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il Rimino - Riministoria

Documenti su Giuseppe Antonio Barbari
e la Nuova Scienza in Emilia-Romagna

3. Il patrocinio d’Epicuro (1681) di Giovan Francesco Bonomi

Nelle Memorie imprese e ritratti de’ Signori Accademici Gelati di Bologna (Manolessi 1672), come si è visto nella scheda dedicata a «Sapere e potere», si legge a pag. 216, a proposito di Giovan Francesco Bonomi, che questi fu amico di Lodovico Tingoli.
Bonomi fu autore de Il patrocinio d’Epicuro (1681), una dissertazione che, come si ricava dal suo rivolgersi appunto agli «Accademici» (p. 113) fu letta in una qualche radunanza, forse degli stessi Gelati. E pubblicata in Bologna nello stesso anno dall’«Erede di Domenico Barbieri», stampatore, nel volume intitolato Il Seneca di Giovanfrancesco Bonomi [...] con altre sue prose accademiche, e poesie annesse [...]. (Si noti il particolare accenno alle «altre sue prose accademiche»: il che dovrebbe suggerire un ulteriore riferimento alle riunioni dei Gelati o di qualche altra accademia a cui il Nostro era ascritto.)
Quest’opera s’inquadra nel clima bolognese della seconda metà del sec. XVII in cui opera l’abate benedettino Vitale Terrarossa (1623-1692), allora lettore di Filosofia nello Studio felsineo, che fu maestro di Anton Felice Marsili (1649-1710). Terrarossa aiutò Marsili ad elaborare le sue prove universitarie (1668-1669), nelle quali l’idea democritea di un mondo composto «e atomis casu congregatis» è riaffermata come non contraria alla religione cristiana.
Marsili nelle sue «tesi» spiega che i professori cattolici, così come hanno potuto accogliere Aristotele, possono allo stesso modo seguire Democrito ed insegnare l’atomismo, senza timore che esso implichi la negazione di Dio.
Anton Felice Marsili nel 1670 prende gli ordini, e l’anno dopo pubblica a Bologna nelle Prose de’ Signori Accademici Gelati di Bologna (Manolessi) lo scritto Delle sette de’ filosofi e del Genio di Filosofare, al centro del quale sta la proposta della riabilitazione di Democrito. A Terrarossa Marsili si richiama, pur senza nominarlo, quando scrive che «un grande ingegno», a cui deve «obblighi di discepolo», «toglierà l’infelice Democrito dal catalogo degli Ateisti, mostrandolo genuflesso a gli altari conoscitore della Deità»: «Le Accademie vedranno imitato S. Tommaso, di cui fù detto, che Aristotelem Christianum fecit, mentre che il zelo di un Monaco Democritum Christianum faciet». [Cfr. Ombre di Galileo,«Cap. 3. Le accademie bolognesi del secondo Seicento».]
Marta Cavazza sottolinea «la freschezza dell’apologia dell’esperienza» di questo testo, la «baldanza» nell’attacco ai sostenitori del dogmatismo aristotelico dell’«ipse dixit», e la «spregiudicatezza della denuncia delle inesattezze e degli errori degli antichi autori, Aristotele e Plinio in testa, che i moderni hanno finalmente smascherato» (Settecento inquieto, Bologna 1990, p. 88).
Importante è la sottolineatura che Marta Cavazza fa della figura di Marsili: egli «fu probabilmente colui che con maggiore consapevolezza si fece portavoce della necessità di un rinnovamento della cultura cattolica che la liberasse da ciò che poteva costituire un ostacolo a una prudente assimilazione della scienza moderna» (p. 85).
In questo contesto s’inserisce il breve scritto di Bonomi. Ma Bonomi si differenzia da Marsili il quale nello scritto di cui stiamo parlando, rifiuta completamente Epicuro, definito «il più empio de’ Filosofi» (p. 301). Nella pagina successiva, Marsili annota: «Per mostrare l’empietà d’Epicuro non voglio il testimonio della Fama, già che la penna di Pietro Gassendi lo rende sospetto».
Sotto accusa presso Marsili, quindi, oltre ad Epicuro finisce Pierre Gassendi per quella sua difesa che ne fece nel De vita, et moribus Epicuri, dove leggiamo (ed. Lugduni 1658, p. 224) che Epicuro fu considerato «informis» nei secoli in cui le «bonae litterae» giacquero sepolte.
Gassendi a questo punto presenta, tramite richiami umanistici, la proposta di reintrodurre Epicuro nel coro dei filosofi, come dice il titolo del cap. VIII della sua opera. (Gassendi riabilita Epicuro sulla scia di Valla e di Erasmo, «anche se a prezzo di una cristianizzazione della dottrina del filosofo greco», Rossi-Viano, p. 362)
