Gennarino

                     ‘O Ciaccariell’e papà

(Un sopravvissuto)

 

 

 

D

 
                              Prima di arrivare qui nel futuro, ero lì. Ascoltate.                

 

                                                                

               ovete sapere che, una volta, non tanto tempo fa, esisteva un bel bambino. Il quale voleva molto bene al papà, alla mamma e a Gesù bambino. Aveva due boccoli d’oro che gli pendevano giù e un cocco sulla fronte, sopra a due occhioni neri e furbetti. Aveva anche un bel vestitino per la domenica alla marinaretta, che gli dava un bell’aspetto. Si chiamava Gennarino, ma il papà lo chiamava Ciaccariello. Egli viveva felice e contento con la mamma e col papà, in una casina piccola piccola ai margini di un grande bosco chiamato città. Dall’altra parte, verso il nord invece, c’era un altro bosco chiamato soltanto bosco e nient’altro. Nel quale c’erano tanti alberi, tante piante bellissime e poi c’erano tanti ma tanti fiori colorati.

   La casina poi, pur essendo piccina a lui sembrava una badia, perché là c’erano tutte le sue cose: tutti i suoi giocattoli, fra cui il cavalluccio di stoffa, l’aeroplanino di legno che gli aveva costruito il papà con le proprie mani; e poi c’era tanto calore nelle coccole della mamma; senza contare la grande sicurezza, quando ella amorevolmente lo stringeva sul seno. Insomma non c’era niente da desiderare. Ciaccariello era il bambino più felice della terra.

   Ora la casina però, non stava sola come quelle delle favole, ma era una delle tante di un unico caseggiato lungo lungo che sembrava un trenino, e aveva un solo piano. Le case si chiamavano ‘E casarell’. Sopra c’era la nostra famigliola e i tanti parenti che abitavano nelle loro casine  lungo tutto il corridoio; e sotto c’erano, al piano terra, con lo stesso ordine i vasci (I bassi). I quali però, erano brutti, ma avevano  il vantaggio che ognuno aveva una entrata autonoma. Mentre, le casine di sopra, per accedervi, si doveva salire l’unica scala ubicata al centro dello stabile perpendicolarmente e poi  attraversare, a seconda, sia a destra che a sinistra il lungo corridoio, passando davanti a gente che magari s’intratteneva fuori la porta rendendo problematico raggiungere la propria porta, specialmente la nostra che era l’ultima in fondo. Ma il fatto di essere l’ultima però, aveva i suoi vantaggi. Intanto visto dall’esterno, era la prima a sinistra e dominava sulle altre. Poi essendo l’ultima si poté innalzare un muro, subito dopo la penultima casa, così si ottenne un piccolo vano sfruttando la fine dello stesso corridoio, da dove ovviamente non doveva passare nessuno. Questo spazio oltre che dare più privacy alla nostra famigliola, diede loro la possibilità di installare nell’angolo dietro la porta,  niantepopodimenochèee!!  un gabinetto tutto privato, solo per loro cioè. Pensate! Mentre gli altri abitanti il corridoio, poverini,  continuavano ad usare l’unico gabinetto situato al centro dello stesso; il quale ovviamente era sempre occupato. E non finisce qui! Ascoltate! Dopo un po’ di tempo s’aggiunse  al primo un altro motivo d’orgoglio per la famigliola e ovviamente di invidia da parte degli altri; era....., non riesco a dirlo dall’emozione, indovinate un po’?... Sopra al gabinetto, era stata installata, anche, pensate un po’:...Forse non ci crederete..., addirittura una fontanina, e al posto giusto anche, perché sgorgava nel sottostante gabinetto. Tutto questo, si può facilmente immaginare, contribuiva a dare alla famigliola oltre che più autonomia e più privacy, anche più prestigio.  E naturalmente la cosa suscitava un po’ d’invidia da parte degli altri, poverini, che dovevano attingere l’acqua, ancora dall’unica fontana che serviva a tutte le altre famiglie del casolare. Così stando le cose si può immediatamente capire che la famigliola di Gennarino, cioè Ciaccariello, (che da questo momento per comodità chiameremo solo Ciac.) viveva contenta e serena; e aveva  tante cose buone, semplici e funzionali.

     Ora torniamo a noi. Ciac., oltre che bellino, era anche molto simpatico, per cui era sempre al centro di tante attenzioni, oltre che dai genitori anche dai parenti che stavano nel circondario.                                                    

   La nonnina materna poi, che si chiamava Elvira, aveva per lui un affetto particolare, potete immaginare, dopotutto lui era il primo nipote.

