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SPETTACOLI E CULTURA

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Letteratura sommersa di Marcello Tucci Ott. 2002

S’intenda per letteratura ‘sommersa’ quella produzione letteraria semi sconosciuta al lettore medio abituale, che per svariati motivi poco conosce il panorama internazionale del settore. Una delle cause può essere attribuita ad una particolare politica editoriale di gruppi di grosso dominio e concentrazione. Un’altra ancora può essere ricercata per l’estrazione etnica degli autori, che faticano non poco ad incontrare il grosso pubblico troppo concentrato sui nomi di punta della narrativa mondiale. Se ancora dovessimo entrare nel campo puramente statistico, magari con l’ausilio delle cifre suffragate dagli indici di vendita, ci accorgeremo che lo spazio occupato da autori, di diversa provenienza, che non sia quella americana o inglese, per dirne un paio, è praticamente irrisorio. Con ciò non voglio entrare in una spinosa polemica, che non ci porterebbe da nessuna parte, oppure sul fatto che autori di grossa diffusione e spiccatamente commerciali non producano opere letterarie d’ottima fattura. Abbiamo validi esempi che ci inducono a riflettere che autori come Le Carre’, King, Easton Ellis, per citarne alcuni, catturando molta attenzione intorno a sé al tempo stesso sono latori di romanzi e raccolte di grande livello sia espressivo che di contenuti. Al tempo stesso dobbiamo altresì notare molti scrittori, che puntualmente sfornando titoli a cadenza annuale, spiccano negli indici di vendita con mediocri risultati dal punto di vista di un apprezzabile valore letterario. Nonostante ciò questi autori sono sorretti da una forte eco pubblicitaria a danno di libri ed autori, diciamo, meno fortunati. Questo è un fenomeno diffuso in ogni attività artistica ed espressiva, come ad esempio per l’industria cinematografica dominata in larga misura dalla produzione statunitense supportata dalla grande capacità economica di imporsi sul mercato internazionale della distribuzione. Qualche cosa però da alcuni anni a questa parte sta cambiando; ciò si deve a coraggiosi editori che hanno preferito avventurarsi verso diverse voci narrative, cercando di proporsi con prodotti ugualmente validi e non di nicchia. Grazie a questi operatori culturali abbiamo assistito ad una rivoluzione in tal senso ed abbiamo potuto conoscere molti scrittori, narratori, poeti latino americani come Marquez, Borges, Puig, Scorza, Amado che hanno aperto la strada a culture fino allora sconosciute e che ancora porta nelle nostre librerie gente come Sepulveda, Skarmeta, Chavarria e via dicendo. Questi scrittori hanno per molti significato qualcosa e ci hanno fatto conoscere non solo le loro storie narrate, ma anche la storia specifica dei paesi di provenienza. Nonostante il grande sforzo di questi editori ancora si fatica non poco a porre una giusta attenzione sui molti provenienti da mondi a noi lontani come l’Asia, L’Africa o su altri addirittura europei che non siano originari di Paesi come Francia, Inghilterra, Italia o Germania. Quali sono dunque le cause per questi artisti che impediscono di raggiungere agevolmente i banchi delle nostre librerie? Si sa che l’industria culturale oggi più che mai, con uno sguardo alle cifre di vendite, preferisce investire nei successi consolidati evitando cosi ardite avventure. Concentrando il loro sforzo su autori commerciali, che avendo in comune una miscela stilistica collaudata, riescono ad imporsi sul mercato costringendo editori con una politica diversa ad una produzione limitata e quasi ‘clandestina’. Forse in questi tristi risvolti o pratici calcoli commerciali possiamo trovare risposte ai nostri perché sull’esclusione dai cataloghi d’autori di diversa estrazione e forse non di sicuro successo e vendita. Vorrei però evitare facili polemiche o atteggiamenti accademici ed entrare magari nello specifico dell’argomento. Lo vorrei fare saltando qua e là da un autore e l’altro e da un continente all’altro per dare un panorama generale di queste letterature vissute, per troppi anni, all’ombra delle specifiche esigenze commerciali.

 

