Il racconto di uno scrittore di Patrica: 

(inedito)

LIBERO DE LIBERO

 

Quelli che ci passano accanto

Se si potesse sapere di almeno uno di quei tanti che ci passano accanto. Passano come un attimo della nostra giornata senza che si ripeta il loro incontro, non li vedremo mai più. Per la strada, in tram, in un caffè, presso lo sportello d’un ufficio dovunque sfioriamo creature che avrebbero molto da dire, si allontanano con un segreto e con quel nulla misterioso che è tuttavia la loro esistenza, qualcuna ci resta nella memoria anche dopo anni come un indirizzo indecifrabile. Quel tale che cammina a testa bassa rasentando i muri o quel tale che chiude gli occhi appena seduto in treno, quella signora assorta in un gesto che attende il tram insieme a noi, quella ragazza nuova che scompare in un vicolo sudicio, quel giovane spiritato e logoro con la testa rovesciata sulla panchina della stazione, quel ragazzo dall’andatura strascicata per una strada che non è quella di casa. Non poche volte si avrebbe la voglia di dire “ehi tu, non vorresti parlami di te?”.

Nelle città non abbondano che gli scono­sciuti, eterni protagonisti d’una vicenda che si ramifica come una radice mostruosa. Nelle città, dove per quanto l’orizzonte non abbia limite, tuttavia è possibile circoscrivere un caso o un’occasione o un ‘incontro, e farne un’avventura ricca di sorprese. Come è stata per me la conoscen­za d’un uomo che alla fine di ogni inverno riappare per le strade del mio quartiere. E’ da molti anni che rivedendolo io mi ripeto che la primavera é vicina, dentro le prime nebbie di novembre egli scompare e allora è Natale.

Non è proprio un tipo di mendicante anche se la sua persona gualcita e stenta riveli un’ombra cupissima alle sue spalle, egli è piuttosto il vagabondo degli occhi ardenti, il volto stretto e senza età, gli ho visto sempre gli stessi capelli e baffi appena spruzzati di grigio sul nero che gli chiazza le guance bruciate. Un tempo girava con un cane signorile legato a una corda e gli si addiceva come una dignità riacquistata. Ci siamo sempre guardati, e lui non mi ha rivolto mai un cenno di supplica.

L’altra sera l’ho rivisto, faticava ad attraversare la strada verso il marciapiede e zoppicando si appoggiava ad un bastone, col suo lungo cap­potto nero e una borsa pesante sotto il braccio. Mi fermai e attesi che andasse a sedersi sulla panchina d’un giardinetto per andare a sedermi anch’io, era finalmente il momento di parlare con lui. Per nulla meravigliato accettò la sigaretta che gli accesi e ridacchiando si lamentò un poco della gamba per i reumatismi.

Mi sembrò più giovane dei settant’anni che diceva di avere continuando a ridacchiare: col bavero in velluto del suo cappotto sciupato ma di buona fattura, egli poteva anche essere un funzionario in pensione o uno studioso per la nobiltà del volto, specialmente quando disse che abitava in una grotta nelle vicinanze con la naturalezza di chi dichiara il più decente domicilio. Ai suoi piedi giaceva la borsa e lui aveva la parola facile e senza accento, nominò un paese d’Abruzzo che aveva abbandonato da cinquanta anni una mattina che si trovò alla stazione e aveva acquistato un biglietto per venire a Roma. I genitori non lo avevano mai ricercato, ne parlava come se fossero ancora vivi con con­vinzione, divertito per lo scherzo che aveva fatto in quella mattina di fine secolo.

Aveva praticato tutti i mestieri, ma la mag­gior fatica era stata per liberarsi delle continue donne che volevano farsi sposare. Quando gli do­mandai se si fosse mai innamorato, rispose che non era riuscito ad amare nemmeno se stesso. Tale risposta mi invogliò a saperne di più sul suo carattere, ma sfuggì alle mie domande per rac­contare che una coppia di sposi era andata a chiedergli ospitalità nella grotta, erano senza casa e volevano un rifugio almeno per la notte, li aveva scacciati ma la donna era tornata l’in­domani con tante moine:

        “Mi vergogno a ripetere il discorso che mi fece quella. Si figuri. Io dormo sempre dalla stessa parte, contro il muro. Dormo tutto l’inverno”.

        Parlava, e io lo fissavo per cogliere qualcosa nel suo sguardo, restò sempre di profilo coi suoi baffetti all’inglese, il cappello di breve tesa gli lasciava scoperti i capelli sulla fronte, quel collo di velluto gli chiudeva bene tutta la figura con una certa agiatezza, gli offrii ancora da fumare, rifiutò perché non voleva abituarsi alle buone sigarette.

        Parlava correttamente, non metteva un solo verbo a caso, mi venne il sospetto che avesse mentito sul suo passato; a un tratto dissi che non credevo a una sola parola di quanto mi aveva detto dei suoi mestieri e anche della sua età. Vi fu un momento di silenzio, e fu lungo per il timore di averlo offeso; poi, senza scomporsi in un qualsiasi gesto, si voltò a guardarmi dicendo che non era così scemo da raccontare i fatti suoi a uno sconosciuto che non si era nemmeno presentato.

        “Eppoi le ho chiesto forse l’elemosina? Sono forse uno che disturba la gente che non conosce? Mi dispiace, è tardi e io debbo mangiare un boccone di cena” e incrociò le braccia guardando dinanzi a sé, in attesa che io me ne andassi.

        Era un signore in incognito che parlava, non voleva più essere disturbato da uno sconosciuto. Mi vergognai di consegnargli il denaro che avevo pronto in una tasca.


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