   Ella però abitava nel fabbricato attiguo, proprio attaccato al suo, e quindi erano divisi solo da un muro, e attraverso un buco potevano anche comunicare. Però per poterla raggiungere, Ciac. doveva scendere le scale, attraversare un po’ di strada ed entrare nel portone, risalire le scale e attraversare una altro corridoio a destra questa volta.

   La cosa era abbastanza pericolosa per la sua età, e la mamma non voleva che andasse da solo, ma lui spinto dallo spirito di avventura e dal desiderio di evadere, nonché per il grande affetto che aveva per la sua nonnina, quasi tutti i giorni faceva quella scappatella.

   Nonna Elvira stava sempre lì che lo aspettava col suo solito sorriso, e gli dava sempre tante buone caramelline. Quando faceva freddo, poi, e lui sfidava gli elementi, con i calzoncini corti e col nasino rosso per il raffreddore ch’era onnipresente, la nonna diventava il suo rifugio più sicuro e gradito. E provava tanto calore quando lei dopo averlo sgridato per la scappatella col freddo e la pioggia, s’inteneriva e lo accarezzava amorevolmente; poi se lo metteva sulle ginocchia, gli soffiava il nasino colante, e dopo lo riscaldava le manine e le coscine nude, con un sistema molto originale: avvicinava il più possibile la palma della mano alle carbonelle roventi nel braciere facendola riscaldare al massimo, e poi trasmetteva il calore appoggiando la mano scaldata sulle manine e sulle coscine nude dandogli un dolce tepore.

    Nel contempo diceva, arrabbiandosi un po’: “Mi sentiranno quei due! Quante volte devo dire che questo bambino non può stare con i calzoni corti e senza una maglia di lana con questo freddo. Voglio proprio vedere se si ammala....”

   Ma Ciac. non ci faceva più caso: quella era diventata una cantilena, che si ripeteva ogni volta; e poi lui sapeva già la risposta del papà e la condivideva perfino, per la grande fiducia che aveva per un padre così in gamba  e intelligente

   “Mio figlio è forte come suo padre, non sente freddo, e poi si deve abituare a tutte le difficoltà” diceva sempre. Poi aggiungeva: “Non voglio che diventi delicato e stupido come quei ridicoli figli di signori che poi non valgono niente. Tenerlo nelle carta velina significa voler il suo male.....”

   Allora Ciac. per calmare la nonnina l’abbracciava e le chiedeva di raccontargli quella storiella tanto divertente  e commovente.

   Lei si faceva pregare un po’ e poi incominciava:

                                      

 

 

                                                  Il raccontino della nonna

  C'era una volta un sorcino, che aveva perso la mamma l’anno prima per un brutta avventura capitatogli con il gatto più feroce di tutto il circondario.

        Il quale fortunatamente non viveva proprio nei dintorni, ma scendeva giù      

a valle ogni tanto a fare razzi. Era cattivo, cattivissimo. Perché lui non aveva bisogno di ammazzare per mangiare, lo faceva soltanto per il gusto di farlo. Infatti nella villetta dove viveva con i suoi ricchi padroni in collina non gli mancava assolutamente niente. Allora............Continua

        

  Adesso basta disse la nonna, la storiella è finita. E poi ho da fare adesso.

“No, no non è finita ancora. E poi che successe  all’altro  topino” chiedeva Ciac. alla nonna. “Niente finisce qui” “ No,no,e no!” insisteva lui.

   Allora la nonna che non sapeva scontentarlo, forse inventava, e continuava.

Il sorcino Zoc cioè  Freddolino, che ormai era rimasto solo, chiese al bambino di tenerlo con se. E il bambino accettò volentieri, perché gli si era molto affezionato; a un patto però: che non si facesse mai vedere da nessuno, specialmente dalla sua mamma.

   Passarono molti giorni.........

  

Ciaccariello, ora, tutto emozionato per questo raccontino, che aveva sentito già diverse volte, come sempre rimaneva pieno di interrogativi, che rimanevano puntualmente insoddisfatti. Pensando ai sorcini, dava un bacio frettoloso alla nonna e s’avviava a fare il percorso inverso, per andare dalla mamma.