Il costo della cultura di Marcello Tucci Nov. 2002

Sul perché in Italia il consumo culturale non è alla portata di tutti, ed i suoi costi sono alti, se non proibitivi. Tutto ciò tenendo conto che i maggiori fruitori di consumo culturale sono i giovani, insomma la fascia più a rischio e più disagiata economicamente. A questa domanda chiediamo una risposta concreta e non più vaghe promesse d’impegni formali, ma sostanziali interventi atti ad invertire drasticamente la condotta fin qui, irresponsabilmente, avuta. Innanzi tutto vorrei specificare cosa s’intende per consumo culturale, senza farci impressionare da questa parola. Mentre leggiamo un libro per svago, per studio, così come ascoltiamo musica o vediamo opere artistiche, film, lavori teatrali ed altre cose simili stiamo appunto facendo consumo culturale, forse senza neanche rendercene conto e senza nessuna pretesa erudita. Dunque, dopo esserci così spogliati da un sospetto di civetteria accademica, possiamo finalmente cercare di capire perché tutto ciò sia oneroso e non supportato da politiche culturali atti a contenerne le spese, miranti ad un largo consumo di massa. Quante volte abbiamo sentito la nenia fastidiosa sul perché nel nostro paese sia così basso il numero dei lettori in confronto ad altri paesi europei? Quante volte la stessa nenia sulla bassa affluenza nei cinema, nei teatri, nelle mostre d’arte e via dicendo? Oppure la stessa lamentela la sentiamo per l’acquisto di musica, di giornali, riviste e via discorrendo? Pensate che ciò sia da imputare solo alla mancanza di stimoli che dovrebbe giungerci dalla scuola o dai mezzi d’informazione, oppure da un disinteresse generalizzato per questi beni che sembrano non riguardarci. Queste lamentele che ho sopra citato ci vengono dai discografici, dalle case editrici, dalle catene di distribuzione cinematografica che passano il loro tempo a stilare esasperanti statistiche miranti a colpevolizzare chi non vuole avvalersi di questi consumi. Ma mai e poi mai sentiamo da questi addetti ai lavori un esame di coscienza sui costi cui vogliono costringerci che, ripeto, sempre meno sono alla portata di tutti. Per fare un esempio prendiamo il costo medio di un cd musicale che si aggira oltre le 35.000 lire, ben oltre il costo medio dei paesi europei. Dobbiamo riconoscere che se non fosse stato per la cosiddetta pirateria musicale ancor meno sarebbe stato il numero di giovani che poteva godersi l’ascolto di cantanti o gruppi preferiti.  Certamente è più o meno discutibile l’uso della pirateria che viola i diritti d’autore, ma di certo il più delle volte è stata per chi ne ha fatto uso di una vera e propria legittima difesa.Dunque a chiara voce dobbiamo pretendere l’abbattimento dei costi, che ricadono sui consumatori indifesi. Per questo motivo appelliamoci ai nostri cantanti e gruppi preferiti di far pesare la propria opinione in tal caso, esigendo un prezzo popolare che tuteli il produttore, l’artista e non ultimo l’ascoltatore. Alcuni gruppi riescono ad imporre un prezzo ragionevole, parlo dei 99 Posse ed altri simili, seguendo l’esempio che in Inghilterra avviene da tempo. Non dobbiamo stancarci di far sentire la nostra voce, come in questo caso, aumentando così il tam tam che da un po’ di tempo si sta levando in questa direzione. Non parlo solo per la musica, ma anche per i libri, il cinema e quant’altro. La battaglia è all’inizio e non si presenta facile, tuttavia gli strumenti non ci mancano: riviste come Oblò, internet ed altri mezzi d’informazione possono esserci d’aiuto. Tutto può contribuire ad aumentare il nostro peso ‘contrattuale’ verso chi è addetto alle politiche culturali che una volta per tutte si decida a lavorare in questo senso, non con scelte risibili ed inefficaci come un autofinanziamento derivante dal gioco del lotto. Trasformiamo questi luoghi d’incontri in piazze virtuali dove confrontarci e scambiarci consigli per appropriarci di questi ‘beni’ che ci appartengono, appartengono a tutti!

 

Carmelo Bene. Io non lo conoscevo bene dell'Avv. Fausto Cerulli 

Ago. 2002

Carmelo Bene, io non l’ho conosciuto bene. Ho visto molti dei suoi spettacoli, mi sono lasciato provocare quel tanto che lasciava contenti provocatore e provocato; ed io che in genere a spettacolo finito sono di quelli che vanno a fare i complimenti al mattatore, con lui non ho avuto né tempo né occasione; perché Carmelo Bene, prima dello spettacolo e subito dopo, continuava ad esser solo con se stesso e non è che non volesse veder gente in camerino: era proprio che non vedeva. Parlo di adesso, ovviamente; di quando era diventata una star, e ci giocava sopra, a far la star dello star male. In altri tempi fu diverso; parlo degli anni ’60, quando il teatro o era Pirandello del Quirino o era l’avventura degli scantinati di Roma. Lo chimavano far laboratorio: quasi che fossero chimici attenti agli alambicchi, ed erano studenti innamorati del teatro, e che per gelosia lo maltrattavano: almeno così sembrava, ed erano le avancès di un innamorato timido. Una di quelle storie si svolgeva in una traversa di Via del Gambero, a quattro passi dal Caffè dove andava Malagodi con la corte, e qualche volta Lelio Basso, senza corte. Caffè Ciampini, adesso mi ricordo. A cinquanta metri svoltavi in una piazza sempre buia, angusta come si addiceva all’avanguardia. Un portone che apriva alle otto in punto, e una freccia di legno che indicava il sottoscala. Fu lì che vidi le prime teatrazioni fuori norma: e fu lì che conobbi anche Carmelo Bene. A quel tempo giocava con Camus, ma guai se gli dicevi che giocava: aveva già allora i bulbi oculari sporgenti, come chi soffre di tiroide; ma gli occhi erano pericolosi, gli occhi di un serpente che si guarda dentro. A quel tempo si usava che a spettacolo finito ( e dovevi capirlo a volo, che finiva: e applausi niente, malvezzo di borghesi) si andava a mangiare un piatto di spaghetti dalle parti di via delle Coppelle, zona Pantheon; che si mangiava bene, a poco prezzo, e nessuno storceva il naso alle bestemmie. Intese come bestemmie religiose o come bestemmie di cultura. Carmelo non bevevo, lo ricordo perché bevevamo tutti quel cattivo vino di Roma che ai Castelli c’era stato nel sogno del trattore. Carmelo parlava poco: lo ricordo perché non facevamo che parlare, parlarci addosso, parlare addosso al mondo. Carmelo mangiava poco: ma voleva formaggio pizzicoso e peperoncino. Ora Che ci ripenso aveva l’aria di prenderci in giro, e di soffrirne. Io non facevo parte del gruppo, mi ero solo aggruppato: per questo mi guardavo il mio Carmelo, scorrendo nella mente le leggende metropolitane che si cuciva addosso: che amava il teatro per quanto odiava il pubblico, che non ammetteva commenti quando era in servizio di scena, che se non la pagavi ti mandava “affanculo”,  poi ti chiedeva scusa e se la prendeva con la Siae: come se la Siae c’entrasse qualche cosa, in quegli spettacoli improvvisati, rubati e maltrattati. Per tre o quattro sere frequentai il locale; credo che mi abbia notato perché ero più spaesato di lui, che era spaesato come un pugliese in esilio. E forse fu per questo che una sera, prima dello spettacolo, mi chiamò insieme a Tre o quattro altri studenti; ci portò in un angolo e ci disse:” Ma quando la finite Di venire a farvi prendere per il culo?” Proprio e solo così. Carmelo Bene. Io non lo conoscevo bene.

