La notte di Taranto
(nov. 1940) e la beffa di Genova
Antonino Trizzino - Longanesi & C. 1a edizione gennaio 1953 |
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Navi e poltrone
Cap.4
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La notte di Taranto pag. 28 e segg....
In un punto, circa a mezza via tra Catania e Navarrino, la Illustrious
(portaerei) si staccò dalla formazione. Sulla sua scia si misero subito
gli incrociatori Glasgow, Gloucester, Berwick, York e i cacciatorpediniere
Hiperion, Hasty, Ilex, Havock. Questi se ne andarono poi per conto loro: erano
le 18 dell’11 novembre 1940. Per due ore navigarono al massimo della
loro velocità, sollevando grandi ondate a prua e ai fianchi; la luna che
rischiarava le loro sagome era unica testimone dell’impresa. La fortuna li
accompagnava. Nessuno dei nostri infatti li vide, nessuno ne ebbe il
minimo sentore: per tutta quella gran distesa di mare, che per noi è un
mare interno, un mare di casa, non incontrarono uno scafo o un
sommergibile o soltanto uno straccio di vela italiani. Né gli aerei
ricognitori della Sicilia e delle Puglie avevano segnalato questa
deviazione delle navi nemiche la mattina, nel primo pomeriggio, o sul
vespro. Tutto favoriva gli inglesi. Verso le 20 l’IUustrious, con la
sua scorta, raggiunse sempre indisturbata, la posizione di lancio
assegnatale 40 miglia a ovest dell’isola greca di Cefalonia. Di fronte, a
300 chilometri, c’era Taranto, a luci spente e ignara. Nella grande
piazzaforte italiana i comandi stavano scambiandosi a quell’ora gli ultimi
specchi della giornata sulla situazione, segnalandosi il classico, - Novità?- N.N
-, mentre le acque placide della rada cullavano le navi ormeggiate, con
le loro grandi bocche da fuoco bene ingrassate e i loro ottoni
luccicanti.
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CONVOGLI
Quel canale di Sicilia, largo 140 km nel punto più
stretto, era il teatro di tutti gli affondamenti, un vero e proprio
cimitero di navi alleate e dell'asse. Come l'altro di Sardegna di poco più
largo (180), in quei primi 3 anni di guerra dovevano essere le porte
italiane attraverso le quali non si passava. Se non bastasse c'erano anche
le isole di
Lampedusa e Pantelleria contro la sola Malta. I kilometri di mare non sono
come quelli di terra, ma dalle grandi isole si potevano alzare in volo con
sufficiente autonomia sciami di aerei che gli inglesi non potevano
permettersi. Per questo loro avevano bisogno delle portaerei, le loro
isole galleggianti e noi no. E queste isole andavano difese, per difendere i
convogli che viaggiavano con loro e che passavano dalle due porte. ...
9/11/1940…. |
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Alle 20,35 in punto, si inizia il lancio dalla portaerei
inglese della prima ondata, composta di 12 velivoli: sei armati di siluro,
quattro di bombe e due dotati di razzi illuminanti. In 5 minuti sono
tutti fuori e dopo un ampio giro sul posto, per raccogliersi in
formazione, eccoli in rotta verso l’obiettivo. Circa un’ora dopo, alle
21,28, parte la seconda ondata... Tutto era stato meticolosamente preparato
e tutto si svolgeva con regolarità e precisione cronometriche, secondo il
previsto.
Gli equipaggi conoscevano esattamente la topografia del golfo di
Taranto e ne avevano impressa in mente la configurazione (l’operazione era
in gestazione da anni), i limiti e gli ostacoli;
sapevano in quali punti
del mar Grande erano ormeggiate le corazzate e come erano affiancati l’uno
all’altro, con la poppa legata a terra, al molo sud del mar Piccolo, gli
incrociatori e i cacciatorpediniere. Attraente bersaglio non una bomba,
ma un ago non sarebbe caduto dall’alto senza colpire una o l’altra.
