La storia è racconto attraverso i libri

I testi che accompagnano la presentazione sono in genere quelli diffusi dall'editore, dalla libreria o da critici che vengono indicati

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Il lungo esodo

note copertina
Dopo la seconda guerra mondiale più di un quarto di milione di uomini, donne e bambini che vivevano a Zara, a Fiume e nell'lstria furono costretti a emigrare in massa dalle loro case cercando fortuna in Italia e oltreoceano: famiglie divise, senza più una patria, senza un lavoro, che in interminabili file si imbarcarono sulle navi della speranza abbandonando ogni certezza. Dai territori della Dalmazia e dell'lstria in cui erano storicamente insediate, e che le conseguenze della sconfitta avevano posto sotto il dominio jugoslavo, le comunità italiane furono strappate a forza e cancellate quasi integralmente.  Della loro tragedia la storiografia si è occupata fino a ora raramente e in modo lacunoso; Raoul Pupo riempie questo vuoto presentando con autorevolezza i risultati più recenti della ricerca storica sull'Esodo, inquadrandolo per la prima volta in un'ottica di lungo periodo. L'Esodo degli italiani appare così come il picco di una serie di violenze e flussi migratori che hanno attraversato buona parte del 900: le persecuzioni fasciste e la conseguente emigrazione di decine di migliaia di sloveni e croati fra le due guerre, l'aggressione italiana alla Jugoslavia nel 1941, le annessioni e gli orrori della guerra partigiana e della controguerriglia,  e ancora le stragi delle foibe del 1943 e del 1945, l'interminabile "questione di Trieste", l'ultima ondata migratoria verso l'Australia alla fine degli anni Cinquanta. A fare da controcanto all'analisi storica è la voce semplice e autentica degli esuli, consumati tra la volontà di difendere la propria identità nazionale, il baratro della loro condizione di profughi e le difficoltà dell'integrazione. Un importante spunto di riflessione in occasione della prima giornata del ricordo delle foibe, dell'esodo dei giuliano-dalmati e di tutte le tragedie consumatesi alla frontiera orientale d'Italia.

Raoul Pupo

Rizzoli  Collana BUR - Storia

 

FOIBE ED ESODO raccontate da Raoul Pupo
Da IST. REG. PER LA STORIA DEL MOVIMENTO DI LIBERAZIONE NEL FRIULI VENEZIA GIULIA

La foiba di Basovizza è raggiungibile in automobile dall’autostrada A4 Venezia-Trieste poi direzione Trieste-porto. Al termine del tratto autostradale, si prosegue per la SS 202 che scende dal ciglione carsico verso il mare e, dopo un paio di chilometri si gira a sinistra in direzione Basovizza–Fiume.  http://www.italia-liberazione.it/ita/doc/Violenze900Trieste.pdf

Raoul Pupo insegna storia contemporanea all’Università di Trieste. È stato uno dei promotori, dalla fine degli anni 80, del rinnovamento degli studi storici che hanno sollevato il velo sulla tragedia delle foibe e dell’Esodo. Tra i numerosi saggi da lui pubblicati si ricordano Guerra e dopoguerra al confine orientale d’Italia (Del Bianco, 1999), Foibe (con Roberto Spazzali, Bruno Mondadori, 2003) e il volume, curato insieme a Marina Cattaruzza e Marco Dogo, Esodi, Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo (ESI, 2000).

 

FOIBA GIULIANA DI BASOVIZZA

Con tale espressione si intendono le stragi compiute da parte jugoslava nella Venezia Giulia nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Il termine presenta alcune ambiguità: solo una parte delle vittime infatti venne effettivamente gettata nelle foibe dopo la fucilazione, mentre più numerosi furono coloro che perirono in maniera diversa o non fecero ritorno dalla deportazione. Stabilire quanti furono (qui) gli uccisi è difficilissimo e molte sono le stime in proposito: le più attendibili parlano di 600-700 vittime nel 1943, quando ad essere coinvolta fu soprattutto l’Istria, e di più di 10.000 arrestati, alcune migliaia dei quali scomparvero, fra Trieste e Gorizia nel 1945. Dopo l’8 settembre 1943 l’Istria fu per alcune settimane occupata quasi completamente dalle forze partigiane jugoslave, che proclamarono l’annessione del territorio alla Jugoslavia e procedettero all’eliminazione dei «nemici del popolo».