 
L’orrore del silenzio, il genocidio del popolo armeno di Tommaso Dumi Lug. 2002

La storia ci ha insegnato che il ventesimo secolo è stato teatro di terribili massacri, deportazioni di massa, conflitti atroci. L’orrore delle due guerre mondiali  è ancora vivo nella memoria di chi ha vissuto quei momenti, spettri di un passato troppo difficile da poter dimenticare del tutto.  Molto si è discusso e scritto riguardo l’olocausto di cui sono stati vittime gli ebrei. Farlo era quantomeno un dovere morale, l’approfondimento e la divulgazione di quanto è accaduto è stato svolto sempre con una grande voglia di capire, mai orfana di un forte senso di autocritica. Questo tentativo di non dimenticare mai , attraverso il dialogo, è rivolto anche alle generazioni future e ai giovani d’oggi, che non avendo vissuto  in prima persona le tristi esperienze dei loro nonni o dei loro parenti, rischiano di perderne il ricordo. Ma se è legittimo nonché fondamentale parlare dell’olocausto del popolo ebraico è altresì giusto illustrare,  spiegare e dar rilievo, per quanto possibile, ad  un’altra delle pagine più tristi della storia del genere umano e ci riferiamo al genocidio del popolo armeno, definito dalla sottocommissione dei diritti umani dell'Onu, come il "Il Primo genocidio del XX secolo".

Le informazioni sulle persecuzioni subite dagli Armeni  sono da sempre state fornite in modo per lo meno superficiale e sporadicamente, per motivi di varia natura. Finanche le immagini dello sterminio di queste genti da parte del governo turco, di quella che, per usare una espressione oggi tristemente nota e soventemente adottata, potrebbe essere indicata come una “epurazione etnica”, sono state raramente mostrate, anche in ambito televisivo.

La redazione di AnnoZero vuole pertanto trattare questo tema con l’attenzione e la delicatezza che merita, invitando i lettori a inviarci anche semplici riflessioni. Su gentile concessione della Comunità Armena di Roma, iniziamo ad introdurre l’argomento, mostrandovi un estratto dal resoconto stenografico dell’Assemblea Seduta n. 707 del 3/4/2000 con l'intervento dell’Onorevole Giancarlo Pagliarini in occasione del dibattito sul  riconoscimento del genocidio armeno da parte del parlamento Italiano, riconoscimento avvenuto con una risoluzione votata a maggioranza il 17 novembre del 2000.

“ - GIANCARLO PAGLIARINI:  Signor Presidente, signori deputati, pochi giorni fa il consiglio comunale di Roma ha approvato, all’unanimità, un ordine del giorno con il quale si riconosce la necessità che l’opinione pubblica mondiale intervenga a favore del popolo armeno, come è stato fatto nei confronti dell’Olocausto ebraico. Inoltre, i membri del consiglio comunale di Roma hanno chiesto che il Governo italiano riconosca il genocidio degli armeni.

…Il Parlamento italiano non ha ancora avuto la sensibilità ed il coraggio di riconoscere questa drammatica verità storica. La caratteristica di questo genocidio è stata, finora, il silenzio: al silenzio degli assassini si è aggiunto quello degli Stati, delle vittime, della diplomazia e della coscienza degli uomini. I pochi armeni che sono riusciti a fuggire al massacro si sono rifugiati in tutti i paesi del mondo e si sono messi subito a lavorare.

Hanno rispettato le leggi dei paesi che li hanno ospitati e hanno costruito famiglie, non hanno parlato delle loro terre, che hanno dovuto abbandonare per sopravvivere, né dei loro morti.

All’inizio hanno scelto il silenzio per ricominciare a vivere; è come se avessero cercato di dimenticare per trovare la pace in una nuova vita, ma il ricordo delle case abbandonate di corsa e per sempre, dei genitori, dei fratelli e dei parenti massacrati non si può spegnere; questo peso si può sopportare in silenzio, ma il ricordo si trasmette dai padri ai figli e, con il tempo, il silenzio diventa sempre più insopportabile. Noi e i nostri colleghi, membri dei Parlamenti degli altri quattordici paesi che fanno parte dell’Unione europea, abbiamo il dovere di interrompere questo silenzio delle coscienze e di dare il nostro contributo affinché tutti i paesi membri dell’Unione europea proclamino con forza e ricordino questa verità storica.

Riconoscendo il genocidio del popolo armeno, l’Italia e gli Stati europei che hanno accolto i pochi sopravvissuti riconoscerebbero la loro identità e darebbero finalmente un’ultima sepoltura morale alle vittime del genocidio.

Oggi, il mio compito è cercare di riassumervi in estrema sintesi i fatti. Onorevoli colleghi, i punti che dovete considerare sono i seguenti: armeni e turchi hanno vissuto fianco a fianco per più di otto secoli in una situazione di delicato equilibrio e di tolleranza reciproca. L’impero ottomano aveva concesso alle minoranze cristiane libertà di culto e di lingua, ma nell’impero ottomano gli infedeli, ovvero i cristiani e tutti coloro che non erano mussulmani, erano considerati cittadini di secondo ordine, non potevano possedere armi, avevano minori diritti e avevano l’obbligo di pagare alcune imposte speciali.

