II/a. Tecniche di disegno: gli archetipi e la loro metamorfosi

il pensiero la tecnica

 

 

 

introduzione

 

Già ai tempi di Plinio il Vecchio (scienziato romano, morto 79 d.c), nella Naturalis Historia, dedica alcuni importanti capitoli all'arte. Qui egli attribuisce l'invenzione del disegno all'egiziano Philokles o all'ellenico Kleanthes di Corinto, sostenendo che da questa prima forma di rappresentazione sarebbe nata la pittura. Il corinzio Ekphantos riempì di colori i semplici contorni con cui fino a quel momento le immagini erano state delineate in maniera schematica e riassuntiva. Plinio vedeva il disegno come una forma d'arte primitiva e povera di resa descrittiva. Di tutt'altra idea era Leonardo il quale sosteneva "la prima pittura fu sol di una linea, la quale circondava l'ombra dell'uomo fatta dal sole ne' muri".

In effetti nelle figure preistoriche delle grotte di Altamira, o degli Aborigeni, tracciate con semplici strumenti su cortecce d'albero, pelli animali o foglie di papiro, l'elemento predominante è la linea grafica che poi verrà utilizzata ampliamente a decorazione di manufatti di ceramica come i vasi. Chiaramente in epoca preistorica non esisteva la figura dell'artista che invece si fa strada a fine Trecento e nel Rinascimento quando il disegno diventa il fondamento di una qualsiasi espressione figurativa e guida nella formazione degli artisti. Le prime teorie sul disegno in questo senso si hanno nel "Libro dell'Arte" di Cennino Cennini a inizio XV secolo sino a Benvenuto Cellini, che loda il disegno affermando "la tanto mirabile e bella pittura non era altro che un disegno colorito con il proprio colore che dimostra la natura". In ambito moderno con le nuove tecnologie poi è cambiata la figura dell'artista e di conseguenza il campo della figurazione.

 

Leonardo da Vinci (1452-1519), pittore, scultore, architetto, ingegnere, scrittore, fiorentino.

 

L'artista e scrittore aretino Giorgio Vasari nelle "Vite" dei più celebri artisti del 1568 dà una definizione di disegno dettagliata, descrivendone: forme, tipologie, tecniche, funzioni. Influenzato dal coevo manierismo fiorentino, Vasari intende il disegno l'anima, il fondamento di tutte le arti. Lo strumento tecnico che permette all'artista di organizzare e cogliere la realtà e rendere in forme visibili i suoi concetti e idee interiori.

Per Leon Battista Alberti (De pictura, 1436) e Piero della Francesca (De prospectiva pingendi 1490), il disegno è un semplice mezzo per delimitare le forme, al contrario per Filarete (Trattato di architettura, 1464) o Leonardo (Trattato della pittura, 1489-1518) esso assume un significato o carattere metafisico, linguistico-intellettuale. Infatti per Filarete il disegno è alla base del procedimento mentale, fantastico-creativo, che precede la travagliata elaborazione di un progetto.

Leonardo lo immagina come il contorno che delimita le forme e assieme al chiaroscuro è parte della pittura, la quale è scienza. Questa scienza produce un'opera autonoma che implica un processo creativo-fantastico, il quale si origina nell'intimo dell'artista e ha in sè il divino, perché presenta analogie con il processo creativo della divinità. Leonardo inoltre introduce il concetto di "abbozzare", in cui esalta il valore dell'immediatezza e della compiutezza. Nell' "Adorazione dei Magi", opera incompiuta del 1481, la pittura prende gradualmente corpo dal disegno; secondo un procedimento nuovo, ripreso più tardi dai veneti, che consiste nell'eseguire la composizione direttamente sulla superficie da dipingere, senza l'ausilio di un cartone ma sviluppando un'idea saggiata in alcuni disegni preliminari in formato relativamente piccolo. Quindi figure abbozzate non come le sinopie, ma come disegni portati a scala naturale. Leonardo ha l'idea del disegno come pittura e della pittura come disegno. E poiché il disegno è l'espressione più diretta del moto fisico e mentale, le figure di Leonardo sono dotate di una vivacità e vitalità senza precedenti.

Da Vasari, le Vite: "Leonardo da Vinci, il quale dando principio a quella terza maniera che noi vogliamo chiamare la moderna, oltra la gagliardezza e bravezza del disegno, ed oltra il contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura, così a punto come elle sono, con buona regola, miglior ordine, retta misura, disegno perfetto, e grazia divina, abbondantissimo di copie, e profondissimo di arte, dette veramente alle sue figure il moto e il fiato".

Secondo Vasari: "..il disegno, padre delle tre arti nostre, Architettura, Scultura e Pittura, procedendo dall'intelletto, cava di molte cose un giudizio universale; simile a una forma ovvero idea di tutte le cose della natura ...di qui è che non solo nei corpi umani e degli animali, ma nelle piante ancora, e nelle fabbriche e sculture e pittura, conosce la proporzione che ha il tutto con le parti, e che hanno le parti fra loro con il tutto insieme."

Il pittore trattatista Federico Zuccari (Idea de' pittori scultori et architetti, 1607), di impronta aristotelica-scolastica sostiene la teoria che a monte dell'opera d'arte preesista una immagine spirituale elaborata nell'animo dell'artista. Questa immagine viene definita "dissegno interno": l'idea prodotta dallo spirito, che precede la realizzazione artistica esteriore definita al contrario "dissegno esterno": l'idea dell'uomo analoga ai concetti che si formano nella mente per conoscere tutte le cose. I disegni interni sono di tre specie a seconda delle tre forme di intelligenza nelle quali si formano le idee: divina, angelica, umana. Una ulteriore suddivisione del disegno interno è in morale e artificiale. Il disegno morale produce la virtù e il bene, mentre il disegno artificiale è responsabile di tutte le opere artificiali, naturali e artistiche. Il disegno esterno da forma all'idea e si suddivide in naturale (imitazione della natura), artificiale (inventato dall'uomo dove si utilizzano forme naturali in componimenti storici e poetici), fantastico (bizzarro, fantasioso di gusto manierista).

Vasari fornisce anche il metodo teorico che deve usare l'artista per acquisire pratica: 1. la necessità dell'esercizio per acquistare le tecniche del disegno, attraverso il disegno degli oggetti inanimati: statue, modelli di nudi, panneggi, rilievi. E le cose animate, vive e che si muovono. 2. i procedimenti attraverso i quali si possono apprendere tali tecniche. 3. le diverse tipologie nelle quali si presenta il disegno: schizzi, profili, cartoni.

Gli schizzi sono gli abbozzi che registrano graficamente le prime idee dell'artista. Poi i disegni compiuti vengono trasferiti su carta con la tecnica lapis rosso, con penna, e inchiostro su foglio tinto con lumeggiature a pennello e inchiostro. Questi vengono definiti a chiaro e scuro, una tecnica elaborata in monocromo che esclude il colore.

I profili invece corrispondono al disegno lineare che contorna  in modo preciso e continuo la forma in pittura, architettura e scultura.

I cartoni infine sono disegni a carbone e chiaroscuro eseguiti come modello definitivo per affreschi o per dipinti su tavola, quindi della stessa dimensione dei supporti. Sui quali viene trasferita la traccia grafica, mediante il sistema detto dello spolvero.

 

 

 

 

Rudolf Steiner credeva che non esistessero contorni che delimitassero le forme del mondo sensibile, e aveva studiato un proprio modo di rappresentazione del disegno che riproduce un tratteggio obliquo, un segno che costruiva le forme. Infatti, diceva:

"Il blu e il viola sono colori che portano il quadro da un'intensa espressività a un'interiore prospettiva, ed impiegandoli anche escludendo il disegno risulta un'intensa prospettiva. Riuscendo a portare il colore in movimento, in modo che il disegno si abbia stendendo il colore, questo si avrà più per il blu e meno per il giallo o il rosso, perché questi ultimi non sono adatti ad essere stesi in modo da contenere un movimento interiore che porti da un punto ad un altro. Volendo ottenere una figura che sia in movimento interiore, si useranno sfumature di blu per portarla in movimento. Nel passaggio dai colori chiari al blu e poi da questo interiormente al disegno, abbiamo nei colori chiari il passaggio a un elemento sensibile-soprasensibile, contiene il soprasensibile in tono minore, perché il colore ha sempre in sé un'anima che è soprasensibile. Più si entra nel disegno, più si arriva a un elemento soprasensibile-astratto, che però presentandosi nella sfera sensibile, deve strutturarsi in forma sensibile. Qui si vede come il colore e il disegno, possono venire trattati dalla creazione artistica in modo che nell'impiego sia insito che la natura porta incantato in sé l'elemento soprasensibile ucciso da una vita superiore, e noi lo disincantiamo nella sfera del sensibile."

 

R. Steiner, "Arte e conoscenza dell'arte".

 

 

Asmus Jakob Carstens (1754-1798), pittore tedesco, considerato il rinnovatore dell'arte tedesca rispetto agli antichi, è entrato nella vita dell'arte come disegnatore e pittore. In lui non vi era grande forza pittorica, ma una grande forza di disegno. In lui però manca qualcosa, perché vorrebbe disegnare idee, incorporarle pittoricamente, ma non è più nelle condizioni in cui si trovavano Raffaello o Leonardo. Loro vivevano  in una piena civiltà, colma di contenuto vivente nelle anime umane, i dipinti di madonne avevano una ragione profonda d'essere. Questi artisti avevano nella loro anima qualcosa che esisteva nella cultura generale. Carstens prende l'Iliade di Omero disegnandone gli avvenimenti contenuti. Al secolo diciottesimo quindi l'artista doveva iniziare a cercare gli argomenti di ciò che voleva creare. Mentre nel rinascimento e nelle altre grandi epoche artistiche precedenti, l'argomento era ovvio perché apparteneva all'anima di ogni uomo. L'artista così nel diciannovesimo secolo, diventa una specie di eremita nella civiltà, egli ha a che fare solo con se stesso, cambia il rapporto tra se stesso e il mondo delle figure. Oggi l'uomo vedendo una galleria d'arte non vede più nelle immagini qualcosa di familiare ma una somma di enigmi che non si sa spiegare, perché ogni artista ha un rapporto con la natura diverso dall'altro. In realtà più che risolvere enigmi artistici, si cerca di dare delle spiegazioni su problemi psicologici, sulle concezioni in cui l'artista vede il mondo. Cose che non si prendono in considerazione quando si viene a parlare delle grandi epoche artistiche, dove si prendono in  considerazione i compiti artistici non psicologici. Dove si spiega "come l'artista crei" non "che cosa l'artista crea" perché è solo la sostanza che lo circonda. 

 

R. Steiner, "L'essenza del colore".

 

 

 

 

Il disegno quindi è sì il procedimento con cui si delinea una forma, che può servire come abbozzo in preparazione di un dipinto, ma può diventare un'opera d'arte a se stante. Il disegno è il principio dell' "opera", quindi la somma di tutti quei procedimenti intellettuali e spirituali che portano all'inizio dell'opus, e che può diventare esso stesso "opera".

Il disegno inoltre, come preparazione all'opera compiuta, ci indica la "misura", attraverso di esso infatti troviamo le giuste regole armoniche che costruiscono ogni cosa al mondo.

Si può definire il disegno come il pensiero, la luce, infatti già Giovan Battista Armenini (1586), definisce " ...che il dissegno sia come un vivo lume di bello ingegno e che egli sia di tanta forza e così necessario all'universale, che colui che n'è intieramente privo, sia quasi cieco".

Qui ci possiamo riallacciare al pensiero di Steiner sulla linea a otto o lemniscata. E' un'unica linea per la quale occorre uscire nello spazio. Un uscire e un rientrare nello spazio. La linea è legata al pensiero, prima di agire usciamo dallo spazio, e quando muoviamo la mano per agire ritorniamo nello spazio. La linea rappresenta la parte fisica del risultato del pensiero. Un pensiero che come vedremo è legato alla luce. Ma accanto alla luce vi è la tenebra, e il disegno è questo, la somma di luce e tenebra, pensiero e volontà, che vanno a formare un'unità.

 

 

il disegno: il ritratto dell'amante

 

Un insieme di racconti classici greci e romani narra la storia di un’immagine dipinta o scolpita che svolge un ruolo fondamentale. I personaggi sono sempre costituiti da due amanti e un ritratto, il quale racconta come la manipolazione delle immagini muova l’esigenza poetica: l’amante deve essere lontano e finisce con la sorpresa inquietante e fantastica delle figure della fantasia che, ormai indipendenti dal loro creatore, su di loro si curvano per prendersene cura. L’immagine diventa superiore al modello come oggetto consolatore. Gli amanti sono soli e la solitudine accresce e da significato al ritratto, lo esige la loro vocazione all’amore.

