LA SECONDA GUERRA MONDIALE

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  La notte di Taranto (nov. 1940) e la beffa di Genova

Antonino Trizzino - Longanesi & C. 1a edizione gennaio 1953

  Navi e poltrone Cap.4  
 

  La notte di Taranto pag. 28 e segg.... In un punto, circa a mezza via tra Catania e Navarrino, la Illustrious (portaerei) si staccò dalla formazione. Sulla sua scia si misero subito gli incrociatori Glasgow, Gloucester, Berwick, York e i cacciatorpediniere Hiperion, Hasty, Ilex, Havock. Questi se ne andarono poi per conto loro: erano le 18 dell’11 novembre 1940. Per due ore navigarono al massimo della loro velocità, sollevando grandi ondate a prua e ai fianchi; la luna che rischiarava le loro sagome era unica testimone dell’impresa. La fortuna li accompagnava. Nessuno dei nostri infatti li vide, nessuno ne ebbe il minimo sentore: per tutta quella gran distesa di mare, che per noi è un mare interno, un mare di casa, non incontrarono uno scafo o un sommergibile o soltanto uno straccio di vela italiani. Né gli aerei ricognitori della Sicilia e delle Puglie avevano segnalato questa deviazione delle navi nemiche la mattina, nel primo pomeriggio, o sul vespro. Tutto favoriva gli inglesi. Verso le 20 l’IUustrious, con la sua scorta, raggiunse sempre indisturbata, la posizione di lancio assegnatale 40 miglia a ovest dell’isola greca di Cefalonia. Di fronte, a 300 chilometri, c’era Taranto, a luci spente e ignara. Nella grande piazzaforte italiana i comandi stavano scambiandosi a quell’ora gli ultimi specchi della giornata sulla situazione, segnalandosi il classico, - Novità?- N.N -, mentre le acque placide della rada cullavano le navi ormeggiate, con le loro grandi bocche da fuoco bene ingrassate e i loro ottoni luccicanti.

CONVOGLI

Quel canale di Sicilia, largo 140 km nel punto più stretto, era il teatro di tutti gli affondamenti, un vero e proprio cimitero di navi alleate e dell'asse. Come l'altro di Sardegna di poco più largo (180), in quei primi 3 anni di guerra dovevano essere le porte italiane attraverso le quali non si passava. Se non bastasse c'erano anche le isole di Lampedusa e Pantelleria contro la sola Malta. I kilometri di mare non sono come quelli di terra, ma dalle grandi isole si potevano alzare in volo con sufficiente autonomia sciami di aerei che gli inglesi non potevano permettersi. Per questo loro avevano bisogno delle portaerei, le loro isole galleggianti e noi no. E queste isole andavano difese, per difendere i convogli che viaggiavano con loro e che passavano dalle due porte. ... 9/11/1940….

  Alle 20,35 in punto, si inizia il lancio dalla portaerei inglese della prima ondata, composta di 12 velivoli: sei armati di siluro, quattro di bombe e due dotati di razzi illuminanti. In 5 minuti sono tutti fuori e dopo un ampio giro sul posto, per raccogliersi in formazione, eccoli in rotta verso l’obiettivo. Circa un’ora dopo, alle 21,28, parte la seconda ondata... Tutto era stato meticolosamente preparato e tutto si svolgeva con regolarità e precisione cronometriche, secondo il previsto. Gli equipaggi conoscevano esattamente la topografia del golfo di Taranto e ne avevano impressa in mente la configurazione (l’operazione era in gestazione da anni), i limiti e gli ostacoli; sapevano in quali punti del mar Grande erano ormeggiate le corazzate e come erano affiancati l’uno all’altro, con la poppa legata a terra, al molo sud del mar Piccolo, gli incrociatori e i cacciatorpediniere. Attraente bersaglio non una bomba, ma un ago non sarebbe caduto dall’alto senza colpire una o l’altra.
I piloti e gli osservatori degli apparecchi inglesi sapevano anche che esisteva un varco libero nelle reti parasiluri disposte attorno alle corazzate italiane e che, giusto al di sopra di esse, ce n’era un altro nella cintura dei palloni frenati contro le incursioni nemiche. (A difesa del porto erano previsti 87 palloni frenati, ma le cattive condizioni climatiche dei giorni precedenti ne avevano strappati 60 e non si erano ancora potuti rimpiazzare a causa della mancanza di idrogeno). Le unità navali erano protette da reti parasiluri, ma degli 8.600 metri necessari per una difesa efficace, ne erano stati posati appena 4.200 metri. Queste reti erano comunque distese per soli 10 metri sotto il livello del mare, lasciando quindi uno spazio non protetto tra la rete stessa ed il fondale.