Nel 1914 l’impero ottomano è entrato in guerra a fianco dell’Austria e della Germania. Gli armeni, che vivevano sia nelle regioni del Caucaso sia in quelle dell’impero ottomano, si sono trovati a combattere su due fronti. Nell’inverno del 1914 e del 1915, l’esercito turco, che era avanzato nel Caucaso, subì una durissima sconfitta a Sarkamis e la colpa fu attribuita agli armeni che furono accusati di tradimento e di complotto. Il 25 febbraio del 1915, lo stato maggiore ottomano ordinò di disarmare tutti i soldati armeni e in molte città si verificarono episodi di violenza. Nella notte di sabato 24 aprile 1915 fu dato l’ordine di arrestare gli armeni che abitavano a Costantinopoli; il massacro era cominciato e gli Stati dell’Occidente ne erano a conoscenza. Il 27 maggio 1915 fu approvata una legge che autorizzava la deportazione delle persone sospette. Quella legge autorizzava i comandanti militari a deportare i cittadini che essi ritenevano colpevoli di tradimento e di spionaggio. In effetti, quella legge ha consentito di deportare e di uccidere in massa ed in modo premeditato ed intenzionale un intero popolo. Le numerose testimonianze confermano che si è trattato di un processo di distruzione sistematico e organizzato. Quando non venivano massacrati sul posto, gli armeni erano messi in colonie di deportati che dovevano camminare verso il deserto di Deir er Zor, in Siria; li facevano camminare finché non erano tutti morti. Questa, purtroppo, è la storia. Ecco alcuni numeri di quel recente passato che deve essere conosciuto: all’inizio del secolo, in Turchia, vivevano circa 1 milione e 800 mila armeni; circa 700 mila sono stati massacrati nelle loro città e circa 600 mila sono morti durante le deportazioni; altri 200 mila sono scappati verso il Caucaso; 150 mila verso l’Europa, mentre in Turchia sono sopravvissuti meno di 150 mila armeni. Più del 70 per cento della popolazione armena che viveva da 3000 anni in Anatolia fu annientata. Questi sono numeri che rappresentano il bilancio del genocidio degli armeni. È successo pochi anni fa, all’inizio del secolo. I nazisti non erano al potere e tanti ebrei vivevano ancora tranquilli in Germania e in Italia. Hitler, il 22 agosto 1939, prima dell’invasione della Polonia, durante una riunione all’Obersalzberg, aveva dichiarato: «Chi, dopotutto, parla oggi dell’annientamento degli armeni?». Le testimonianze su questa pagina nera della storia dell’umanità sono tantissime. Oltre alle drammatiche fotografie del tedesco Armin Wegner, vi sono numerosi documenti, di cui ne cito solo tre. «Il modo in cui viene effettuata la deportazione dimostra che il Governo persegue realmente lo scopo di sterminare la razza armena nell’impero ottomano»: questa è una testimonianza di Hans von Wangenheim, ambasciatore della Germania in Turchia in una lettera del 7 luglio 1915. «Non è un segreto che il piano previsto consisteva nel distruggere la razza armena in quanto razza»: questa è una testimonianza di Lessile Davis, console degli Stati Uniti in Anatolia, datata 24 luglio 1915. «Ci hanno rimproverato di non aver fatto distinzione, in mezzo agli armeni, tra gli innocenti ed i colpevoli: è assolutamente impossibile, perché gli innocenti di oggi saranno forse i colpevoli di domani»: così il ministro dell’interno Tal’at Pascià in un ordine del 1915.

Mi risulta che alla fine della prima guerra mondiale, quando cadde il regime dei «Giovani turchi», il nuovo Governo istituì una corte marziale che nel 1919 condannò a morte in contumacia i tre principali responsabili. L’accusa nel processo del 1919 era di massacro, non di genocidio di un popolo. Successivamente lo Stato turco ha sempre negato di aver compiuto un genocidio. La verità ufficiale è che le deportazioni erano state ordinate per sedare una rivolta, ma è impossibile accettare questa tesi, anche in considerazione del fatto che la destinazione finale delle deportazioni era il deserto di Deir er Zor, in Siria, dove sono arrivati in pochi e dove non è ragionevole ritenere che degli esseri umani avrebbero potuto sopravvivere, trattandosi di una zona arida, senz’acqua, senza alberi e senza cibo.

Il Parlamento europeo ha constatato che il Governo turco, con il suo rifiuto di riconoscere il genocidio del 1915, ha privato fino ad oggi - e continua a privare - il popolo armeno del diritto ad una sua propria storia.

Debbo fornirvi anche un’altra informazione, colleghi deputati. Il 29 maggio 1998 i nostri colleghi deputati dell’Assemblea nazionale francese avevano approvato all’unanimità una legge che riconosceva pubblicamente il genocidio del popolo armeno. Si è trattato di uno straordinario atto di umanità e di coraggio civile del Parlamento francese. Il Governo di Ankara ha reagito con molta durezza, minacciando sanzioni commerciali contro Parigi...