Marsili rappresenta l’ala che (in termini contemporanei) potremmo definire conservatrice della scuola che vuole rinnovare la cultura cattolica. A Marsili ed a quanti la pensavano come lui, il nome di Epicuro fa paura, nel solco di una tradizione che aveva condannato quel filosofo che godeva di «mala fama» perché considerato «il filosofo del piacere» (Diano, p. 7): «Quando il cristianesimo divenne la religione dello Stato romano, la scuola di Epicuro si estinse e per molto tempo ancora non sarebbe stato più possibile accettare nulla da chi aveva negato la provvidenza divina e l’immortalità dell’anima» (Diano, p. 37).
Epicuro fu riscoperto (come si è appena visto) da Erasmo da Rotterdam, secondo cui «il cristiano è il migliore discepolo di Epicuro» (ibid.).
Cosimo Raimondi nella prima metà del XV sec. propose una Defensio Epicuri contra Stoicos, Academicos et Peripateticos.
Intanto Poggio Bracciolini (1417) aveva scoperto il De rerum natura di Lucrezio che ripropone la lezione di Epicuro con una variante che però nuoce al filosofo greco laddove questi è presentato (I, 66-67) come il primo greco che avesse osato sfidare e contrastare la religione. Lucrezio identifica «religio» e «superstitio», mentre Epicuro distingueva fra una religione «vera» ed una «falsa» (Dionigi, p. 77).
Epicuro nella Lettera a Meneceo, 123 (in Lettere, Milano 1994, p. 143) spiega al proposito: «Gli dei esistono: perché la loro conoscenza è evidente; ma non esistono nel modo in cui i più li concepiscono, perché non conservano la nozione che hanno».
Lucrezio ripropone «l’insegnamento di Epicuro per il quale il raggiungimento del fine etico passa attraverso un’approfondita conoscenza scientifica». Conoscenza che deve liberare l’uomo dal timore della morte e dell’aldilà e dalla paura degli dèi (Pasoli, pp. 298-299).
Al proposito, su questo passo di Lucrezio, ricordiamo il bel commento che scrisse Concetto Marchesi: «Il problema – quale intendeva risolvere Epicuro – ha un presupposto che fa paura per la sua desolante lontananza: il presupposto della sapienza che dovrebbe creare l’isola dei beati nella plaga smisurata degl’ignari travolti dalle passioni. […] Verso quella riva tutte veleggiavano le navi dell’antica sapienza per varie ed opposte vie: attraverso l’immenso mondo delle cose, attraverso l’immenso mondo delle idee; e tutte annunziavano di essere arrivate. Vascelli fantasmi giunti in porto senza più ciurma» (p. 224).
Poi era venuto il ricordato Pierre Gassendi, «un onesto canonico di Digione», secondo cui l’atomismo di Epicuro poteva fornire una base più adeguata alla nuova Scienza (Diano, p. 40).
Ma era anche giunta, in Italia, la proposta di Alessandro Marchetti (1633-1714) che nel 1670 aveva concluso la traduzione dell’opera di Lucrezio. Essa uscirà soltanto postuma, a Londra nel 1617, «dopo una tormentata vicenda di continui rinvii per cause di censura» (Longhi, 318).
Marchetti bene riassume lo scandalo che rappresenta quella Scienza nuova per affermare la quale egli aveva intrapreso la traduzione di Lucrezio. Marchetti ha studiato Medicina a Filosofia a Pisa, avendo come insegnante Giovanni Alfonso Borelli a cui succede, e non era costituzionalmente un poeta bensì un autore di trattati fisico-matematici influenzati dalla lezione galileiana e dall’empirismo baconiano. (Su Borelli, cfr. le citt. Ombre di Galileo, Cap. 5. «Atomismo, da Napoli a Venezia».)
Marsili quindi, quando definisce Epicuro «il più empio de’ Filosofi», non fa altro che richiamarsi ad una tradizione culturale e religiosa di grande vivacità e forza nella seconda parte del secolo diciassettesimo.
Sul versante opposto rispetto a Marsili, si pone Bonomi che su Epicuro sostiene: «I suoi insegnamenti sono sani, i suoi costumi furono religiosi […]. Diedero occasione a far mal concetto di lui gl’invidiosi del suo sapere, vedendo tutta la gioventù affollata per ascoltare la di lui Filosofia, abbandonate affatto le scuole altrui» (pp. 118-119). E circa quest’invidia verso Epicuro da parte dei colleghi suoi contemporanei, Bonomi poco prima ha precisato che essa «seppe trovar colpa» nella sua innocenza, e «rinvenire errore» nella sua dottrina (p. 117).