I piloti e gli osservatori degli apparecchi inglesi sapevano anche che
esisteva un varco libero nelle reti parasiluri disposte attorno alle
corazzate italiane e che, giusto al di sopra di esse, ce n’era un altro
nella cintura dei palloni frenati contro le incursioni nemiche. (A difesa
del porto erano previsti 87 palloni frenati, ma le cattive condizioni
climatiche dei giorni precedenti ne avevano strappati 60 e non si erano
ancora potuti rimpiazzare a causa della mancanza di idrogeno). Le
unità navali erano protette da reti parasiluri, ma degli 8.600 metri
necessari per una difesa efficace, ne erano stati posati appena 4.200
metri. Queste reti erano comunque distese per soli 10 metri sotto il
livello del mare, lasciando quindi uno spazio non protetto tra la rete
stessa ed il fondale.
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Qualche unità leggera fu mandata avanti, oltre il canale di
Sicilia, a stabilire i contatti con la squadra di (che veniva da)
Gibilterra, che aveva anch’essa preso il mare, venendo verso oriente. Si
compiva una di quelle perlustrazioni in forze nel Mediterraneo, da una
estremità all’altra, ch’era solito ordinare l’alto comando navale inglese.
Si svolgevano secondo uno schema, che rimase invariato per tutta la durata
del conflitto e che, grosso modo, si può riassumere così: i due complessi
(le due flotte) di Gibilterra e di Alessandria partivano ad un tempo
andando incontro l’uno all’altra ma non fino a congiungersi non essendo le
acque di Pantelleria consigliabili al transito delle grandi navi, né a
quello di grosse formazioni. Ai collegamenti provvedevano invece, unità di
medio e piccolo tonnellaggio, che andavano dall’una all’altra parte e
viceversa. Si profittava della presenza in mare di tutte quelle forze per
proteggere il passaggio (lo scambio nei due sensi) di piroscafi da e per
Malta e per compiere azioni offensive o di disturbo lungo le coste e le
rotte italiane. Sulla strada del ritorno ...pag 28 e segg >> |
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L'Ammiraglio di Squadra Inigo Campioni inoltre, aveva richiesto che le
reti parasiluri fossero sistemate ad una distanza dalle sue navi tale da
poter salpare rapidamente, senza prima dover rimuovere le protezioni. Per
giunta i
nostri riflettori per accecare i piloti non vennero accesi. Per loro e
per i loro siluri s’apriva, dunque, un provvidenziale ingresso nell’aria e
nell’acqua. E tutti gli equipaggi erano persino al corrente
dell’ubicazione delle batterie contraeree, in modo da cercare di passar
fuori del loro raggio di azione. Insomma, essi avevano un’idea esatta di
ogni cosa e potevano considerarsi quasi familiari con l’ambiente contro il
quale dovevano agire. La mattina stessa dell’11, un aereo aveva raggiunto
la Illustrious e le aveva portato le ultime fotografie, ancora fresche,
prese poco prima. E per colmo di prudenza, « un aereo della R.A.F. »,
riferisce il comandante Boyd, « pattugliò il golfo di Taranto fino alle
22,30, per assicurarsi che la flotta italiana non lasciasse il porto
inosservata ». Fino a mezz’ora prima dell’attacco, dunque. Erano le 23
quando il cielo si illuminò e tutti planarono attraverso i varchi
scaricando missili e bombe. La seconda ondata alle 24. Alle 2,50, con
meno due aerei, la portaerei riprese il gruppo per Alessandria
indisturbata. Littorio, Cavour, Duilio e altre unità minori erano
inservibili se non irrecuperabili. Metà della flotta se ne era andata
senza alcuna reazione italiana. Nel 1957, Bragadin scrive: "L’attacco su
Taranto ebbe temporanee, ma serie conseguenze nel campo strategico perché
la Marina fu lasciata con sole due corazzate in servizio, la Vittorio
Veneto e la Cesare". Nel 1951, l’Ammiraglio Cunnigham scrive: "L’azzoppamento
di metà della Flotta Italiana durante l’attacco su Taranto ebbe un effetto
enorme sulla situazione strategica navale in Mediterraneo. Il nemico
immediatamente trasferì il resto della flotta a Napoli; potevano ancora
operare nel Mediterraneo centrale attraversando lo Stretto di Messina, ma
solo sotto la stretta osservazione della ricognizione aerea di Malta". Una
delle prime conseguenze fu la sospensione delle scorte, che da quel
momento nei frangenti cruciali venivano decimate. (Tabella sotto: punte
a
novembre '41 vigilia della operazione Kompass che ricaccia Rommel in
Tripolitania, Ottobre novembre dicembre '42 crollo di El Alamein e sbarco
degli Usa sulle coste dell'Algeria). Ci vollero quasi due anni per capire
che dei convogli nemici dovevamo colpire i trasporti non le scorte, come
facevano loro con noi. |
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I nostri convogli andavano giù mentre i loro, dalla fine di agosto del
42 anche circumnavigando l'Africa, svuotarono l'America di ogni camion e
carro armato buono per battere Rommel. 200.000 tonn. di stazza,
un decimo della flotta se ne era andato spesso col suo carico umano. E
subivamo.