 

“Sembra che il primo a fare della “plastica”, o scultura in creta, fosse stato Butade, un vasaio di Sicione che lavorava a Corinto. Accadde infatti che sua figlia fosse innamorata di un giovane: ma questi stava per recarsi lontano, e allora la ragazza tracciò sulla parete il profilo dell’amante, ricalcandolo sull’ombra proiettata dalla lucerna. Secondo Atenagora la fanciulla compì questa operazione mentre il giovane dormiva. Il padre Butade, visto il disegno sul muro, ne ricavò un modello in argilla, che fece seccare poi con altri oggetti fittili e infine lasciò cuocere al forno. Dicono che quel ritratto si conservasse ancora nel Ninfeo di Corinto, fino al momento in cui Lucio Mummio distrusse la città. E questa fu l’origine della “plastica” ”.

 

Il rimpianto, la malinconia, il desiderio inappagabile per la persona assente crea un impulso alla creazione artistica e quel “ritratto” diventa l’amante stesso onorato, amato reso simulacro per colmare e consolare la mancanza. Il rimpianto quindi genera immagini…

Il ritratto che la figlia di Butade esegue viene costruito sull’ombra dell’amato come se gli avesse sottratto una parte della sua esistenza per tenerla con sé. In certe credenze antiche l’ombra è strettamente correlata alla persona e arriva ad esprimere la sua parte vitale. Quindi essa diventa equivalente all’amato come suo sostituto…

 

M. Bettini, “Il ritratto dell’amante”

 

 

 

Il racconto della figlia di Butade segue il filo conduttore di un amore solitario, malinconico per la mancanza della persona amata che c’era ed ora è assente. Questo rimpianto ha spinto la donna a "creare" un'immagine, che è molto più di una raffigurazione, perché intende appropriarsi, con l'uso del segno, dell'ombra-anima della persona amata. Questo processo creativo viene poi a maggior misura accresciuto apportando un'ulteriore operazione, quella della "plastica", che gli dona un nuovo significato. Con l'arte plastica viene creato un simulacro vero e proprio, non imitazione dell'amato, ma in realtà esso funge da nuovo contenitore per l'anima, che in qualche modo ritorna a riprendersi cura dell'amata.

Ma una cosa importante è arrivare a capire il perché si è mossi a compiere questo gesto, la creazione del simulacro, e perché si è usato il segno o disegno per arrivare a dare forma a questa immagine.

Alla prima domanda si può rispondere usando la spinta verso un sentimento, quello del rimpianto per qualcuno che mancherà, questo impulso è generato dall'ego che vuole assolutamente un sostituto. Viene a mancare un equilibrio fra anima e corpo e attraverso l'arte si è in grado di sollevare a coscienza quel che altrimenti si svolge nell'anima, per ricreare nuovamente stabilità.

Al secondo quesito invece si può rispondere in quanto intercorre un contrasto dato dalla luce della lampada e la tenebra dell'ombra dell'amato. Da questo equilibrio di luce e ombra nasce l'idea di contornare una forma. E si intuisce come questo gesto possa portare ad un equilibrio interiore. Luce e ombra, bianco e nero, sono in mutuo movimento, perché sono legati al mondo spirituale, ma il segno resta immutabile, perché come tale, la linea non appartiene al soprasensibile, ma al mondo fisico della percezione. Resta evidente come questa, in tal contesto, assuma il significato di contenere qualcosa che va oltre il sensibile, l'anima.

 

 

 

la luce e la tenebra

 

1In principio Dio creò il cielo e la terra. 2Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.

3Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. 4Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre 5e chiamò la luce giorno e le tenebre notte. E fu sera e fu mattina: primo giorno.

6Dio disse: "Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque". 7Dio fece il firmamento e separò le acque, che sono sotto il firmamento, dalle acque, che son sopra il firmamento. E così avvenne. 8Dio chiamò il firmamento cielo. E fu sera e fu mattina: secondo giorno.

...

14Dio disse: "Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni 15e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra". E così avvenne: 16Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. 17Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra 18e per regolare giorno e notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che era cosa buona. 19E fu sera e fu mattina: quarto giorno.
 

Antico Testamento, "Genesi".

 

 

 

Parmenide, figlio di Pireto, nacque a Elea, l'odierna Ascea, colonia focese nel Cilento, intorno all'anno 510 a.c., secondo la cronologia di Platone. Diogene Laerzio, invece, indica la data di nascita di Parmenide nell'ultimo anno della 69.a Olimpiade, vale a dire nel 501 a.c.

Il poema sulla natura comincia con versi di grande potenza descrittiva, in chiave Omerica, in cui si narra di un uomo di notevole esperienza, evidentemente l’autore stesso, il quale, in un viaggio favoloso su un carro solare guidato dalle figlie di Hèlios, è condotto fuori dalle città verso il palazzo della dea, che, in segno di particolare favore, gli darà chiarimenti sulla verità dell’essere. "Verità" in greco alétheia significa in realtà il "non occultamento", o meglio "sve-la-men-to". Questa espressione indica il modo in cui vi traspare l’immensa curiosità dei Greci per il mondo, lo sforzo di scoprire che cosa c’è sotto, di portare allo scoperto ciò che si nasconde e di collocarlo in nuova luce.

Questo scritto poetico è un componimento sulla natura, sul cosmo, sulla genesi e l’essenza del mondo. Parmenide ha forgiato i suoi versi per rappresentare al tempo stesso l’intera conoscenza della fisiologia (physiòlogoi) la nuova conoscenza della natura, ma anche al fine di esporla criticamente, ecco perchè con Parmenide, comincia propriamente a essere posta la questione dell’essere.

 

 

Parmenide

(510 a.c), filosofo del Cilento, padre della dottrina eleatica.

 

"Se volete pensare secondo ragione, dovete tenervi lontani dalla via nella quale bisognerebbe pensare il nulla".

 

Secondo Parmenide gli uomini devono sempre esprimersi per opposti. Ciò dipende dal loro modo di orientarsi. Si conosce per esempio il chiaro e lo scuro, oppure il caldo e il freddo, quali opposti. Questa teoria era già stata esposta da Anassimandro, uno dei filosofi di Mileto: gli opposti si equilibrano. Esiste un ordine delle stagioni, un ordine della notte e del giorno. Questa è la nostra visione dell’ordine del mondo.  Non si tratta affatto di un’opposizione, giorno e notte sono una cosa sola. Così come il giorno e la notte si succedono perché sono la stessa cosa, così la luce e il buio sono in verità forme nelle quali le cose scompaiono, sì, alla vista, ma non per questo cadono nel nulla.  Pensare ed essere sono inscindibili, si coappartengono.

 

"Voi dovete pensare soltanto l’essere, uno, immutabile e vero, e nient’altro. Questo soltanto è propriamente vero. Tutto il resto… è luce mutevole e… buio che avanza, e così tutte le altre variazioni, in cui gli opposti si separano a vicenda, come il caldo e il freddo, il secco e l’umido e così via".

 

Il pensiero eleatico, e Parmenide in particolare, hanno un concetto dell’essere come intuizione. "Senza l’essere… non potrai mai trovare… questo intuire, questo avvedersi. Il nulla non è; questo pensiero, in cui ognora ci si smarrisce come mortali disorientati, deve essere del tutto abbandonato".

Il pensiero eleatico ha un'idea di cosmo (kòsmos, ordine) immobile, negando ogni movimento e ogni alterazione, al contrario la dottrina di Eraclito afferma:

"Tutto è divenire. Tutto scorre".

 

Sulla Natura IV

Ma dal momento che tutto è denominato luce e tenebra

e queste, secondo le loro attitudini sono applicate a questo e a quello,

tutto è pieno insieme di luce e di tenebra invisibile,

pari l'una e l'altra, perché né con l'una né con l'altra c'è il nulla.

Conoscerai l'eterea natura e quanti astri sono

nell'etere e della pura e tersa lampada

del sole l'opera distruttrice, e di dove derivarono;

e apprenderai l'errabondo agire della luna dal tondo occhio

e la sua natura; conoscerai inoltre di dove la volta celeste che tutto circuisce

nacque e come la Necessità guidandola la costrinse

a osservare i limiti degli astri.

.......... come la terra e il sole e la luna

e l'etere che tutto abbraccia e la celeste via lattea e l'olimpo

estremo e la calda forza degli astri si mossero al nascere

Giacché le più strette vennero riempite di non mescolato fuoco,

le altre dopo di queste di tenebra e vi s'insinua una porzione di fuoco;

in mezzo a queste è la dea che tutto dirige;

per ogni dove infatti essa guida la dolorosa nascita e l'unione

spingendo la femmina ad unirsi con maschio e di nuovo all'inverso

il maschio ad unirsi con la femmina.

Primo di tutti gli dei essa creò l'Amore.

luce che brilla di notte di uno splendore non suo e si aggira intorno alla terra,

sempre riguardando verso i raggi del sole.

Quale infatti è la mescolanza che ciascuno ha degli organi molto erranti,

tale mentalità si ritrova negli uomini; perché è sempre lo stesso

ciò che appunto pensa negli uomini, la costituzionalità degli organi:

in tutti e in ognuno; il di più infatti è pensiero.

 

Parmenide, "Sulla Natura".

 

 

 

L'uomo quando parla della sua esperienza del pensiero, ha questa esperienza in modo diretto. Questo perché il mondo è pervaso da pensieri. L'organizzazione umana della testa è costruita in modo da accogliere in sé il pensiero del mondo. Essa è costruita dai pensieri. La testa umana è il risultato metamorfico della nostra vita terrena precedente delle membra, mentre le membra di ora accennano alle vite terrene future. I pensieri quindi sono la metamorfosi di ciò che agiva nelle nostre membra come volontà. E a sua volta ciò che ora agisce come volontà nelle membra, sarà trasformato in pensiero nella vita successiva. In noi quindi vive questa dualità di pensiero e volontà.

Il veggente nell'uomo vede oltre la testa, ma vede ciò che per mezzo della testa è uomo-pensiero, egli vede dentro i pensieri, perché diventa visibile grazie alla coscienza evoluta in immaginazione, ispirazione, intuizione. Con l'immaginazione, l'ispirazione, l'intuizione, si osserva l'uomo-pensiero. E si ha la stessa esperienza quando nel mondo fisico si ha per la luce.  Il pensiero così diventa luminoso. La luce del pensiero non si vede ma la si vive in noi. Quando si esce dal pensiero e si penetra nell'immaginazione e nell'ispirazione, ci si colloca di fronte al pensiero stesso e quindi si vede l'elemento pensiero come luce. Pensiamo ed agiamo nella luce, siamo esseri di luce. Non sappiamo di esserlo perché vi viviamo dentro, ma il pensare che sviluppiamo è la vita nella luce.

L'universo lo vediamo pervaso dalla luce di giorno, ma ora immaginiamolo dal di fuori, e facciamo il contrario. La testa umana che contiene all'interno il pensiero nel suo sviluppo e verso l'esterno vede la luce. Nell'universo abbiamo la luce che viene percepita sensibilmente. Se usciamo fuori dall'universo ci appare come una struttura piena di pensieri. Quindi il cosmo è luce e guardato da fuori è pensiero. La testa umana è internamente pensiero e guardata da fuori è luce. Questo modo di pensare porta la nostra vita animica e il nostro pensiero ad essere più agili, perché in questo modo riusciamo a vederci come se uscissimo da noi stessi, come facciamo quando ci addormentiamo, e volgessimo lo sguardo alla nostra testa, vedendoci luminosi. Allo stesso modo dobbiamo uscire dal mondo per concepirlo come un'entità di pensiero. Luce e pensiero sono la stessa cosa vista da parti opposte.

Il pensiero che vive in noi proviene dal passato, è la parte più matura di noi, ed è il risultato di vite terrene precedenti. Quello che prima era volontà è diventato pensiero, e il pensiero appare come luce. Dove c'è luce quindi c'è pensiero. Ma nella luce il mondo muore continuamente, perché è un mondo passato che muore nel pensiero o nella luce. Il mondo nel morire diventa bello.

I greci, provavano piacere nel morire del mondo, perché nella luce in cui muore il mondo risplende la bellezza del mondo stesso. E' la bellezza che risplende di luce quando il mondo di continuo muore. Quando nella pianta si sviluppano i frutti e diventano maturi, è allora che si manifesta nella pianta la potenza della luce, e così Hegel stava di fronte al mondo, contemplando ogni cosa nel momento in cui si sviluppa più concretamente. Al contrario Schopenhauer stava davanti al mondo al momento dell'inizio, vedeva nell'uomo l'elemento volontà che noi portiamo nelle nostre membra.

