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Premetto - e ammetto - che per PMP scrittore
ho una venerazione di vecchia data: dai tempi del ginnasio, quando ho
letto per la prima volta Rosso
veneziano, poi seguito da
Il ponte dell'Accademia, che più di quello e di altri
suoi romanzi mi ha segnata per l'innovazione e l'originalità stilistica,
secondo me mai abbastanza riconosciute.
C'era già uno stacco fra i due, un salto di qualità, la
prima netta e sorprendente indicazione di un nuovo e più efficace
uso del linguaggio, di una scelta (geniale) di forme verbali e strutturali
basate sì su una straordinaria padronanza del mezzo, ma proprio
grazie a essa volte a sfruttarne ancora meglio e per vie prima poco esplorate
le potenzialità espressive.
"Domani improvvisamente" (e qui io sono già
all'università, cioè a Padova e quindi in una terraferma
di cui comincio a intravedere e interpretare le diverse ma tuttavia succose
atmosfere) rappresenta un ulteriore progresso e una nuova sorpresa nel
percorso letterario di PMP, che anche qua sperimenta in modo originale
e felicissimo una invidiabile libertà di scrittura, magistrale
modello per una narrativa - quella italiana - spesso ripetitiva e asfittica.
Il tratto fondamentale della prosa di PMP è questa sua inesausta
ispirazione, che gli detta - più che un intreccio ordinato, premeditato,
rigoroso - una serie, una concatenazione, uno splendido susseguirsi e
fondersi e autoriprodursi di intrecci tutti affettuosamente delineati,
tutti lucidamente sotto controllo, seppure affidati a una narrazione discorsiva,
spontanea, spesso domestica. Il piacere della lettura che ne deriva non
può che rispecchiare il piacere della scrittura che li ha originati,
poiché sono evidenti la leggerezza e la scioltezza che dirigono
la penna dell'Autore, mai cattedratico, mai artificioso, mai e poi mai
retorico. Non esiste banalità, nella scrittura di PMP: è
come se la sua fantasia (e insieme un saggio senso della memoria) lo rifornissero
sempre senza sforzo apparente di nuovi ritratti, nuove storie, nuovi scenari.
Si dice che molti artisti riproducano per tutta la vita la stessa opera,
apportandole modifiche solo formali, ma PMP non è fra quelli: ha
sempre saputo variare, inventare, sorprendere, creando di continuo sia
nella forma sia nei contenuti novità da scoprire e godere. Deve
avere osservato molto intorno e dentro sé, e come solo gli artisti
veri possiede il dono di vedere sotto la superficie - e, dove non vede,
di supporre, intuire oppure inventare - e poi ancora di trasmetterne l'eco,
e ben chiara e universale, attraverso le parole. Ha sempre saputo anche
trovare le parole, quelle del linguaggio naturale, della realtà
che tutti possiamo riconoscere. Ce la svela, anzi, questa realtà;
ne sa cogliere il semplice succo, quello che aiuta anche noi a vederla
con occhi trasparenti.
Onestà e autenticità: grandi doti per uno scrittore e per
ogni uomo, anzi vere e proprie armi di difesa, strumenti di sopravvivenza,
chiavi della serenità. La serenità che ci indica PMP non
è tuttavia una meta edificante, un obiettivo salutistico: per queste
ricette di lunga vita esistono già i santoni, che spesso di autenticità
ne possiedono assai poca. La sua è piuttosto frutto di una riconciliazione
sorridente, un po' fatalista, con i valori del singolo individuo, una
affermazione della coerenza con il fondo più intimo della persona,
con le sue aspirazioni, i suoi talenti, le sue debolezze e diversità
che sono poi il tratto che rende ognuno di noi, nel bene e nel male, un
evento unico. La formula sintetica, aurea nella sua semplicità,
e che riceviamo come un affettuoso insegnamento, è condensata in
quel "rendersi minimamente presentabili a se stessi"
che PMP fa pronunciare al tormentato personaggio di Bart: significa conoscersi
e accettarsi quel tanto che basta per offrire a noi e al prossimo il meglio
delle nostre capacità positive senza per questo sottostare, in
mancanza di una vera adesione, a discipline, fedi, convenzioni, obiettivi
trascendenti. Onestà. Onestà, e quindi serenità,
e quindi armonia e quindi piena padronanza della vita.
Di questa pasta sono fatti molti personaggi del mondo pasinettiano, e
questo nostro straordinario Astolfo, la cui caratteristica prima è
appunto "la presa di vita", la filosofia gioiosa vincente, il
contatto elementare, puro, positivo con la realtà.
Chi è Astolfo?