Qualche unità leggera fu mandata avanti, oltre il canale di Sicilia, a stabilire i contatti con la squadra di (che veniva da) Gibilterra, che aveva anch’essa preso il mare, venendo verso oriente. Si compiva una di quelle perlustrazioni in forze nel Mediterraneo, da una estremità all’altra, ch’era solito ordinare l’alto comando navale inglese. Si svolgevano secondo uno schema, che rimase invariato per tutta la durata del conflitto e che, grosso modo, si può riassumere così: i due complessi (le due flotte) di Gibilterra e di Alessandria partivano ad un tempo andando incontro l’uno all’altra ma non fino a congiungersi non essendo le acque di Pantelleria consigliabili al transito delle grandi navi, né a quello di grosse formazioni. Ai collegamenti provvedevano invece, unità di medio e piccolo tonnellaggio, che andavano dall’una all’altra parte e viceversa. Si profittava della presenza in mare di tutte quelle forze per proteggere il passaggio (lo scambio nei due sensi) di piroscafi da e per Malta e per compiere azioni offensive o di disturbo lungo le coste e le rotte italiane. Sulla strada del ritorno ...pag 28 e segg >>

  L'Ammiraglio di Squadra Inigo Campioni inoltre, aveva richiesto che le reti parasiluri fossero sistemate ad una distanza dalle sue navi tale da poter salpare rapidamente, senza prima dover rimuovere le protezioni. Per giunta i nostri riflettori per accecare i piloti non vennero accesi. Per loro e per i loro siluri s’apriva, dunque, un provvidenziale ingresso nell’aria e nell’acqua. E tutti gli equipaggi erano persino al corrente dell’ubicazione delle batterie contraeree, in modo da cercare di passar fuori del loro raggio di azione. Insomma, essi avevano un’idea esatta di ogni cosa e potevano considerarsi quasi familiari con l’ambiente contro il quale dovevano agire. La mattina stessa dell’11, un aereo aveva raggiunto la Illustrious e le aveva portato le ultime fotografie, ancora fresche, prese poco prima. E per colmo di prudenza, « un aereo della R.A.F. », riferisce il comandante Boyd, « pattugliò il golfo di Taranto fino alle 22,30, per assicurarsi che la flotta italiana non lasciasse il porto inosservata ». Fino a mezz’ora prima dell’attacco, dunque. Erano le 23 quando il cielo si illuminò e tutti planarono attraverso i varchi scaricando missili e bombe. La seconda ondata alle 24. Alle 2,50, con meno due aerei, la portaerei riprese il gruppo per Alessandria indisturbata. Littorio, Cavour, Duilio e altre unità minori erano inservibili se non irrecuperabili. Metà della flotta se ne era andata senza alcuna reazione italiana. Nel 1957, Bragadin scrive: "L’attacco su Taranto ebbe temporanee, ma serie conseguenze nel campo strategico perché la Marina fu lasciata con sole due corazzate in servizio, la Vittorio Veneto e la Cesare". Nel 1951, l’Ammiraglio Cunnigham scrive: "L’azzoppamento di metà della Flotta Italiana durante l’attacco su Taranto ebbe un effetto enorme sulla situazione strategica navale in Mediterraneo. Il nemico immediatamente trasferì il resto della flotta a Napoli; potevano ancora operare nel Mediterraneo centrale attraversando lo Stretto di Messina, ma solo sotto la stretta osservazione della ricognizione aerea di Malta". Una delle prime conseguenze fu la sospensione delle scorte, che da quel momento nei frangenti cruciali venivano decimate. (Tabella sotto: punte a novembre '41 vigilia della operazione Kompass che ricaccia Rommel in Tripolitania, Ottobre novembre dicembre '42 crollo di El Alamein e sbarco degli Usa sulle coste dell'Algeria). Ci vollero quasi due anni per capire che dei convogli nemici dovevamo colpire i trasporti non le scorte, come facevano loro con noi.

