A B C D F G H I J L M N O P Q R S T U V Z Proverbi PREFAZIONE Scrivere
in dialetto è spesso, più che una necessità letteraria, un atto d'amore verso
la lingua ereditata dagli antenati e il desiderio di tramandarla ai propri
discendenti. Il dialetto, nei luoghi dove si parla, è una lingua viva, che si
trasforma e si adegua alla evoluzione della società. Tuttavia le parole nuove
che assimila sono quasi un corpo estraneo ricoperto dalla patina dialettale. Se
per esempio da "televisione" il dialetto ne ricava "televisiona"
con le "e" mute e la "a" finale, la differenza tra
l'italiano e il dialetto è pochissima, tanto che qualsiasi persona dall'Alpe
alla Sicilia può comprendere queste parole pronunciate da un morrese. Il
dialetto risente quindi delle diverse fasi storiche per le quali è passato e
che lasciano il segno nelle parole necessarie ad esprimere ciò che serve, in
quel determinato periodo, per la vita di tutti i giorni. Nell'etimologia del
nostro dialetto troviamo parole derivanti dall'arabo, dallo spagnuolo e dal
francese, ma anche dal longobardo, popoli che hanno avuto la loro parte nella
storia del Sud Italia. Al
principio dell'italiano c'erano comunque i dialetti. Quei dialetti, che poi
affinati, limati, arricchiti con altre parole, sono diventati la lingua
italiana. Così
ritroviamo spesso parole del nostro dialetto nelle primissime poesie in volgare
della scuola siciliana, come il "ca" morrese nella "cantilena di
Ciullo" "Ca nulla buona femina /
Per me fosse riprisa", o nel "Lamento del Crociato di Rinaldo D'Aquino"
"Ch'io non posso abentare / Notte, né
dia:" dove c'è il verbo "abentare", in morrese "abbendane"
/abb@n'dan@/
fermarsi, riposare. Questi non sono certi gli esempi più significativi, ma solo
un accenno alla provenienza dei nostri dialetti meridionali. Non
è facile fare il cammino inverso: partire cioè dall'italiano e ritornare al
dialetto, come fonte prima e più vicina a noi di ispirazione e di espressione.
Bisogna pensare e vivere nel mondo del dialetto per poter esprimere veramente
tutti i moti dell'anima e poterli descrivere. L'avvento dei mezzi di
comunicazione portano in tutti i luoghi, anche nei più remoti cantucci
patriarcali che ancora esistono, le notizie, le idee, le teorie, le mete del
mondo moderno. La grande pioggia di notizie sulle persone, spesso culturalmente
impreparate, causano un senso di spaesamento, di angoscia, di incertezza, che
spinge gli uomini a cercare solo nel moderno, gli unici obiettivi della loro
vita, illudendosi di seppellire così per sempre il passato. In verità, però,
quest'ultimo, siccome l'uomo non ha il tempo di assimilare il presente, che
cambia troppo velocemente, esiste ancora dentro di noi, perché fa parte della
nostra personalità. Noi abbiamo solamente nascosto le nostre tradizioni sotto
il sarcofago lucente dell'agiatezza, del modernismo, ma esse affiorano ogni
tanto per ricordarci la nostra vera provenienza e cozzano con il presente,
creando quel fenomeno di insofferenza, che spinge oggi tante persone a
commettere atti insulsi. Se si vuol trovare la causa dell'rrequietezza e della
perdita dei veri valori nel mondo moderno, bisogna studiare l'ambivalenza, la
dissociazione tra i valori antichi che ancora esistono nel nostro sub cosciente
e i valori nuovi e sfrenati che investono l'uomo ogni giorno nella società
moderna, senza che egli possa avere la possibilità di assimilarli. La
schizofrenia che deriva tra il nostro vero "IO" e quello che siamo
costretti a recitare, è la malattia che affligge la nostra società. Evolversi
col tempo non vuol dire, secondo me, farsi trasportare dall'onda della moda, ma
accettare coscientemente e volutamente solo quelle cose nuove, atte a completare
gli strumenti per vivere in modo migliore, quei valori che erano una volta i
principi fondamentali a cui si ispiravano i nostri antenati: la famiglia,
l'amicizia, la solidarietà, il lavoro. Noi, invece di servirci di questi nuovi
strumenti e conoscenze moderne per rafforzare e vivere meglio questi valori,
prendiamo il nuovo così come ci viene proposto, sostituendo non solo i mezzi
antichi con quelli moderni, ma anche i valori, che però, a nostra insaputa,
rimangono radicati nella nostra coscienza. Questo
