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IN CORPORE VIRI
L'ULTIMO LIBRO DI GIANFRANCO CIABATTI
Poesia di pensiero e d'immagini, l'opera di Gianfranco
Ciabatti si situa lungo la linea Leopardi-Montale, la quale
ha come cifra d'identificazione la necessità di dire la
condizione di essere nel mondo, nel nominare la contraddizione essere/nulla.
"Tensione metafisica" ho definito, in un saggio sui
precedenti tre libri (cfr. Allegoria, n.14 del 1993), la forza che
anima la sua poesia, come la sua vita. Politica e poesia
non sono per Ciabatti la vita, ma strumenti ("utensile, arma"):
per rendere la vita degli offesi meno umiliata, piu degna, la prima; per
dare un senso all'esistenza e per forzare i limiti
del finito, del caduco, pur nella consapevolezza
che "il segno e inetto alla cosa", la seconda.
E l'una e l'altra sono atto d'amore. Chi non avesse colto la
forza di quella tensione e di quest'amore negli altri libri
di Ciabatti, ne troverà in questo la più evidente
rappresentazione: "canto la vita...la vita che
canta e che combatte". Perciò saremmo ingiusti con lui
se lo considerassimo solo poeta, grande, o
solo politico, acutissimo e giusto. Sbaglieremmo
perché lo ridurremmo a una parte, mentre la
sua radice piu profonda, la sua aspirazione più autentica
è stata vivere, con volonta determinata e coerente,
e con bellezza, la vita, l'integrità dell'essere,
poter dire della sua vita "Ben
fatto"; ed era una lotta, "dar vita alla morte,
accendere il gelo", che lo portava a misurarsi, cosciente della
necessità e della limitatezza, con la sete d'assoluto:
"animale caduco, / per tutta la vita / se la prese
con l'assoluto / accusandolo di non esistere". E' l'Epitaphe
che chiude In corpore viri.
Questo libro postumo si sottotitola 5 esperimenti,
formula che non richiama certo lo sperimentalismo letterario,
qui peraltro contestato, quanto piuttosto il metodo galileiano cui
si accenna esplicitamente nel Colloquio immaginario con
un fisico ("nacque la scienza moderna dal
libero impiego dei sensi muniti di appositi
prolungamenti contro il principio d'autorità"); siamo
quindi indotti a congetturare la dimostrazione sperimentale
di una tesi. Sul titolo si esercita però
l'effetto straniante, brechtiano, del rovesciamento,
In
corpore viri da "in corpore vili". La vile
cosa che è il corpo (l'espressione del latino
popolare rimanda propriamente all'esperimento medico
sul corpo
plebeo: "Faciamus experimentum in corpore vili") per Ciabatti
è "unico bene certo", essere, pensiero, vita. 5
modi di dirlo, insomma, per ribellarsi al ruolo
di vittima sacrificale, per riscattarlo con
la dignità del desiderio e del pensiero. Così
come il "vili" della tradizione è riscattato dal "viri",
l'uomo non solo dotato di diritti, ma capace anche di virtù.
E 5 sono le sezioni del libro.
La I è nominata Il corpo del pensiero. Il corpo
di desiderio e bisogno aspira a un suo proprio pensiero, una volta
pervenuto al vero e affrancato dall'ideologia della scienza
che lo riduce a vile oggetto di astratta e autoreferente ragione.
La II è appunto Il pensiero del corpo,
del lucido animale, uccello nel campo arioso, la creatura
bestia e angelo, che "nel dolore ha una gloria e una luce", brandelli
di splendore.
La III s'intitola Il segno, cioè
i nomi che duplicarono le cose, le parole
del dire "la bellezza che c'inflissero
i proprietari e il dio", la gelata impotenza a cui Ciabatti
aveva affidato in Preavvisi al reo il compito di "far piazza pulita
per spianare alla prassi la strada di farla tacere" e che ora ammira
"il non detto animale che non occulta le cose", il segno "inetto
alla cosa", che, nonostante l'amore, non può ricongiungere
le parole alla gloria del mattino.
IV sezione è Il tempo, nominato
come amore, perché di un
canzoniere d'amore si tratta, per la donna
della sua vita, amore che è congettura d'armonia,
che "distrae dal morire" e induce la cura dell'insidia
estrema del corpo in quanto è amato.
V e conclusiva è La salute (abbozzi d'ospedale),
per paradosso "quanto ci è concesso dell'immortalità".
Anche qui, al limite estremo della guerra dell'esistere, l'hanno
in loro potere "solo un lamento appena percepibile / dell'indicibile
dolore astratto / che s'incarna nel corpo non mistico / degli offesi,
o fugace un barlume / di amore eventuale o di riscatto".
Inoltrarsi nella poesia di Ciabatti non
lascia illesi. Le parole obiettano che è presunzione
il diritto di capire per "chi vuole raggiungere / illeso /
il senso... Eppure ovunque, prima della soglia, / è
la facilità, / reclamante l'urgenza dei gesti necessari, /
sono i corpi / che dicono aperta in giudizio la loro / congettura
di bellezza / in altro modo." Dunque da lì si deve partire:
dai corpi, dalla loro congettura di bellezza detta in altro
modo. E dalle cose, che per essere quello che sono "non
chiedono il nostro permesso". Assioma esposto con
la massima
chiarezza già in Preavvisi al reo.
