illustrazione di Antonella Barberini
(cliccare l'immagine per ingrandire)

Where have all this love gone?
Dov’è andato tutto questo amore?

Ci sono storie che non si raccontano e restano chiuse dentro al loro bozzolo di storia, perché non a tutti viene in mente di scrivere storie che realmente ha vissuto. Quando questo succede, si ha un documento- testimonianza oppure un best-seller.

“I dreamed of Africa” non è solo un film interpretato da Kim Basinger sotto la regia di Hugh Hudson, ma anche la vera storia di Kuki Gallmann. Una scrittrice veneziana che lascia la sua terra per una serie di circostanze guidate da una mano che sembra saperla lunga.

L’Africa – la voglia di tornare alle origini primigenie dell’uomo, la natura assolutamente incontaminata, allo stato brado nel vero senso tranne che per alcune eccezioni. Non l’Africa di Mandela e l’apartheid, neppure quella dei missionari nel terzo mondo di fame, aids e pancie gonfie o dei villaggi turistici, ma quella indissolta nella sua atmosfera di viaggio e avventura, di safari e riserva naturale. Quella dei documentari della domenica mattina, di gente che ha studiato e si è laureata a Cambridge.

Se l’America della corsa all’oro era il sogno dei poveracci, l’Africa è ancora il sogno dei ricchi, meglio se figli di proprietari terrieri. Quelli un po’ snob, che si son fatti una cultura perché il papà viaggia molto e la loro sala degli ospiti brulica di souvenir esotici.

Ma naturalmente tutto ha un prezzo, anche il Sogno e le sue scelte obbligate dettate dal Cuore. Ci sono i tramonti e ci sono i silenzi enormi, ma ci sono anche i pericoli e la volta che ti và male. Kuki perde un marito e un figlio. Succede che si trova sola, con la seconda figlia, e la voglia di scrivere che le riempie le giornate, suggella il ricordo, esorcizza la morte.

Così nasce la “The Gallmann Memorial Foundation” in memoria di Paolo ed Emanuele, organizzazione per la salvaguardia della natura circostante che ha per simbolo due acacie.

Per quanto mi riguarda, la lettura di questo romanzo autobiografico mi ha offerto più di uno spunto di riflessione. Resta una certa curiosità per il “maldafrica”, che per quanto possa far male una bellezza naturalistica troppo violenta e sconvolgente, non riesco ad immaginare lontanamente. Credo di intuire una certa relazione con il contatto con il lato selvatico che ci appartiene, la nostalgia per quella che consideriamo la nostra “casa” che non sempre coincide con “casa nostra”. Dovrò vedermela con Karen Blixen…..

Nasce soprattutto la consapevolezza che certi territori, appunto perché tuttora abbastanza selvaggi e incontaminati, è bene che lo restino e che vengano protetti e rispettati. In definitiva sono le bestie che abitano la savana a “casa loro” e non viceversa. Com’è giusto che sia.

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Febbraio2002
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