     

Il Centro Raccolta Profughi di Padriciano
L’esodo degli istriani, fiumani e dalmati fu un fenomeno lungo: iniziò nel 1944 con l’abbandono di Zara, distrutta dai bombardamenti alleati, ed ebbe termine ufficialmente nel 1956. Nel complesso riguardò oltre un quarto di milione di persone (le stime sono incerte), nella massima parte di sentimenti italiani. La spinta principale che mosse gli esuli fu di natura politico-nazionale: attraverso vari percorsi e con differenti ritmi da zona a zona, le diverse componenti della popolazione italiana furono costrette a rendersi conto che mantenere la loro identità nazionale era impossibile, viste le trasformazioni introdotte dal regime comunista jugoslavo nella loro terra di origine. A tale conclusione giunsero anche i nuclei di classe operaia italiana di orientamento comunista che in un primo momento avevano accolto favorevolmente la prospettiva dell’annessione alla Jugoslavia socialista, ma che a seguito dell’impatto con la realtà del regime di Tito cambiarono rapidamente idea. Si può dunque parlare dell’esodo come di un processo di espulsione di un gruppo nazionale avvenuto a seguito non di provvedimenti di legge, ma di pressioni ambientali. L’esodo degli italiani, che trascinò con sé anche alcune aliquote di popolazione slovena e croata, costituisce una frattura storica per l’area alto-adriatica in quanto – diversamente dai cambi di sovranità avvenuti nei decenni e secoli precedenti, da Venezia all’Austria e poi all’Italia – ha segnato la scomparsa di un gruppo nazionale autoctono, quello italiano, spezzando una continuità che durava dall’epoca dei Romani. Appena conosciuta la decisione della Conferenza della pace (che attribuiva alla Jugoslavia Zara, Fiume e quasi tutta l’Istria) partirono per primi gli abitanti di Pola, allora governata provvisoriamente dagli angloamericani. Iniziata nell’inverno del 1946, la fuga in massa svuotò la città nel giro di pochi mesi. Nel caso di questa 1a ondata, il grosso degli esuli non passò per Trieste, ma venne sventagliato in tutta Italia. Furono così aperti più di un centinaio di CRP utilizzando vecchi campi per internati e prigionieri di guerra, caserme, scuole, e così via; dove i profughi vissero per alcuni anni in condizioni di estremo disagio. La 2a ondata fu costituita dagli esuli provenienti dalla zona B del T.L.di Trieste (Capodistria, Isola, Pirano, Umago, Buie e Cittanova), tutti abitati quasi integralmente da italiani), la cui creazione era prevista dal Trattato di pace ma s’incagliò sulle secche della guerra fredda e nel successivo Memorandum di Londra, entrato in vigore il 26 ottobre 1954 (zona A con Trieste all’Italia, zona B alla Jugoslavia). Gli esuli dalla zona B si fermarono in maggioranza a Trieste e Gorizia, e trovarono prima ospitalità a Padriciano. Altri centri di raccolta vennero istituiti presso il Silos (l’enorme edificio a fianco della stazione ferroviaria), nella Risiera di San Sabba e in molti altri locali di fortuna. Ovunque le condizioni di vita erano assai precarie: gli spazi angusti e malsani, i servizi igienici sovraffollati, totale la mancanza d’intimità familiare, mentre le masserizie che i profughi avevano potuto portare con sé vennero ammassate in alcuni magazzini del porto, dove rimasero dimenticate per decenni.
 Raoul Pupo