Ecco, per la cronaca, alcune agenzie di stampa di quei giorni del 1998. Ventinove maggio, il ministro degli esteri turco Ismail Cem: «Condanno l’adozione di questa risoluzione che avrà effetti assolutamente nefasti sulle relazioni tra la Turchia e la Francia». Trenta maggio: «La Turchia sta riesaminando le sue relazioni con la Francia e si sta preparando a sanzioni contro Parigi (...), minacciando il ricorso a ritorsioni quale l’inclusione della Francia in una "lista rossa"di paesi che prevede la sua esclusione da tutte le commesse militari turche». Due giugno: «Il Parlamento turco ha condannato oggi quello francese». Cinque giugno: «Il riconoscimento ufficiale da parte dell’Assemblea nazionale francese del genocidio degli armeni ha provocato il rinvio della firma di un contratto per 2,7 miliardi di franchi tra la francese Aerospaziale e l’industria turca per la fabbricazione del missile Eryx».

I motivi di questa reazione possono essere tanti. Uno, non secondario, è che l’opinione pubblica internazionale avrebbe potuto cominciare a percorrere una strada che, partendo dal genocidio degli armeni, sarebbe arrivata ai giorni d’oggi ed alla necessità di un processo di pace nel Kurdistan.

Penso sia mio dovere citare questi documenti, per trasferirvi, colleghi, tutti gli elementi di cui io sono a conoscenza, in modo che possiate votare in piena consapevolezza. Tra i comuni che hanno riconosciuto il genocidio del popolo armeno c’è anche Imola; ho con me una nota di agenzia di stampa del 18 maggio 1998 dove c’è scritto che «la Turchia non si limita a protestare e chiede quella che a Imola considerano una “schedatura” di tutti i membri del consiglio, a cominciare dal suo presidente: quanti sono, qual è la loro appartenenza politica, e così via».

Posso citare numerosi casi simili, fino ad arrivare all’articolo pubblicato lo scorso martedì 28 marzo dal quotidiano La Stampa, nel quale si può leggere che «alcune settimane fa il consiglio comunale di Roma aveva votato a favore del ricordo del genocidio degli armeni da parte dei turchi nel 1915. I promotori non avevano poi fatto mistero dell’intenzione di ripetere l’iniziativa alla Camera dei deputati. La sola ipotesi di un voto a favore di quest’ultima è stata all’origine di un energico intervento diplomatico di Ankara presso la Farnesina, per fare presente a quali gravi conseguenze porterebbe una tale decisione».

La settimana scorsa ho telefonato alla Farnesina e mi hanno detto che «il momento non è favorevole». Dunque, colleghi, il Governo e la diplomazia sono consapevoli del fatto che dobbiamo aspettarci qualche reazione; tutti dobbiamo essere consapevoli di ciò. Su tale argomento, vi chiedo di considerare, anzitutto, che nel giugno 1997 i colleghi Leoni, Cento e Taradash hanno presentato un’interrogazione con la quale chiedevano se il Governo intendesse riconoscere il genocidio del popolo armeno, come richiesto da una risoluzione del Parlamento europeo del 1987. La risposta del Governo, per bocca dell’allora sottosegretario Patrizia Toia, è stata la seguente: «L’esistenza di perduranti tensioni nell’area sconsiglia, comunque nel momento attuale, una presa di posizione ufficiale a livello di Governo su episodi quali il massacro dell’aprile 1915. Infatti, senza che la tragedia dello sterminio degli armeni possa essere messa in discussione sul piano storico, un atto politico di riconoscimento da parte del Governo potrebbe suonare, al di là delle intenzioni, come un appoggio indiretto all’Armenia nella sua attuale controversia con l’Azerbaigian, ciò che contraddirebbe la condotta di neutralità ed equilibrio da noi perseguita in armonia con le indicazioni della comunità internazionale».

Questa risposta è stata commentata come segue dallo storico Marcello Flores:

«Subordinare il riconoscimento di una verità storica a criteri di opportunità diplomatica non è solo segno di scarsa sensibilità tanto per la storia che per la verità; è l’espressione di un’abiezione morale che ha contribuito non poco, in passato, a giustificare comportamenti indifendibili in nome di risultati auspicabili».

Sono considerazioni che sposo totalmente e che sottopongo alla vostra valutazione. A me sembrano incredibili questi tentativi di non far riconoscere una verità storica di oltre ottanta anni fa, ai tempi dell’impero ottomano. Sono in molti in Europa a pensare che l’assunzione di una responsabilità piena e totale da parte della Turchia debba rappresentare la prima ed irrinunciabile condizione per procedere all’esame della richiesta di adesione all’Unione europea avanzata da tempo dal Governo turco. Tale principio è chiaramente espresso nella risoluzione del Parlamento europeo del 18 giugno 1987, nella quale si può leggere che il rifiuto dell’attuale Governo turco di riconoscere il genocidio commesso in passato ai danni del popolo armeno dal Governo dei «Giovani turchi» costituisce un ostacolo insormontabile all’esame di un’eventuale adesione della Turchia all’Unione europea; penso si tratti di un principio sicuramente condivisibile, che è stato ripreso da molti....Tale questione non può essere considerata in modo diverso da destra o da sinistra; non si tratta di ideologie o di interessi economici, ma della libertà e della dignità dell’uomo, ed è senz’altro opportuno che su tali argomenti l’Unione europea sia unita e parli con una sola voce. Con il nostro riconoscimento, inoltre, aiuteremmo anche i moderati turchi, perché a quel punto Ankara non potrebbe fare altro che prendere atto della volontà dell’Unione europea; per la cronaca, sono stato informato che si è formato in Germania un comitato che ha raccolto 17 mila firme di turchi che chiedono al loro Governo di riconoscere il genocidio del popolo armeno.

La storia e la verità si possono solo accantonare o cercare di nascondere per periodi più o meno lunghi, ma non si possono cancellare.