Il corpo è bisogno e, per manifesta
ascendenza leopardiana, desiderio e pensiero. Desiderio e tensione
alla felicità, fra le quotidiane infamie del
tempo sentita in un soprassalto del sangue,
senza ragione alcuna (tra le ragioni di felicità,
la migliore). Dal desiderio nasce la congettura di bellezza, che
si scontra con la disarmonia dello stato presente, storico,
delle cose. "Siamo giunti alla lotta attraverso la danza", ha
scritto Ciabatti in Niente di personale, cioè attraverso
la congettura di bellezza che si esprime anche nella forma
della poesia. Ma il desiderio è anche
tensione illimitata che svela i limiti
dell'esistere proprio in quanto tende all'infinito.
Su questa esperienza s'innesta il pensiero che scandaglia la
realtà delle cose, il confine fra l'essere
e il nulla, il proprio stesso limite. Il
corpo-pensiero nasce dal nulla e al nulla
sarà restituito. Il corpo-bisogno e desiderio tornerà
al tutto della materia cui appartiene. Parafrasando l'assunto
parmenideo, le cose sono il tutto, l'essere è guerra con il
nulla. Lo spazio del soggetto si situa sullo stretto crinale
che separa l'inerte e
gelida materia dal nulla eterno. Il suo imperativo categorico
è "essere per non morire". L'esistenza è un dato, ma
la vita, la "guerra dell'esistere", è un
atto di volontà, "accendere il gelo", "mutare
la nascita in creazione".
Questo materialismo conseguente e radicale,
che supera la
posizione leopardiana - da Ciabatti
definita "materialismo incompiuto", non porta
al nichilismo. Dopo che il pensiero
indagatore ha frugato "nello splendore terribile del cuore
delle cose" e ha visto le fauci divoratrici
del nulla, resta la "congettura di bellezza", l'illimitato
desiderio di armonia da cui germinano l'amore e la "congettura
di giustizia".
Aveva scritto in Niente di personale:
"devi trovare fuori / l'io che farai con l'altro / da te."
Ma il luogo dell'incontro è il tempo storico, lo stato presente
delle cose, dominato dal modo di produzione capitalistico,
che nega sia la congettura di giustizia che
quella di bellezza. Perciò, sebbene avverta che "nelle
offese ci duole /il nostro amore degli offensori", l'uomo storico
sa che l'amore "non sarebbe bastato, / non basterà".
Ciabatti, con coerenza e rigore, è stato un poeta che lotta per
cambiare lo stato delle cose, un irriducibile marxista. La scelta del
posto da occupare nel tempo storico è stata dunque
nello stesso tempo naturale e voluta: dalla parte degli offesi,
degli
umiliati, della vita umiliata, come poeta e come rivoluzionario.
Da miscredente può dire a un credente: "Ti dico io
come sarà
l'aldilà, / né paradiso né purgatorio
/ ma solo inferno, e
insopportabile il tuo dolore / per tutti gli umiliati che non hai
amato, / fino al cane accecato / non importa / se per colpa
non tua. / E ora che lo sai, sai come vivere / qui / tutto il dolore
di tutti, con ribellione, / perché non sia di là solo / tutto
il dolore tuo."
La poesia, come la vita,
è per Ciabatti luogo della contraddizione,
in primis tra parola e prassi, ma in quest'ultimo libro essa investe in
modo piu radicale il rapporto tra la parola e le cose: "Quanta bellezza
e nel mondo / nei poeti e triviale". Si manifesta con
maggiore evidenza che nelle altre opere la nostalgia
di un tempo in cui l'essere integro è solo gesto, atto, e non parola,
quello intuito nei "dolci animali": "Ma di tutto è più
bella l'oscura caduta, e più splende / il non detto animale / nell'integrità
dell'abiezione sua / che gloriosi il dolore e il piacere -
le accuse dirette - / leva contro i creatori, / senza
occultare le cose."
La coscienza della lacerazione non gli vieta, anzi ne esalta
la gioia, e nel momento della malattia e del dolore la commozione,
di un rapporto libero e autentico con la bellezza
del mondo, detto con pudore, precisione e misura: "Montagna, alberi,
luce, / respiro che, salendo al vostro abbraccio, / fedele si regolava".
La congettura di bellezza è il presupposto fondante il bisogno
di perfezione, del "ben fatto" come parola e come gesto
(agli amici può dire la paura e il dolore perché l'amore
gli dà il diritto di affliggerli,
ma con "assolutamente / una bella forma").
Non è estetismo, è volonta di dominare la necessità,
di
dare forma e senso alla vita (e anche alla
morte).
Il recupero della eredità alta e regia della lingua
e il cozzare di
questo registro nobile con quello ignobile dei saperi tecnici
e
dell'economia politica, che secondo Fortini
caratterizzano i
precedenti libri di Ciabatti, in questo ultimo
si distillano,
sospese le intenzioni pedagogiche, in una lingua personale che ha
la forza dell'autenticità, in quanto essenziale e necessaria.