Noi sperimentiamo inconsciamente l'elemento volontà, come quando stiamo nel sonno. La volontà si può contemplare dall'esterno come per il pensiero? Prendiamo la volontà che si sta sviluppando in un modo qualsiasi nelle membra umane e proviamo a vederla come sviluppata dalla chiaroveggenza. Essa allora si vedrà dall'esterno. Il pensiero considerato con la forza della chiaroveggenza diventa luce, splendore. Quando invece consideriamo la volontà con la forza della chiaroveggenza essa diventa sempre più densa e diventa materia. La materia è il lato esteriore della volontà. La materia vista da dentro è volontà. La vera natura della materia si trova quando ci si immerge misticamente in noi stessi, trovando l'altro aspetto della volontà, la materia. Nella materia, nella volontà ci si manifesta il germogliare del mondo, perennemente agli inizi. Nella luce muore un mondo passato. Camminando sulla materia, essa ci sostiene. Nella luce irradia come pensiero la bellezza. Nello splendore della bellezza muore il mondo passato. Il mondo futuro germina nella sua solidità, nella sua forza, nella sua potenza, ma anche nella sua tenebra, nell'elemento volitivo materiale. Il mondo esteriormente consiste di passato, e nell'interno non contiene molecole o atomi, ma l'avvenire. Solo ciò che è passato e avvenire produce, il passato ci appare irradiante nel presente. 

L'uomo visto spiritualmente è il passato là dove egli irradia la sua natura di bellezza, e in questa luce si articola ciò che come tenebra porta verso il futuro. La luce irradia dal passato e la tenebra accenna all'avvenire. Nella luce il pensiero vivente, il passato che muore. Nella tenebra la volontà nascente, il futuro che viene. Il pensiero è luce e la volontà è tenebra.

Solo osservando il mondo nella sua duplice natura si riesce a capirlo. Quindi quando vediamo un albero in primavera nella fioritura, vediamo l'azione del passato degli dèi che hanno operato. Invece contemplando la natura feconda dell'autunno con i suoi frutti, vediamo l'azione degli dèi che si rivolge ai frutti che si distaccano e che si svilupperanno verso l'avvenire. Quindi quello che si vede nel fiore appartiene al passato e quello che si assapora nel frutto, al futuro. In questo modo si afferrerà il mondo nel sentimento. Goethe infatti vedeva nel verdeggiare della pianta che giunge a fioritura il presente del verde delle foglie e il passato nel fiore. Dove il verde sfuma verso il blu vi è quello che nella natura si avvia verso il futuro, mentre dove il verde sfuma verso il rosso, il fiorire, il calore, indirizza al passato. L'uomo quindi si trova esteriormente tra verde e rosso, ed interiormente là si è come corpo eterico umano di colore fior-di-pesco. E questo è il colore che compare anche dove il blu vorrebbe entrare nel rosso, dove siamo noi stessi. Quindi guardando il mondo colorato, noi ci sentiamo entro il fior-di-pesco e di fronte al verde. Quindi il blu si presenta come tenebra, e il giallo-rosso è la luce, nel mondo delle piante, il verde.

L'uomo vive nel fior di pesco ed è per questo che non riesce a percepirlo come gli accade per il pensiero come luce. Quindi ciò che si sperimenta non lo si percepisce. Si considera soltanto il rosso da una parte e il blu dall'altra, facendo risultare il solito spettro dell'arcobaleno. Ma il vero spettro si raggiunge solo se si curva la fascia colorata in forma circolare. Noi uomini vivendo nel fior-di-pesco, vediamo il mondo colorato solo dal blu fino al rosso e dal rosso al blu, attraverso il verde.  In pratica noi passiamo dal pensare, quindi dall'astratto, al volere, quindi al concreto. Allo stesso modo si possono trovare le origini del bene e del male.

Nella natura vediamo tutto ciò che ci si presenta attraverso il fenomeno che chiamiamo luce. In tutto ciò che esiste intorno a noi come luce si devono vedere i pensieri morenti del mondo: pensieri cosmici, che in un remoto passato furono mondi di pensiero di determinate entità di un determinato tempo. I pensieri passati ora morti, ci vengono incontro splendendo come luce.

In passato infatti l'uomo come è adesso non esisteva, durante il periodo di Saturno dell'uomo, esisteva solo un automa dotato di sensi. L'universo era si abitato come ora, ma vi erano altri esseri che ricoprivano il grado dell'uomo. Durante Saturno gli Spiriti Archai ricoprivano il grado umano, non erano uomini, mentre nell'era del Sole al loro posto vi si trovavano gli Arcangeli. Quegli esseri attraversavano il mondo con carattere  umano, ma quello che viveva in loro è diventato pensiero cosmico esteriore. Il loro pensiero dall'esterno si vedeva sottoforma di aurea di luce e si palesa poi nei fenomeni di luce. In questi fenomeni di luce si intromette la tenebra, e in essa si esplica la volontà o amore.

Il mondo è un'armonia fra tenebra e luce, che interiormente diventano la luce, il pensiero e la tenebra la volontà che è bontà, amore.  Il mondo va concepito non credendo che ciò che è nell'anima  è animico e ciò che è nella natura è naturale, ma ciò che è fuori nella natura è il risultato di processi morali precedenti, in cui la luce è costituita da morenti mondi di pensieri. Quindi i nostri pensieri fanno parte di una forza liberata dal nostro passato. Noi col nostro organismo compenetriamo i pensieri con la volontà continuamente. Ciò che portiamo in noi interiormente, trapasserà nel nostro avvenire attraverso le manifestazioni esteriori.

Esisteranno esseri che guarderanno fuori nel mondo, così come noi dalla Terra guardiamo nel mondo. Questi diranno che intorno a loro risplende una natura, perché le azioni degli uomini sulla Terra furono di un determinato genere, e quello che vedono ora intorno è il risultato portato dagli uomini terrestri in loro come germe. Noi ora siamo qui e guardiamo fuori nella natura esteriore. Possiamo guardare il mondo come fanno i fisici o porci di fronte al mondo come uomini completi soltanto quando possiamo "sentire" quel che ci si presenta nell'aurora, nel blu del cielo, nel verdeggiare della pianta, o il suono delle onde che si infrangono. Qui non si parla della luce percepibile con l'occhio, ma "luce" sono tutte le percezioni sensorie. Dobbiamo essere coscienti che tutto ciò che guardiamo è il risultato di ciò che esseri hanno elaborato dentro le loro anime, in tempi lontani. Dobbiamo sentire, i sentimenti che provarono gli uomini dell'antico Saturno, quando guardiamo il mondo e sentire un'immensa gratitudine nei loro confronti. Oggi vediamo un mondo luminoso, che milioni di anni fa era un mondo morale, ora noi portiamo in noi un mondo morale che fra milioni di anni sarà un mondo di luce.

Nell'addormentarsi e nello svegliarsi si combinano l'io e il corpo astrale che si staccano dal corpo fisico e da quello eterico. Questi quattro sono uniti nello stato di veglia, ma sono divisi in quello di sonno. Nello stato di sonno sperimentiamo la luce, quindi il mondo morente dei pensieri del passato e allo stesso tempo siamo recettivi a percepire lo spirituale che si estende nell'avvenire. Una volta svegli, diventiamo ricettivi animicamente per la tenebra, quindi al peso, alla gravità, perché ci riuniamo ai nostri corpi. Nello sperimentare animico la coscienza è addormentata nel sonno come lo è nella veglia. Infatti nella coscienza ordinaria l'uomo  non percepisce nel sonno come egli viva la luce, e nella veglia non percepisce come egli viva nella gravità. Nel sonno la gravità gli viene tolta e vive nella luce leggera, la gravità la impara solo interiormente nel subcosciente. Quando ci si è innalzati al gradino della conoscenza immaginativa si può osservare il corpo eterico di una pianta e interiormente si ha questa esperienza: il corpo eterico attira la pianta continuamente verso l'alto, esso è senza peso.

Osservando invece il corpo eterico dell'uomo esso avrà gravità. Lo immaginiamo pesante, quindi il corpo eterico trasferisce pesantezza all'anima. Quindi nel sonno in assenza di corpo eterico l'anima diventa leggera. Nel dormire la volontà è paralizzata, e questa diventa attiva solo grazie all'anima che sente la gravità per mezzo del corpo. Quindi abbiamo due forze cosmiche che agiscono: luce e gravità. Esse rappresentano due polarità cosmiche. Nei pianeti la gravità tende verso un punto centrale, mentre la luce dal punto centrale si dirige fuori nell'universo.

Quando si vive un tempo abbastanza lungo nella luce, senza gravità, si sente di nuovo il desiderio di farsi abbracciare dalla gravità e di conseguenza ci si sveglia. E' un oscillare continuo fra luce e gravità, addormentarsi e svegliarsi. Con un sentimento sviluppato si potrà sentire direttamente il sollevarsi in un certo modo alla gravità nella luce, e il ritornare ad essere invaso di nuovo dalla gravità al risveglio.

L'uomo come essere tra nascita e morte è legato alla Terra. Egli è legato alla Terra perché la sua anima se ha vissuto nella luce, sente sempre il desiderio del peso. Quando vi sarà uno stato in cui non ci sarà più brama verso il peso, l'uomo seguirà sempre più la luce. Egli fin'ora la insegue fino ad un certo limite. Quando arriva all'estrema periferia dell'universo ha consumato ciò che gli ha dato la gravità fra nascita e morte, allora ricomincia una nuova nostalgia per la gravità, ed egli ricomincia il suo cammino e ritorna a una nuova incarnazione. Nel tempo intermedio fra morte e rinascita, sorge una specie di brama verso il peso, la nostalgia verso il mondo terreno. Ritornando al peso però dovrà attraversare la sfera di altri corpi celesti vicini. Questi agiscono in lui in modo diverso, ed egli porta con sé, nella nuova vita fisica, il risultato di quelle influenze. Ecco perché ha importanza la posizione degli astri nelle sfere che l'uomo attraversa durante il suo ritorno. Secondo il modo in cui l'uomo attraversa la sua sfera stellare, la sua nostalgia verso la gravità terrestre si forma in modo diverso. Anche gli altri corpi celesti influenzano il ritorno dell'uomo alla Terra, con la loro gravità. Attraversando la sfera di Giove, egli vi irradia la sua gravità, che unita alla nostalgia verso quella della Terra predispone verso la gioia.  Come risultato l'uomo che ritorna alla Terra avrà nostalgia di riavere la gravità ma in modo giocondo. Quando l'uomo attraverserà la sfera di Marte con nostalgia-gioconda, esso agirà in lui con la sua gravità impiantando l'attività per potersi introdurre nella gravità terrestre e utilizzare energicamente la prossima vita fisica. Quindi l'anima raggiunge l'impulso nel subconscio di volere penetrare energicamente con nostalgia gioconda nella gravità terrestre. Attraversando Venere si viene ad aggiungere una comprensione piena d'amore verso i compiti della vita. Da Marte, Giove, Venere riverbera la luce, nelle forze di gravità vive nello stesso tempo la modificazione per mezzo della luce. Tutto ciò permea le anime nel loro viaggio nello spazio.

 

R.Steiner, "L'essenza dei colori".

 

 

il Segno, i Simboli e gli Archetipi

 

Il disegno può essere considerato quindi il linguaggio che tramite il segno indica un simbolo, o un archetipo. Jung è colui che ha per prima individuato l’inconscio, come grande guida e consigliere del conscio. Noi comunichiamo con l’inconscio soprattutto grazie ai sogni che rappresentano i suoi mezzi di comunicazione, mentre gli archetipi ed i simboli ne costituiscono il linguaggio. Il linguaggio dell’uomo usa anche i simboli che sono una rappresentazione che può essere familiare a noi e che possiede un aspetto specifico oltre al suo significato ovvio e convenzionale. Un’immagine è simbolica quando evoca qualcosa che sta al di là del suo significato ovvio, quando possiede cioè un aspetto inconscio.

L'Arte moderna è un simbolo. L'artista è stato, in ogni periodo storico, lo strumento rivelatore della propria epoca. Consciamente o inconsciamente, l’artista realizza le proprie opere, riferendosi ai valori ed ai caratteri della sua epoca. Lo scopo dell’artista moderno è esprimere la propria interiorità e quindi esternare la propria  spiritualità. In quanto l'arte è il linguaggio nascosto (inconscio) dello spirito.

Steiner ci fa ricordare come lo spirito del mondo crei mediante le forze formatrici e gli elementi. Chi comprende i segreti della forma, della vita, della sostanza, comprende pure come il Logos delle stelle parla, risuona e pensa.

 

“E Dio disse: E vi fu luce... (Genesi, I, 3).

 

In principio era il Verbo, e il Verbo era con Dio, e il Verbo era Dio" (Vangelo secondo Giovanni, I, 1).