  I nostri convogli andavano giù mentre i loro, dalla fine di agosto del 42 anche circumnavigando l'Africa, svuotarono l'America di ogni camion e carro armato buono per battere Rommel. 200.000 tonn. di stazza, un decimo della flotta se ne era andato spesso col suo carico umano. E subivamo. Mentre la potenza militare nemica aumentava e si addensava contro di noi con l’arrivo nel Mediterraneo degli americani, quella italiana declinava giorno per giorno. Gli aerosiluranti, in particolare da cui comincia e finisce il nostro racconto, dopo il mezz’agosto del ‘42 entrarono in agonia. Era stato sempre un problema insolubile apprestare la quantità di siluri che sarebbe stata necessaria di volta in volta. Si andava avanti in aeronautica con quelli che prestava la marina, la quale, d’altra parte, non nuotava tanto nell’abbondanza da indursi alla prodigalità. Il maresciallo Cavallero, volenteroso intermediario tra marina e aviazione, accenna sovente nel suo diario alle fatiche che gli toccava compiere per armare un minimo numero di aerosiluranti. Ai primi di agosto del ‘41, egli fece appello alla marina per una maggiore considerazione dei bisogni dell’aviazione, ma si sentì rispondere che nei magazzini non c’erano siluri in soprannumero e che 40 in corso di allestimento sarebbero stati pronti soltanto tra il dicembre e il gennaio, « mentre il problema è agosto (di quest’anno) », annota sfiduciato Cavallero. Poi probabilmente qualcuno si commosse alle sue insistenze ed egli, infatti, può annotare in data 12 agosto 1941: « Riccardi comunica che di 28 siluri di cui dispone ne darà dodici all’aeronautica). Francescanamente si divideva il poco che c’era. Spesso i siluri della Sicilia erano mandati con aerei da trasporto agli aeroporti dell’ Egeo e da qui magari rispediti in Sicilia e poi in Sardegna, seguendo gli spostamenti delle navi nemiche, perché erano i soli disponibili e con essi si doveva far fronte a tutte le necessità. I pochi siluri che si riusciva a racimolare bastavano appena all’attività di un giorno o poco più, e spesso l’indomani non ce n’erano altri. Così si spiega come azioni in pieno sviluppo, di cui già si delineava il successo, non potessero essere né intensificate né continuate !!!!.

« Se continuasse l’azione - scriveva Cavallero mentre gli aerosiluranti erano impegnati a mezzo giugno 1942 - saranno presto esauriti i siluri della Sicilia e della Sardegna. Sono in corso lavori per apprestare cinque siluri che sono a Roma, mentre la ditta conta di fornirne altri 5 entro due giorni. » Entro due giorni !!!, mentre il problema richiedeva una soluzione immediata. A piccole dosi, dunque, arrabattandosi alla meglio, dal principio della loro attività fino all’agosto del ‘42, gli aerosiluranti della Sicilia riuscirono a lanciare complessivamente 83 siluri !!!!, quelli della Libia 80, quelli del1’ Egeo 134 e quelli della Sardegna 195: in tutto 492 siluri in due anni!!!!