Mentre la potenza militare nemica aumentava e si addensava contro di noi
con l’arrivo nel Mediterraneo degli americani, quella italiana declinava
giorno per giorno. Gli aerosiluranti, in particolare da cui comincia e
finisce il nostro racconto, dopo il mezz’agosto del ‘42 entrarono in
agonia. Era stato sempre un problema
insolubile apprestare la quantità di siluri che sarebbe stata necessaria
di
volta in volta. Si andava avanti in aeronautica con quelli che prestava la
marina, la quale, d’altra parte, non nuotava tanto nell’abbondanza da
indursi alla prodigalità. Il maresciallo Cavallero, volenteroso
intermediario tra marina e aviazione, accenna sovente nel suo diario alle
fatiche che gli toccava compiere per armare un minimo numero di
aerosiluranti. Ai primi di agosto del ‘41, egli fece appello alla marina
per una maggiore considerazione dei bisogni dell’aviazione, ma si sentì
rispondere che nei magazzini non c’erano siluri in soprannumero e che 40
in corso di allestimento sarebbero stati pronti soltanto tra il dicembre e
il gennaio, « mentre il problema è agosto (di quest’anno) », annota
sfiduciato Cavallero. Poi probabilmente qualcuno si commosse alle sue
insistenze ed egli, infatti, può annotare in data 12 agosto 1941: «
Riccardi comunica che di 28 siluri di cui dispone ne darà dodici
all’aeronautica). Francescanamente si divideva il poco che c’era. Spesso i
siluri della Sicilia erano mandati con aerei da trasporto agli aeroporti
dell’ Egeo e da qui magari rispediti in Sicilia e poi in Sardegna,
seguendo gli spostamenti delle navi nemiche, perché erano i soli
disponibili e con essi si doveva far fronte a tutte le necessità. I pochi
siluri che si riusciva a racimolare bastavano appena all’attività di un
giorno o poco più, e spesso l’indomani non ce n’erano altri. Così si
spiega come azioni in pieno sviluppo, di cui già si delineava il successo,
non potessero essere né intensificate né continuate !!!!. |
« Se continuasse
l’azione - scriveva Cavallero mentre gli aerosiluranti erano impegnati a
mezzo giugno 1942 - saranno presto esauriti i siluri della Sicilia e della
Sardegna. Sono in corso lavori per apprestare cinque siluri che sono a
Roma, mentre la ditta conta di fornirne altri 5 entro due giorni. » Entro due
giorni !!!, mentre il problema richiedeva una soluzione immediata. A piccole
dosi, dunque, arrabattandosi alla meglio, dal principio della loro
attività fino all’agosto del ‘42, gli aerosiluranti della Sicilia
riuscirono a lanciare complessivamente 83 siluri !!!!, quelli della Libia
80, quelli del1’ Egeo 134 e quelli della Sardegna 195: in tutto
492 siluri
in due anni!!!!