  Furono così colpiti esponenti del regime e del partito fascista, talvolta assieme ai loro familiari, rappresentanti dello stato italiano, dirigenti d’azienda e, più in generale, le figure più rappresentative delle comunità italiane. In una situazione di generale confusione, in cui i contadini croati si sollevarono contro i possidenti italiani, le motivazioni nazionali e politiche delle violenze di massa e la «resa dei conti» con il fascismo, si confusero con elementi di lotta sociale, contrasti d’interesse e rancori personali. La maggior parte degli arrestati fu condannata a morte dopo giudizi sommari e fucilata. Ai primi di maggio del 1945, con il crollo del potere nazista e l’occupazione da parte dell’esercito jugoslavo, la Venezia Giulia fu raggiunta dall’ondata di violenze di massa che si scatenò in tutti i territori jugoslavi, dove la liberazione dai tedeschi coincise con la presa del potere da parte del movimento partigiano a guida comunista. I militari italiani e tedeschi arresisi alle truppe di Tito, decimati dalle fucilazioni sommarie, vennero trasferiti nei campi di prigionia in cui la denutrizione e i maltrattamenti provocarono una mortalità altissima. Per gli italiani, particolarmente famigerato risultò il campo di Borovnica, presso Lubiana. Gli appartenenti alle formazioni collaborazioniste slovene e croate furono invece uccisi tutti. Quanto ai civili, le autorità procedettero ad una radicale «epurazione preventiva» della società. Nella Venezia Giulia ciò comportò l’arresto in massa dei membri dell’apparato repressivo nazifascista, di elementi collaborazionisti, ma anche di partigiani italiani che non accettavano l’egemonia del movimento di liberazione jugoslavo e di alcuni esponenti del CLN giuliano, assieme ad alcuni slavi anticomunisti e a molti cittadini privi di particolari trascorsi politici ma di sicuro orientamento filo-italiano. La repressione, oltre a fare i conti con il fascismo, mirava ad eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali, all’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito. …. Parte degli arrestati venne subito eliminata, la maggioranza venne inviata nei campi di prigionia, ove trovò sorte simile a quella dei militari. I rimpatri cominciarono alla fine dell’estate per proseguire nei mesi e negli anni successivi, ma di alcune migliaia di detenuti si è persa ogni notizia. Istria e Goriziano sotto l'impero d'AusttriaSu quel che effettivamente accadde a Basovizza, le notizie sono incerte. Fra il 29 e il 30 aprile 1945 la località fu teatro di violenti combattimenti tra formazioni germaniche e jugoslave; pare che caduti tedeschi, carcasse di cavalli e materiali militari siano stati sgombrati precipitandoli nella voragine, originariamente profonda più di 200 metri. Nel corso dell’estate le forze armate britanniche (Governo Militare Alleato-GMA) compirono nel pozzo della miniera alcuni sondaggi, che però diedero risultati assai scarsi, sia per l’insufficienza dei mezzi impiegati, sia perché nell’abisso era stata gettata un gran mole di materiale di ogni tipo, comprese munizioni inesplose. Nel corso degli anni Cinquanta la voragine fu utilizzata come discarica fino a quando, nel 1959, fu chiusa con una lastra di cemento armato per opera del Commissariato generale per le onoranze ai caduti del ministero della Difesa, assieme alla foiba 149 di Monrupino, entro la quale è accertata la presenza di corpi di caduti tedeschi. Sempre nei pressi di Basovizza, si trova anche la foiba Plutone, di dimensioni assai minori ma rimasta al suo stato naturale e nella quale furono gettati nella primavera del 1945 i corpi di 18 persone arrestate dalle autorità jugoslave e poi uccise da un gruppo di sedicenti partigiani autonominatosi «Squadra Volante», che furono successivamente arrestati dalle stesse autorità jugoslave. Raoul Pupo

STORIA E USO POLITICO DELLA STORIA

…. Tutto questo è avvenuto per molteplici ragioni, ma fra di esse una soprattutto è stata posta in luce con un certo clamore nel corso degli ultimi anni, vale a dire l’esistenza di robusti interessi politici che per alcuni decenni hanno sconsigliato di attribuire alle tragedie giuliane una portata nazionale. Sotto questo profilo, il caso più evidente, ma anche più semplice da intendere, è quello della cultura di sinistra d’ascendenza marxista, animata da un duplice ordine di preoccupazioni. La prima e più generale era quella di non dar fiato alle forze anticomuniste in Italia, cui la politica oppressiva del regime di Tito nei confronti degli italiani offriva abbondanti argomenti polemici. La seconda e più specifica era quella di stendere un velo d’ombra sui comportamenti quantomeno ambigui tenuti dal Pci sulla questione di Trieste nell’ultima fase della Resistenza e nei primi anni del dopoguerra.