Bonomi richiama Diogene Laerzio, secondo cui Epicuro «non hebbe per favola gli Dei, come altri filosofanti»: «Ecco, Signori, quell’Epicuro il quale pose l’umana felicità nel piacere così malamente interpretato da’ maligni, che taluno vago di piaceri suol apparsi Epicureo. […] Insegnò, è vero pur troppo, che l’umana beatitudine consiste nella voluttà, ma nella voluttà dell’animo, non del corpo, come sognano i lividi avversarj di così celebre Filosofante» (pp. 120-121). E qui riprende un passo d’Epicuro. Del quale passo dice che è costituito da «parole maschie d’un Ercole Cristiano» (p. 122).
Circa le «conclusioni» della filosofia di Epicuro, Bonomi osserva: «Io non so, se possono dir altro, anzi altro non han detto, que’ Sacri Scrittori, che dan regole a’ seguaci di Cristo, perché profittino nell’accademia delle religiose discipline. Dobbiamo sempre anteporci un grand’huomo, per emular le sue azioni, e finger, che sia in nostra presenza, osservando egli le nostre. Con tanto rispetto, che nella solitudine nulla facciamo di quelle cose, che, in sua presenza ci vergogneremmo di fare» (pp. 123-124).
Nella dedica a Giovanni Battista Laderchi Montevecchi, Bonomi scrive che Epicuro è «un Filosofo compostissimo di sentimenti quantunque dal trivio condannato per de’ più sciolti di cintola» (p. 112).
Non manca neppure in Bonomi un richiamo all’opera di Lucrezio, quando il discorso si riferisce alla vita resa tediosa dal ripetersi delle stesse azioni: «La Natura medesima compassionando l’huomo, confessa di non saper trovare cosa nuova, per tenerlo a bada» (p. 128).
La citazione di Lucrezio è presa dagli ultimi due versi di questo passo del libro terzo, che riproduciamo per esteso (vv. 940-945): «Sin ea quae fructus cumque es periere profusa / vitaque in offensost, cur amplius addere quaeris, /rursum quod pereat male et ingratum occidat omne, / non potius vitae finem facis atque laboris? /Nam tibi praeterea quod machiner inveniamque, / quod placeat, nihil est; eadem sunt omnia semper. (Se invece tutto ciò che hai goduto è perito e dissolto nel nulla, / e la vita ti è in uggia, perché cerchi ancora di aggiungere / ciò che avrà triste fine, a sua volta, e un ingrato tramonto totale, / e piuttosto non poni fine alla vita e ai tuoi affanni? / Tutto quanto difatti io escogiti e possa inventare / che ti piaccia, non serve: le cose sono sempre le stesse» (trad. di Luca Canali).
L’operetta di Bonomi su Epicuro, come si è visto, è raccolta in un grosso volume di altri suoi scritti (Il Seneca di Giovanfrancesco Bonomi [...] con altre sue prose accademiche, e poesie annesse [...]) , che si conclude con questa avvertenza dello «Stampatore à chi leggerà»: «L’Autore è un buon Cattolico, onde non hai da prender in senso ripugnante alle Sante Leggi minimo vocabolo di quelli, che scrive con penna poetica. Protestandosi, che cancellerebbe col vivo sangue delle sue vene riga per riga quanti volumi hà pubblicati fin hora, quando in una sillaba sola ripugnassero alla S. Chiesa Romana, et a’ civili costumi, ne’ quali si professa eziandio religiosissimo» (p. 334). (Si noti che anche la discussione filosofica è contrabbandata, per timori di censure, quale frutto di «penna poetica».)
A quest’avvertenza dello «Stampatore» fa seguito (p. 335) un sonetto di Anton Felice Marsili in lode di altri due scritti di Bonomi contenuti nel volume: Democritus, seu morales Risus ed Heraclitus, seu morales Fletus. Riproduciamo la composizione di Marsili: «D’Eraclito, Signor, l’antico Pianto, / E del Vecchio d’Abdera il noto Riso / Mirai simile al vostro dotto Pianto, / E vidi eguale al vostro nobil Riso. // O quanto allor conobbi il saggio Pianto / Esser sovente unito a incauto Riso; / Che il Riso poi và a terminare in Pianto, / E che il Pianto del Mondo al fine è Riso. // Che son gli scettri, e gli Ostri, e i Regni un Pianto, / Benché apparenza ognor abbian di Riso, / Che Riso è sol d’animo giusto il Pianto. // Che la vita di noi non è, che un Riso, / E un Riso sì, che s’accompagna al Pianto, / Ma lungo è Pianto, e molto brieve il Riso».