 

 

Dio, dunque, creò per mezzo della parola. Nel prologo di Giovanni, la Parola o Logos, è descritto come creatore del mondo nella sua relazione con l’uomo. Vi sono tre figure simboliche in cui esso si manifesta: stella, sole, croce. Questi simboli sono manifestazione di Cristo. Visto come essere stellare, solare e spaziale legato alla croce. Parola, Vita, Luce degli uomini. La realtà del mondo è la sua manifestazione: nel cielo stellato ci appare l’immagine del logos. Nelle forze solari si manifesta la vita in Lui. Nel sole che col suo corso genera la croce dello spazio, abbiamo la luce degli uomini.

Il simbolo quindi ci appartiene come manifestazione del linguaggio inconscio tangibile, e ci guida e ci ha sempre guidato attraverso i tempi, perché è la manifestazione del Logos. Come per i Greci il movimento delle sfere celesti era regolato dall'armonia, essa si trasforma nel Logos. Il logos è la misura, è l'armonia, che regola il tutto.

 

 

 

Il simbolo Junghiano. Nella terapia analitica junghiana il simbolo è innanzitutto un’esperienza: spesso lo incontriamo nel momento in cui ci rendiamo conto che un sogno apparentemente non è interpretabile, o almeno. non nel modo consueto; non abbiamo associazioni da fare, non vediamo collegamenti con la “storia”. Non troviamo riferimenti occasionali. però, stranamente, “quel” sogno ci emoziona in modo particolare sentiamo che significa qualcosa che non riusciamo ad afferrare completamente, ma abbiamo l’impressione che quell’immagine ha cambiato qualcosa in noi; talvolta ci viene da pensare che qualcosa sta per cambiare nella nostra vita.
E spesso qualcosa cambia davvero: nel modo di considerare una situazione, nell’atteggiamento verso una persona, nella scoperta di possibilità di cui non ci rendevamo conto, nell’attenzione a rischi che non avevamo valutato. Ma cosa è cambiato in noi? Come può un’immagine onirica trasformare uno stato d’animo, che magari ci accompagnava da lungo tempo. in un altro nuovo, diverso, senza che sia accaduto nulla, senza aver pensato nulla?
Jung afferma: “‘La macchina psicologica che trasforma l’energia è il simbolo. Intendo qui un simbolo reale e non un segno”. Questa particolare proprietà è spiegabile in quanto il simbolo emana dagli archetipi e partecipa della loro energia.
Gli archetipi sono definiti come ordinatori di rappresentazioni, cioè “forme presenti universalmente ed ereditate che nella loro totalità costituiscono la struttura dell’inconscio”, si rivelano solo indirettamente attraverso le rappresentazioni e appaiono forniti di un’energia, che non è misurabile ma può essere valutata in termini psicologici, facendo riferimento all’intensità del sentimento che suscitano nell’individuo.
Nel corso di una vasta ricerca mitologica ed etimologica Jung ha rintracciato la presenza degli archetipi nei miti universali e, dalla ricorrenza di alcuni temi da sempre legati all'esperienza umana: l'ambiente, i pericoli, l’uomo, la donna, il corpo, il padre e la madre, ecc. ha tratto la convinzione che i miti dei popoli sono gli esponenti dell’inconscio collettivo, esprimono forme tipiche della comprensione che si ripresentano regolarmente nella psiche.
L’archetipo produce di sé molte immagini che si differenziano per gli attributi: il sole è benefico o distruttore, la madre è generatrice di vita ma anche portatrice di morte, l’eroe solare sale allo zenit per ridiscendere nel buio e poi risorgere in un continuo alternarsi di speranza e delusione.
Queste configurazioni rimandano ad una forma fondamentale di per sé irrappresentabile: gli archetipi sono situati oltre la sfera psichica, considerata da Jung come il “territorio” in cui si svolge il conflitto fra istinto e libertà di scelta. “Come la psiche si perde in basso nella base organico materiale, così essa trapassa in alto in una forma cosiddetta spirituale, la cui natura ci è poco nota come ci è poco nota la base organica dell’istinto”.
Il simbolo è una rappresentazione archetipica fornita di energia: è questa “numinosità”, proveniente dall’archetipo ordinatore, che consente la trasposizione di valori psichici da un contenuto ad un altro, la trasformazione di certe funzioni psichiche in altri dinamismi. L’umanità tramite gli archetipi, ha dato forma all’esperienza producendo i miti: ogni rappresentazione archetipica esprime sia una specifica relazione dell’individuo con un elemento significativo della sua esistenza, sia la connotazione affettiva legata a questa relazione. In questo senso possiamo considerare l’archetipo come un insieme infinito di relazioni possibili.
Il simbolo è una di queste immagini che si è attivata ed è emersa alla coscienza per attrarre l’attenzione su un “qualcosa” che nella sua universalità è presente negli strati più profondi della psiche umana, ma che, in quel momento, rappresenta una relazione vitale nel percorso di quell'individuo.
L’eterno conflitto dell’umanità fra istinti e valori spirituali di cui ci parla Jung è la continua tensione fra l’esperienza orientata dagli istinti e la conoscenza dell’esperienza.
Il simbolo è il punto di incontro fra queste polarità, si presenta quando in una certa sfera affettiva si è affermata la tendenza a dare forma all’esperienza. E un trasformatore di energia perché apporta un nuovo “sapere”, svela l’essenza, di una situazione che l’individuo sta già vivendo, ma quasi senza saperlo; e, come talvolta la conoscenza di un particolare ignoto può mutare il senso di un’intera situazione, così l’incontro con il simbolo può dissolvere vecchi equilibri psichici, indicarne di nuovi, chiarire situazioni ancora immerse nel caos iniziale.
La trasformazione avviene in quanto i contenuti psichici introdotti dal simbolo mobilitano le forze pulsionali, orientano verso oggetti diversi, provocano nuove relazioni: è questo lavoro psichico che crea energia.
Troviamo un esempio di trasformazione dell’energia nell’antico rituale di un popolo primitivo, descritto da Jung ne “I simboli della trasformazione”. Si tratta di una danza eseguita in primavera dalla tribù australiana dei Wakandi intorno ad una buca scavata nel terreno e modellata in modo da imitare i genitali femminili. I guerrieri danzano intorno a questa fossa per tutta la notte tenendo le lance erette dinanzi a sé e conficcandole nella buca.
In questo incantesimo di primavera la chiara evocazione sessuale è solo l’aspetto apparente del cerimoniale, in quanto l’intero rituale è in realtà finalizzato magicamente alla fecondazione della terra. Ciò è possibile in quanto l’aspetto simbolico della buca come madre terra da fecondare prevale sulla connotazione sessuale e provoca una trasformazione della libido, cioè uno spostamento dalla sfera della riproduzione a quella della conservazione, dalla donna alla madre, dall’istinto sessuale all’istinto di sopravvivenza.
Di fatto la concentrazione individuale e collettiva si sposta dall’appagamento istintuale alle attività legate all’acquisizione dei frutti. “Il segreto dell’evoluzione della cultura sta nella mobilità e nella dislocabilità dell’energia psichica”.
Il simbolo è creatore di civiltà in quanto contrappone all’esperienza diretta individuale degli istinti una forma di conoscenza degli istinti stessi che, attraverso categorie universali, li riconduce ai grandi temi dell’umanità.
È proprio questa universalità dell’esperienza che conferisce numinosità al simbolo: nella cerimonia Wakandi l’individuo sperimenta l’istinto di conservazione, ma al tempo stesso ne apprende il senso universale; non traspone la relazione con la propria madre sulla terra produttrice di frutti, ma condivide con la collettività la relazione dell’uomo con la natura.
Il simbolo junghiano è vitale perché è tramite fra inconscio e coscienza, collegamento fra mondo interno e mondo esterno dell’individuo, punto di incontro dell’inconscio individuale e dell’inconscio collettivo.
 

C.G. Jung , “ La dinamica dell’inconscio”, Boringhieri, Torino, 1976.
C.G. Jung , “ Simboli della trasformazione”, Boringhieri, Torino, 1970.
a cura di Tea Maria Cucchi

 

 

L'Archetipo Junghiano. "I contenuti dell'inconscio collettivo si riallacciano al patrimonio storico-culturale dell'intera umanità. La mia tesi, dunque, è la seguente: oltre alla nostra coscienza immediata, che è di natura del tutto personale e che riteniamo essere l'unica psiche empirica (anche se vi aggiungiamo come appendice l'inconscio personale), esiste un secondo sistema psichico di natura collettiva, universale e impersonale, che è identico in tutti gli individui. Quest'inconscio collettivo non si sviluppa individualmente ma è ereditato. Esso consiste in forme preesistenti, gli archetipi, che possono diventare coscienti solo in un secondo momento e danno una forma determinata a certi contenuti psichici." Jung presenta l'archetipo come una realtà tra lo psichico e il somatico: da un lato ha le radici nell'istinto e dunque nella sfera organica, dall'altro presenta una dimensione immaginifica e spirituale, che rimanda all'inconscio collettivo e alla sua funzione di attivare delle risposte di adattamento che consentono alla specie umana di sopravvivere di fronte alle angosce fondamentali che minacciano di disintegrare l'identità e il senso di continuità e di coesione. Gli archetipi allora possono essere identificati come strutture fondamentali dell'esperienza psichica che tendono a essere rivissute se riattivate da esperienze simboliche; predisposizioni a rivivere le esperienze della specie umana; modelli o stampi su cui si vengono specificando le diverse tappe della maturazione psichica; fondamenta dell'anima nascoste in profondità; immagini primordiali, rappresentazioni primigenie trasmesse geneticamente dai tempi più remoti e comuni a tutti gli uomini.

Nella vita "vi sono tanti archetipi quante situazioni tipiche. La continua ripetizione ha impresso queste esperienze nella nostra costituzione psichica, non nella forma d'immagini dotate di contenuto, ma in principio solo come "forme senza contenuto", atte a rappresentare solo la possibilità d'un certo tipo di percezione e azione" (C.G. Jung, Il concetto d'inconscio collettivo, p. 49).
Alcuni degli archetipi indicati da Jung sono: la nascita, la rinascita, la morte, il potere, l'energia, la magia, l'unità, l'eroe, il fanciullo, Dio, il demone, il vecchio saggio, la madre terra, l'animale, il gigante, diversi oggetti naturali come gli alberi, il sole, la luna, il vento, i fiumi, il fuoco, e molti manufatti umani, come gli anelli e le armi.

Non sempre essi sono presenti in forma isolata. A volte si fondono. "Se l'archetipo dell'eroe si combina con quello del demonio, il risultato può essere una persona del tipo "tiranno". Oppure: se gli archetipi della magia e della nascita si fondono, il risultato può essere un "mago della fertilità", del tipo di quelli che si trovano in certe culture primitive. Questi maghi rappresentano i riti della fertilità a vantaggio delle giovani spose che vogliono avere figli. Poiché gli archetipi sono in grado di influenzarsi a vicenda in diverse combinazioni, il fatto costituisce un ulteriore fattore nel produrre le differenze di personalità che esistono tra gli individui" (Hall e Nordby, 1982, p. 38).
Tra gli archetipi che giacciono nell'inconscio è di massima importanza il Selbst (cioè il sé), che è l'immagine archetipica della maturità psichica, il modello dell'integrazione funzionale e della stabilità della personalità. Esso è il punto centrale della personalità, attorno a cui si raggruppano tutti gli altri sistemi. Li mantiene uniti, dà alla personalità equilibrio, stabilità, unità. Quindi "Sé" è l'archetipo centrale, l'archetipo dell'ordine, la totalità dell'uomo. L'unione tra conscio e inconscio. Rappresentato simbolicamente dal cerchio, dal quadrato, dalla quaternità, dal bambino, dal mandala, ecc. .

"Quando un individuo dice di sentirsi in armonia con se stesso e con il mondo possiamo essere sicuri che l'archetipo del sé sta svolgendo bene il suo lavoro. D'altro canto, quando uno si sente "frastornato" e insoddisfatto, o avverte di "stare andando a pezzi", vuol dire che il sé non sta facendo bene il suo lavoro". Inoltre, il Selbst costituisce lo scopo della vita, un fine per cui l'uomo lotta costantemente ma che di rado raggiunge. Come tutti gli archetipi, è all'origine del comportamento dell'uomo e lo spinge a ricercare la totalità, specialmente attraverso le vie offerte dalla religione.