Ex bimbotto bellissimo, istrionico e brillo, ora giovane venti-trentenne
dal passato precoce e dal futuro mirabolante, folletto allegro sempre
in moto e perciò spesso evocato (o invocato, o anche inventato)
in absentia, temperamento e modi vitalissimi, spiritello stravagante e
instancabile in sospetto di ingenuità se non di modeste doti mentali
(ma intelligenza, pare dica PMP, è parola quasi zero), Astolfo
attraversa il romanzo a lui intitolato più che altro sulle descrizioni
e analisi che ne compiono gli altri personaggi, che tutti tornano a lui
come centro dei loro interrogativi, delle loro aspettative, attirati dalla
sua logorroica vivacità come da una calamita, o una sirena, un
miraggio, un'aspirazione, un modello, un tesoro di luce ed energia - e
al fondo felicità - cui tentare irresistibilmente di avvicinarsi.
Parrebbe che a monte di questa sua forza vitale primitiva vi sia la mancanza
di vere radici anagrafiche, circostanza che lo rende dall'infanzia vagabondo,
adattabile, libero dentro. Astolfo gira il mondo, gira le famiglie, i
gruppi, le micro e macrosocietà con la serenità e la disinvoltura
di un cosmopolita (situazione oggettiva e soggettiva cara a PMP e ricorrente),
ospite comodo e a suo agio ovunque e con chiunque, mai oppresso né
depresso, sempre perfettamente inserito, esente da imbarazzi, dubbi, paranoie
e purtuttavia non egoista o superficiale, ma forse semplicemente e mirabilmente
candido, spontaneo, inoffensivo. A causa di tutto ciò, definito
da qualcuno anche - al limite - indifeso. Ma ancora a causa di tutto ciò,
quasi universalmente amato, e dove invece giudicato con ostilità
probabilmente invidiato.
Una delle prime rivelazioni all'entrata in scena del Nostro è stata,
per me, la sua somiglianza (quasi un legame familiare, una di quelle parentele
affettive di cui PMP parla già in Rosso veneziano e che
sono poi il cuore, il centro e la spiegazione di tutta la sua tematica)
con l'altrettanto giovane, lieto, olimpicamente imperturbabile e geneticamente
efficiente Ruggero Tava junior, che ne
Il ponte dell'Accademia rappresenta l'oggetto di attrazione-astio
del glorioso e supercitato Gilberto Rossi, lo stesso che qua, invece,
del prode Astolfo risulta essere, per più o meno prevedibili circostanze,
il padre adottivo. Sembra anzi, o anzi così è, che da questa
accidentale paternità come dalla compiutezza del suo legame con
Diane madre di Astolfo e dall'effetto terapeutico di alcune scelte di
vita & lavoro & carriera & in sintesi scelte etiche, il difficoltoso
e neurotico Gilberto nostro abbia ottenuto il raggiungimento di uno stato
di equilibrio che si avvicina molto alla felicità, all'appagamento
definitivo. Lo ritroviamo qua, in effetti, sfuggito a pastoie, paranoie,
insonnie e frustrazioni e rinato più giovane e più saggio,
più aderente a se stesso e alla vita, guarito insomma. Un caso
esemplare di applicazione di quel monito che ci vuole a posto con la coscienza,
ossia minimamente presentabili alla stessa. Ecco, direi che questo
Astolfo come quel Ruggero (è un caso che portino nomi epici? non
credo, a questo punto) identifichino il tipo del "simpatico",
con tutte le implicazioni del termine.
Altra parentela sorprendente mi è
parso di poter stabilire fra la galassia-giovani di questo romanzo e la
tribù gioiosa e irregolare di ragazzi che formano la strampalata
comunità campestre di Domani improvvisamente; una comunità,
non dimentichiamolo, a fuoco affettivo perfetto, cioè
a posteriori in chiara, esplicita contraddizione (o ribellione? sì,
ribellione) rispetto alla società contemporanea che in "Astolfo"
è definita affetta da encefalogramma affettivo piatto.
Curioso, invero.