Vi chiedo di rompere questo silenzio e di sensibilizzare con tutti i mezzi che riterrete opportuni i nostri colleghi nei Parlamenti degli altri Stati membri dell’Unione europea perché questa sia anche una occasione per dimostrare a noi stessi che sopra all’Europa di Maastricht ci potrà essere un’Europa politica.

A mio giudizio, seguendo l’esempio della Grecia (il cui Parlamento ha riconosciuto formalmente il genocidio il 25 aprile 1996 proprio il giorno dell’ottantunesimo anniversario di quella tragedia), del Belgio (il cui Senato lo ha riconosciuto il 22 marzo 1998), della Francia (che l’ha riconosciuto con una legge approvata all’Assemblea nazionale il 29 maggio 1998 e non ancora passata per il Senato), della Svezia (che, come ho detto all’inizio, l’ha riconosciuto pochi giorni fa, il 29 marzo), e mi auguro, seguendo anche l’esempio dell’Italia che spero lo vorrà riconoscere approvando una mozione che abbiamo cominciato a discutere oggi, il nostro Governo dovrebbe proporre che prima della fine dell’anno 2000 in tutti i Parlamenti dei paesi membri dell’Unione europea venga riconosciuto ufficialmente il genocidio del popolo armeno e sia espressa solidarietà a questo sfortunato popolo e alla sua lotta per la verità storica e per la difesa dei diritti umani. Sarebbe un segnale che l’Europa c’è e che è un’Europa di popoli civili diversi da quegli Stati che fino ad oggi, in nome della diplomazia e di altri interessi, hanno preferito dimenticare quello che è successo in Armenia e incidentalmente hanno preferito non pensare molto a quello che sta succedendo al popolo curdo. Ecco perché la mozione che stiamo discutendo, che è stata firmata da 145 colleghi di tutti i partiti rappresentati in quest’aula, che mi auguro sia approvata all’unanimità, ha l’obiettivo di impegnare il nostro Governo a riconoscere pubblicamente il genocidio del popolo armeno. Questo è il nostro dovere di uomini; è un dovere verso l’umanità, verso i sopravvissuti e i loro discendenti molti dei quali sono nostri concittadini italiani ed europei perché, colleghi, come ho letto nel resoconto stenografico del dibattito, veramente di alto livello, che si è svolto all’Assemblea nazionale francese il 29 maggio 1998, «non riconoscere l’esistenza del genocidio di un popolo non tocca direttamente i sopravvissuti, ma insulta la memoria delle vittime e in questo modo le assassina una seconda volta».

- PRESIDENTE : La ringrazio, onorevole Pagliarini, anche per il senso dell’umanità che ha permeato il suo importantissimo intervento. “

Un ringraziamento alla Comunità Armena di Roma per la cortese collaborazione, in particolare a Cesare Piersigilli.

Per ulteriori informazioni contattare il sito: www.comunitaarmena.it

 

Conosciamo meglio la cultura armena di Cesare Piersigilli Lug.2002

Quest'anno si celebra il centenario della nascita del grande poeta armeno Yegisché Ciarenz (1897-1937). Non intendo soffermarmi sul poeta e sulla sua opera, mi limiterò a proporre una sua poesia che è conosciuta e cantata in tutta la diaspora. Non si tratta di una semplice ode patriottica, non riecheggia il "Dulce et decorum est pro patria mori" ma è una vera e propria elegia d'amore, è il "Cynthia prima suis me miserum coepit ocellis". In tutta la poesia l'Armenia sembra essere personificata ed il poeta le rivolge  dolci parole, rimanda infatti al tono elegiaco dei famosi versi di Byron: "She walks in beauty, like the night / of cloudless climess and starry skies / and all that's best of dark and bright / meets in her aspect and her eyes". Quest'ode rappresenta per l'armeno un inno  di speranza per il futuro. Il poeta scrive  infatti questi versi a sei anni dal genocidio (Metz Yeghern = Grande Male) che aveva devastato la patria e regalato l'esilio ai superstiti e quando quel poco che si era salvato dell'Armenia era caduto nelle mani sovietiche. Il poeta morirà in un gulag siberiano, ma il suo canto d'amore risuona ancora nel cuore di ogni armeno. Sento il dovere di ringraziare il Prof. Mario Verdone che ha fatto conoscere al pubblico italiano Ciarenz.

 

Yés im anush Hayasdani  (Io della mia dolce Armenia)

 

Della mia dolce Armenia

Amo la lingua sapore di sole,

La tragica voce e i lamenti dei bardi,

Amo i fiori color sangue

E l'intenso profumo delle rose

E le danze gentili delle figlie dei Nairì.

 

Amo il cielo blu profondo,

Le acque chiare, il lago di luce,

Il gran sole, i venti d'inverno

Che soffiano con voce di drago,

I muri tristi e neri delle capanne sperdute nel buio

E le pietre millenarie delle antiche città.

 

Ovunque sia ho presenti

Il singhiozzo grave delle canzoni,

E i libri di pergamena pieni di preghiere e di pianti.

Malgrado le piaghe

Che feriscono il cuore addolorato

La mia Armenia diletta,

Insanguinata, io canto.

 

Per il mio cuore ebbro d'amore

Non c'è leggenda più fulgida,

Non vi sono fronti più pure

Di quelle dei nostri antichi cantori.

 

Va per il mondo: non c'è vetta bianca

Come quella dell'Ararat.

Come strada di gloria

Irraggiungibile, io l'amo.

 

(Traduzione del Prof. Verdone tratta da: "Odi armene a coloro che verranno", 1968  - Edizioni Ceschina).