Note

1. Citazioni bibliografiche
Canali = Luca Canali, vedi sub Dionigi
Diano = Epicuro, Scritti morali, introduzione e traduzione di Carlo Diano, Milano 1994
Dionigi = T. Lucrezio Caro, La natura delle cose, I, testo e commento a cura di Ivano Dionigi, Milano 1994
Longhi = Silvia Longhi, La poesia burlesca, satirica, didascalica, «Manuale di Letteratura italiana, 2», Torino 1994
Marchesi = Concetto Marchesi, Storia della Letteratura latina, I, Milano-Messina 1975
Pasoli = B. Gentili, E. Pasoli, M. Simonetti, Storia della letteratura latina, Bari 1976
Rossi-Viano = Storia della filosofia, 3. Dal Quattrocento al Seicento, a cura di P. Rossi e C. A. Viano, Bari, 1995

2. Notizia bibliografica (dal catalogo URBS)
Giovan Francesco Bonomi, ovvero Giovanni Francesco Bonomi
Autore: Bonomi, Giovanni Francesco, da Bologna, 1626-1705.
Titolo: Il Seneca di Giovanfrancesco Bonomi ... con altre sue prose accademiche, e poesie annesse ...
Pubblicazione: Bologna, Eredi di Domenico Barbieri,
Anno di pubblicazione: 1681.
Descrizione fisica: [12], 383 p. 15 cm.
Note: Front. agg. inciso.
Lingua: Italiano
Biblioteca Apostolica Vaticana, Ferraioli.V.6553

3. Notizia bibliografica su Lucrezio
Il testo del De rerum natura, è reperibile integralmente nella versione originale ed in quella tradotta su Internet a questo indirizzo: da <http://www.biblio-net.com/lett_cla/testi/drn_liber_i.htm> (libro primo) a <http://www.biblio-net.com/lett_cla/testi/drn_liber_vi.htm> (libro sesto).