"Nelle religioni orientali certe pratiche ritualistiche per raggiungere l'autocoscienza, come le forme di meditazione dello yoga, mettono in grado gli orientali di percepire il sé più facilmente dell'uomo occidentale" (ibidem, p. 51). Le figure del Cristo e dei Buddha sono allora le manifestazioni dell'archetipo del sé più altamente differenziate che si possono trovare nel mondo moderno. Infatti, "Il Buddha divenne, per così dire l'immagine del compimento del Sé"; divenne per gli uomini un modello da imitare, mentre in effetti aveva predicato che, grazie al superamento della catena del Nidana [i dodici nessi causali che legano al flusso delle esistenze], ogni essere umano avrebbe potuto divenire un illuminato, un Buddha. La stessa cosa si è verificata nel cristianesimo: Cristo è l'esemplare che vive in ogni cristiano come sua personalità totale. Ma il corso della storia portò alla imitatio Christi, con la quale l'individuo non segue il proprio fatale cammino verso la via che l'interessa, ma cerca di imitare la via seguita da Cristo." (Jung, Ricordi, sogni, riflessioni ).

Altri archetipi fondamentali sono quello dell'Ombra, quello dell'Anima, quello del Vecchio Saggio. Essi sono le personificazioni di tappe fondamentali lungo il processo di individuazione e ciascuno cela dietro di sé i successivi. Se le trasformazioni e le relative dinamiche sono simbolicamente personificate, il processo, in quanto tale, della trasformazione è rappresentato da situazioni, luoghi, modi e mezzi tipici ("archetipi della trasformazione") che simboleggiano la specie di trasformazione di cui si tratta. Caratteristica di questi, come di tutti i simboli, personificazioni e no, è la loro plurivocità, polivalenza, paradossalità (come lo spirito degli alchimisti che è giovane e vecchio insieme), nonché "la loro pienezza di riferimenti che rende impossibile ogni univoca formulazione.

"Il processo simbolico può essere rappresentato dalle immagini alchemiche, come pure dal sistema tantrico dei "chakra" e da altre ancora, ed è "un'esperienza nell'immagine e dell'immagine". Il suo svolgimento presenta una struttura enantiodromica, ovvero "un ritmo negativo e positivo, di perdita e di guadagno, di luce e di tenebra".
L'inizio del percorso è caratterizzato da una situazione impossibile. Suo scopo è un'illuminazione o più elevato grado di coscienza per mezzo della quale il punto di partenza è superato su un piano più alto. In termini di tempo il processo può presentarsi condensato in un sogno, in un breve istante di esperienza o mesi o anni a seconda del punto di partenza e dello scopo che dev'essere raggiunto.

Cosi l'ombra simboleggia la parte inferiore della personalità, essa ha un atteggiamento di compensazione con la coscienza, perciò il suo effetto può essere tanto negativo che positivo.

L'immagine dell'Anima, sostiene Jung, è proiettata dagli uomini sulle donne (mentre in queste ultime è l'immagine corrispondente, l'Animus, ad essere proiettata sugli uomini).

Il vecchio saggio nel mito e nel folclore impersona lo Spirito. Anch'esso ha natura dicotomica. Può mostrare il lato superiore o quello inferiore di se stesso. Superiore è quello che si fa, con spirito giovanneo, annunciatore del Sé, o anche più semplicemente, è quello che porta ad un arricchimento di fattori spirituali in chi fin là li ha rimossi. Inferiore quando mostra per esempio la fissazione del sognatore a stati mentali remoti e allora lo spirito va a coincidere, in forma di bambino, con l'Ombra infantile. "Il Vecchio Saggio appare nei sogni come mago, medico, sacerdote, maestro, professore, nonno (Grande Padre), o persona comunque autorevole. L'archetipo dello spirito in forma di uomo, gnomo o animale, si presenta sempre in una situazione in cui perspicacia, intelligenza, senno, decisione, pianificazione ecc., sarebbero necessari, ma non possono provenire dai propri mezzi. L'archetipo compensa questo stato di carenza spirituale con contenuti capaci di colmare la lacuna.

 

 

icone

 

Il linguaggio iconografico può essere interpretato come il linguaggio antico, il linguaggio dell'inconscio, simboli e archetipi che ritornano nei tempi come patrimonio dell'inconscio collettivo.

 

Una precisazione va fatta per quanto riguarda lo stretto legame che c'è tra la Parola di Dio e l'icona. La Rivelazione, infatti, giunge a noi attraverso le orecchie e attraverso gli occhi. Quante volte nella Bibbia leggiamo: "Ciò che hanno visto i vostri occhi e le vostre orecchie hanno sentito"; oppure: "Ciò che occhio mai vide, né orecchio udì" (cfr Is. 64,3; 1Cor. 2,9), per dire che la vista e l'udito sono due mezzi che abbiamo a disposizione per ricevere la rivelazione.

Del resto, i soggetti dell'icona sono sempre stati presi dalla Bibbia o dalla tradizione viva della Chiesa. L'icona nasce dalla fede cristiana. Il suo inizio si può datare all'incirca verso il IV secolo. Nei primi secoli, infatti, l'arte cristiana era soprattutto arte simbolica; basti pensare all'epoca delle catacombe. Gesù era rappresentato mediante l'agnello o il pesce, perché le lettere della parola "pesce" in greco danno una frase che significa "Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore".

Verso il IV secolo nasce l'arte iconografica, precisamente a Costantinopoli. Naturalmente, prende anche elementi provenienti da altre arti: dal giudaismo, dall'ellenismo, dalla romanità.

Riguardo al giudaismo, si pensa in genere che agli ebrei fosse proibito rappresentare qualunque immagine; questo non è del tutto vero; infatti nell'Antico Testamento Dio stesso ordina a Mosè di costruire due cherubini accanto all'arca dell'alleanza, e quando gli ebrei nel deserto erano tormentati dai morsi dei serpenti velenosi Mosè fece rizzare in cima a un bastone un serpente di bronzo (simbolo di Cristo crocefisso) perché, guardandolo, potessero salvarsi dalla morte.

Riguardo alla romanità, le icone hanno preso aspetti artistici molto importanti. In pratica, il ritratto dell'imperatore era venerato e onorato e aveva perfino un valore legale: infatti, quando si faceva qualche contratto pubblico in tribunale, se era presente l'immagine dell'imperatore, quell'atto veniva ufficializzato.

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Icona Bizantina

 

Nell'icona si possono trovare queste caratteristiche comuni:

 

la luce naturale non ha alcun valore, ma sia essa che tutti i colori terreni sono soltanto luce e colori riflessi. Nell'icona quindi non c'è ombra o chiaroscuro; il fondo e tutte le linee, le sottolineature d'oro vogliono proprio significare una luce sovrannaturale.

 

la prospettiva è rovesciata, poiché le linee si dirigono in senso inverso rispetto a chi guarda, cioè non verso un punto di fuga dietro il quadro, ma proprio verso un punto esterno, che avvicina le linee allo spettatore, dando l'impressione che i personaggi gli vadano incontro (i profili infatti non esistono, se non per indicare i peccatori, né la tridimensionalità, in quanto la profondità viene data solo spiritualmente, dall'intensità degli sguardi).

 

Le proporzioni delle figure, la posizione degli oggetti, la loro grandezza non sono naturali (pesi e volumi non esistono), ma relative al valore delle persone o delle cose: non esiste naturalismo o realismo (cioè la ritrattistica), ma solo simbolismo.

 

Il corpo, sempre slanciato, sottile, con testa e piedi minuscoli, è disegnato a tratti leggeri, e il più delle volte segue le linee delle volte del tempio, in quanto la pittura dipende dall'architettura.

 

Tutto comunque è dominato dal volto, perché è da qui che il pittore prende le mosse. Gli occhi sono molto grandi, fissi, a volte malinconici, sotto una fronte larga e alta; il naso è allungato, le labbra sono sottili, il mento è sfuggente, il collo è gonfio. Tutto per indicare ascesi, purezza, interiorità...

 

Altro aspetto frequente che si trova nelle icone è la simmetria, che indica un centro ideale al quale tutto converge.

 

In Europa occidentale l'iconografia è rimasta sostanzialmente di tipo bizantino sino a Duccio di Boninsegna e Giotto, cioè sino al momento in cui si è cominciato a introdurre la prospettiva della profondità, il chiaroscuro naturalistico, il realismo ottico, perdendo così progressivamente il carattere spirituale delle rappresentazioni sacre.

 

 

 

L’iconologia invece è lo studio delle immagini, non per identificarne il soggetto, ma per riconoscerne i contenuti espressivi. Il termine è stato coniato dallo studioso Erwin Panofsky intendendo distinguere lo studio iconologico da quello iconografico.

Il secondo, infatti, secondo lo studioso, esaurisce il suo compito nel momento che riesce a stabilire di cosa un’opera parla.

Ma ciò non è sufficiente per completare la nostra esigenza di comprendere le opere d’arte, che costituiscono documenti rivelatori di tendenze più profonde della spiritualità umana, la cui lettura necessita di altri strumenti.

In particolare lo studio iconologico, secondo Panofsky, richiede non una semplice conoscenza delle fonti letterarie, ma una familiarità con le tendenze essenziali dello spirito umano e di come esse si sostanzino in temi e concetti specifici. Un’analisi di questo tipo avviene su tre principali livelli.

 

 

 

 

 

E. Panofsky,

(1892-1968)

storico dell'arte tedesco, teorico e studioso di iconologia.

 

Innanzitutto è necessario affrontare il livello preiconografico, quello in cui si riconosce il soggetto primario o naturale. Esso si apprende “identificando pure forme cioè: certe configurazioni di linee e colori o certi blocchi di bronzo o pietra modellati in un modo particolare, come rappresentazioni di oggetti naturali, esseri umani, animali, piante, case, utensili, ecc.” (Panofsky 1955: tr. it. 33).
Il mondo delle pure forme che così riconosciamo è il mondo dei motivi artistici. Questa attività di riconoscimento si basa essenzialmente sulla nostra esperienza pratica, ma può alle volte richiedere il ricorso ad una conoscenza di tipo diverso. Può accadere, infatti, che un certo tipo di rappresentazione (per esempio, un oggetto staccato dal suolo) sia stato utilizzato in un certa epoca per indicare non quello che chiameremmo il suo “significato letterale” (in questo caso un oggetto che si libra in aria), ma, piuttosto, un fenomeno differente, come un’apparizione (e allora, nel nostro caso, un bambino raffigurato nel mezzo di un cielo blu non è un bambino che vola, ma l’apparizione di un bambino).
È allora necessario, per non cadere nell’inganno dell’interpretazione “letterale” che la nostra esperienza ci propone, ricorrere ad una storia degli stili, che funga da fattore di controllo della descrizione preiconografica.

 

Il passo successivo è quello dell’analisi iconografica, che ci permette, per esempio, di riconoscere un uomo con un coltello come San Bartolomeo o una figura femminile con una pesca in mano come una personificazione della Verità. “I motivi riconosciuti per questa via come portatori di un significato secondario o convenzionale possono essere chiamati immagini  e le combinazioni di immagini sono ciò che gli antichi chiamavano invenzioni; noi siamo portati a chiamarle ‘storie’ e ‘allegorie’” (Panofsky 1955: tr. it. 34).
Ma qual è la base dell’analisi iconografica? Essa si fonda sulla conoscenza delle fonti sulle quali si basano le raffigurazioni pittoriche e, quindi, sui testi letterari (in primo luogo la Bibbia) e la tradizione orale. Senza conoscere (direttamente o indirettamente) i Vangeli è difficile interpretare un quadro che rappresenta tredici persone intorno ad una tavola come l’Ultima Cena. Ma anche in questo caso la conoscenza delle fonti non è sufficiente. Ci sono dei casi, infatti, in cui la rappresentazione non è stata fedele al testo e, ad esempio, elementi di un tipo sono stati inseriti nella raffigurazione di un altro tipo. È necessaria dunque una storia dei tipi, una storia cioè dei differenti modi in cui, col tempo, “temi specifici o concetti sono stati espressi in oggetti ed eventi” (Panofsky 1955: tr. it. 41).

 

Si arriva così all’ultimo livello, quello iconologico, in cui viene indagato il significato intrinseco o contenuto. “Lo si apprende individuando quei principi di fondo che rivelano l’atteggiamento fondamentale di una nazione, un periodo, una classe, una concezione religiosa o filosofica, qualificato da una personalità e condensato in un’opera” (Panofsky 1955: tr. it. 35).
L’analisi iconologica si fonda sull’intuizione sintetica, che Panofsky dice poter essere sviluppata più in un “profano di talento che in un erudito specialista” (Panofsky 1955: tr. it. 42). Eppure, vista la sua natura “irrazionale” e “soggettiva”, questa intuizione sintetica deve essere corretta “da uno studio del modo in cui, mutando le condizioni storiche, muta anche la maniera in cui le tendenze generali ed essenziali dello spirito umano sono espresse attraverso temi e concetti specifici” (Panofsky 1955: tr. it. 43). Studio che, con i termini di Cassirer, si potrebbe definire storia dei simboli.