 

La costruzione dell'Arsenale di Taranto fu decisa dal Parlamento con la legge n. 833 del 29 giugno 1882 che stanziava la somma di lire 9.300.000. I lavori iniziarono nel settembre 1883 (terminti 6 anni dopo) con la costruzione di: - un canale di comunicazione, fra la rada (mar Grande) ed il mar Piccolo (venne abbattuta la parte occidentale del Castello Aragonese e trasformato l'antico fossato in un canale navigabile, le cui due sponde opposte saranno congiunte dal Ponte Girevole: A lavori ultimati la lunghezza del canale fu di 375 metri e la larghezza fu di 60 metri, nel punto più stretto, tra i piloni del ponte girevole); - un bacino di raddobbo, il Principe di Napoli, capace di ricevere le più grandi navi da guerra; uno scalo di costruzione; - le officine occorrenti per il bacino e lo scalo, magazzini per i viveri e due grandi cisterne d'acqua; - una gru idraulica da 160 t.
L'Arsenale Militare Marittimo, progettato anche per la costruzione di navi, vede impostare il 14 marzo 1894 la sua torpediniera-Ariete "Puglia", varata il 22 settembre 1898

PERDITE CARICHI

%

tonn. partenza

perse  

Settembre 41

28,3

94.100

26.630

Novembre 41

62,4

79.200

49.420

Ottobre 42

44,2

83.700

37.000

Novembre 42

25,9

86.000

22.274

Dicembre 42

52,6

13.000

6.838

 
 

La Corazzata Vittorio Veneto dislocava in effetti oltre 45.752 tonn a pieno carico cioè in pieno assetto di guerra. L’unità era armata con 9 cannoni da 381/50 mm, 12 da 152/55, 12 da 90/50, 4 da 120/40 per il tiro illuminante, e da un numero variabile di armi sotto i 37 mm; a poppa una catapulta consentiva l’utilizzazione di 3 aerei. La protezione verticale era assicurata al galleggiamento da 350 mm di acciaio; quella orizzontale, a centro nave era di 207 mm; il torrione era protetto da 260 mm di acciaio; la massima protezione era di 380 mm sulla parte frontale delle torri dei grossi calibri. 8 caldaie tipo Yarrow e 4 gruppi di turbine Belluzzo fornivano la potenza disponibile, 130.000 HP, a 4 eliche tripale; la velocità massima era di 30 nodi. L’autonomia variava da 4580 miglia a 16 nodi a 1770 miglia a 30 nodi. L’equipaggio era di circa 1800 uomini.Venne smantellata negli anni '50

 pag 178 segg..Una flotta agguerrita

sembrò indispensabile a Giolitti, che richiese dal 1909 al 1912 i più gravi sacrifici al contribuente per potenziare la marina da guerra. In quel tempo 1’ Italia possedeva già ben Otto corazzate di squadra: Vittorio Emanuele, Regina Elena, Napoli, Roma, Benedetto Brin, Regina Margherita, Ammiraglio di Saint Bon, Emanuele Filiberto, ma poiché nessuna superava le 14.000 tonnellate e le loro caratteristiche non erano ritenute più all’altezza dei tempi e dei compiti loro affidati, il governo fece impostare in quei tre anni altre sei corazzate, cinque da circa 23.000 tonnellate e una da 20.000: precisamente la Cavour, la Giulio Cesare, la Duilio, la Doria, la Leonardo da Vinci e la Dante Alighieri, che furono pronte entro il 1915. Ma lo sforzo maggiore venne compiuto senza dubbio nel decennio che precedette la seconda guerra mondiale: uno sforzo che portò I’Italia al rango delle maggiori potenze navali del mondo. Le corazzate Cavour, Giulio Cesare, Duilio e Doria furono rifatte da cima a fondo, tanto da potersi dire che in esse fosse rimasto invariato soltanto il nome: furono allungati gli scafi, cambiati i loro apparati motori con altri più moderni e potenti, la velocità ne risultò notevolmente aumentata, la corazzatura ispessita e l’armamento reso molto più pesante con l’adozione di cannoni di grossissimo calibro. Nello stesso periodo di tempo si costruirono due corazzate da 35.000 !!! tonnellate (Littorio e Vittorio Veneto), veri giganti del mare e gioielli della tecnica navale: non c’era al mondo nulla di più potente. Altre due furono impostate (Roma e Impero), una delle quali entrò in servizio alla fine del ‘42 e l’altra non fu ultimata in tempo per partecipare alla guerra.