4. Notizia bibliografica su Bonomi e Giuseppe Malatesta Garuffi
Nella Gambalunghiana si conservano le traduzioni dal latino (fatte da Giuseppe Malatesta Garuffi), di due opere di Giovan Francesco Bonomi: Il Chirone d'Achille e l'Heraclito.
Dagli spogli gambalunghiani (catalogo di Piero Meldini): «Sc-Ms.462 Sec. XVII. Bonomi, Giovan Francesco. 1. Il Chirone d'Achille [...] del Signor Giovan Francesco Bonomi, translato dall'idioma latino al volgare da Don Giuseppe Garuffi... 2. Heraclito [...] del Signor Giovan Francesco Bonomi, traslatato [...] da Don Giuseppe Garuffi... 112 cc. 192X125. D.IV.6 4.D.IV.27» (v. anche Sito Gambalunga).
Nello stesso manoscritto sta il testo attribuibile allo stesso Garuffi intitolato De modo figurarum astrologicarum describendi (cc. 99-110). Su questo ms. si veda la p. 5. Garuffi, un prete astrologo.
Garuffi è anche l’autore di composizioni su Lodovico Tingoli (ms. gambalunghiano 474, Miscellanea) e dell’orazione funebre per lo stesso (cc. 57-59). (V. catalogo Meldini: «Sc-Ms.474 1669-1673. Garuffi, Giuseppe Malatesta. 1. [Vaticini e profezie sui romani pontefici raccolti da G. M. Garuffi]. 2. Index philosophicum, mathematicum, medicum, physiognomicum et morale... 3. In [...] Ludovici Tingoli [...] mortem oratio funebris. 4. [19 poesie] ecc. 126 cc. 200X135. 118 DP.I.A.7 D.IV.110 4.D.IV.39».)

5. Notizia bibliografica su Bonomi (Schede Gambetti)
In Gambalunga, nelle Schede Gambetti, scatola 15, n. 144, è presente la voce Bonomi (Giovanfrancesco) Bolognese, in cui si leggono alcune notizie interessanti relative a Lodovico Tingoli.
Esse si riferiscono ad un’opera di Bonomi (Del parto dell’Orca idee in embrione, Heredi di Evangelista Dozza, 1667), in cui è ripetutamente cit. Tingoli medesimo.
In quest’opera anzitutto (p. 171, I tomo) c’è un sonetto di Tingoli («Commenda il mio Eraclito […]», intitola Bonomi), a cui lo stesso Bonomi risponde con altro analogo componimento (p. 172).
Poi c’è una lettera di Bonomi a Tingoli (p. 343, I tomo): «Avvegnaché io mi ritenga nel cuore il vivo originale di Vossignoria nulla di meno mi è giunta gradita la bozza desiderata del di lei Ritratto, per lo desiderio grande, che io tengo di far pubblica apparire in alcune mie prossime stampe la stima, che io faccio di Vossignoria, e della sua valorosa Penna. […]».
Questa lettera (senza data) rimanda a p. 214, II tomo (sempre 1667), ove è pubblicato il ritratto del nostro Tingoli con dedica in latino, nella sezione del libro intitolata «I favoriti d’Apollo». (Ogni sezione ha un frontespizio tipograficamente autonomo, come se si trattasse di opera a sé stante.) A p. 215 segue un sonetto dedicato a Tingoli.
Infine, alle pp. 279-305 c’è una sezione con tre elementi dedicati al rapporto fra Bonomi e Tingoli.
Bonomi scrive una lettera d’apertura della sezione, diretta a Tingoli, lettera che prende spunto dal componimento inviatogli dal riminese sulla vita di corte (pp. 279-281), intitolato nel volume «Del Sig. Lodovico Tingoli à Giovanfrancesco Bonomi, dissuadendolo dalla Corte alla quale venne da virtuoso Personaggio fortemente invitato».
Il componimento di Tingoli è presentato alle pp. 282-293.
Segue la risposta poetica di Bonomi alle pp. 294-305.
La lettera di Bonomi, posta ad apertura della sezione, è fortemente autobiografica: «Questo furor poetico è un certo prurito, che quando serpeggia per le vene à stento se gli può far riparo» (p. 280).
Circa la vita di corte scrive Bonomi nella lettera d’apertura della sezione: «Non hà dubbio alcuno, che dentro alle Corti la virtù si muore à lenta febbre […]. Chi vive in Corte muore in paglia» (p. 280). I due componimenti poetici (in quartine) di Tingoli e di Bonomi sviluppano questo tema.

Ringraziamento
Per la compilazione di queste notizie e di questa pagina, un sentito e sincero ringraziamento debbo esprimere alla dottoressa Cecilia Antoni della sezione Fondi Antichi della Biblioteca Gambalunghiana di Rimini, per la preziosa ed attenta collaborazione da lei ricevuta nelle mie ricerche.

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