Lettera dei segretari della Dc della zona B (operanti a Trieste), inviata il 4 giugno 1950 a De Gasperi

Il nostro compito di segretari sezionali della Dc della zona B da tempo è ormai in conflitto con la nostra coscienza di uomini e di cristiani. Non possiamo ulteriormente pascere di parole illusorie intere popolazioni che, oltre a soffrire da cinque anni di privazioni materiali superiori a quelle dei più tristi anni di guerra, sono ormai in grave tentazione di dover rinnegare la propria fede religiosa, la propria nazionalità e gli stessi elementari diritti della personalità umana allo scopo di potersi assicurare la pura e semplice sopravvivenza materiale. Ormai è evidente che il problema nazionale e politico è superato da quello umano, e che urgono: o sufficienti garanzie per coloro che si assumono il rischio di rimanere; o un minimo di soccorsi materiali — case o almeno baracche — per coloro che non sentendosi più di vivere una vita di schiavi e di figli di nessuno, abbandonano la terra dei loro padri per raggiungere Trieste o Monfalcone. 1.. .1 Si chiede che coloro a cui è affidato l’ingrato compito di rappresentare l’idea democratico-cristiana e quella della solidarietà nazionale in queste sventurate terre abbiano un minimo di direttive e di assistenza per poter liquidare con onore una situazione ormai insostenibile. Pag 215

  Non c’è dubbio che preoccupazioni di tal fatta abbiano contribuito a diffondere anche fra gli studiosi lo stereotipo secondo cui parlare dell’Esodo o delle foibe significava in qualche modo dare «oggettivamente» spazio alla propaganda nazionalista, anticomunista e antislava: un pericolo che andava scongiurato non parlandone affatto. Tuttavia, nel mezzo secolo successivo al termine della Seconda guerra mondiale, l’Italia non è stata retta da un regime comunista, bensì da un sistema liberal-democratico pienamente inserito nei mondo occidentale, e anche all’interno della cultura storica italiana la pur robusta presenza marxista non è stata certo totalitaria. Non per questo le disgrazie del confine orientale hanno suscitato un interesse maggiore. La ragione sta nel mutamento subito dal ruolo della Jugoslavia, sulla scena internazionale e nei rapporti con l’Italia. Nei primi anni del dopoguerra la Jugoslavia costituiva apparentemente la più pericolosa fra le minacce esistenti per l’Italia: non solo tentava di ottenere una linea di confine che avrebbe lasciato il Paese «con le porte di casa spalancate» — così si espresse De Gasperi alla conferenza di pace strappando alla madrepatria Trieste, simbolo del completamento dell’unità nazionale, ma combinava alle proprie rivendicazioni territoriali il proprio sostegno politico (e forse anche qualcosa di più) ai comunisti italiani. Per l’Italia che cercava la sua collocazione tra i Paesi dell’Occidente, la Jugoslavia costituiva quindi il «nemico assoluto». Dopo il 1948 però, anno in cui esplose la crisi fra Tito e Stalin, la Jugoslavia si allontanò rapidamente dal blocco sovietico, ottenendo un progressivo sostegno da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Nell’immediato questo non migliorò le relazioni con l’Italia, poiché permaneva irrisolto il problema di Trieste, ma dopo che il contenzioso di confine venne chiuso con il memorandum di Londra del 1954, la nuova collocazione della Jugoslavia non tardò a essere apprezzata anche dalla politica estera italiana.  Confinare infatti con uno Stato non allineato, sufficientemente forte e assai determinato a difendere la propria autonomia, significava per l’Italia disporre di un cuscinetto strategico di inestimabile valore, che accresceva di molto la sicurezza del Paese consentendogli di mitigare significativamente gli oneri, politici militari, finanziari, altrimenti connessi allo schieramento in prima linea sul fronte della guerra fredda. A questo si aggiunga il fatto che la Jugoslavia si rivelò un buon partner economico, ancor più appetibile mentre gli altri mercati dell’Europa centro-orientale restavano largamente sigillati dietro la cortina di ferro. Si comprende perciò facilmente come la Jugoslavia sia rapidamente divenuta un valore positivo per la politica estera dell’Italia, che finì per individuare nella repubblica federativa creata da Tito uno dei pilastri della stabilità in Europa e quindi degli stessi interessi nazionali italiani. in piena continuità con tale strategia, condivisa dalla stragrande maggioranza delle forze politiche di governo e di opposizione agli inizi degli anni Novanta l’Italia avrebbe disperatamente cercato di preservare la Jugoslavia dalla dissoluzione e si sarebbe poi per alcuni anni trovata gravemente spiazzata dall’esplosione della crisi balcanica (recente). Mantenere buoni rapporti con la Jugoslavia significava però anche porre la sordina agli antichi motivi di contrasto e, finché durò, il regime comunista jugoslavo considerò sempre l’Esodo e le foibe non quali temi di confronto, ma come provocazioni politiche tali da compromettere seriamente le relazioni bilaterali. Da parte delle forze di governo italiane, quindi non vi era alcuna ragione per considerare la storia travagliata del confine orientale un problema ancor vivo: esso non fu ignorato del tutto, ma rimase semplicemente relegato alla dimensione locale, vale a dire a Gorizia e soprattutto a Trieste. Pag. 18/19 de Il grande esodo
     