  La beffa di Genova  Pag .228 segg … La flotta inglese si sarebbe mossa da Gibilterra, per stare 5 giorni in mare spingendosi fin dentro il golfo di Genova con rischi incalcolabili e tutto questo per il gusto di andare a piazzare qualche colpo su una corazzata (la Duilio) in riparazione?? È stupido crederlo (e tutti continuano a crederlo), perchè gl’inglesi l’hanno detto. La verità è che in quei giorni Mussolini doveva incontrarsi con Franco in una località della costa ligure, per cercare di « riportare all’ovile il figliol prodigo spagnolo », come dice Ciano nel suo Diario. L’incontro, infatti, avvenne 2 giorni dopo il bombardamento di Genova, cioè l’11 febbraio, a Bordighera. Era tanto che si corteggiava il Caudillo per trascinarlo in guerra e bloccare Gibilterra. Se mai Franco nutriva dubbi sulla via per lui più vantaggiosa da seguire, le cannonate di Genova glieli tolsero completamente. Perciò l’esito negativo delle trattative a Bordighera poteva ritenersi scontato prima ancora che le conversazioni avessero inizio. Gli inglesi avevano già fatto a pezzi una volta l'Invincibile Armada. Partite dunque da Gibilterra il 6 febbraio la mattina del 9, quando stava per albeggiare, le navi inglesi cominciarono ad affacciarsi al grande arco del golfo ligure. Erano le 5 quando la portaerei Ark Royal si distaccò dalla squadra e andò a piazzarsi con due cacciatorpediniere in un punto a settentrione della Corsica, distante circa 130 km sia dalla Spezia sia da Livorno giusto per lanciare i caccia contro eventuali uscite a sorpresa. Le altre, cioè le corazzate Renown e Malaya, l’incrociatore Sheffield e cinque cacciatorpediniere proseguirono verso la riviera di Levante. recuperiAlle 7,19 si scoprì di prua capo Portofino e le navi, dopo averlo identificato, accostarono a sinistra, defilando lungo la costa, ad una ventina di chilometri da essa. Rapallo, Santa Margherita ligure, Camogli, Recco, Nervi sulla destra, completamente avvolte nella bruma mattutina, erano nascoste anche alla vista delle postazioni dei cannoni costieri (Camogli). Ed ecco Genova. Alle 8,14 viene aperto il fuoco. 273 colpi di cannoni da 381 e 1182 di calibro minore. Le salve si abbatterono prevalentemente nella zona marittima e industriale, ma molte caddero in centro (134 morti e 227 feriti). Il fuoco cessò alle 8,45. « Magnifico! radiotelegrafò l’osservatore dell’aereo che sorvolava !!! Genova per aggiustare il tiro. Dopo di che le navi diressero per riunirsi all’Ark Royal e quindi tutte insieme tranquillamente si posero sulla via del ritorno. « Era un calmo mattino di domenica, e non v’era niente che rompesse la pace e il silenzio », commenta l’Amm. Somerville nel suo rapporto all’ammiragliato, e non si sa se per riferire dati di fatto o per fare della facile ironia. Infatti, veramente grande era la calma del golfo e non soltanto in senso meteorologico, per assenza di vento nella limpida mattinata di sole, ma anche per la mancanza di una qualsiasi reazione italiana. Gli aerei da caccia dell’aeroporto di Albenga (60 km e poteva essere coperta in pochi minuti di volo) non intervennero perché il capoluogo della Liguria non rientrava nella loro sfera di  competenza; quelli di Sarzana stavano curando la difesa del cielo della Spezia insidiato da due aerei dell’Ark Royal, che tuttavia poterono lanciare mine all’ingresso del porto. In Italia c'è sempre un problema di competenza. Così gli aerei inglesi, che sorvolavano Genova durante il bombardamento per regolare il tiro delle loro navi, non ebbero la minima molestia e portarono il loro compito fino in fondo.