passato aveva la sua espressione negli usi, nei costumi, nei riti, che si
riflettevano nella lingua locale: nel nostro dialetto. In dialetto abbiamo
ascoltato le prime parole quando ci affacciammo alla vita, e in dialetto ci
cantarono la ninna nanna le nostre madri; in dialetto ci raccontarono le prime
favole le nonne e le zie, in dialetto abbiamo risolto le piccole e grandi
contese tra ragazzi. Le emozioni, i pensieri, le gioie, le pene, li abbiamo
espressi nella nostra infanzia in dialetto. A noi il dialetto bastava per
comunicare agli altri il nostro stato d'animo ed essi ci capivano. In
Italia esistono moltissimi dialetti, e tanti in Irpinia. Tuttavia non è vero
che siano tutti uguali. La differenza non è solo di sfumature, è anche
nell'espressioni, nella pronunzia delle parole, nell'affinità o meno con i
dialetti dei paesi limitrofi che a volte sono stati assimilati, a secondo del
rapporto che avevano tra loro gli abitanti di questi paesi. Un irpino avellinese
non parla allo stesso modo di un irpino morrese, anche se si comprendono tra
loro tramite il cosiddetto "dialetto regionale". Quindi,
se è vero che esiste un comune denominatore che chiamiamo "dialetto irpino",
è vero anche che le variazioni nei vari paesi in cui questo dialetto viene
parlato sono altrettanto importanti. L'italianizzazione dei dialetti da parte
dei mezzi di comunicazione ha causato una livellazione provinciale e addirittura
regionale del dialetto. Ma, ritornando alle origini, e questo è quello che mi
propongo con questo libro, le differenze esistono ancora e sono in funzione
dell'influsso che hanno subito più o meno i paesi della nostra provincia dal
rapporto avuto tra loro. Morra, collocata sulla sommità della collina, aveva
avuto fino ad una quarantina di anni fa pochi contatti con gli altri paesi,
comunque i contatti avuti non erano talmente stretti da poter influenzare la
nostra lingua. Quelle frazioni della campagna di Morra, invece, che confinano
con gli altri paesi, hanno spesso acquistato la pronuncia e le parole dialettali
dei paesi vicini. A
Morra centro oggi pochi morresi usano attivamente e conseguentemente nelle loro
conversazioni, senza frammischiarlo con l'italiano, il dialetto scritto in
questo libro, quasi tutti, però, se stimolati, sono in grado di pensare e
produrre le frasi in dialetto, e tutti lo comprendono ancora. Si tratta quindi
di tramandarlo ai posteri prima che scompaia per sempre. A
questo compito hanno contribuito negli ultimi quindici anni, sensibilizzati
dalla Gazzetta dei Morresi Emigratimensile edito a Basilea, Svizzera, oltre al
sottoscritto, specialmente il poeta dialettale Emilio Mariani, Nicola Cicchetti
con la sua ormai tradizionale " Cruciverba morrese", che da anni
pubblica sulla Gazzetta e i suoi racconti, ma anche le feste dei morresi
emigrati. Voglio ricordare anche la lodevole iniziativa presa dall'allora
Presidente della Sezione AME di Zurigo Gerardo Pennella e la moglie Giulia, che
insegnarono ai bambini canti e poesie dialettali morresi, facendoli esibire sul
palco durante le feste, così come i cori spontanei di emigrati che, durante le
nostre feste in Svizzera, cantano antiche canzonette dialettali al suono
dell'organetto. Posso certo affermare che l'Associazione Morresi Emigrati e la
sua Gazzetta, hanno avuto un ruolo importantissimo in questo rinascimento del
nostro dialetto, codificando anche un modo uniforme di scrittura. È
dunque importante non generalizzare i dialetti sotto un nome comune della stessa
Provincia o Regione, potremmo non cogliere appieno le tante varietà che
arricchiscono in definitiva il dialetto irpino con nuove espressioni o parole,
che altrimenti andrebbero perse se non venissero tramandate da chi vive in
ognuno dei nostri paesi. Ogni
paese ha la sua microstoria e il suo giardino dialettale che ha tanti fiori come
quello del vicino, ma anche tanti altri che il vicino non ha, spesso cambia
anche la forma e la composizione delle aiuole. Curare i fiori del proprio
giardino non è fare dello sciocco campanilismo, ma è un lavoro importante per
mantenere in vita quei fiori che non attecchiscono nel giardino degli altri. In
questo modo tutta la zona, vista nell'insieme, sarà molto più bella che se si
