Trieste, 22.01.2004

SISSA/ISAS
Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati
International School for Advanced Studies

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DEFINIZIONE di SCIENZA

GALILEI

 Una delle più antiche definizioni di scienza si ritrova in Platone. Egli distingue tra scienza (epistème) e opinione (doxa). La prima è conoscenza delle idee universali, è necessariamente vera e come tale immutabile (epistème deriva da epìstamai, che significa star fermo). La seconda invece ha per oggetto realtà particolari, mutevoli e soggettive, e come tale può essere vera o falsa. Anche quando è vera, tuttavia, l'opinione continua ad essere diversa dalla scienza. Platone sviluppa poi queste sue idee arrivando alla conclusione che soltanto la filosofia, o meglio la dialettica, rappresenta l'unica vera scienza, ovvero una forma di conoscenza autentica, non fondata su principi solamente ipotetici. La conclusione cui giunge Platone non appare più molto attuale, tuttavia la sua distinzione tra epistème e doxa può essere utile per comprendere il vero carattere distintivo della scienza. Diciamo subito che ciò che differenzia la scienza dalle altre attività culturali umane è proprio il superamento dell'opinione. In altre parole la scienza è alla ricerca di affermazioni che non siano credenze individuali, ma possano essere condivise da chiunque, dotato di ragione ed intellettualmente onesto. Questo requisito che deve essere soddisfatto dalle affermazioni scientifiche può essere definito intersoggettività. Il primo criterio di intersoggettività che l'umanità ha scoperto è stato il ragionamento logico matematico. Gli antichi Greci diedero straordinari contributi alla matematica inventando il concetto di dimostrazione. Se si assumono per veri certi presupposti e si attua un procedimento deduttivo corretto, nessuno può non essere d'accordo con le conclusioni raggiunte. È questa l'essenza del cosiddetto metodo assiomatico, mirabilmente codificato in campo logico da Aristotele e rigorosamente applicato in campo matematico da Euclide nei suoi celebri Elementi. Il secondo criterio di intersoggettività fu trovato dall'umanità molto più tardi. Si tratta dell'osservazione sperimentale dei fenomeni. Com'è noto esso venne introdotto nel Seicento da Galileo che inventò, in tal modo, una nuova forma di conoscenza non filosofica della realtà. Di fronte ad una evidenza empiricamente rilevabile nessuno può non essere d'accordo con i fatti osservati. Tale constatazione è così palese da apparire quasi banale. Tuttavia è sufficiente ripercorrere la biografia di Galileo per rendersi conto delle difficoltà che questo secondo criterio di intersoggettività ha dovuto affrontare prima di riuscire ad imporsi. L'accordo intersoggettivo non garantisce in modo assoluto la verità di una affermazione (può benissimo accadere che tutti quanti ci stiamo sbagliando). Tuttavia esso è un buon indizio che l'affermazione in questione abbia un elevata probabilità di essere vera. L'accordo intersoggettivo, poggiato su ragionamento logico-matematico e osservazione sperimentale, non deve essere confuso con un semplice criterio di maggioranza, secondo il quale è vero ciò che e condiviso dai più. Esso, infatti, non ha bisogno di nessun principio d'autorità per essere imposto e scaturisce spontaneamente in chiunque, dotato di ragione, voglia onestamente ricercare la verità. Né l'autorità personale o numerica dei suoi sostenitori, né quella derivante dalla tradizione possono, infatti, decidere a favore della verità o falsità di una affermazione. Nella scienza accade spesso che affermazioni ritenute vere da molto tempo e sostenute da illustri scienziati cadano impietosamente di fronte a nuove evidenze sperimentali o nuove considerazioni logico-matematiche. Contrariamente a quanto sosteneva Platone (e a dispetto del significato etimologico di epistème) le affermazioni della scienza non sono affatto eterne e immutabili. Esse sono ritenute vere fino a quando non vengono dimostrate false. Anzi, secondo una concezione epistemologica che gode di ampi consensi, una affermazione è scientifica solamente se, in linea di principio, è possibile falsificarla. Se una affermazione non può essere falsificata significa che essa sfugge ad ogni controllo empirico, pertanto nulla dice circa la realtà e come tale non rientra nel dominio della scienza (com'è noto tale concezione è alla base dell'epistemologia falsificazionista di Karl R.Popper). La provvisorietà delle affermazioni scientifiche, se da un lato può deludere chi aspirerebbe ad una conoscenza immutabile ed eterna, rappresenta uno dei loro punti di forza. La scienza è, infatti, in continua evoluzione e la sua costante disponibilità a rivedere se stessa rappresenta una garanzia di onestà, apertura mentale e senso critico. Esiste un altro motivo inconfutabile a favore dell'attendibilità delle affermazioni scientifiche. Può apparire banale, ma occorre osservare che: la scienza funziona. Le conoscenze che la scienza produce consentono all'uomo di dominare la realtà non solo dal punto di vista teorico ma anche da quello pragmatico. In altre parole la scienza non ha soltanto un potere esplicativo ma possiede anche capacità predittive che consentono all'uomo di manipolare la realtà prevedendone le conseguenze. Le modificazioni che la scienza ha consentito di apportare al mondo possono suscitare entusiasmi o timori: ma nessuno può negare che la scienza possieda capacità che altre forme culturali neppure si sognano. Qualcuno ha assimilato l'evoluzione culturale dell'uomo alla sua evoluzione biologica: acquisire conoscenza è una forma di adattamento all'ambiente ai fini di migliorare le proprie capacità di sopravvivenza. Ebbene, è fuori da ogni dubbio che la scienza ha fornito all'uomo strumenti che hanno sicuramente favorito le sue capacità di sopravvivenza. Che poi questi stessi strumenti possano essere utilizzati per scopi contrari alla sopravvivenza è tutt'altro discorso, indipendente da una discussione sulla natura della conoscenza scientifica. L'intersoggettività e l'efficacia pragmatica caratterizzano dunque la vera scienza, distinguendola nettamente dalle pseudoscienze. Purtroppo, come tutte le attività umane, anche la scienza non è immune da errori. La storia della scienza lo dimostra. Tuttavia la sua stessa apertura, il suo senso autocritico e la continua disponibilità a modificarsi consente alla scienza di autocorreggersi continuamente. Questo non accade nelle pseudoscienze che rimangono invece uguali a se stesse prive di alcuna evoluzione.