Ritorno Vittorioso (è quello che è scritto nel cartiglio)

   

ritorno vittorioso (è proprio quello che è scritto nel cartiglio)

  recupero nel dopoguerra della CavourCosì, l’Italia entrò nel conflitto con sei potenti navi da battaglia: qualcuna che non era ancora perfettamente a punto il 10 giugno 1940, era in linea dopo poche settimane. C’erano, inoltre, 8 grandi incrociatori da 10.000 tonn., 14 incrociatori minori oltre 120 cacciatorpediniere e torpediniere di costruzione recentissima. Un cenno a parte merita la flotta sottomanina posseduta dall’ Italia all’inizio della guerra: essa si componeva di ben centoquindici sommergibili ed era la più potente del mondo. Mai la bandiera italiana era stata issata su tante navi da guerra e mai le acque italiane erano state presidiate con tanta abbondanza di mezzi. Sappiamo poi, dall’autorevole testimonianza dell’ammiraglio Jachino, già comandante in capo, che le due squadre navali nemiche di Gibilterra e di Alessandria, anche riunite insieme, non avrebbero superato la potenza della flotta italiana; ma siccome le due squadre inglesi non avevano la possibilità di operare insieme e fare un’unica massa, ne risultava che la flotta italiana era in grande supremazia di forze sia che combattesse ad occidente che ad oriente nel Mediterraneo, rispetto alle navi nemiche che avrebbe potuto incontrare.

 

   

'argomento Navi e Poltrone Trizzino viene trattato in 6 capitoli
tre in libri http://digilander.libero.it/freetime1836/libri/libri34.htm
1 Maugeri nei personaggi
http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/personaggi/maugeri.htm 
1 nelle schede il processo http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/schede/trizzino.htm

recuperi

I danni
Poco meno del 50% dei proietti da 381 e 152 mm cadde in acqua; circa un terzo colpì la città (porto e Val Polcevera). Il bombardamento non colpì obiettivi militari; in effetti, l'unico bersaglio di questo tipo era costituito dalla nave da battaglia Caio Duilio ai lavori nella zona bacini del porto, ma nessun proietto raggiunse questa unità. I danni subiti dalle unità mercantili presenti in porto furono minimi. Due colpi (di cui uno di grosso calibro) raggiunsero il piroscafo Salpi, che peraltro non affondò; un altro piroscafo – il Garibaldi – si trovava a secco in un bacino di carenaggio e riportò alcuni squarci nella carena; la nave scuola Garaventa (ex incrociatore-torpediniere Caprera del 1894), fu l'unica unità affondata durante il bombardamento navale. In aggiunta alle industrie della Val Polcevera, nell'ambito portuale i proietti britannici raggiunsero soprattutto i ponti Somalia ed Eritrea, la darsena a levante di Ponte Parodi (attuale zona dell'Acquario), i Magazzini del Cotone e la zona dei bacini al Molo Giano. (da SOCIETA' CAPITANI E MACCHINISTI NAVALI - CAMOGLI
http://www.scmncamogli.org/oldsite/bomb_ge/nbomb_nar.htm