Una
lingua denotativa e rarefatta che nomina tanto le cose necessarie
quanto le ultime e resiste all'urgere del sentimento
per mezzo
del pudore e dell'ellissi. Anche in In corpore viri
lo scrittore
resiste, vittoriosamente, alla
tirannia della metrica
tradizionale e, soprattutto, come dichiarava, dell'endecasillabo;
e il ritmo della poesia si fa anch'esso essenziale e necessario,
affidato com'è, esclusivamente alla sintassi dell'argomentare
in
forma dialettica e all'enucleazione di parole-immagine,
che
producono un sistema di cesure molto vario, ma sempre
coerente
con il bisogno di dire in "bella forma" i diversi modi in cui
si
manifestano la contraddizione e l'amore per
la vita, che è
desiderio d'armonia. La "bella forma", in conclusione,
è uno
degli strumenti della lotta per tentare di ricondurre a unità
la
scissione dell'essere nel mondo della contraddizione.
Nella poesia italiana del secondo Novecento, eccezion fatta
per
il religioso Luzi, che quindi ricerca su tutt'altro versante,
e
per lo sperimentale Zanzotto, che ci gioca cercando vie di
fuga,
per coerenza e forza Ciabatti sta solo a mostrare con ragione
e
passione, senza romantici compiacimenti, il
nudo vero e la
faticosa lotta per dare senso all'esistere.
G. Ciabatti, In corpore viri, Marsilio, Venezia 1998, pagg.
116,
Lire 22.000.
Giovanni Commare
(in Allegoria, n.34-35, anno XII, gennaio-agosto 2000)
Gianfranco Ciabatti (1936-1994)
POESIE
Da In corpore viri, Marsilio, Venezia 1998
Hommage
Fratelli e sorelle caduti
in guerra contro i vostri cuori,
mentre sul fronte esterno
sopra voi pochi troppa la guerra
sostenevate degli oppressori,
precipitati dilaniati logori,
chi vi avrebbe salvato?
Bastava un po' d'amore.
Sono l'unico che lo sa
tra quelli che sanno
che non sarebbe bastato,
che non basterà.
Preferiscimi a tutti
Preferiscimi a tutti
nei pomeriggi d'amore,
ma anche nelle partite a carte.
Scegli il tuo doppio in me
per tutti giochi che si fanno a coppie,
il compagno migliore
nei lavori per due.
E quando vedi giungere
chi meglio di me conosce la regola
e l'arte,
non mi lasciare con metà di te,
ma intera
te
sottràimi,
e solo intero
lascia me a me stesso.
(1964)
Gratuità
Tra le infamie del tempo
quotidiane
che sovrani gli assassini e i frodolenti
somministrano,
di soprassalto il sangue scopre di essere
felice
senza alcuna ragione,
e che questa,
tra le ragioni di felicità,
è la migliore,
e che di questa assenza
di ragioni
fa parte la tua presenza.
Petit testament
In piena capacità
di intendere e di volere
il mio spirito vivo commette il mio corpo morto
ai bisturi ai vetrini alle provette,
augurandogli d'imbattersi, tra i sopravvissuti,
in un fratello suo, che sagace ricerchi,
quello che sempre, ovunque, sarà l'unico
provveduto di vista e di amore.
Tutti gli altri si occupino, poi,
dei resti con discrezione,
affinché il mio spirito sia restituito
al nulla, e al tutto il mio corpo,
con dignità.
Da Preavvisi al reo, Manni, Lecce 1985
Dal di dentro
Poiché dobbiamo viverci,
teniamo pulita la nostra prigione,
apriamo i vetri all'aria del mattino zufolando
immemori
che un giorno il sole ci accecherà
e la strada sarà troppo larga, per noi,
tremanti passi di convalescente
deboli sotto la madida pelle.
Noi dovremo allora richiamare
gesti antichi alla mente, ricusare
la pace connivente con la legge del silenzio,
tollerare la dura libertà.
bisogna mi convinca
bisogna mi convinca che l'atteggiamento
volontaristico non mi si addice,
e che quanto si vuole da me è sempre meno
di quanto si vuole dall'idea che io stesso
mi son fatto di me
perché ha qualche chance solo chi si vedrebbe
meglio nei boschi seguire un sentore di femmina
provvisto di una gamma
di idee tra il gongolante e il lamentoso, il miglior porco,
tutto l'opposto dei porci comuni
(cànone a un aspirante poeta)
Guàrdati dal volto teso
delle emozioni che serrano in gola.
Tu stesso puoi vedere le nostre ore, simili
a quelle di tutti,
e il tramonto non è che un fatto astrale,
un sole che compie il suo turno iterato
senza sognarsi minimamente
di annegare nel proprio sangue.
Distingui la tua lingua
dalle menzogne dei tonfi nel cuore:
la sua finzione sia premeditata.
Si tratta, per noi, di dar vita alla morte, di accendere il gelo.
Né giorno né notte possiedono l'anima che noi
gli tributiamo.
Mail to: gicomma@libero.it
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