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La
costruzione dell'Arsenale di Taranto fu decisa dal Parlamento con la legge
n. 833 del 29 giugno 1882 che stanziava la somma di lire 9.300.000. I
lavori iniziarono nel settembre 1883 (terminti 6 anni dopo) con la
costruzione di: - un canale di comunicazione, fra la rada (mar Grande) ed
il mar Piccolo (venne abbattuta la parte occidentale del Castello
Aragonese e trasformato l'antico fossato in un canale navigabile, le cui
due sponde opposte saranno congiunte dal Ponte Girevole: A lavori ultimati
la lunghezza del canale fu di 375 metri e la larghezza fu di 60 metri, nel
punto più stretto, tra i piloni del ponte girevole); - un bacino di
raddobbo, il Principe di Napoli, capace di ricevere le più grandi navi da
guerra;
uno scalo di costruzione; - le officine occorrenti per il bacino e lo
scalo, magazzini per i viveri e due grandi cisterne d'acqua; - una gru
idraulica da 160 t.
L'Arsenale Militare Marittimo, progettato anche per la costruzione di
navi, vede impostare il 14 marzo 1894 la sua torpediniera-Ariete "Puglia",
varata il 22 settembre 1898 |
PERDITE CARICHI
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% |
tonn. partenza |
perse |
Settembre 41
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28,3 |
94.100 |
26.630 |
Novembre 41 |
62,4 |
79.200 |
49.420 |
Ottobre
42
|
44,2 |
83.700 |
37.000 |
Novembre 42
|
25,9 |
86.000 |
22.274 |
Dicembre 42
|
52,6 |
13.000 |
6.838 |
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La
Corazzata Vittorio Veneto dislocava in effetti oltre 45.752 tonn a pieno
carico cioè in pieno assetto di guerra. L’unità era armata con 9 cannoni
da 381/50 mm, 12 da 152/55, 12 da 90/50, 4 da 120/40 per il tiro
illuminante, e da un numero variabile di armi sotto i 37 mm; a poppa una catapulta consentiva l’utilizzazione di
3 aerei.
La protezione verticale era assicurata al galleggiamento da 350 mm di
acciaio; quella orizzontale, a centro nave era di 207 mm; il torrione era
protetto da 260 mm di acciaio; la massima protezione era di 380 mm sulla
parte frontale delle torri dei grossi calibri.
8 caldaie tipo Yarrow e 4 gruppi di turbine Belluzzo fornivano la
potenza disponibile, 130.000 HP, a 4 eliche tripale; la velocità
massima era di 30 nodi. L’autonomia variava da 4580 miglia a 16 nodi a
1770 miglia a 30 nodi. L’equipaggio era di circa 1800 uomini.Venne smantellata negli anni '50
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pag 178 segg..Una flotta
agguerrita sembrò indispensabile a Giolitti, che
richiese dal 1909 al 1912 i più gravi sacrifici al contribuente per
potenziare la marina da guerra. In quel tempo 1’ Italia possedeva già ben
Otto corazzate di squadra: Vittorio Emanuele, Regina
Elena, Napoli, Roma, Benedetto Brin, Regina Margherita, Ammiraglio di
Saint Bon, Emanuele Filiberto, ma poiché nessuna superava le 14.000
tonnellate e le loro caratteristiche non erano ritenute più all’altezza
dei tempi e dei compiti loro affidati, il governo fece impostare in quei
tre anni altre sei corazzate, cinque da circa 23.000 tonnellate e una da
20.000: precisamente la Cavour, la Giulio Cesare, la
Duilio, la Doria, la Leonardo da Vinci e la Dante Alighieri, che
furono pronte entro il 1915. Ma lo sforzo maggiore venne compiuto senza
dubbio nel decennio che precedette la seconda guerra mondiale: uno sforzo
che portò I’Italia al rango delle maggiori potenze navali del mondo. Le
corazzate Cavour, Giulio Cesare, Duilio e Doria
furono rifatte da cima a fondo, tanto da potersi dire che in esse fosse
rimasto invariato soltanto il nome: furono allungati gli scafi, cambiati i
loro apparati motori con altri più moderni e potenti, la velocità ne
risultò notevolmente aumentata, la corazzatura ispessita e l’armamento
reso molto più pesante con l’adozione di cannoni di grossissimo calibro.