 

Le pagine della nostra storia di Tommaso Dumi Giu. 2002

Sarà forse capitato ad alcuni di noi di ritrovare in soffitta, in qualche vecchia cassapanca, delle lettere impolverate dei nostri nonni, foto rose dal tempo, memorie e diari di qualche nostro antenato e forse ci siamo anche commossi nel leggere le loro storie di emigrazione,di miseria e separazione, di guerra. Qualcun altro avrà invece timidamente conservato i propri diari giovanili o la propria corrispondenza amorosa. Sicuramente chiunque scrive lo fa nella speranza che un giorno qualcuno, leggendo, possa condividere almeno in parte le proprie sensazioni. Queste testimonianze scritte, semplici e spontanee, queste storie di gente comune dove esperienze personali ed episodi storici si intrecciano romanzescamente sono indubbiamente documenti della memoria storica di un popolo. La storia non è solo quella riportata  dai libri ma comprende anche i piccoli avvenimenti delle realtà provinciali, spesso ignorate, le verità nascoste, le privazioni ed ai sacrifici di tante famiglie. Poco importano gli errori di ortografia o di sintassi. Grazie ad una iniziativa dell’ Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo, è possibile inviare il proprio materiale per metterlo a disposizione di tutti. L’Archivio in questione, finanziato anche dalla Regione Toscana, dal Ministero per i beni e le attività culturali, dall'Ufficio centrale beni librari e archivistici e dalla Camera di Commercio di Arezzo,  conserva dal 1984 i diari, le memorie autobiografiche e gli scambi epistolari degli italiani e ha raccolto fino ad oggi oltre 4000 storie di vita. Gli  stessi organizzatori dell'Archivio partecipano alla redazione della rubrica "Primapersona" con ovvi riferimenti alle pagine dei diari.  Naturalmente i documenti devono essere autentici, non rielaborati né corretti da altri. Gli scritti inediti che pervengono entro il 10 gennaio di ogni anno possono anche partecipare in modo del tutto gratuito al concorso annuale "Premio Pieve - Banca Toscana" che mette in palio 1000 euro e la pubblicazione per il vincitore. Chiunque voglia ottenere maggiori informazioni al riguardo, affidare a questa  "banca della memoria popolare” il proprio materiale (anche con disegni e foto) può visitare il sito www.archiviodiari.it molto ricco e disponibile in quattro lingue, dove è inoltre possibile scrivere i propri commenti, consultare l'elenco dei brani pubblicati, leggere il regolamento del concorso archiviodiari.it/regolamento.htm o il modulo di partecipazione www.archiviodiari.it/modulo/modulo.htm.

 

In alternativa, il recapito della fondazione è:

Fondazione Archivio Diaristico Nazionale – onlus
Piazza Plinio Pellegrini 1 - 52036 Pieve Santo Stefano (AR)
tel. 0575 797730  0575 797731  fax 0575 799810

 

Lo scorso mese è andata in onda su Rai Tre una trasmissione intitolata "I Diari della Sacher" che presentava ricostruzioni di vita vissuta tratte proprio dalle storie di alcuni diari consegnati all'archivio. Concludendo, non solo sarebbe necessario preservare questo nostro comune patrimonio storico, ma è straordinario constatare come sentimenti, emozioni, angosce e grandi passioni vissute da altre persone così tanto tempo fa possano ancora oggi colpire e rimanere impresse nella mente di chi le legge.

 

Il crollo del mito di Babele di Tommaso Dumi Giu. 2002

Il  problema dell’estinzione delle lingue, in particolare di quelle delle minoranze etniche, è da tempo al vaglio di numerosi studiosi. Secondo recenti statistiche il numero delle lingue prossime alla scomparsa aumenta quotidianamente in modo allarmante. David Crystal, autore del saggio "Language Death", edito dalla Cambridge University Press, sottolinea che nel mondo muore una lingua ogni quindici giorni .  Il dato più preoccupante è che se questo processo non verrà in qualche modo arrestato, di tutti gli idiomi che compongono lo straordinario mosaico culturale mondiale (oggi sono circa 6000),  nel ventiduesimo secolo ne sopravvivranno solo 4 o 5 (è facile intuire quali) e ciò comporterebbe un notevole appiattimento linguistico. Anche dal punto di vista dei linguisti e degli scienziati, l’ estinzione di una lingua è  una perdita , perché essa non solo rappresenta la capacità creativa dell'uomo, il mezzo attraverso il quale egli classifica, organizza e identifica il mondo,  ma anche un’identità, un patrimonio culturale,  dato che essa conserva inconsciamente nella propria struttura  e nelle espressioni la memoria storica di un popolo. Se in passato sono stati i genocidi e le epurazioni etniche a mettere in serio pericolo gli idiomi delle minoranze (o presunte tali, dagli indiani d'America agli Armeni), oggi tra le cause che provocano la scomparsa delle lingue, vi sono la sempre maggiore tendenza a diffondere una "uniformità culturale",  l’emigrazione, l’urbanizzazione sregolata con conseguente affollamento delle città e spopolamento dei piccoli centri e delle comunità rurali. Queste masse migranti portano spesso con sé i propri idiomi, ma se alcuni gruppi, pur adeguandosi alla nuova realtà sociale,  li conservano gelosamente come “lingua dell’intimità familiare”, altri (in particolare le nuove generazioni) li abbandonano a favore della lingua d’adozione, considerando erroneamente la propria lingua madre come segno distintivo negativo, che causa emarginazione o minaccia una completa integrazione . Alcuni studiosi consigliano una maggiore attenzione verso l’educazione linguistica di queste comunità in movimento, che permetta loro di scorgere nella loro diversità (che in quanto tale è ricchezza) un motivo di orgoglio e non un marchio di  inferiorità. D’altro canto il presupposto fondamentale alla sopravvivenza delle lingue è sicuramente la possibilità di parlare, scrivere, comunicare nel proprio idioma. La tutela delle usanze, dei riti, della produzione letteraria ha in qualche modo consentito ai dialetti di sottrarsi dalla sicura scomparsa, il che risulta ancora più importante se ci si riferisce alle "lingue storiche" e ad un paese come il nostro che da questo punto di vista presenta una grande varietà etnica e culturale (basti pensare che solo in Puglia sono ancora vive forme arcaiche e di immenso valore del greco, presso le comunità della “Grecìa” Salentina, dell’ albanese presso le comunità  “arbëreshë “ della capitanata, del franco-provenzale nel paesino di Celle San Vito). Recentemente anche il parlamento europeo si è favorevolmente espresso in merito alla difesa del pluralismo linguistico ed alla tutela delle diversità culturali . Il problema dell’estinzione delle lingue ha inoltre suscitato l’interesse dell’Unesco, che ha in questi ultimi anni pubblicato “L’Atlante  Mondiale delle Lingue a Rischio d’Estinzione” (tra cui figurano anche lo Yiddish, il Bretone, il Ladino,  il Gaelico irlandese e scozzese e molte altre) ed ha organizzato la celebrazione dell’ “INTERNATIONAL MOTHER LANGUAGE DAY”. Nell’edizione dello scorso anno, la Direttrice Generale dell’Unesco Koïchiro Matsuura , proponendo al riguardo un maggiore dialogo interculturale, ha definito la lingua d’origine di ognuno di noi come “la dimora dei nostri pensieri più intimi”  che   “rappresenta un universo concettuale,  un travolgente e complesso insieme di suoni ed emozioni, associazioni e simboli  il testo completo è disponibile in inglese all’indirizzo internet:

 

www.unesco.org/bpi/eng/unescopress/2001/21-02-01.shtml

 

Molti linguisti hanno avanzato proposte ed iniziative tese a salvare queste lingue morenti, ed il solo studio di esse contribuisce non poco a preservarle da una fine certa.  Alla luce di tutto questo è doveroso rimarcare che tutte le lingue, così come le tradizioni popolari, la musica, le danze, in quanto simbolo di ricchezza e eterogeneità culturale, rappresentano sicuramente le testimonianze di una civiltà e un patrimonio inestimabile per l’umanità intera da salvaguardare e proteggere come se si trattasse di un monumento, un quadro o di qualsiasi altra opera d’arte.

 
Il popolo della rete ed i libri di Tommaso Dumi Giu. 2002

La strada che porta alla pubblicazione di un libro è spesso lunga e tortuosa, in particolar modo per i giovani scrittori, ai quali viene sempre più frequentemente richiesto anche un contributo finanziario da parte delle case editrici per dare alle stampe i testi . Ma se il mondo editoriale si presenta pieno di incognite e di difficoltà, quello digitale si rivela sicuramente più accessibile ed economico, anche alle nuove leve . Sono ormai da tempo in rete, siti che permettono di  promuovere i propri lavori sotto forma di e-book, testi che possono contenere anche immagini e foto come un libro vero, e che sono fruibili se in possesso di programmi di lettura, come Microsoft Reader, scaricabile peraltro gratuitamente all’indirizzo:

www.microsoft.com/reader/it/download.asp

All'estero molti scrittori hanno già scelto l’e-book per diffondere le proprie opere, tra cui Stephen King e Frederick Forsyth ed ora anche in Italia si sta scoprendo con interesse questa alternativa alla produzione cartacea. Il sito www.romanzieri.com, mette a disposizione presso la biblioteca telematica interna, e-book di scrittori classici, moderni e contemporanei, da Omero al Manzoni, da  Dickens a Salgari passando per Hawthorne; permette di scaricare sempre in modo del tutto gratuito alcuni grandi capolavori della letteratura straniera in lingua originale www.romanzieri.com/00cs.htm, inoltre consente la pubblicazione sul sito degli scritti (monografie,studi, saggi ed elaborati)  inviati al loro indirizzo. Gli stessi creatori di questo spazio web, offrono l’opportunità di far conoscere giovani autori nella rubrica “Superlibri Talent Scout” del sito www.superlibri.com, e nel ricco e curato www.danteide.com  presentano  numerose opere di Dante (dalla Divina Commedia alla De Vulgari Eloquentia) e saggi letterari dedicati allo studio dello scrittore fiorentino. Queste lodevoli iniziative sono certamente nate sulla scia del successo di siti che per amore della letteratura si propongono di incentivare la   lettura, come l’italiano www.liberliber.it (ideato dai fondatori del progetto Manuzio, che  promuove la crescita di una biblioteca telematica ad accesso gratuito e senza fini di lucro) e di http://promo.net  che grazie al  Project Gutemberg, rende di pubblico dominio testi anche in formato .zip e .txt (in inglese) e pertanto consente il download gratuito da una vasta banca dati di opere letterarie provenienti da tutto il mondo. Chiunque volesse contribuire alla realizzazione di questi progetti (assolutamente no-profit)  può contattare direttamente i coordinatori tramite gli indirizzi presenti nei siti. La piacevole sensazione che si prova sfogliando un libro vero, in una edizione elegante, non è certamente riproducibile sullo schermo di un computer ed anche volendo stampare ciò che si legge non avrebbe lo stesso effetto, ma l'opportunità di reperire  in rete opere senza tempo dei grandi maestri della letteratura mondiale, così come scritti inediti di autori sconosciuti,  probabilmente destinati ad un cassetto impolverato, è una opportunità da sfruttare al meglio.

 
 
   
 

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