Istria, Trieste e Gorizia dopo il 1920(Ndr.1: era frequente che emigrati dal sud Italia in Dalmazia slavizzassero il cognome per il bene che volevano alla patria. Ndr 2: Anche da Trieste durante la grande guerra se ne erano andati in 100.000 e subito dopo 40.000 della comunità tedesca che comprendeva austriaci, sloveni e croati che avevano fatto comunella e occupato i posti chiave per i motivi detti )

  (ndr) Pupo si dilunga poi sulla situazione triestina ed in generale su quella Istriana per rimarcare il difficile inserimento economico di quell'area nel contesto italiano. La grande guerra era stata fatta per Trieste (e Trento), ma ora di Trieste non sapevamo che farcene. Pur essendo italiana ma con grandi partecipazioni mitteleuropee e slave Trieste gravitava sul tessuto economico Asburgico e in parte su quello tedesco meridionale che qui poteva avere interessi  di sbocco per le proprie merci e per il medio oriente (Ottomani) a cui era molto interessato. Erano ancora lontani i tempi del terminal petroli. Fiume in piccolo viveva la stessa situazione con l'aggravante di essere sotto la corona ungherese. Lo sviluppo demografico di Trieste si era quindi concentrato nei primi anni del secolo per stabilizzarsi poi dopo la guerra. Tutte le agenzie austriache (banche, assicurazioni, spedizionieri etc) si erano ritirate lasciando l'economia in gravi difficoltà. Nemmeno il fascismo  coi progetti degli anni '30 aveva trovato una soluzione al rilancio economico. La nuova alleanza dell'asse coi tedeschi aveva fatto balenare la definizione di Trieste porto franco e una relativa autonomia connessa. Se ne erano intanto andati (cacciati) tutti quei funzionari slavi che si erano infiltrati nei centri decisionali dell'ex Impero. Ricordiamo che oltre ad averci fatto guerra (noi l'avevamo vinta) gli slavi avevano già iniziato una loro pulizia etnica dell'elemento italiano. All'Austria, per superare il sempre crescente problema degli Italiani, non restava che il trialismo (divisione dell'Impero Asburgico in tre regni o tre gambe: Austria, Ungheria e Jugoslavia). Il progetto di un nuovo regno slavo della Corona, comprendente Slovenia e Croazia ma anche Bosnia, (tagliando fuori le nazionalità italiane e il dichiarato superstite regno di Serbia) ebbe la luce alla vigilia della sconfitta, ma l'eredità venne assunta come buona dagli slavi a cui si erano ora aggiunti i serbi. AW

"Vocabolario della Lingua Italiana"- irredento " Non liberato, terre, paesi, popolazioni che rimangono sotto la dominazione straniera. Irredentismo: Partito che si propone di liberare le terre....." Il partito dell'irredentismo non esisteva, anzi da quando era stata stipulata la triplice alleanza nel 1882 non se ne doveva parlare proprio, e come diceva Salvemini (a sinistra) "l'irredentismo è un falso problema".

Ma già CRISPI a NIGRA, ambasciatore a Vienna: “L’Austria avrebbe potuto essere più prudente. Impero poliglotta, la sua potenza verrebbe dal rispetto di tutte le nazionalità, delle quali si compone lo Stato. Si aggiunga che l’opera di annullare la lingua italiana nelle opposte sponde adriatiche è difficile, e con la violenza diviene impossibile. E’ più facile italianizzare gli Slavi che slavizzare gli italiani!!. Se ella potesse dire una buona parola a KALNOKY, farebbe opera saggia. Accordino agli italiani gli stessi diritti accordati alle altre nazionalità e conserveranno la pace dell’impero "