fosse curata solamente una monocoltura dappertutto uniforme. In
questo libro ci sono: I
racconti che narravano le mamme, le nonne e le zie durante le lunghe sere
d'inverno, intorno al camino, mentre fuori infuriava la bufera e che spesso
troviamo anche nella tradizione popolare di altri paesi, magari con qualche
variante. Immagini antiche, come quelle dei fantasmi, o racconti come quello
della visita all'Inferno organizzata apposta per far cambiare vita al peccatore,
così come ci descrive Dante nel suo poema ed era anche credenza in quel tempo. Alcuni
di questi racconti li ho sentiti anche in Austria e tutti giuravano che erano
successi nei loro paesi. Troviamo,
per esempio, nel Satyricon di Petronio, scrittore romano, racconti sui lupi
mannari e sulle streghe che sono più o meno uguali a quelle che si raccontano
ancora oggi dalle nostre parti. A tanti secoli addietro risale, dunque, la
tradizione popolare, che è stata tramandata per duemila anni fino ai giorni
nostri. E noi, che crediamo di essere moderni, non ci accorgiamo che queste
antiche favole sono ancora radicate dentro di noi, a tal punto, che tanta gente
ci crede ancora.[1]
Quindi, non vorrei spacciarle per esclusivamente morresi, ma a Morra si
raccontano anche e per questo le scrivo. Spesso
i racconti morresi hanno per soggetto preti e monaci. Io ho incluso anche
qualcuno di questi racconti, per dare ai lettori un'idea completa di quello che
si raccontava nei tampi passati nel nostro paese. Intercalati
ai racconti ci sono episodi di vita vissuta, che mostrano tra le righe
scherzose, gli usi ed i costumi del tempo in cui sono accaduti, che va dagli
ottanta ai quaranta anni fa. Alcuni
di questi episodi, come quelli raccontati da Antonio Gallo e Antonio Chirico,
furono da me tradotti in dialetto per la Gazzetta, altri, che in questo libro
metto in bocca ai vari personaggi, mi sono stati raccontati a voce. Molti li
conoscevo già e li conoscono tutti a Morra. Io ho voluto farli raccontare da
coloro che me li hanno ricordati per ultimo, anche per lasciare un ricordo di
queste persone, che sono tutti miei amici. Nicola Cicchetti, invece, scrisse i
suoi racconti direttamente in dialetto morrese. Ricordo comunque che quasi tutti
i racconti li ho pubblicati sulla Gazzetta dei Morresi Emigrati già a partire
dal lontano 1983. Nella
seconda parte ho messo alcuni racconti da me scritti in italiano per la
Gazzetta, che ho tradotto in dialetto per questo libro. Nella
terza parte ho elencato qualche proverbio di uso comune a Morra. Sono solamente
alcuni dei tanti, scaturiti dalla saggezza contadina morrese, acquisita sulla
propria pelle durante i secoli e tramandata nelle famiglie. In
ultimo troverete un piccolo vocabolario delle parole scritte in questo libro con
tutte le voci dei verbi, con relativa trascrizione fonematica secondo l'Alfabeto
dell'Associazione Fonetica Internazionale. Per chi non conosce il dialetto
morrese, le vocali aperte o chiuse sono importanti, perché spesso determinano,
solo con l'accento acuto e grave, il cambio di significato del vocabolo. GERARDO
DI PIETRO Morra De Sanctis 12/11/06 [1]
Nel commento di Eugenio Camerini alla Divina Commedia (Inferno, Canto XIX,
85-96) leggiamo Nell'anno 1314, dì 20 di aprile, morì Papa Clemente. Questi fu uomo molto cupo di moneta e simoniaco, che ogni beneficio per danari s'avea in sua corte, e fu lussurioso. E lasciò ai nipoti e suo lignaggio con grandissimo e innumerabile tesoro, e dicese che, essendo morto un suo nipote cardinale, cui egli molto amava, costrinse uno grande maestro di negromanzia che sapesse che l'anime del nipote fosse. Il detto maestro, fatte le sue arti, uno cappellano del papa molto sicuro fece portare a' dimonia, i quali il menarono allo 'nferno, e mostrargli visibilmente un palazzo, iv'entro un letto di fuoco ardente, nel quale era l'anima del detto suo nipote, dicendogli che per la sua simonia era giudicato. E vide fare altro palazzo alla 'ncontra, il quale gli fu detto si facea per papa Clemente; e così rapportò al papa, il quale mai poi non fu allegro, e poco vivette appresso: e morto lui, e lasciatolo la notte in una chiesa con grande luminara, s'accese e arse la cassa, e 'l corpo suo dalla cintola in giù. |