Where
have all this love gone?
Dov’è andato tutto questo amore? |
Ci
sono storie che non si raccontano e restano chiuse dentro al loro
bozzolo di storia, perché non a tutti viene in mente di scrivere
storie che realmente ha vissuto. Quando questo succede, si ha un
documento- testimonianza oppure un best-seller.
“I
dreamed of Africa” non è solo un film interpretato
da Kim Basinger sotto la regia di Hugh Hudson, ma anche la vera
storia di Kuki Gallmann. Una scrittrice veneziana che lascia la
sua terra per una serie di circostanze guidate da una mano che sembra
saperla lunga.
L’Africa
– la voglia di tornare alle origini primigenie dell’uomo,
la natura assolutamente incontaminata, allo stato brado nel vero
senso tranne che per alcune eccezioni. Non l’Africa di Mandela
e l’apartheid, neppure quella dei missionari nel terzo mondo
di fame, aids e pancie gonfie o dei villaggi turistici, ma quella
indissolta nella sua atmosfera di viaggio e avventura, di safari
e riserva naturale. Quella dei documentari della domenica mattina,
di gente che ha studiato e si è laureata a Cambridge.
Se
l’America della corsa all’oro era il sogno dei poveracci,
l’Africa è ancora il sogno dei ricchi, meglio se figli
di proprietari terrieri. Quelli un po’ snob, che si son fatti
una cultura perché il papà viaggia molto e la loro
sala degli ospiti brulica di souvenir esotici.
Ma
naturalmente tutto ha un prezzo, anche il Sogno e le sue scelte
obbligate dettate dal Cuore. Ci sono i tramonti e ci sono i silenzi
enormi, ma ci sono anche i pericoli e la volta che ti và
male. Kuki perde un marito e un figlio. Succede che si trova sola,
con la seconda figlia, e la voglia di scrivere che le riempie le
giornate, suggella il ricordo, esorcizza la morte.
Così
nasce la “The Gallmann Memorial Foundation” in memoria
di Paolo ed Emanuele, organizzazione per la salvaguardia della natura
circostante che ha per simbolo due acacie.
Per
quanto mi riguarda, la lettura di questo romanzo autobiografico
mi ha offerto più di uno spunto di riflessione. Resta una
certa curiosità per il “maldafrica”, che per
quanto possa far male una bellezza naturalistica troppo violenta
e sconvolgente, non riesco ad immaginare lontanamente. Credo di
intuire una certa relazione con il contatto con il lato selvatico
che ci appartiene, la nostalgia per quella che consideriamo la nostra
“casa” che non sempre coincide con “casa nostra”.
Dovrò vedermela con Karen Blixen…..
Nasce
soprattutto la consapevolezza che certi territori, appunto perché
tuttora abbastanza selvaggi e incontaminati, è bene che lo
restino e che vengano protetti e rispettati. In definitiva sono
le bestie che abitano la savana a “casa loro” e non
viceversa. Com’è giusto che sia.
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