Né si può evitare di notare che la stessa comunità
era stata così pensata e voluta da quel Rodolfo Spada che sembra
essere stato inventato da PMP (siamo tra la fine degli anni '60 e l'inizio
degli anni '70, epoca quantomai significativa) quasi come conseguenza,
discendenza spirituale o meglio sublimazione del precedente Gilberto Rossi,
a sua volta uomo di transizione e in bilico fra il risucchio delle nostalgie
e il vortice disumanizzante della tecnologia. Domani improvvisamente
è il romanzo del conflitto (per inciso, conflitto paragonabile
nel significato a quello tra politici e artisti su cui si incentra Rosso
veneziano) fra l'uomo-manager e l'uomo-uomo: il primo prodotto dalla
sinergia nefasta fra industria ideologica e cultura elettronica, l'altro
simboleggiato dallo Spada stesso e dai suoi accoliti, che scelgono di
seguire le indicazioni della loro stessa natura, e cioè l'estro,
l'individualità, la chiarezza vincente delle scelte, degli affetti,
insomma l'energia primitiva dell'animo libero, unica soluzione per mettere
a fuoco (a fuoco perfetto) la realtà che altri tristamente
vorrebbero manipolare. I giovani di PMP, in questo Astolfo come in Domani
improvvisamente come, a guardar bene, anche in precedenza e a cominciare
dai trasgressivi Partibon di Rosso veneziano e dal loro entourage,
sembrano essere sempre al centro del suo interesse umano e di scrittore:
li accomuna tutti la forte fisicità, la fantasia, la creatività,
la gran fame di vivere una vita da mordere, da prendere a piene mani,
in allegria e ingegno, in assoluta e innocente libertà. Esempi
anche questi, modelli di una purificazione da altri modelli che PMP dimostra
di avere in spregio in queste e altre pagine, un po' in tutti i suoi romanzi,
quando definisce per esempio nefandi certi aspetti della società
e della storia: la tensione morale dell'Autore è sempre nella direzione
di una netta presa di distanza da tutto ciò che è falsificazione,
meschinità, prepotenza, in sintesi negazione della sincerità
e dell'umanità.
Un altro inciso, ancora a proposito delle parentele tra Astolfo e Domani
improvvisamente: mi è parso di ravvisare una certa analogia
tra i due finali, entrambi in bel crescendo, secondo un ritmo liberatorio
molto significativo. E vale la pena di aggiungere una segnalazione: analogia
o metafora, altrettanto evocativo, proprio sul finale, è quel comparire
e alzarsi in volo di un cavallo alato moderno, un cromato elicottero che
si porta via, come nella migliore tradizione, il Protagonista e le sue
sorti (Astolfo verso la Luna? ma sì, non v'è dubbio, è
quello, l'Astolfo!), quasi un effetto speciale di sapore cinematografico
come deve essere venuto facile a uno scrittore che col cinema ha avuto
sempre tanta dimestichezza.
E le donne, le donne di Astolfo e di Pasinetti?
Parliamo di loro, che sono tante, diverse, stupefacenti oppure superficiali,
spesso belle, spesso anche misteri da sondare, ciascuna unica ed emblematica.
Donne che entrano ed escono dalle quinte, vanno e vengono poi ricompaiono
ancora come rifatte a nuovo, mutate, stravaganti, mettendo in scena se
stesse, piroettando, specchiandosi e chiacchierando, seminando sentenze
fatue o sensate, sorrisi enigmatici, sguardi che hanno il valore di una
rivelazione, come quella che riceve Hugo Blatt, l'io narrante, dalla giovane
Guelfa/Checkie e che gli fa dire "incontrando il lume di quegli
occhi capaci di tutto, improvvisamente mi sembra che gli incontri umani
possano avere un motivo, la vita un senso". E le molte donne,
seppure personaggi di sfondo rispetto ai protagonisti maschili, sembrano
indispensabili e funzionali allo svolgersi di ogni vicenda e di ciascuno
dei suoi risvolti, quasi Pasinetti attribuisse loro il ruolo di punto
di riferimento o di banco di prova, comunque ruolo imprescindibile, ago
della bilancia, o della bussola, e poi anche simbolo delle forze naturali
le più in contraddizione - fantasia e senso pratico - intorno alle
quali ruota la vita e si arrampicano le aspirazioni degli uomini.
In "Astolfo", la più in vista è forse proprio
quella Guelfa/Checkie che senza alcuna malizia innamora di sé uomini
diversi per età e mentalità, ma più ammaliante perché
sfuggente a classificazioni certe è la strana Milagros, bambina
indecifrabile, spirito profondo, ironia e sofferenza insieme, gioco visionario
e maturità precoce, personaggio densissimo di rara purezza.
Per tacer delle altre - le mogli, le amiche e le tre mitiche cugine Peck
- una per una comunque divertenti e memorabili.
Un commento doveroso sulla struttura del
romanzo: consta di ripetuti flash back, che rievocano scene, colloqui,
vicende la cui collocazione cronologica è volutamente approssimativa,
come a sottolineare che ciò che conta non è stabilire nessi
temporali o di causa-effetto tra gli eventi ma piuttosto focalizzare gli
eventi in sé e i loro attori. Interessante e da studiare, questa
tecnica del disordine, o meglio della libertà, che segue più
le strade imperscrutabili della memoria che gli obblighi imposti da un
intreccio tradizionale. Un fiume, sembra: un fiume vasto e vivo, con affluenti,
isolotti, ramificazioni, anse di quiete e gorghi di emozioni. Si può
perdere il filo e non accorgersene, perché si viene condotti così
sapientemente per mano da cogliere ben presto il quadro di insieme, o
più che un quadro un palcoscenico su cui si alternano scene, girano
quinte ed entrano personaggi a provare (provare a vivere) le loro battute.