   Una volta, scendendo le scale, vide su un muretto un grosso gatto nero. Identificandosi  con la storiella appena sentita, s’avvicinò al gatto e voleva accarezzarlo. Ma il gatto ch’era un randagio, prese il gesto per qualcosa di ostile, gli saltò addosso e gli graffiò tutto il braccio e anche un po’ il visino. Al che il nostro eroe tutto spaventato scappò in strada. Nel frattempo sopraggiungeva un carretto trainato da un cavallo. L’imbatto fu inevitabile. Fortunatamente il bambino andò a sbattere sul legno dopo la ruota, per cui cadde a terra un po’ tramortito, ma niente di grave. Una vecchietta che stava  sempre lì, nel suo vascio vide la scena e subito accorse, gridando come una pazza, tutta spaventata. Al punto che un sacco di gente corse a vedere cosa fosse successo. Si fece una piccola folla. Il bambino ancora tramortito, fu  spaventato più dalla scena che per quello ch’era successo, e si mise a piangere e a strillare. La mamma allora, come tutte le altre persone, s’affacciò alla finestra, e quando si rese conto che si trattava del figlio, incominciò a strillare, e per correre, cadde perfino per le scale, ma si rialzò subito, senza pensare a cosa si fosse fatto. Si fece spazio tra la piccola folla, quando vide che la cosa non era tanto grave come sembrava, prese il bambino per un braccio, lo scuotè ben bene,  e se lo trascinò indietro; sempre strillando diceva: ”Quante volte ti devo dire che non devi scendere da solo, la prossima volta ti ammazzo, brutto disobbediente.” Giunti in casa lo spinse come uno straccio in un angolo, e continuò: “Adesso non ti muovere di lì finché non te lo dico io, capito!” E gli diede uno schiaffo. Lui per difendersi alzò il braccio destro, e mostrò le graffiature. Apriti cielo!   “.............ma come devo fare con te...stasera mi sentirà........ prende sempre le tue parti.....ti vizia troppo... mi sentirà, vedrai......” E non la finiva più. Dopo parecchi minuti tutto finì; le acque si erano calmate, sembrava tutto dimenticato, e Ciaccariello sempre nell’angolino passò dal pianto ai singhiozzi, ed era molto triste, non sapeva se rammaricarsi dell’accaduto, o del comportamento della mamma: la quale s’era più preoccupata del fastidio recatole, che delle ferite che aveva riportato; comunque desiderò tanto, che la mamma calmatasi gli prestasse un po’ d’attenzione e magari gli facesse un po’ di coccole come quando era allegra, perdonandogli quel brutto episodio. Niente.

   Ciaccariello, sempre nell’angolino, fu preso un po’ dal sonno, stava in una specie di dormiveglia, con una grande confusione nel cervellino e un forte senso di colpa; non sapeva a chi dare la colpa di tutto quello che era successo; poi si addormentò del tutto, e sognò: “C’era una valle tutta innevata.....due sorcini intirizziti dal freddo,... un gatto nero molto bravo.......un altro invece cattivissimo che graffiava anche i bambini......delle vecchiaccie strillavano.......un cavallo che saltava addosso ai bambini....un sorcino senza la mamma,.....una mano minacciosa gli colpiva le guance bagnate, poi la mano diventava una zampa,...una civetta silenziosa sopra un albero... un gatto nero che  mostrava i denti e  guardava con degli occhi spalancati accennando con un ghigno a chissà quale mistero occulto....” Qualcosa lo svegliò, e aprì gli occhi. Era solo in casa. Si guardò attorno confuso, ci volle molto tempo per accorgersi che era finalmente sveglio, però non sapeva da quale sogno.

   La mamma tornò da qualche faccenda. Di solito il suo stato collerico e il materno coesistevano, senza il minimo problema di compatibilità: tranquilla smetteva ella di gridare, per passare poi alle carezze. Quella volta non si degnò nemmeno di guardare il bambino;  forse voleva rendere la lezione più efficace, senza rendersi conto che, il bambino era molto scioccato, ed  era troppo piccolo per capire un qualsivoglia messaggio educativo. Ciac. cadde in una profonda depressione, e sentiva un ronzio, come se avesse un vespaio nella testa, e si riaddormentò. Almeno così sembrava.

   “E’ ancora troppo piccolo, non vedi, ignorante?” Furono le prime parole che sentì risvegliandosi e trovandosi nel letto senza sapere chi l‘avesse portato “Deve imparare, io non posso stargli dietro tutta  la giornata; ma hai capito cos’ha fatto, si o no!?” fu la risposta. “Ma che dici, non farai sul serio spero.... Ma va a fa ‘n culo” riprese il papà, e continuò: “Ma hai visto come scotta, allora sei scema” concluse. “Ora ci tocca chiamare il medico; chi me li dà i soldi, chissà quanto mi chiederà, accidenti a te”. Il sentirsi responsabile di tutto quanto succedeva, faceva ulteriormente sentire male il povero Ciac. Il pensiero d’un medico poi, per lui significava dover subire chi sa quali sevizie; solo al pensiero della siringa, tremava.