  LA POLITICA DEL FASCISMO NEI CONFRONTI DEGLI SLAVI

Stralci ….. Pochi dubbi vi sono sulla meta che il fascismo si proponeva una volta ottenuto il potere: l’integrale e rapida nazionalizzazione delle terre annesse dopo la Grande Guerra (ndr nazionalizzare vuol dire statalizzare e forse non era questa la vera intenzione del fascismo in agricoltura, son più famose le nazionalizzazioni del dopoguerra. L'IRI è altra cosa poiché parte dal salvataggio delle banche post crack). Quanto alla strategia prescelta, l’idea era quella di riavviare a forza il processo di assimilazione degli slavi alla lingua e alla cultura italiana….Per far ciò, sembrava sufficiente disperdere la classe dirigente slava, portatrice dell’ideologia nazionale, ed eliminare tutti gli strumenti di cui le comunità slovene e croate si erano dotate nella seconda metà dell’Ottocento per affermare la loro identità. A quel punto, una società slava destrutturata e priva di punti di riferimento nazionalmente connotati, sarebbe stata, si pensava, facile preda del processo di italianizzazione ….. Per implementare una politica del genere, gli strumenti a disposizione del regime certo non mancavano. La legislazione liberticida applicata in tutto il Paese dopo il delitto Matteotti offriva già la possibilità di sciogliere tutte le organizzazioni legali delle minoranze slovena e croata: partiti politici, circoli culturali, associazioni sportive, giornali e riviste. E là dove non arrivava lo Stato, a «ripulire gli angolini» erano sempre pronti gli squadristi, tant’è che ancora nel 1936 a Gorizia si poteva morire per aver diretto un coro di Natale in lingua slovena. Sul versante educativo, la riforma Gentile approvata nel 1923, la cui applicazione venne significativamente accelerata negli anni successivi, consentiva di abolire l’insegnamento in lingue diverse dall’italiano. Le lingue slave continuavano tuttavia a venire usate nell’educazione religiosa e nell’attività pastorale in tutte le diocesi giuliane oltre a venir insegnate clandestinamente nelle sacrestie, e questo suscitò duri scontri tra le autorità fasciste e la Chiesa locale. Ne sortirono profonde lacerazioni all’interno della stessa comunità ecclesiale…. Sul piano economico, il regime scompaginò l’intera rete cooperativistica e creditizia slava, che aveva conosciuto un notevole sviluppo nel periodo austriaco, favorendo all’epoca l’acquisto della terra da parte di un gran numero di coltivatori sloveni e croati. Rispetto alle speranze di riscatto sociale diffusesi nelle campagne all’inizio del secolo, l’ultimo scorcio degli anni Venti segnarono perciò una brusca inversione di tendenza. L’effetto cumulativo della crisi agricola, dell’introduzione di un sistema fiscale più esoso di quello austriaco e della stretta creditizia operata dagli istituti italiani che avevano soppiantato le casse rurali condusse infatti alla rovina gli elementi più deboli della piccola proprietà contadina. In Istria soprattutto il numero delle aste giudiziarie aumentò vertiginosamente perché i contadini, gravati da debiti cui non potevano in alcun modo far fronte, erano costretti a porre all’incanto terreni, edifici per uso agricolo e domestico, bestiame e arredamento (ndr non dissimile da quanto successe in Italia). Naturalmente il dissesto colpì tutti i coltivatori istriani, aggravato anche dalle dimensioni spesso irrisorie delle proprietà. ma a farne le spese furono soprattutto gli agricoltori sloveni e croati, meno dotati di mezzi e privi di qualsiasi rete di protezione.