A questo punto è chiara la differenza esistente fra iconografia ed iconologia. La prima è una pura descrizione e catalogazione di immagini, mentre la seconda rappresenta, per lo più, un’interpretazione dell’arte che possa interagire con le altre scienze umane.

 

Melencolia I. L'alchimista era chiamato "artefice", l'alchimia era chiamata "la grande arte" e il processo alchemico, "l'opus", "grande opera".

L'arte figurativa comporta una travagliata riduzione fisica della materia dall'informe alla forma, cui corrisponde un processo spirituale di ascesa verso la luce della bellezza e di liberazione dell'idealità. L'arte come imitazione della natura è emulazione dei processi creativi della natura.

In Malinconia I una figura alata in atteggiamento meditativo, scura in volto, tiene in mano il compasso ed è circondata da una serie di oggetti e strumenti; accanto vi è un putto anch'esso alato e un cane, mentre nel cielo, contro un sole annerito e come in eclisse, si staglia un pipistrello recante la scritta che dà il titolo all'opera.

Il titolo, secondo la lettura di E. Panofsky, indica la malinconia provocata dalla "bile nera", corrisponde secondo il pensiero rinascimentale a uno dei quattro umori che determinavano i quattro temperamenti dell'uomo: malinconico, flemmatico, collerico e sanguigno. Quello malinconico è il più cupo e patologico. Secondo Aristotele i melanconici a causa della loro fragilità finiscono per emergere nelle attività intellettuali, quindi il "furor melancholicus" diventava sinonimo di ispirazione. Panofsky per Melencolia I intende una scala di valori secondo cui Agrippa di Netterheim divideva la melanconia in tre generi: coloro nei quali l'immaginazione è più forte della mente o della ragione, saranno magnifici artisti e artigiani (pittori e architetti). Colui nel quale predomina la ragione discorsiva diventerà uno scienziato, medico e politico. In coloro nei quali la mente intuitiva supera le altre facoltà eccelleranno nella teologia. Quindi per Dürer, Melencolia I sta per la malinconia dell'artista.

La figura alata si fonde con la geometria, scienza del calcolo e della progettazione. E' una figura alata, accovacciata munita degli arnesi della scienza ma chiusa in un'oziosa meditazione. E' un essere creativo ridotto alla disperazione consapevole di barriere insormontabili che lo separano da un più alto dominio di pensiero. Per Dürer il numero I non è altro che il primo gradino di una scala cui l'artista si ispira a percorrere sia pur faticosamente, fino alla sommità, quindi non è da intendersi come gradino più basso.

A. Dürer, Melencolia I (1514),

incisione al bulino.

 

L'alchimia offre una chiave di lettura simile, le fasi dell'opus si collegano ad altrettanti colori: la nigredo che era la fase del nero, l'albedo del colore bianco, la citrinitas, contrassegnata da colore giallo, la rubedo che corrisponde al rosso e all'oro, la pietra filosofale. Queste quattro fasi racchiudono in sé tutte le quadripartizioni antropologiche e cosmiche: gli elementi, i momenti del giorno, le stagioni della vita, l'età dell'uomo, gli umori, i temperamenti. Il collegamento ai quattro elementi, il passaggio dalla terra, lo stato solido, all'acqua, quello liquido, all'aria, lo stato aereo, al fuoco, la luce segna le successive trasformazioni e sublimazioni della materia che progressivamente si smaterializza fino a raggiungere l'eterea e luminosa consistenza della pietra filosofale. Questi collegamenti fra gli elementi, le stagioni, i momenti del giorno, e l'età dell'uomo suggeriscono la ciclicità dell'opus. Esso ha come simbolo la ruota, perché non è mai dato una volta per tutte e l'impresa va sempre ripetuta da capo, dalla primavera all'inverno della morte e via di seguito. L'opus è come la creazione artistica la quale nasce dal travaglio, per restituire l'artista, una volta compiuta, al travaglio iniziale.

La melanconia quindi è la prima fase dell'opus, la materia del nero, la nigredo, che corrisponde alla putrefazione della materia. E' da intendersi come primo passo verso l'esito di luce. Ogni dettaglio è spiegabile nei termini dell'alchimia. Nell'incisione sulla sinistra sopra il martello c'è un bracere ardente alchimistico e sotto la veste della donna vi è un mantice, altro strumento dell'alchimista. La donna ha volto scuro, indica la fase della nigredo. Il pipistrello corrisponde alla notte, il sole eclissato indica il "sol niger" altro riferimento all'inizio del processo. La sua luce ora offuscata risplenderà al termine dell'opus. La prima fase indica la morte, il dolore della separazione, la solitudine, la nigredo.

Le fasi successive si realizzano attraverso un processo d'unione dei contrari: maschile e femminile, caldo e freddo, l'acqua e il fuoco. L'unione dei contrari nell'incisione è dato dalla scia del sole eclissato che precipita verso l'acqua e questa è la seconda fase dell'opus. Mentre la prima fase è sotto il segno di Saturno, la seconda fase cade sotto Giove. L'arcobaleno, come la coda di pavone sono simboli di unione di molti colori, quindi un annuncio del felice sviluppo dell'operazione. Il quadrato magico o quadrato di Giove, indica la cabala, e sommando i numeri in ogni direzione si ottiene sempre il medesimo risultato: 34. Come nell'iride i vari colori sono compresi nell'unità, così i diversi numeri confluiscono nell'unità della stessa cifra.

Altro segno del processo dell'opus sono da intendere le ali della donna che potrà poi volare, la corona sul capo e la borsa che sarà riempita del simbolico oro. La ruota a fianco indica che poi il processo una volta ultimato riprenderà da capo secondo il ritmo ciclico.

Il putto e il cane sono simboli di Mercurio l'agente della materia che provoca le cicliche trasformazioni da giovane a vecchio, da alato (il putto), a terrestre (il cane). La donna è seduta alla base dell'Athanor, il forno in cui avvengono le trasmutazioni della materia. La clessidra segna il tempo in cui si svolge la prima fase, nelle ore notturne. La bilancia allude ai dosaggi della materia. La scala con sette pioli allude alle sette operazioni in cui si scandisce la prima fase dell'opus: le 7 ore della notte, il numero magico, la somma tra 3 e 4 le cifre chiave del quadrato magico. Il 3 corrisponde secondo la cabala al divino, l'invisibile e il 4 corrisponde al creato, il visibile.

Le chiavi della donna in numero di quattro indicano le 4 fasi dell'opus. Le forme del poliedro e la sfera sono simboli della materia. Il martello, le tenaglie, le molle, i chiodi, la pialla, la sega alludono alla triturazione della materia, il dissolvimento chimico. E' il martirio come in Cristo che porterà alla trasformazione della materia in pietra filosofale e operare così il proprio riscatto.

Il processo è ipotetizzato parallelamente a diversi processi: quello meccanico visto attraverso i vari strumenti, quello naturale o cosmico visto attraverso il sole nero che si accosta all'acqua, processo interiore o mentale e spirituale. Infatti la donna si sorregge il capo, ossia l'occiput, il vaso in cui avvengono le trasmutazioni.

Il processo avviene anche in modo matematico-geometrico o cabalistico attraverso la cabala delle figure geometriche, con il passaggio dalla forma quadrata che indica separazione alla forma circolare e unitaria (quadratura del cerchio).

La sfera indica il punto originario di partenza, il caos: la nigredo, la partenza da cui realizzare la separazione della materia, attraverso il dolore che poi verrà rifusa armoniosamente.

Ecco il progetto che ha in mente la donna tenendo il compasso in mano, e la stessa operazione potrà avvenire grazie agli strumenti di triturazione e ai procedimenti chimici di dissoluzione e cottura grazie alla congiunzione cosmica di acqua e fuoco. Dalla tenebra si originerà la luce, dall'informe la forma, dal dolore l'esultanza, dalla divisione l'unità, dal contrasto dei contrari, l'armonia.

 

 

 

l'armonia

 

Figlia del dio della guerra e della dea dell’amore, Armonia ha suscitato tre dei più penetranti frammenti di Eraclito. Il filosofo efesino dapprima coglie l’essenza delle sue origini mitiche: "ciò che contrasta concorre e da elementi che discordano si ha la più bella armonia". Armonia deriva dal verbo greco harmózo, cioè ‘congiungo, compongo’, dal calco harmós, ‘giuntura’. Ciò che è sottaciuto nell’etimologia riaffiora nel mito: attraverso le origini mitiche di Armonia, Eraclito addita una pratica conoscitiva che nel disgiungere e nel congiungere ha il suo asse cardinale. Toccherà a Platone insistervi nel Fedro.
Anche nel secondo frammento eracliteo permane lo scenario mitico: "armonia che da un estremo ritorna all’altro estremo come è nell’arco e nella lira". Alle nozze di Armonia con Cadmo sono presenti le dodici divinità olimpiche, a testimoniare l’intero ciclo del corso solare: sono nozze cosmiche. Armonia riceve in dono da Ermete una lira, da Atena una veste aurea e la madre di Giasone la inizia ai misteri eleusini. Eraclito allude con gli "estremi" ai poli del tempo, principio e fine, del cosmo, i solstizî, e dell’esistenza, vita e morte. L’armonia, ritornando all’altro estremo, trascende dunque la sfera umana e la stessa temporalità.
Della narrazione mitica Eraclito trattiene il motivo della lira, aggiungendovi l’attributo d’Apollo, l’arco. A partire da questi elementi va letto il terzo frammento, caro agli architetti e ai musici di tutti i tempi: "armonia invisibile della visibile è migliore". Se è legittimo leggervi un analogo della dottrina pitagorica dell’armonia delle sfere, allora l’armonia visibile si darebbe nel mondo fenomenico, l’invisibile potrebbe essere colta solo nei rapporti intelligibili che determinano il visibile. Mediante la lira è forse possibile restituire parte del senso a questo frammento: di per sé visibile, la sua forma cela gl’intimi rapporti che correlano gli accordi fra le sue corde.
Filolao, pitagorico crotoniate celebre e per la sua scienza armonica e per aver ceduto a Platone i famosi libri di Pitagora, è il primo a precisare i rapporti numerici corrispondenti agl’intervalli fra le quattro corde della lira, le cui lunghezze sono pari a sei, otto, nove e dodici unità.

 

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Il tetracordo di Filolao e i rapporti armonici basati sulle tre consonanze in accordo d’ottava, o diapason (6 : 12 = 1 : 2), quinta, o diapente (6 : 9, 8 : 12 = 2 : 3) e quarta, o diatessaron (6 : 8, 9 : 12 = 3 : 4).

 
Fra la prima e l’ultima il rapporto è pari a un mezzo, o diapason (ottava); fra la prima e la terza, nonché fra la seconda e la quarta gl’intervalli sono equivalenti a due terzi, o diapente (quinta); fra la prima e la seconda, fra la terza e la quarta, infine, i rapporti sono di tre quarti, o diatessaron (quarta). Nella Roma del terzo e quarto secolo sarà Porfirio, in Armonia tolemaica, a descrivere natura e qualità delle consonanze armoniche.
L’armonia "invisibile" si fonda dunque sulle tre consonanze insite nei primi quattro numeri. Nella disciplina pitagorico platonica ciò comporta implicazioni metafisiche e cosmogoniche. Il diapason, o 1:2, manifesta il rapporto tra il principio immobile o "deus absconditus" e la "diade infinita", ovvero tra l’Uno e il molteplice o, scolasticamente, tra spirito e materia. In esso sono già implicite le altre due consonanze e perciò costituisce l’armonia perfetta secondo Filolao (6:12 = 6:8 + 8:12 o 6:9 + 9:12). Nel diapente, o 2:3, la materia, o archetipo femminile, è correlata al tre, principio manifesto corrispondente al nous, o intellectus, e all’archetipo maschile. Nel diatessaron, o 3:4, il principio manifesto s’accorda con la materia "formata", la forma entra in relazione con il solido. Le tre consonanze quindi descrivono nel loro sviluppo geometrico e musicale l’emanazione che dall’Uno procede sino al molteplice. Sono il canto d’un organismo vivente, il canto dell’universo.
Si può dunque comprendere perché Vitruvio, che all’armonia dedica un intero capitolo del suo trattato sull’architettura, indichi nel rapporto 1:2 l’ideale pianta del tempio: esso diviene così specchio dei poli fra i quali l’universo intero si manifesta, concertata e armonica immagine del mondo. Per la stessa ragione l’ideale tempio massonico dovrebbe svilupparsi secondo questa proporzione, da oriente a occidente, da nord a sud, dallo zenit al nadir.
Leon Battista Alberti, l’architetto del riminese tempio malatestiano dalle inderogabili proporzioni pitagoriche, scrisse a Matteo de’ Pasti, l’esecutore che modificava parti del progetto, di non rovinargli "tutta quella musica". Anche l’architetto dispone dunque della sua lira nell’orchestrare le parti e i volumi d’un edificio, disgiunge e congiunge articolando nello spazio le tre consonanze e gli accordi che ne derivano. Con squadra e compasso, naturalmente.