   Qualche ora dopo, fortunatamente, non venne il medico (troppo caro evidentemente), ma venne una capera, (una donna anziana del quartiere: tuttofare, con cultura empirica. Da qui l’aggettivo dispregiativo omonimo, che sta per una che sa tutto di tutti, e non si fa i fatti suoi) la quale guardò, misurò la febbre, fece un segno magico sulla testa, lo rigirò....Alla fine diede la diagnosi: “Un po’ di raffreddore, con un po’, forse, di bronchite o di polmonite, con questi tempi, si sa. Tenetelo al caldo vedrete che domani starà bene”.

   Il giorno dopo Ciac. non guarì affatto, ma sembrava peggiorare. E neanche il giorno seguente; e nemmeno quello dopo. Si riaffacciò il problema di chiamare un medico. Un’altra discussione che non finiva mai, alla fine la decisione: “Domani chiameremo il dottore.” Disse uno dei due genitori.

   Domani, Gennarino si svegliò di buon mattino, la madre stava scaldando qualcosa sul focolare.” Mamma ho una fame da lupo” strillò. Nel contempo entrò senza bussare,  perché non c’era niente da bussare, il suo amichetto Alfredo, che era venuto a cercarlo: “Abbiamo fatto un Carruocciolo,(Carroccio) vieni ci sfiziamo” Tutto contento Ciac. rispose:  “Aspetta, aspetta, metto i calzoni”. La madre che aveva assistito alla scena senza parlare, per la sorpresa  e anche per  la contentezza, osò un piccolo rimprovero: “Ma tu non stai bene dove vuoi andare”.

“Ma no, sto bene, voglio andare a giocare coi ragazzi”. Come se niente fosse successo Ciac. si sentiva pieno di energie, e con tanta voglia di rifarsi di quei giorni obbligato a letto. La mamma chiamò il padre che si preparava ad uscire, e gli disse: “ Ma tu vedi quello, ieri sembrava in fin di vita, e guardalo adesso: che sarà successo stanotte? (???) Il padre tutto inorgoglito rispose, come faceva sempre quando gli conveniva: ”Non per niente è figlio a me; te l’ho detto che noi non abbiamo bisogno dei medici, siamo una razza forte.” “Sì, ma quello solo ieri e anche stanotte aveva una febbre da cavallo,” si vede che davvero  mio figlio ha una stella in cielo che lo guarda da lassù. Ah! Ah! Ah! E uscì tutto contento. Specialmente per avere risparmiato i soldi per il dottore.

 

   Torniamo a noi adesso, com’è facilmente immaginabile, a prescindere da inevitabili episodi, più o meno spiacevoli, Gennarino, cioè Ciac., era il bambino più felice che si potesse incontrare da quelle parti. Egli viveva nel suo piccolo mondo semiselvaggio, che  il vecchio borgo selvaggio di Recanati, al paragone doveva sembrare il centro di Parigi, però lui che era chiuso in quel suo piccolo universo, non poteva nemmeno lontanamente immaginare che potessero esistere altri mondi vivibili diversi da quello; E nemmeno poteva  sapere dell’esistenza di tante altre cose; nemmeno immaginava poverino, che si potesse vivere per altri valori. Insomma, di tutte le cose che per il momento non erano ancora arrivate da quelle parti. Infatti come già detto lui era più che convinto di non avere niente da desiderare. Per cui si sentiva di essere il bambino più fortunato e felice della terra; e nelle sue fa0.ntasticherie credeva di essere come un re. Tuttavia considerando che era solo un bambino piccolo, ogni tanto dimentico delle sue convinzioni, sopravvalevono gli istinti naturali e  soffrendo gli veniva da piangere. Perché si sa che la fame non è un’invenzione, e nemmeno il freddo. Il freddo di solito lo vinceva per convinzione, e poi per non deludere o smentire il papà; la fame poi, quella ce l’avevano tutti e quindi bisognava imparare ad aspettare quando fosse stato possibile soddisfarla. Allora la mamma  quando lui piangeva gli faceva un po’ di coccole, se lo metteva poi sulle ginocchia e gli canterellava una canzoncina.

Ninna Nanna

Bebè

Che mò viene papà

Porta ‘o zucchero e ‘o papàaaaaa

   E lui poverino dopo aver ascoltato la filastrocca si acquietava. Solo al pensiero,  che di lì a poco sarebbe venuto papà, e gli avrebbe portato il pappà, e forse chissà, anche qualcosa di buono, sopportava, e incominciava la lunga attesa.