    L'esodo verrà ripreso nei capitoli Trieste 1954.
L’emigrazione slovena e croata dopo la grande guerra: Gli sconvolgimenti dovuti alla Grande Guerra e all’inserimento delle terre giuliane nel regno d’Italia suscitarono un robusto flusso migratorio, che coinvolse soprattutto sloveni e croati. Sulle reali dimensioni dell’emigrazione slava dalla Venezia Giulia fra le due guerre permangono, a tutt’oggi, molti dubbi. La stima proposta alla metà degli anni Trenta dalle associazioni degli emigrati sloveni e croati e poi generalmente ripresa dalla storiografìa jugoslava, è di poco superiore alle 100.000 unità, e più precisamente di 70.000 profughi in Jugoslavia. 5000 in altri Paesi europei e 30.000 in America Latina. Tale valutazione ufficiale è stata peraltro rimessa in discussione in anni abbastanza vicini da alcuni studiosi di nuova generazione sloveni e italiani che, dopo un’analisi critica delle fonti (ma gli archivi di Belgrado della ex Jugoslavia non sono accessibili), hanno osservato come queste ultime in gran parte dei casi semplicemente non consentano di determinare l’appartenenza nazionale degli emigranti. … In ogni caso, però, arrivare a una quantificazione precisa sembra impossibile, e anche alla stima di circa 50.000 partenti esclusi gli espatri clandestini, proposta di recente, viene attribuito un valore puramente congetturale. Riconoscere le forzature metodologiche in cui la storiografia è talvolta incorsa sull’onda della passione nazionale non autorizza però a liquidare semplicisticamente il problema come poco significativo. Al contrario, è indubbio che fra le due guerre alcune decine di migliaia di sloveni e croati furono costretti ad abbandonare l territori annessi all’Italia, per un complesso di motivazioni politiche ed economiche fra loro strettamente intrecciate, dando origine a diverse ondate migratorie. La fase iniziale del movimento migratorio, relativa ai primi anni del dopoguerra, fu probabilmente la più tumultuosa, ma anche quella rispetto alla quale disponiamo di dati meno certi. Per esempio, se ci limitassimo a confrontare i dati dell’ultimo censimento austriaco del 1910 con quelli del primo censimento italiano del 1921, ne ricaveremmo l’immagine di una catastrofe etnica a danno degli slavi nelle principali città: a Trieste, gli slavi passarono da 59.319 a 18.150, a Gorizia da 24.402 a 17.133, a Pola da 19.941 a 5420, a Fiume da 15.687 a 6364. In realtà, lo scarto fu probabilmente minore di quanto le cifre non sembrino suggerire. I criteri utilizzati nelle rilevazioni, che misuravano la «lingua d’uso» degli abitanti, e le manipolazioni avvenute nella raccolta e nell’elaborazione dei dati lasciano ragionevolmente supporre che molti giuliani, registrati come slavi nel 1910, siano stati censiti come italiani nel 1921.
 
Pupo secondo valutazioni critiche apparterrebbe alla generazione degli storici revisionisti, negazionisti o giutificazionisti dove per vittime delle foibe si contano quelle estratte (non si trovano volontari per questo lavoro). ... http://digilander.libero.it/nvg/rustia_UltimaTruffa.html  Il sesto componente della  Commissione è il professor Raoul Pupo, un ricercatore del Dipartimento delle scienze dell'uomo dell'Università degli studi di Trieste. Ultimamente ha scritto, per conto del Comune di Trieste, una breve nota sull'opuscolo "Foiba di Basovizza. Monumento nazionale". In essa, parlando delle foibe istriane, egli ha ripreso il tema della "jacquerie" (uccisioni dovute a furore popolare), tanto caro alla propaganda croato-comunista, e, per avvalorarlo egli ha affermato che a detta "jacquerie" rimandano anche episodi quali "l'esposizione delle vittime". Dato che le foibe sono delle cavità naturali profonde anche più di cento metri, dato che delle 600-700 persone che lo stesso Pupo ammette siano scomparse (a Basovizza), circa 200 furono riesumate da esse e delle altre non si seppe più nulla, appare per lo meno stravagante, anche se funzionale alla propaganda slavocomunista, il suo discettare sull'esposizione delle vittime! Frutto invece di assoluta disinformazione è il suo affermare che "nel 1945,.. .l'epicentro delle violenze fu costituito da Trieste e Gorizia, anche se pure nella penisola istriana si registrarono altre uccisioni". Notizie di fonte speleologica slovena, comprovate e verificate, apparse negli ultimi anni sui quotidiani locali, dicono che le foibe del Capodistriano sono ancora oggi piene zeppe di resti umani (400 chilogrammi di ossa sono stati riesumati nel 1992 e portati all'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Lubiana dove giacciono tuttora) e studi di ricercatori italiani e croati, non legati alle greppie governative, hanno ricostruito i nominativi di 572 assassinati nel maggio 1945 nella sola città di Fiume. Che il professor Pupo, davanti a questi fatti, per la penisola istriana nel 1945, parli genericamente di "altre uccisioni" dimostra la sua scarsissima conoscenza sulla parte della materia che concerne le stragi. La sua collaborazione all’Istituto per la storia del movimento di liberazione in Friuli Venezia Giulia viene definita come ambito di ricerca in casa comunista.
     
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