 

I tre rettangoli armonici, costruiti secondo le consonanze di diapason, o un mezzo (ill. 1, cioè 6/12), di diapente, o due terzi (ill. 2; 6/9), di diatessaron, o tre quarti (ill. 3; 6/8).

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a cura di M. Nicosia

 

 

 

Vediamo questo metodo di composizione usato nei dipinti rinascimentali:

 

Battesimo di Cristo


1448-1450, tempera su tavola, cm 167x116, National Gallery, Londra.

 

M:m=x  x=√2  Il rapporto aureo qui è ottenuto dalla diagonale del quadrato che è uguale alla misura dell'altezza del dipinto.

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Il "Battesimo di Cristo" proviene dalla Badia camaldolese di Sansepolcro, dalla cappella di San Giovanni Battista. Dopo diversi passaggi, nel 1861 il dipinto è entrato nel museo londinese. Come la maggior parte dei dipinti di Piero, anche il Battesimo presenta delle difficoltà interpretative del soggetto. L’ipotesi più avvalorata sembra essere quella della tematica del dogma trinitario in un probabile collegamento tra il Vecchio e il Nuovo testamento: i tre angeli visibili sulla sinistra, prefigurazione della Trinità, apparvero ad Abramo, mentre il battesimo di Cristo è la manifestazione evangelica del medesimo dogma. La luce zenitale nella quale è immersa la scena allude alla rigenerazione dell’anima attuata dal sacramento del battesimo. Secondo un’altra interpretazione i tre angeli che si tengono per mano sarebbero simbolo di concordia tra la chiesa romana e la chiesa greca, rappresentate dal catecumeno e dai personaggi in abiti orientali sul fondo: unità sostenuta dall’attività di Ambrogio Traversari, che fu abate dell’ordine camaldolese, per una chiesa del quale fu realizzato il dipinto. Il viso di Cristo è formato da due ovali con il naso a colonna e la dipartizione evidenziata allo sgranarsi della barba che completa il volto. E' rappresentato secondo la tipologia bizantina dove dal naso si proiettavano due cerchi che completavano il volto. Le orecchie sono lunghe nella tipica iconografia orientale. L'acqua dalla ciotola scende lentamente scandendo il tempo e le mani congiunte di cristo creano un campo di forza. L'albero è un divisorio fra cristo e i 3 angeli dai capelli bianchi di tipo corallino con le ciocche separate e i mazzocchi sul capo. Si ritrovano sempre delle forme curve nei suoi dipinti, come gli ellissi e i cilindri. I profili sono a 2 o 3/4 ma l'asse non è sempre perfetto. I colori hanno un sistema complementare di comporsi ad alternanza, ed in rapporto con l'albero che assomiglia ad una colonna. La linea di costruzione è solo di contenimento non è espressiva ma non la fa notare perché leggera segue l'andamento dei solidi geometrici. Anche la natura è costruita, infatti gli alberi non sono veri ma facenti parti di quel suo mondo ideale-spirituale. L'albero è come nella "Flagellazione alla colonna" un indice di separazione temporale. La superficie dei corpi sembra levigata come una statua, della stessa solidità del marmo ma intrinsa di luce che dona carattere spirituale. La linea può ritornare visibile come bordo in un ornamento che cambia colore a seconda della luce.

 

Piero della Francesca costruiva le sue opere seguendo le regole di quella che allora era considerata la perfezione armonica: il rapporto aureo. Nel suo trattato "De prospectiva pingendi" tratta i temi dell'ottica e della prospettiva con metodo scientifico. Fonda la sua opera sulla geometria di Euclide e divide in tre libri e in altre suddivisioni dettate da numeri in modo da tenere costante il metodo proporzionale. Divide la pittura in tre parti fondamentali: disegno, commensuratio, colore. La commensuratio è divisa in 5 parti di cui la fondamentale è l'occhio che sta al vertice della piramide visiva. L'occhio quindi è visto come il numero 1, infatti secondo la geometria antica dall'1 si sviluppa la scienza armonica dove si mettono in rapporto la qualità del cosmo attraverso i numeri. 1/2 significa generato/non generato, 2/3 maschile/femminile, 3/4 forma/materia. Le proporzioni armoniche semplici sono:  1/2 il diapason, 2/3 diapente, 3/4 diatesseron. Il rapporto usato da Piero è quello 2/3 che è anche la regola proporzionale per degradare un corpo. I progetti rapportati secondo le proporzioni armoniche si usano per superfici riconducibili alla misura perché in grado di subire divisioni molteplici.

 

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6/12

 

6/9

 

6/8

 

 

6/9: questo rapporto è il multiplo di 2/3

 

 

rapporti del tetracordo di Filolao

 

 

Le proporzioni armoniche multiple derivano dal tetracordo di Filolao. Ulteriori divisioni in un rapporto 2/3 portano ad avere rapporti proporzionali multipli.

 

Tabella delle proporzioni numeriche armoniche e dinamiche più notevoli

8/9 = 1.125

6/7 = 1.16

7/9 = 1.28...

4/5 = 1.25

3/4 = 1.3

5/7 =1.4

√2 = 1.4142

7/10 = 1.4285

2/3 = 1.5

5/8 = 1.6

Ø (angolo aureo) = 1.618...

3/5 = 1.6

√3 = 1.7320

4/7 = 1.75

9/16 = 1.7

5/9 = 1.8

8/15 = 1.875

1/2 = 2

√5 = 2.2360

4/9 = 2.25 (dipente²)

3/7 = 2.3

2/5 = 2.5

5/13 = 2.6
3/8 = 2.6 (diapason x diatesseron)
diatesseron diapente diapason
ut re mi fa sol la si do
1 8/9 4/5 3/4 2/3 3/5 8/15 1/2

 

Dal sistema dei rapporti proporzionali usato dai pittori rinascimentali attingono anche altri maestri del post-impressionismo come Georges Pierre Seraut in "Il circo". Nelle sue opere egli applica le regole della sezione aurea vivisezionando simmetricamente la tela.  Anche nell'astrattismo geometrico come nelle opere del '900 di Piet Mondrian il nuovo concetto di arte si esprime con composizioni in cui cerca un'armonia universale, linee nere parallele in verticale e orizzontale individuano geometrie di colori primari. Rielaborando le linee introduce un cambiamento essenziale nell'opera perché crea dinamica e ritmo.

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G. P. Seraut: Il circo, 1890/91,

olio su tela, 185,5x152,5 - Parigi, Musée d'Orsay

P. Mondrian

 

La "misura", è l' "armonia", precisi rapporti matematici in applicazioni geometriche che costruivano le grandi opere artistiche del passato, ma non solo...

 

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COSTRUZIONE DELLA SEZIONE AUREA DI UN SEGMENTO

Dato un segmento AB, vogliamo costruire la sua parte aurea. Allora sulla perpendicolare in B ad AB prendiamo il segmento BO uguale alla metà di AB. Descritta la circonferenza di centro O e raggio OB, siano P e Q i punti in cui la retta AO interseca la circonferenza suddetta. Detto poi C il punto in cui il segmento AB interseca la circonferenza di centro A e raggio AP, si dimostra che il segmento AC è la parte aurea del segmento AB.

 

La sezione aurea o rapporto aureo si indica con la lettera d.

d = 0,618

L'angolo aureo invece si indica con il simbolo Ø = 1,618

 

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IL RETTANGOLO AUREO 

Si chiama rettangolo aureo il rettangolo avente un lato che è la sezione aurea dell'altro. Se ABCD è un rettangolo aureo, si ha per definizione
AB : AD = AD : ( AB - AD ) [1],
o anche, prendendo AM=AD,
AB : AM = AM : MB.
Se sul lato maggiore AB si costruisce, esternamente al rettangolo, il quadrato AEFB, si ottiene un altro rettangolo aureo EFCD. Infatti per la proprietà del comporre applicata alla [1] si ha
( AB + AD ) : AB = [ AD + ( AB - AD ) ] : AD [2];
ma è AB+AD = AE + AD = DE e AD + ( AB - AD ) = AB,
quindi la [2] può scriversi DE : AB = AB : AD, da cui essendo
AB = AE e AD = DE - AE, si ha DE : AE =AE : ( DE - AE ).

Resta così dimostrato che il lato minore del nuovo rettangolo è la parte aurea del lato maggiore.

 

 

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SPIRALE LOGARITMICA

 

La spirale logaritmica è basata su una sorprendente proprietà del rettangolo aureo. Dividendo un rettangolo aureo in due parti in modo che una di esse sia un quadrato, l'altra parte sarà un nuovo rettangolo aureo.

Per iniziare la costruzione si divide il rettangolo aureo in due parti, in modo che una di esse sia un quadrato e si inscrive nel quadrato un arco di circonferenza.

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Si ripete il procedimento per formare un altro quadrato...

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e così via ...

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Disegnando archi inscritti nei successivi quadrati che via via si costruiscono per dar luogo a nuovi rettangoli aurei, si ottiene una curva detta spirale logaritmica.

La costruzione realizzata si può mettere in relazione con i numeri della successione di Fibonacci, così al primo quadratino corrisponde il numero 1 e di seguito 2, 3, 5, 8, 13.

 

 

LA SEZIONE AUREA NELLE PIANTE

 

Troviamo la sezione aurea nelle dimensioni di molte foglie, ad esempio in quella di rosa: la larghezza della foglia è sezione aurea della lunghezza. Tornando poi alla sequenza di Fibonacci possiamo dire che due scienziati Von Ettingshausen e Prokorni, hanno trasferito questo metodo in natura e precisamente in botanica. Questi scienziati sono arrivati alla conclusione che, poiché la crescita delle piante avviene mediante la divisione delle cellule, le dimensioni fondamentali delle piante delle diverse età, negli stessi periodi dell'anno, devono per forza presentarsi come la successione di Fibonacci.

 

 

 

 

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In effetti, se misuriamo lo stelo di una pianta da un germoglio all'altro, troviamo i rapporti AB : BC, BC: CD, CD : DE, che rimandano al tasso di crescita della successione di Fibonacci.

Inoltre possiamo osservare che le foglie crescono seguendo una spirale nella quale il rapporto tra il passo e la curvatura è pari a 1,618.

 

 

 

 

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La più sorprendente apparizione della successione di Fibonacci nel regno vegetale si ha nella distribuzione a spirale dei semi sulla superficie di certe varietà di girasoli. Ci sono due insiemi di spirali logaritmiche, quelle dell'uno avvolte in senso orario e quelle dell'altro in senso antiorario. I numeri delle spirali dei due tipi non sono uguali tra loro e tendono a essere due numeri di Fibonacci consecutivi.

 

LA SEZIONE AUREA NEGLI ANIMALI

 

In natura si riscontrano molte situazioni in cui appare il rapporto aureo. Nella gazzella, ad esempio, la lunghezza totale della schiena viene suddivisa dal groppone secondo il rapporto aureo, l'altezza della schiena dalle parti genitali, l'altezza globale dal garrese, la lunghezza della testa dall'occhio. Si possono notare di frequente, in giardino o in campagna, le reti che l'epeira (ragno molto comune in Italia) tende verticalmente, da un cespuglio all'altro, per catturare la preda.  La tela costruita, in poco tempo, da questo ragno è, con notevole approssimazione, nientemeno che una spirale logaritmica. In molte farfalle si può, quando le ali sono spiegate, suddividere l'altezza globale con la testa e l'altezza del corpo con il punto che separa il torace dalla parte posteriore ottenendo sempre un rapporto aureo. Altri esempi di sezione aurea: nella stella di mare ritroviamo la forma di una stella a cinque punte; in alcuni molluschi si può osservare la forma di una spirale logaritmica; ancora, in alcuni insetti, molte dimensioni del corpo, sono sezione aurea della lunghezza.

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A. Delvecchio, Conchiglia, olio su tela, 40x50 cm, 2002.

 

LA SEZIONE AUREA NELL'UOMO

 

Già Vitruvio indicava la regola che l'uomo, se in piedi con le gambe chiuse e le braccia distese in orizzontale, può essere inscritto in un cerchio (si veda l'immagine di Leonardo), di cui il centro cade sulle parti genitali; la lunghezza globale del corpo viene tagliata dalla vita in due segmenti di cui il più lungo è una sezione aurea. L'uomo se in piedi con gambe divaricate e braccia leggermente inclinate verso il basso, può essere contenuto entro un pentagono regolare, il cui centro coincide nuovamente con le parti genitali. Lo scultore greco Policleto (ca. 420 a.C.) affermava che nell'uomo perfetto la lunghezza complessiva del corpo viene suddivisa dai fianchi secondo la sezione aurea (canone). La distanza tra i genitali e la laringe viene tagliata dall'ombelico in un rapporto aureo, mentre quella tra la testa e l'ombelico è analogamente tagliata dalla laringe.