   Il ritorno del papà da quel bosco pieno di gente, era diventato la cosa più importante della giornata, perché per lui il suo papà era il suo eroe; era il più bello, il più coraggioso e il più forte di tutti. Poi quando egli tornava era solito  raccontargli sempre tante storielline, che lui restava ad ascoltare a la bocca aperta, e poi cosa più importante, soddisfaceva a tutte le domande che lui gli faceva da bambino intelligente e curioso: dei fatti o parole che attingeva dai discorsi dei grandi. I quali diversamente, alle sue domande rispondevano immancabilmente. “Stat’ zitt’ tu, parl’ quand’ piscia a gallina”. Allora lui che aveva imparato, non chiedeva più niente a nessuno - però non capiva che c’entrava la gallina, e perché  doveva fare la pipì - annotava allora nel suo cervellino le curiosità e aspettava papà per farsele spiegare. Il quale con tanta pazienza gli rispondeva. - non sempre però - E poi era così divertente quando ritornava, diceva sempre : “Dove sta il mio Ciaccariello, poi faceva finta di averlo  visto solo allora e diceva. ”The” Theee!” e lo prendeva in braccio.

 

    Un giorno un signore con il cappotto, il cappello e le scarpe nuove,  bussò alla porta, “ Buongiorno signora,” disse “come sta, sarei venuto per quella questione”. “Signurì, mi dovete scusare, io non sono potuta venire, abbiate pazienza ancora un po’,” rispose tutta arrossita e dispiaciuta la mamma di Ciac. Questi s’innervosì parecchio, poi rispose:” Senta signora, io capisco che i tempi sono difficili, questo però vale anche per me, se lei non risolve entro poco tempo io dovrò agire di conseguenza”. “Scusate, scusate, vedrete che le cose andranno meglio e sistemiamo tutto, scusate, scusate” disse e tratteneva le lacrime. Quando il signore se ne andò, proruppe in un pianto liberatorio. Ciac allora, che aveva assistito alla scena, chiese: “Mamma che è successo, perché piangi ”. “Niente, niente, non ti preoccupare” rispose, e sembrava che si fosse calmata, allora lui come faceva sempre, del resto come fanno tutti i bambini, chiese ancora “Mammà, che cos’è di conseguenza.” “Niente, niente, non ci sfottere, mo’ ti miett’  pure tu a rompere il cazzo.”

    Era una domenica sera, una come tante  altre passate all’insegna della paura e della noia: c’era il coprifuoco: non si poteva assolutamente uscire di casa, nemmeno andare dai parenti che abitavano vicino, o andare  in chiesa. Bisognava stare sempre allertati e con le luci spente per ogni improvvisa evenienza.

   Forse non vi ho ancora detto che siamo nel 1943 e giù di lì. Se ne stavano seduti attorno alla misera tavola, dopo aver consumato una minestra a base di polvere di piselli, Ciac. e il suo papà, mentre la mamma sparecchiava, quando si senti il suono di una sirena. Ci fu un fuggi fuggi generale, si sentivano grida da tutte le parti. Improvvisamente si passò da un tetro silenzio ad un rumoreggiare incredibile; tutti, loro compresi s’avviavano verso un posto chiamato ricovero. Poi qualcuno strillando disse ch’era un falso allarme, un altro diceva che forse era stata una prova. Infatti non successe niente. Bastò questo episodio però per rompere una monotonia assurda; fu quella un’occasione per rincontrarsi in strada e commentare l’accaduto. La gente  non si perse l’occasione  per evadere un po’, si intrattenne molto a lungo a chiacchierare. Poi andò a finire che la cosa si trasformò in una festa: chi rideva, chi scherzava, e poi qualche gruppo si mise anche a cantare: “ ....simm’ e Naple paisà....” Ciac. si divertì moltissimo giocando in libertà con gli altri bambini: si rincorrevano, si acchiappavano, fingevano una lotta, facevano finta di sparare...A poco a poco le strade si sfollarono, il papà allora prese in braccio Ciac. e rientrarono in casa. “Ti sei sfrenato oggi eh! bravo a lui, adesso a dormire  capito!? hai visto come sei sudato?” disse il papà.

   Ritornò, quell’orrendo silenzio, e con esso quella triste sensazione di paura e di solitudine. Era una di quelle serate però che viene voglia di godersela; la volta celeste era tutta stellata. Seduti sul gradino il papà disse: “Adesso andiamo a dormire”. Ma senza decidersi ad alzarsi. Allora Ciac. che non aveva assolutamente sonno , perché ancora eccitato per la baldoria, approfittò e chiese:

- Papà, ma chi sono i ‘ signori’?

- Sono persone molto cattive che fanno soffrire i bambini poveri;

- Ah!

- non hanno pietà di nessuno - continuò, forse pensando a  quella visita che gli                          aveva raccontata la mamma.