Nello stesso periodo di tempo si costruirono due
corazzate da 35.000 !!! tonnellate (Littorio e Vittorio Veneto),
veri giganti del mare e gioielli della tecnica navale: non c’era al mondo
nulla di più potente. Altre due furono impostate (Roma e Impero), una
delle quali entrò in servizio alla fine del ‘42 e l’altra non fu ultimata
in tempo per partecipare alla guerra. |
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La beffa di Genova Pag .228 segg …
La flotta inglese si sarebbe mossa da Gibilterra, per stare 5 giorni
in mare spingendosi fin dentro il golfo di
Genova con rischi incalcolabili e tutto questo per il gusto di andare a
piazzare qualche colpo su una corazzata (la Duilio) in riparazione?? È
stupido crederlo (e tutti continuano a crederlo), perchè gl’inglesi l’hanno detto. La verità è che in
quei giorni Mussolini doveva incontrarsi con Franco in una località della
costa ligure, per cercare di « riportare all’ovile il figliol prodigo
spagnolo », come dice Ciano nel suo Diario. L’incontro, infatti, avvenne
2 giorni dopo il bombardamento di Genova, cioè l’11 febbraio, a Bordighera.
Era tanto che si corteggiava il Caudillo per trascinarlo in guerra e
bloccare Gibilterra. Se mai Franco nutriva dubbi sulla via per
lui più vantaggiosa da seguire, le cannonate di Genova glieli tolsero
completamente. Perciò l’esito negativo delle trattative a Bordighera poteva ritenersi scontato prima ancora che le
conversazioni avessero inizio. Gli inglesi avevano già fatto a pezzi una
volta l'Invincibile Armada.
Partite dunque da Gibilterra il 6 febbraio la mattina
del 9, quando stava per albeggiare, le navi inglesi cominciarono ad affacciarsi al grande arco del
golfo ligure. Erano le 5 quando la portaerei Ark Royal si distaccò dalla
squadra e andò a piazzarsi con due cacciatorpediniere in un punto a
settentrione della Corsica, distante circa 130 km sia dalla Spezia sia da
Livorno giusto per lanciare i caccia contro eventuali uscite a sorpresa. Le altre, cioè le corazzate Renown e Malaya, l’incrociatore
Sheffield e cinque cacciatorpediniere proseguirono verso la riviera di
Levante.
Alle 7,19 si scoprì di prua capo Portofino e le navi, dopo averlo
identificato, accostarono a sinistra, defilando lungo la costa, ad una
ventina di chilometri da essa. Rapallo, Santa Margherita ligure, Camogli, Recco, Nervi sulla
destra, completamente avvolte nella bruma mattutina, erano nascoste anche alla
vista delle postazioni dei cannoni costieri (Camogli). Ed ecco Genova. Alle 8,14
viene aperto il fuoco. 273 colpi di cannoni
da 381 e 1182 di calibro minore. Le salve si abbatterono prevalentemente
nella zona marittima e industriale, ma molte caddero in centro (134 morti e 227
feriti). Il fuoco cessò alle 8,45. «
Magnifico!
radiotelegrafò l’osservatore dell’aereo che sorvolava !!! Genova per
aggiustare il tiro. Dopo di che le navi diressero per riunirsi all’Ark
Royal e quindi tutte insieme tranquillamente si posero sulla via del ritorno.