 

 

 

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Da qui arriviamo a capire come "Dio geometrizza sempre". L'antico assunto pitagorico ci spiega come la geometria si può dire essere anche il fondamento estetico-visivo con cui noi possiamo rapportare tutte le cose che ci appaiono alla vista di ogni giorno e l'intero universo. Tutto è geometrizzabile perchè le forme geometriche sono degli archetipi che conosciamo tutti e in base a quelle possiamo costruire e riprodurre qualsiasi forma sia appartenente al mondo vegetale, minerale, animale, umano. Quindi se prendiamo qualsiasi cosa al mondo appartenente sia al mondo minerale, vegetale, animale od umano, ad esempio un semplice frutto come la mela, essa può essere inscritta in una cerchio; varie combinazioni di solidi geometrici possono dare vita a strutture più complesse. Allora si può dire che la geometria appartiene come archetipo al nostro inconscio collettivo e quando riusciamo a trovare il collegamento che esiste tra essa e il mondo spirituale prendiamo coscienza di ciò e ci avviciniamo al "divino". In questo modo possiamo noi stessi diventare i "geometri" di quello che creiamo. La geometria ha in sé il "modello", "la misura", "l'armonia", gli schemi per dare inizio all'opera, qualsiasi essa sia. Essa è disegno, quindi il principio dell'opus.

 

il disegno in oriente

 

Tutto l'interscambio culturale fra Est e Ovest non è mai stato accettazione supina di comportamenti stranieri, ma rielaborazione per scelta e adattamento. Infatti durante il corso dei secoli l'occidente-ellenistico-romano forniva al mondo buddista indo-afgano, suggerimenti che venivano selezionati, scelti, modificati e talora migliorati e adattati fino a creare qualcosa di nuovo.

I popoli dell'estremo oriente di: Cina, Corea, Giappone, Mongolia e Asia Centrale, hanno una ricca spiritualità manifesta più nella eleganza vibrante delle creazioni figurative e poetiche che nei sistemi filosofici e religiosi, lontanissimi dagli atteggiamenti psicologici occidentali, pervasi da un positivismo che affonda le sue radici in una conoscenza incredibile dei segreti del corpo umano.

Il popolo Indiano che investe anche il sud est-asiatico, rivela una conoscenza filosofica e religiosa, ripartita in correnti pessimistiche, ma pervasi da accenti eroici in fase vedica, che diventano rassegnati nel momento buddhista, e ardenti di fede e amore con le correnti devozionali. 

Il popolo Iraniano-centrasiatico collega l'Est e l'Ovest oltre che avere funzione di sbarramento.

Il mondo dei nomadi esprime un'arte caratteristica, ricca di stilizzazioni con esiti risonanti su gran arte del continente euroasiatico.

L'Europa invece si divide in bacini culturali che vanno dal Mediterraneo a quello dell'Europa centrale, dall'area bizantina e slava al mondo scandinavo, fino all'area ispanica e i frazionamenti della penisola italiana.

L'evoluzione dell'arte figurativa dimostra che non vi sono culture sviluppatesi in maniera autonoma, ma tutte in qualche modo si sono influenzate a vicenda. Così si possono vedere le influenze persiane sia in Islam, come nel sud Italia, in Asia o in Giappone; motivi di importazione che raggiungono paesi lontani grazie al commercio.

Così durante i secoli con l'introduzione della stampa, di libri illustrati, le copie di opere pittoriche occidentali, il collezionismo, e grazie ai missionari e ai viaggiatori europei, l'oriente acquisisce l'idea della copia, dell'imitazione che conseguentemente portarono all'uso della prospettiva occidentale filtrata nelle composizioni indiane. Ma questo fu per un breve periodo che si chiuse nel ritorno alla loro tradizione fatta di spazi illusivi. La pittura occidentale fu creduta troppo artificiosa e illeggibile, cercava troppo la somiglianza esteriore con il rilievo delle forme.

La pittura cinese o giapponese, ad esempio non cerca nella prospettiva una rievocazione illusiva di una spazialità reale, ma si rivolge ad una costruzione interiorizzata, tra sogno e ricordo. L'artista doveva alludere senza descrivere in modo che lo spettatore guardando l'opera doveva godere della vibrazione sentimentale che essa trasmetteva.

Le differenze che colpiscono queste due mentalità non si fecero sentire solo dal lato della prospettiva ma anche da una distinzione che facevano gli occidentali verso le arti, assente in oriente. Ad esempio in occidente vi erano arti maggiori: architettura, pittura e scultura, di più alto livello e prestigio delle arti minori quali: oreficeria, intarsio, miniatura, tessitura, ricamo, ecc.. Questo in Asia non accade perché qualsiasi forma di arte se riesce a raggiungere un alto livello estetico, è grande arte.

 

In Cina al contrario, vi è distinzione tra arti maggiori quali: pittura, poesia, musica e calligrafia. Scultura e architettura sono considerate minori perché la pesantezza della materia usata non conosce il "vuoto". Visto che la concezione di "vuoto" è un elemento importante per la loro flosofia. Ecco perché troviamo nell'arte figurativa un processo illusivo che si impernia sul contrasto tra segno e vuoto pittorico con effetti delicatissimi e profondi. Le linee e i colori formano lo spazio.

 

"se la parola è la voce dello spirito, la calligrafia ne è l'espressione grafica"

 

(Yang Hiung 53 a.c. - 18 d.c.)

 

Queste parole non sono nuove alle nostre conoscenze filosofiche, anche nella bibbia il verbo è il linguaggio dello spirito e il disegno ne è la sua espressione. Ma mentre un cinese apprezza con meditazione ogni singolo segno grafico fin nei minimi particolari, per l'occidentale questo non accade. Per l'artista il primo principio è di cogliere il riflesso del Tao, l'ineffabile e l'indefinibile legge che regola l'intero universo, e in questo modo animare l'opera che si viene creando.

 

Rotolo dipinto,

dinastia Ch'ing. New York.

 

In occidente si cercò più di descrivere le storie legate ai testi religiosi, attraverso simboli iconografici legati alla logica, e dal XIV al XVI secolo, il pensiero attinge al sacro attraverso una conoscenza del sapere elitaria. Questo fa si che l'occidente si avvicini sempre più alla scienza, perdendo il contatto con lo spirituale, che viene mantenuto solo da pochi attraverso la sapienza esoterica.

L'India mette al primo posto l'architettura come grande arte e gli architetti dovevano avere conoscenze tecniche, psicologiche,  religiose e geomantiche. Nell'arte indù l'espressione artistica è filtrata da una concezione sacrale e metafisica, che annulla l'esperienza sensibile. Spesso gli artisti danno forma a visioni che si ottengono attraverso stati meditativi. L'immagine diviene un iconogramma: una figura a schema antropomorfo nella quale le posizioni, i gesti, gli atteggiamenti delle mani, gli attributi e i simboli creano un diagramma, capace di precisare il valore della divinità, fino a rilevarne lo stato psichico o meditativo, deducibile dall'aspetto in generale e non dall'espressione del volto.

Questo tipo di arte non è stata capita dagli occidentali e lascia poche tracce da noi; nel seicento arriva a noi solo come documentazione curiosa di un mondo esotico, aumentandone il collezionismo, ma finendo per confermare la superiorità di altri sistemi religiosi.

 

Affresco, grotta di Bamyn, V-VI sec. d.c.,

Kabul, Afghanistan

L'Iran e il centroasia fu in contatto diretto col mondo bizantino, e successivamente sorgente d'ispirazione per il modo di fare arte dell'Islam. E' il centro d'incontro di tutte le culture perché zona di transito commerciale e anche di idee religiose. Troviamo forme ellenistiche e romaniche simili ai gruppi scultorei di demoni gotici e Buddha avvolti in una luce a mandorla più simile alla concezione cristiana che non vicino al significato originario, caratteristici agli schemi del bizantino.

 

 

 

Tra la fine del XIII e la metà del XIV secolo, la pittura fiorentina e senese con Giotto, Ambrogio Lorenzetti e Simone Martini rappresenta nei dipinti sete orientali, provenienti dai territori dominati dai mongoli. Motivi persiani, figure di soldati mongoli, o sete dell'estremo oriente, oltre che insistere sulle scritte di falsa grafia araba in ornamento alle vesti indossate dalle persone sacre. Sono espedienti usati per alludere all'Oriente, alla terra santa ed era indice di preziosità.

 

Simone Martini, Annunciazione,

1333, Firenze, Uffizi.

Giotto, San Francesco scaccia i demoni da Arezzo,

1297-1300, Assisi, Basilica di San Francesco.

 

In seguito ai mongoli in Italia arrivarono le influenze turche, con vesti e fisionomie sempre che ricordavano l'oriente e l'esotico.

Iconograficamente nella pittura italiana abbiamo varie influenze cinesi ad esempio nella rappresentazione del demonio con le ali di pipistrello, oppure nella rappresentazione delle rocce che influenzarono Mantegna, ma anche Bosch o Brügel.

Dal XVI fino al XVIII secolo, i rapporti commerciali tra oriente e occidente sono sempre più voluminosi e questo peggiora i rapporti dal punto di vista religioso venendosi a creare conflitti estremi tra i vari paesi orientali e con una religiosità più rigida data dalla controriforma in occidente.

Nel settecento esplose in Francia una forte spinta verso il collezionismo di "cineserie", il cui gusto si rifletté nel Rococò in tutte le discipline artistiche. Diventa una moda verso l'esotico che sfocia nella prima metà dell'ottocento nella corrente degli orientalisti, dove vengono rappresentati soggetti del mondo musulmano in scene e aspetti di vita. Non sono scelte di tipo iconografico, teorico o stilistico, ma fatte per il puro piacere dell'esotismo nell'aspetto colorato, di culture solari, vivaci, più adatte alla libertà di fantasticare.

 

Hokusai, La grande onda presso la costa d Kanagawa (1830-1832) silografia policroma, New York.

Ma il Giappone dà la vera svolta nello sviluppo dell'arte in Europa. Con la nascita del Giappone moderno iniziano a diffondersi le stampe Ukyo-e ispirate al mondo effimero degli attori e delle cortigiane giapponesi. Le stampe di Utamaro (1753-1806), Hokusai (1760-1848) e Hiroshige (1797-1858) furono conosciute a fondo soprattutto a Parigi. Molti pittori europei furono presi dal fascino delle loro stampe, basti pensare a Van Gogh, o Gaugain in Francia. Le derivazioni giapponesi le ritroviamo poi nello stile orientaleggiante dell'Art Noveau diffusosi in tutta Europa e raggiunsero tutti i campi artistici dalla scultura, all'oggettistica, all'architettura fino ad oggi.

 

 

 

Prendiamo ad esempio V. Van Gogh, in questo ritratto si scorge il suo vivo interesse per le stampe giapponesi ritratte sullo sfondo, copie di Hiroshige, Utagawa, Hokusai, Keisai, e altri anonimi.

Non solo, pian piano vedremo che anche il suo stile pittorico si evolverà in quella direzione. In questo dipinto il tratto della pennellata è simile ai dipinti impressionisti, ma pochi anni dopo, in un dipinto come "Notte stellata" (1889), si rileva l'importanza della linea nera che contorna le sagome del paesaggio, oltre all'andamento curvilineo delle pennellate del cielo, andamento tipico orientale del segno, come si riconosce in Hokusai.

Questo fascino verso l'oriente, dalle linee curve sinuose, allo stesso tempo, tratti netti e decisi, non colpirà solo Van Gogh.

Inconsciamente questo tipo di scelta è indirizzata verso una direzione altamente spirituale, che si sviluppa seguendo quelle forme e quelle determinate linee.

 

 

 

 

 

Con quali forme, linee, vogliamo costruire le cose del mondo fisico?

Gli uomini desiderano creare le cose del mondo fisico in base al ricordo che avevano del loro aspetto, di quello che le circondava in cielo.

Così abbiamo visto come il disegno non sia altro che espressione dello spirito, un mezzo artistico che ci pone attraverso il suo "fare" in contatto con il tutto. Esso è al principio dell'opera, è al principio delle leggi che regolano l'universo, perché ha in sé la "misura" o armonia che regola, e con cui si "costruisce" il macrocosmo e il microcosmo.

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V. Van Gogh, Portrait of Père Tanguy,

olio su tela, 92 x 75 cm, 1887.
Parigi, Musée Rodin.

a cura di A. Delvecchio

 

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