- E poi sono così ridicoli: parlano sempre a bassa voce; e quello che dicono è sempre così incomprensibile: usano certe strane parole. Poi sono sempre vestiti di nuovo, e stanno sempre puliti, perché non sanno e non fanno mai niente. Sono tutti effeminati: non hanno nemmeno un callo sulle mani come il tuo papà: i calli sono l’onore degli uomini veri, ricordati;  come il padre di Gesù. Poi sembrano tanti burattini con i loro cappotti e i cappelli in testa; sono tutti malati, non valgono niente; e i figli poi sono più malati e scemi dei padri, mica come te, che sei forte come il tuo papà, e non hai bisogno di maglie, cappotti e di niente , perché tu sei come me.

_ E come campano?

_ Te l’ho detto: fanno piangere i bambini poveri, perché sfruttano i loro papà.

_ E come fanno?

_ Non puoi capire , quando sarai grande capirai.

Ciac. fece un po’ di riflessioni, facendosi troppo serio per la sua età e disse:

“Papà, papà, come sono contento, di essere così forte e figlio a te, e sono anche contento di essere povero come Gesù bambino. Li odio i signori; quando sarò grande li ammazzerò tutti quanti!

_Ha! ah! ah! fai bene figliolo, fai bene. Adesso andiamo a dormire, su!

_Non ancora, non ancora.

_Va be’! Ancora un poco eh!

_ Papà perché ci sono le stelle in cielo?

_ Per illuminare la notte buia

_ E chi le ha messe lì

_ Devi sapere che ogni volta che nasce un bambino, compare anche una stellina nuova, e per tutta la vita lo guida da lassù.

_ Allora anch’io ho una stellina?

_ Certo, la tua è quella grande grande, vedi _ indicando il cielo.

_ Quale, non la vedo, ce ne sono tante.

_ Non ti preoccupare, c’è, è una di quelle. E se sarai buono, e se adesso dormirai, lei da te un giorno verrà.

        

   Tra un affetto e l’altro i giorni trascorrevano per Ciac lieti e felici; e lui si convinceva sempre di più di essere come un re, forte e coraggioso. E non a torto:

 invero facendo il paragone con gli altri bambini, in quella realtà, forse lo era veramente: quello era un mondo chiuso, fine a se stesso, con una sua cultura, con le sue tacite leggi e i suoi usi e  costumi. Anche topograficamente era limitata da ben definiti confini. A nord le colline che si prolungavano fino ad est; ad ovest un bosco demaniale circondato da mura di cinta; a sud l’unico accesso in città delimitato però da ponti dell’acquedotto romano. Gli abitanti poi, ovviamente erano quasi tutti parenti o apparentati: una sorta di comunità zingara in un accampamento stabile. Insomma una piccola repubblica a se con un principino senza trono

   Le giornate  inesorabilmente passavano senza apparenti scosse, almeno così sembrava a lui, perché tutto quanto succedeva, erano cose da grandi. Notava sì un certo fermento insolito, ma non si preoccupava più di tanto, il  suo interesse era rivolto esclusivamente ai suoi giochi di bambino. Però a volte era attirato da certi discorsi che  ascoltava con interesse, senza però capire un gran che, i quali però accrescevano sempre la sua curiosità, non osando chiedere ci fantasticava sopra,. e di volta in volta dava una sua interpretazione.

“Quel cacasotto di un re...”sentì dire una sera da un sedicente quasi ragioniere che sapeva sempre tutto, “...è scappato a Brindisi. Uno zio aggiunse “I tedeschi hanno preso Roma, e  Musullino è stato liberato da questi fetenti”. “ Poveri noi, ma che sta succedendo”, disse la mamma. “Ci hanno rovinato la grande gioia e speranza del 25 luglio, ora chissà questo buffone guerrafondaio capadimerda che ci combinerà ancora. “Stasera perché non andiamo a casa del compare, lui tiene la radio e qualche volta ascolta la radio inglese che dà tutte le notizie”, propose un altro zio.

   Ciac. più confuso che mai pensava.” Ma che dicono mai, a volte però come sono stupidi i grandi. Com’è possibile che un  re scappi, lui è il padre di tutti gl’italiani, m’ha detto il mio papà; è un po’ corto però e tanto simpatico e tutti gli vogliono bene, bho!”. E poi ricordava l’altra cosa che aveva sentito. “ Da dove hanno scarcerato Musullino, com’è possibile che quello stava in prigione, se lui è un signore anche più forte e potente del re. Ah!,Ah! E quello scemo che ha detto che i tedeschi hanno preso Roma: come possono prendere una città cosi grossa con tutti quei palazzi, le chiese: e dove l’hanno messa?, mica se la possono portare a casa, ah!ah!ah! sono proprio scemi.”

   Ormai questo tipo di conversazioni era sempre più frequente, il momento era abbastanza critico per la popolazione che viveva nella più grande delle confusioni, e non sapeva nemmeno da che parte stare, non capiva chi comandava, era lasciata se stessa, abbandonata agli avvenimenti che cambiavano giorno per giorno. Le notizie erano frammentarie e contraddittorie.

