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Il ponte dell'Accademia
(Pier Maria Pasinetti) |
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Dopo Rosso
veneziano, un altro romanzo corale, una lunga storia fatta di
molte storie. Il ponte dell'Accademia, il mio preferito tra i romanzi
di P.M.P., si svolge solo virtualmente oltreoceano, in un istituto californiano
di linguistica ipertecnologico e vagamente alienante, ma il riferimento
a Venezia come punto di partenza e di ritorno di ogni viaggio è
centrale e ben evidente. Un romanzo di nostalgie anche questo, di quelle
nostalgie che ammalano quanto più si cerca di seppellirle perché
il distacco dalle radici è di per sé una malattia che prima
o poi, subdolamente, consuma energie e motivazioni e spoglia dell'identità.
Il protagonista si espianta in una realtà che da lontano gli era
apparsa esaltante, prestigiosa, innovativa, ma presto ne subisce effetti
frustranti e il suo entusiasmo si svilisce, insidiato dal rifluire delle
memorie struggenti di una ben diversa realtà, quella delle sue
origini, che lo incalzano col ricordo di voci, odori, sensazioni, emozioni
molto più dense di quelle suscitate dall'atmosfera impersonale
e rarefatta del mondo nuovo in cui si muove. Partito dall'Italia come
un vincitore - ma in realtà inseguito dalla crisi dei quasi-cinquant'anni
e da un fallimento sentimentale che lo umilia - si ritrova perdente tra
i suoi rimpianti in un ambiente dove non sempre riesce a condividere la
complessità e le stratificazioni della sua mentalità europea,
e in particolare veneta, cioè segnata da un patrimonio emotivo
passionale e da suggestioni intimamente umorali. Nelle settimane di crisi
e spiazzamento, riemergono immagini e scene del passato suo e di altri
personaggi incontrati per via, tra i quali ne tornano alcuni già
apparsi in Rosso veneziano, che qua proseguono e concludono le
loro vicende. Molti fili si annodano, altri si sgrovigliano; i nomi e
le relazioni umane si intrecciano con geniale casualità, come caratteri
della commedia dell'arte che si incontrino e dialoghino tra loro sullo
sfondo di un teatro all'aperto. Anche in questo libro, notevoli i dialoghi,
resi con realismo e incisività. Pare di sentirli pronunciare, pare
di vedere la mimica che li accompagna e l'ambientazione in cui si svolgono.
Attraverso il dialogo, P.M.P. riesce sempre a caratterizzare in modo magistrale,
molto più che con lunghe e mai sufficientemente precise descrizioni,
i suoi personaggi, che sono sempre tanti, numerosissimi, una specie di
repertorio di tipi umani, un album di fotografie in cui noi lettori riconosciamo
con commozione e divertimento visi e gesti e storie che ci hanno prima
o poi toccato, e noi stessi. "A certe memorie sarebbe forse meglio darci un taglio - dissi. Avrei voluto aggiungere che le memorie, qui, possono essere una cosa insostenibile, un bagliore violento, uno spacco. Così si esprime, sullo sfondo di un'America tecnologica, moderna, asettica, tra uffici con vetrate e luci artificiali che appiattiscono i colori e le sensazioni, un Gilberto Rossi nel quale qualcosa di ciascuno di noi, qualcosa di profondo e naturale e insopprimibile, lucidamente si rispecchia, quando i ricordi della sua e di molte altre vite cominciano a strisciargli attorno, lo costringono al languore del suo passato, alle sue suggestioni e atmosfere, al suo richiamo. Tutto questo, vorrei tuttavia concludere, sa porgere l'Autore senza indulgere in toni lugubri e nemmeno amari, ma piuttosto conservando sempre, anche nel soffermarsi sulla sofferenza della vita e perfino sui suoi lutti, una mano e un registro leggeri, che al lettore partecipe risultano confortanti nella loro umanissima autenticità. Dello stesso Autore leggi anche la recensione
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