resistenza: non solo per cacciare i tedeschi
e i fascisti, ma anche per fare la “rivoluzione proletaria”, come scriveva
il Commissario Davide in molte sue lettere. Quindi, chi si era abituato ad
avere il mitra in mano e a lottare per questi ideali sia contro gli
occupanti, ma anche “per il dopo”, ha avuto molte difficoltà ad arrestare
un treno che era in corsa. Se Togliatti aveva chiaro che non era possibile
conquistare il potere in Italia, pur con tutta la sua doppiezza. nelle
dirigenze periferiche in particolare questi interventi armati contro il
“nemico di classe”, padroni e preti e qualche democristiano, non erano poi
visti male. Anche perché ciò influiva sulla gente. Ricordo ancora che, nel
marzo 1946. quando dovevamo fare le liste per le prime elezioni
amministrative, era proprio difficile trovare 15 persone disposte a dare
il proprio nome e a candidarsi. Questa paura si attenuò già negli anni
successivi, quando il mondo cattolico si riorganizzò».
Negli anni Settanta, i terroristi delle Brigate Rosse e di molti gruppi
paralleli utilizzarono spesso il richiamo alla resistenza, della quale si
dichiaravano gli ultimi, autentici eredi...
«Di partigiani che abbiano partecipato al movimento o che lo sostennero ve
ne sono stati pochissimi. I brigatisti si arrogavano il diritto di essere
eredi della Resistenza: ma non lo erano e in questo modo erano percepiti
da tutti coloro che avevano realmente fatto quella guerra. Non vi è alcun
legame tra Brigate Rosse e Resistenza se non l’utilizzo improprio di quei
richiami».
Quanto fu difficile l’azione unitaria tra voi, partigiani cattolici, un
gruppo minoritario e la maggioranza dei partigiani, che si riferivano al
comunismo e al socialismo?
«Nella Resistenza i rapporti furono indubbiamente difficili. Quando noi
arrivammo in montagna. eravamo minoranza di fronte ai gruppi organizzati
in Brigata dai comunisti di Davide e di Armando. In più noi ci portavamo
dentro la paura. l’avversione al comunismo: per la nostra formazione
nell’Azione Cattolica il comunismo era il nemico. Quindi abbiamo avuto un
periodo di emarginazione: poi i rapporti di forza si equilibrarono
maggiormente e si ebbe una gestione più unitaria. Pur sempre con
difficoltà, dovute alle divergenze sui metodi di lotta: lotta senza
esclusione di colpi da parte dei comunisti, particolare attenzione ai
problemi della popolazione da parte nostra. Quella della montagna era
gente molto religiosa, in cui noi ci sentivamo più rispecchiati. Fummo noi
a creare il Comitato di Liberazione della Montagna come ente di governo
civile, togliendo alle formazioni partigiane la facoltà di gestire
direttamente questi problemi. Tra “noi” e loro” i rapporti furono
difficili, attenuati dal fatto che combattevamo fianco a fianco contro i
fascisti e i tedeschi. Probabilmente i rapporti sono divenuti più
difficili nel dopoguerra. perché venne a mancare questo obiettivo comune.
Noi li ritenevamo nemici del sistema democratico, al quale pensavamo”. il libro
http://digilander.libero.it/freetime1836/libri/libri77.htm
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chiusura del verbale del
30 novembre 1944. doc. 5
Granone
Dopo breve discussione in ordine alla convenienza o meno di stabilire
l'obbligo della de-
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Ermanno Gorrieri, S.Ten Alpino, dall’agosto 1943, si
trova in licenza quando viene dato l’annuncio dell’armistizio. Organizza con
altri giovani, il recupero di armi e crea depositi ed equipaggiamenti
sull’Appennino modenese. Nominato rappresentante della Democrazia Cristiana
nel Comitato militare, organo del CLN, organizza la stampa clandestina e
piccole attività di sabotaggio collaborando con Don Monari nel salvataggio di
militari alleati e soprattutto di ebrei. Nell’aprile del 1944 sfugge alla
cattura da parte della polizia fascista e, in maggio, guida in montagna il
primo nucleo partigiano democristiano col nome di battaglia “Claudio”. Al
termine dei 45 giorni della Repubblica di Montefiorino viene nominato
comandante della 27a Brigata Garibaldi “Antonio Ferrari”, di composizione
mista (democristiani, partito d’azione, comunisti). Promuove e coordina
intanto l’organizzazione delle formazioni armate democristiane della pianura,
le quali, riunite sotto il nome di Brigata Italia Pianura, parteciperanno ai
combattimenti della Liberazione. Da allora ricopre varie posizioni all’interno
del sindacato, partito e associazioni cattoliche fino alla sua lezione a
deputato al Parlamento per la D.C. nel quinquennio 1958-1963. Dal 1966 è
membro del Consiglio Nazionale della DC, fino a tutti gli anni settanta.
Rinuncia alla ricandidatura nel 1963 per dedicare maggiore impegno nelle
organizzazioni locali. Dal 1970 al 1975 è consigliere regionale dell’E.
Romagna. |