« Era un calmo mattino di domenica, e non v’era
niente che rompesse la pace e il silenzio », commenta l’Amm. Somerville nel suo rapporto
all’ammiragliato, e non si sa se per riferire dati di fatto o per fare
della facile ironia. Infatti, veramente grande era la calma del golfo e
non soltanto in senso meteorologico, per assenza di vento nella limpida
mattinata di sole, ma anche per la mancanza di una qualsiasi reazione
italiana. Gli aerei da caccia dell’aeroporto di Albenga (60 km e poteva essere coperta in pochi
minuti di volo) non intervennero perché il capoluogo della Liguria non
rientrava nella loro sfera di competenza; quelli di Sarzana stavano
curando la difesa del cielo della Spezia insidiato da due aerei dell’Ark
Royal, che tuttavia poterono lanciare mine all’ingresso del porto. In
Italia c'è sempre un problema di competenza. Così
gli aerei inglesi, che sorvolavano Genova durante il bombardamento per
regolare il tiro delle loro navi, non ebbero la minima molestia e
portarono il loro compito fino in fondo. |
Ritorno Vittorioso (è quello che è scritto nel cartiglio) |
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Così, l’Italia entrò nel conflitto
con sei potenti navi da battaglia: qualcuna che non era ancora
perfettamente a punto il 10 giugno 1940, era in linea dopo poche
settimane. C’erano, inoltre, 8 grandi incrociatori da 10.000 tonn., 14
incrociatori minori oltre 120 cacciatorpediniere e torpediniere di
costruzione recentissima. Un cenno a parte merita la flotta sottomanina
posseduta dall’ Italia all’inizio della guerra: essa si componeva di ben
centoquindici sommergibili ed era la più potente del mondo. Mai la
bandiera italiana era stata issata su tante navi da guerra e mai le acque
italiane erano state presidiate con tanta abbondanza di mezzi. Sappiamo
poi, dall’autorevole testimonianza dell’ammiraglio Jachino, già comandante
in capo, che le due squadre navali nemiche di Gibilterra e di Alessandria,
anche riunite insieme, non avrebbero superato la potenza della flotta
italiana; ma siccome le due squadre inglesi non avevano la possibilità di
operare insieme e fare un’unica massa, ne risultava che la flotta
italiana era in grande supremazia di forze sia che combattesse ad
occidente che ad oriente nel Mediterraneo, rispetto alle navi nemiche che
avrebbe potuto incontrare.
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'argomento Navi e Poltrone Trizzino viene trattato in 6
capitoli
tre in libri
http://digilander.libero.it/freetime1836/libri/libri34.htm
1 Maugeri nei personaggi
http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/personaggi/maugeri.htm
1 nelle schede il processo
http://digilander.libero.it/lacorsainfinita/guerra2/schede/trizzino.htm
I danni
Poco meno del 50% dei proietti da 381 e 152 mm cadde in acqua; circa
un terzo colpì la città (porto e Val Polcevera). Il bombardamento non
colpì obiettivi militari; in effetti, l'unico bersaglio di questo tipo
era costituito dalla nave da battaglia Caio Duilio ai lavori nella zona
bacini del porto, ma nessun proietto raggiunse questa unità. I danni
subiti dalle unità mercantili presenti in porto furono minimi. Due colpi
(di cui uno di grosso calibro) raggiunsero il piroscafo Salpi, che
peraltro non affondò; un altro piroscafo – il Garibaldi – si trovava a
secco in un bacino di carenaggio e riportò alcuni squarci nella carena;
la nave scuola Garaventa (ex incrociatore-torpediniere Caprera del
1894), fu l'unica unità affondata durante il bombardamento navale. In
aggiunta alle industrie della Val Polcevera, nell'ambito portuale i
proietti britannici raggiunsero soprattutto i ponti Somalia ed Eritrea,
la darsena a levante di Ponte Parodi (attuale zona dell'Acquario), i
Magazzini del Cotone e la zona dei bacini al Molo Giano. (da SOCIETA'
CAPITANI E MACCHINISTI NAVALI - CAMOGLI
http://www.scmncamogli.org/oldsite/bomb_ge/nbomb_nar.htm
Torna
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Né i nostri aerei da
bombardamento intervennero. In meno di mezz’ora, è vero, si va comodamente
in aereo da Milano a Genova e in circa altrettanto da Viterbo, dove c’era
pronto al volo uno stormo da bombardamento: ma si aspettava che la
ricognizione segnalasse il punto esatto delle navi nemiche, per non andare
a caso vagando nel cielo e puntare invece diritti come fulmini contro di
esse a colpo sicuro. Eppure, se gli alti comandanti aeronautici di Milano,
Torino e Roma fossero partiti in volo immediatamente al primo allarme,
senza pericolo che per la loro assenza dalle sedi la condotta della guerra
ne soffrisse eccessivamente, avrebbero potuto assistere agli ultimi spari
o vedere le navi nemiche che si allontanavano, mentre Genova fumava
ancora.