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MATERIA e ANTIMATERIA -rapporto Scienza e Fede-

Con il formalismo matematico applicato alla fisica è possibile prevedere l'invisibile. Così Paul Dirac verso gli Anni Trenta previde che ogni particella di materia dovesse avere un corrispettivo di antimateria, con la stessa massa e carica opposta. Oggi l'esistenza dell'antimateria non è più soltanto una previsione perché la sua esistenza è stata verificata sperimentalmente dal gruppo Athena al Cern di Ginevra. La scoperta non è del tutto nuova perché qualche decina di antiatomi di idrogeno era già stata prodotta da reazioni nucleari in volo a velocità prossime a quelle della luce. Oggi però si sono ottenuti migliaia di antiatomi dalla ricombinazione di positroni (elettroni con carica positiva) e antiprotoni (protoni con carica negativa) preventivamente confinati, poiché antimateria e materia a contatto si annichilano. Per questo il sistema solare non contiene antipianeti e neppure le stelle a noi vicine, o le galassie, o la materia fra di esse sono fatte di antimateria. La cosa si spiega ipotizzando che nella prima infinitesima frazione di secondo, dopo l'esplosione di fuoco del big bang, che ha segnato l'inizio della creazione, abbia avuto luogo, con l'espandersi dell'universo e il conseguente raffreddamento, un decadimento asimmetrico di particelle e antiparticelle che ha determinato un'assoluta preponderanza della materia sull'antimateria. La verifica dell'esistenza dell'antimateria per via sperimentale, oltre a porre nuovi interrogativi sull'origine dell'universo che abitiamo, può mettere in discussione anche alcune teorie scientifiche ormai consolidate, che sono state formulate senza distinguere tra materia e antimateria, come è il caso, per esempio, dell'interazione gravitazionale. Se gli spettri dell'atomo e dell'antiatomo messi a confronto presentassero delle discrepanze, le conseguenze sarebbero fondamentali. Questo ampliamento dei confini della conoscenza dell'universo pone nuovi interrogativi: infatti, se l'antimateria non è più una ipotesi, ma una realtà, allora abbiamo un elemento in più per approfondire quale fosse la struttura dell'universo primordiale. E, su questo nuovo confine, sorge in noi spontaneamente la domanda: che cosa c'era prima dell'esplosione del big bang che ha dato origine a questo universo che ha ormai una storia lunga quindici miliardi di anni? Non solo l'invisibile diventa visibile, ma il tempo si contrae infinitamente. In questa ricerca al confine con l'infinito c'è qualcosa che accomuna lo scienziato e il teologo: il fatto che i progressi nella conoscenza scaturiscono dalle ipotesi, dai dubbi e da tutto ciò che attende ancora una dimostrazione. Il premio Nobel per la fisica Richard Feynman sostiene che ciò che sappiamo può sempre essere rimesso in discussione, in quanto lo scienziato convive quotidianamente con l'ignoranza, il dubbio e l'incertezza (Il Sole24 Ore, 6 ottobre). Ma anche il teologo convive quotidianamente con l'ignoranza, il dubbio e l'incertezza quando il metodo biblico che usa in teologia per incontrare la Parola di Dio nel tessuto complesso e diverso della storia delle tradizioni e nella diversità dei testi gli dà la misura del limite cui può giungere la sua conoscenza. Ciò che risulta anomalo o incoerente nel quadro di una ricerca teorica, di qualsiasi ricerca teorica, è il risultato delle limitazioni che ci sono imposte dalla nostra esistenza finita. Si chiedeva infatti il salmista: “Che cos'è mai l'uomo perché te ne ricordi, l'essere umano perché te ne curi ? Eppure l'hai fatto poco meno di un dio” (Salmo 8, 5; 6a). Tutta la nostra esistenza si gioca in quel “poco meno” perché, come ci ricorda Giovanni Calvino, al di là dei fenomeni naturali (e quindi al di là anche di noi stessi) c'è un Creatore che non cessa di essere all'opera nell'universo ch'egli ha chiamato all'esistenza (Variations herméneutiques, n. 17, sept. 2002, p. 59). Dio non ha voluto essere teocentrico perché la sua Parola creatrice si è fatta carne in Gesù Cristo e ci chiede di conseguenza di non essere antropocentrici, di non cancellarlo dalle nostre ricerche scientifiche, ma, sia pure con timore e tremore, di affacciarci sull'orlo di quel “poco meno” invisibile e ipotetico, “perché la fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono” (Ebrei 11,1).

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