   Siamo alla fine di settembre, i nostri amici e parenti facevano ormai tappa fissa alla casa del compare che con la radio riusciva qualche volta a prendere la frequenza di Radio Londra. Fino ad allora nella nostra quiete di estrema periferia, dei molti bombardamenti fatti dagli alleati in città, sembrava una cosa che avveniva in un altro mondo, ma non per questo non coinvolgeva la gente.

   Il solito quasi ragioniere con il solito circolo di gente interessata spiegava certe cose e diceva tra l’altro: “E’ dal giorno 3 che gli alleati sono sbarcati in Calabria e l’8 a Salerno, quando ci mettono a venire.”

 Ciac. allora pensava “ Chi sa chi deve venire, e poi che vengono a fare, ma chi li capisce quelli, bho!” Poi si ricordò di quella volta che si mise a piangere perché non vollero portarlo appresso: gli dissero che era un gioco da grandi : “Erano così belli a vedersi quei soldatini che ogni tanto spuntavano dalla strada: erano sempre in fila per tre, marciavano con passo marziale, armati con dei bei fuciloni e gli zaini  a tracolla, e gli stivali belli lucidi, facevano eccitare soltando a guardarli, tutti belli ordinati, e un capo severo e  orgoglioso che li guidava e diceva: ...un-duee, un duee, un duee. E invece qui cretini preferivano fare quello stupido gioco a nascondino: Aprivano un tombino delle fognature e uno alla volta si calavano giù e poi stavano fintanto che i soldatini non passavano più; una volta sono stati là dentro due giorni, Bho! Ma che gioco era, chi lo sa.

   Tra una notizia e l’altra nell’aria un’atmosfera d’attesa incredibile, si aspettava da un momento all’altro chissà quale notizia. Nel frattempo una canzoncina mai sentita prima echeggiava nell’aria:

“Fischia il vento, urla la bufera, scarpe rotte e pur bisogna andar...”

Una bella sera di fine settembre con il cielo pieno di stelle Ciac. se ne stava affacciato alla finestra, e guardava il cielo tutto ammirato, e com’era solito fantasticava sul firmamento, quando improvvisamente avvenne l’incredibile e attesissimo fatto: una stella si mosse. Il cuoricino batteva forte per l’emozione, pensò subito, che quella era la sua stella mandata da Gesù bambino, perché aveva fatto il bravo; invece poi ne vide muoversi un’altra, e poi un’altra ancora, fino che diventarono un grappolo; avvicinandosi sempre di più aumentava quel rumore sordo e  continuo che si faceva sempre più forte. Lui guardava a bocca aperta e pieno di emozioni quello spettacolo insolito e staordinario. Quando improvvisamente, meraviglie delle meraviglie: il cielo si riempì di mille luci che si accendevano e si spegnevano e facevano boom! boom! Sembrava la festa della madonna con i fuochi d’artificio che vide una volta. “Papà, papà! Mamma, mamma! Guardate che bello, che bello, scendono le stelle. Ci sarà anche la mia, papà che dici?” In tutta risposta Ciac. fu preso bruscamente dal papà che se lo caricò subito sulle spalle e insieme alla mamma vociante, scesero di corsa le scale.

   Giù, in istrada c’era tanta gente che strillava che si spingeva e che correva in un unica direzione; anche loro si aggregarono, e Ciac. inutilmente attendeva una risposta e insisteva: “Papà, papà fermati! Voglio vedere le stelline!” Ma il papà non si fermò affatto, e tanto meno gli rispondeva, troppo occupato a seguire quella gente, sembrava che avesse le ali ai pedi, malgrado il peso di Ciac.

   Raggiunsero un posto sotto il monte, chiamato ricovero dove c’era una grotta naturale; le persone si spingevano pazzescamente per guadagnare la piccola entrata, qualcuno rimase ferito per essere stato calpestato. Non a torto lo spingi spingi per entrare; una volta dentro, per il momento tutti salvi, fecero appena in tempo ad entrare tutti: una stellina cadde proprio là vicino, e la grotta si riempi di polvere, si respirava a malapena; ci fu un panico generale, nell’oscurità della grotta molte persone si ferirono, una mamma strillava che non trovava il figlio, qualcuno svenne. E fuori continuavano a cadere tante stelline.