Fu certamente grave e intollerabile vergogna che la flotta inglese, dopo
essersi spinta così addentro nelle nostre difese e nelle nostre acque
nazionali, fino in vista del Lido d’Albaro, ne sia uscita senza la minima
conseguenza e abbia potuto allontanarsi indisturbata. Solo alle 12,20 (ben
4 ore dopo la caduta dei primi colpi sulla città ligure?) due aerei
da bombardamento riuscirono a raggiungerla a un centinaio di chilometri
allargo di Imperia; lanciarono contro di essa quattro bombe, che caddero
in mare lontano dai bersagli e il frastuono di quelle quattro bombe fu
l’unico segno di vita che diede l’aviazione: poi non ci fu altro. Nel
campo navale, inoltre, le rivelazioni dell’ammiraglio Jachino, che
comandava la nostra flotta, gettano una luce fosca sul comportamento di
Supermarina in quella occasione. Per norma scritta e codificata, sempre
osservata fino a quel momento, le ricognizioni aeree nel Mediterraneo
occidentale si estendevano dalle coste metropolitane fino al meridiano di
di Majorca; ma il giorno 8 febbraio ‘41, per espressa disposizione di
Supermarina, gli aerei dovettero tenersi molto più in qua e non
oltrepassare il meridiano di Minorca (proprio mentre di là da Majorca
stava navigando alla volta di Genova la squadra inglese, che non voleva
essere vista e infatti non lo fu).
Nella zona di Majorca, invece, e nelle
acque tutt’attorno alle Baleari, gli aerei furono mandati il giorno 9,
quando le navi inglesi erano ormai giunte a Genova; ma nemmeno uno di essi
fu mandato a perlustrare il golfo ligure, pur prevedendosi che vi
potessero arrivare le navi che risultavano uscite da Gibilterra (le
nostre spie almeno questo lo segnalavano). L’ammiraglio Sommerville si
vanta di essersi portato a tiro quella mattina realizzando la sorpresa che
notoriamente è coefficiente primo del successo militare. Ma avrebbe dovuto
mandare un grazie anche agli italiani, che gli avevano grandemente
facilitato il compito. E non è ancora tutto.
Alla nostra flotta, che la notte fra l’8 e il 9 navigava lungo le coste
occidentali della Corsica, Supermarina fu sollecita a comunicare che il
bacino del Tirso era in allarme (gli aerei inglesi non
sapendo cosa fare si erano anche presi la briga di bombardare la diga del
Tirso), inducendola così a continuare verso sud,
nella convinzione di incontrarvi il nemico. Ma la stessa Supermarina si
guardò bene dal trasmettere alla flotta un fonogramma ricevuto alle 7,38
dal comandante della Spezia, in cui si diceva: «
Riteniamo che sia in mare e vicina la nave portaerei ». (Se il comandante in capo italiano fosse
venuto a conoscenza di tale segnalazione certamente avrebbe invertito la
rotta e sarebbe accorso a tutta velocità verso nord).
C’è di più. Il semaforo di Portofino avvistò il passaggio dì « unità da
guerra di nazionalità indistinta » e la relativa comunicazione telegrafica
pervenne a Roma alle 8,25; ma Supermarina pur sapendo non potersi trattare
che di unità nemiche, non rese edotta di tale avvistamento la flotta, la
quale perciò, ignara di quello che stava avvenendo a nord, continuò a
navigare verso sud… e le distrazioni continuano per altre pagine a cui
nessuno ha mai dato risposta e contestazione. |
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