A tutto ciò presiede una grazia di tono che è sempre presente
in Pasinetti romanziere e che sembra echeggiare la grazia e il languore
delle chiacchiere a ruota libera della gente veneziana & veneta, dalle
quali mutua con impagabile spirito anche espressioni idiomatiche e familiari
di speciale efficacia.
Del tutto originali e spesso spassose le abbreviazioni, sigle e storpiature
inserite sia nel parlato che nel testo di fondo: darei loro il valore
di un ridimensionamento in senso ironico e insieme di una serissima ma
divertita stigmatizzazione di certi eccessi e certe asinerie linguistiche
che affliggono i nostri tempi, complici o cause prime i mezzi di comunicazione
che sono troppi e troppo mal usati.
Chi non conosce Pasinetti e i suoi romanzi, leggendo per primo questo
potrà trovarsi in qualche punto perplesso e in difficoltà,
soprattutto se tenterà di tenere a mente i numerosissimi personaggi
che entrano in scena e i loro molteplici e ramificatissimi collegamenti,
ignorando che è questa una caratteristica fra le più godibili
dello stile dell'Autore e che un inventario non è affatto necessario
ai fini della comprensione.
Chi invece ha già da tempo familiarità con alcuni di quei
nomi e con il meccanismo che li muove si ritroverà, e con consolazione,
fra vecchi amici di cui chiederà notizie e ne riavrà; notizie
spezzettate, messe lì discorsivamente all'interno di lunghe chiacchiere
oziose & deliziose, e che riannodano fili con i nodi stessi degli
affetti ritrovati.
I romanzi di Pasinetti, pur ciascuno indipendente e autosufficiente, sono
da considerarsi tappe di un cammino coerente nella sua traccia e nel suo
obiettivo, di un discorso complessivo che per successive tappe e gradini
non fa che ampliare e specificare meglio il suo significato. Ogni tappa,
ogni gradino, sono caratterizzati da un progresso formale che indica come
in questo longevo e fertilissimo Autore la ricerca sul linguaggio sia
rimasta sempre viva e prioritaria accanto alla ricchezza della fantasia:
un lavoro di sperimentazione e liberazione della forma che sorprende sempre
e vieppiù adesso, in quest'opera così tarda ma in cui ancora
il grande Vecchio, il Maestro, suggerisce nuove vie, nuove agilità,
nuove confidenze linguistiche e sintattiche. Così facendo - e si
torna inevitabilmente ai suoi stessi tesori del passato, ai suoi lasciti
- realizza l'affermazione autoreferenziale del glorioso e benemerito Gilberto
Rossi che sul Pacifico, invitato da uomini-robot del famoso Institute
for Language & Communications Analysis a fornire un'autovalutazione
della propria conoscenza della lingua italiana secondo una scala da zero
a cento, non ha dubbi né modestia che lo trattengano dal rispondere
"Centoventi su cento" e dallo spiegare successivamente
che tale inammissibile valore "esprimerebbe l'idea che io sono
uno che amplia le esistenti aree del linguaggio. Con l'italiano, se mi
metto, io faccio cose inaudite sia come vocabolario che come sintassi,
semantica, eccetera".
Direi, sbalorditivo; anche - oggi si può dirlo a buon diritto -
profetico. L'italiano di Astolfo è un ultimo - per ora - superamento
di quello di Gilberto Rossi e dei suoi successori Rodolfo Spada &
company (Brusò, Veneto, Italy), e si connota con l'ultimo - sempre
per ora - stupore che ci dona l'Autore, cioè una freschezza e un'ironia
del linguaggio che appaiono sorprendenti in un uomo di questa età,
se non fosse che già da tempo noi che lo ammiriamo lo conosciamo
quale inesauribile osservatore e ascoltatore del mondo che lo e ci circonda:
le sue scelte formali, lungi dall'apparire azzardate, hanno la qualità
della parodia intelligente e il genio di un'ironia superiore, modelli
che molti - troppi - autori italiani contemporanei trenta-quarantenni
osannati non avvicinano nemmeno per sbaglio.
Eppure, dovrebbero.
Dello stesso Autore leggi anche la recensione
di
Rosso
veneziano
Il ponte dell'Accademia
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