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  Né i nostri aerei da bombardamento intervennero. In meno di mezz’ora, è vero, si va comodamente in aereo da Milano a Genova e in circa altrettanto da Viterbo, dove c’era pronto al volo uno stormo da bombardamento: ma si aspettava che la ricognizione segnalasse il punto esatto delle navi nemiche, per non andare a caso vagando nel cielo e puntare invece diritti come fulmini contro di esse a colpo sicuro. Eppure, se gli alti comandanti aeronautici di Milano, Torino e Roma fossero partiti in volo immediatamente al primo allarme, senza pericolo che per la loro assenza dalle sedi la condotta della guerra ne soffrisse eccessivamente, avrebbero potuto assistere agli ultimi spari o vedere le navi nemiche che si allontanavano, mentre Genova fumava ancora. Fu certamente grave e intollerabile vergogna che la flotta inglese, dopo essersi spinta così addentro nelle nostre difese e nelle nostre acque nazionali, fino in vista del Lido d’Albaro, ne sia uscita senza la minima conseguenza e abbia potuto allontanarsi indisturbata. Solo alle 12,20 (ben 4 ore dopo la caduta dei primi colpi sulla città ligure?) due aerei da bombardamento riuscirono a raggiungerla a un centinaio di chilometri allargo di Imperia; lanciarono contro di essa quattro bombe, che caddero in mare lontano dai bersagli e il frastuono di quelle quattro bombe fu l’unico segno di vita che diede l’aviazione: poi non ci fu altro. Nel campo navale, inoltre, le rivelazioni dell’ammiraglio Jachino, che comandava la nostra flotta, gettano una luce fosca sul comportamento di Supermarina in quella occasione. Per norma scritta e codificata, sempre osservata fino a quel momento, le ricognizioni aeree nel Mediterraneo occidentale si estendevano dalle coste metropolitane fino al meridiano di di Majorca; ma il giorno 8 febbraio ‘41, per espressa disposizione di Supermarina, gli aerei dovettero tenersi molto più in qua e non oltrepassare il meridiano di Minorca (proprio mentre di là da Majorca stava navigando alla volta di Genova la squadra inglese, che non voleva essere vista e infatti non lo fu). Taranto 1761Nella zona di Majorca, invece, e nelle acque tutt’attorno alle Baleari, gli aerei furono mandati il giorno 9, quando le navi inglesi erano ormai giunte a Genova; ma nemmeno uno di essi fu mandato a perlustrare il golfo ligure, pur prevedendosi che vi potessero arrivare le navi che risultavano uscite da Gibilterra (le nostre spie almeno questo lo segnalavano). L’ammiraglio Sommerville si vanta di essersi portato a tiro quella mattina realizzando la sorpresa che notoriamente è coefficiente primo del successo militare. Ma avrebbe dovuto mandare un grazie anche agli italiani, che gli avevano grandemente facilitato il compito. E non è ancora tutto. Alla nostra flotta, che la notte fra l’8 e il 9 navigava lungo le coste occidentali della Corsica, Supermarina fu sollecita a comunicare che il bacino del Tirso era in allarme (gli aerei inglesi non sapendo cosa fare si erano anche presi la briga di bombardare la diga del Tirso), inducendola così a continuare verso sud, nella convinzione di incontrarvi il nemico. Ma la stessa Supermarina si guardò bene dal trasmettere alla flotta un fonogramma ricevuto alle 7,38 dal comandante della Spezia, in cui si diceva: « Riteniamo che sia in mare e vicina la nave portaerei ». (Se il comandante in capo italiano fosse venuto a conoscenza di tale segnalazione certamente avrebbe invertito la rotta e sarebbe accorso a tutta velocità verso nord). C’è di più. Il semaforo di Portofino avvistò il passaggio dì « unità da guerra di nazionalità indistinta » e la relativa comunicazione telegrafica pervenne a Roma alle 8,25; ma Supermarina pur sapendo non potersi trattare che di unità nemiche, non rese edotta di tale avvistamento la flotta, la quale perciò, ignara di quello che stava avvenendo a nord, continuò a navigare verso sud… e le distrazioni continuano per altre pagine a cui nessuno ha mai dato risposta e contestazione.