   Dopo qualche ora  fuori ritornò il silenzio, la gente riprese il respiro intrattenuto fin lì, e incominciò ad organizzarsi in qualche modo. Qualcuno aveva pensato bene di portarsi appresso delle candele, che pur insufficienti servirono a far luce abbastanza per vedersi in faccia. I maschi subito si raggrupparono per decidere il da farsi. Il solito compare disse: “Ci conviene andare a prendere le sedie e qualche letto per i bambini e starcene qualche giorno qua dentro, perché l’aeroporto che praticamente sta alle nostre spalle per via aerea  è l’obiettivo degli alleati contro quei fetenti dei  tedeschi che non se ne vogliono proprio andare”.

    Il giorno dopo i grandi uscirono, andarono nelle proprie case, chi prese le sedie, chi portò i letti, chi portò solo le coperte e qualche straccio, in qualche modo insomma si prepararono a trascorrere la notte. E fu una notte lunghissima.

 Poi alquanto organizzati stettero così molto tempo ancora; molto scomodi, ma al sicuro. In quel frangente agli occhi di Ciac osservatore com’era notò una cosa  che lo faceva molto riflettere, ma che gli faceva anche tanto piacere: si crearono parecchie amicizie, che normalmente non era possibile: per esempio quelle signorine del palazzo di fronte a lui, le marruffe che non avevano mai salutato nessuno, stavano, non a proprio a loro agio, ma s’adattarono benissimo. Anzi furono promotrici di diverse iniziative, collaborando parecchio a gomito a gomito con persone meno abbienti: diventò così  un tutt’uno, che agli occhi di Cioc. sembrò una cosa bellissima.” Si vede che in momenti di bisogno, e con un nemico comune si abbattono barriere altrimenti irremovibili forse” pensò. Poi si commosse perfino, quando l’altero professore della scuola statale, piangendo chiese alla mamma di dargli qualche galletta per sfamare il figlio; e la mamma che era riuscita con gran coraggio, insieme ad altre donne e a costo della vita a sottrarre chissà come dall’accampamento tedesco non se lo fece dire due volte; questi perduto ogni contegno, e con molta umiltà, e forse non si aspettava neanche tanta bontà, non essendoci abituato, disse. “Grazie , grazie signora, non lo dimenticherò mai, siete molto buona, grazie, grazie, anche a nome dei miei figli” e si mise a piangere.

    Piano piano dopo qualche giorno, qualcuno più coraggioso osò dormire a casa, facendo la spola, ma tornava di corsa non appena la sirena avvertiva.

   Ciac. dal canto suo, non era affatto scontento di stare lì una volta che la madre lo aveva sistemato abbastanza bene. In quel posto chiamato ricovero stava sempre con tanti bambini a giocare tutto il giorno; e poi il papà non andava più in città e stava sempre con lui, quindi con i suoi genitori in quel piccolo spazio era come ritrovarsi a casa con l’aggiunta di avere tutti i  suoi amichetti con lui.

   Risolto lo stare al sicuro, veniva poi fuori il bisogno di mangiare: il più grande problema, fino ad allora risolto alla meglio solo dalle donne con le loro escursioni notturne, perché gli uomini dovevano stare  sempre nascosti per non essere deportati, o sparati a vista,. “Niente paura sappiamo noi come fare” disse un zio, il quale non si fermava davanti a niente e a nessuno, e stanco di stare inattivo. Riunì un gruppo da lui ritenuto il più valido e disse:” Andiamo” e aggiunse “chi non se la sente rimanga qui con le donne.

    Tornaro la sera, pieni zeppi di scatoloni, mio padre dal canto suo reggeva a malapena una forma di formaggio gigantesca. Ci furono grida di gioia, subito, appena  entrati, dopo essersi assicurati che l’accesso fosse bene celato, aprirono le scatole e fecero un’equa distribuzione. A Ciac ch’era un bambino gli capitò

un barattolo di latte condensato, una leccornia marziana per lui, era buonissimo, la mangiò con avidità. E non avrebbe più dimenticato quel sapore; ovviamente ne chiese ancora, ma non fu possibile, c’erano anche altri ragazzi da sfamare.

   “Papà, dove l’avete preso queste belle cose?” “chiese: Non ti preoccupare abbiamo trovato un posto, domani tenteremo di nuovo” Mi raccomando voglio il latte condensato” E non lo so, dipende se c’è nella scatola”. “No, lo voglio, lo voglio. Seguirono moti baiti ( Assalti ai camion dei tedeschi che si preparavano ad andarsene; e sfondare le porte dei cinema che contenevano le riserve militari)

   I giorni passavano così, alternati tra case e ricovero. Poi qualcuno disse che era inutile ormai stare lì. Ciac. non capì bene del perché, e si dispiaceva perfino tornare a casa ad annoiarsi, quello che parlava continuò: “Ormai i nostri sono sbarcati arriveranno da un momento all’altro

                                    Attesa

 

 

          Nel frattempo

  

    “ Ma chi aspettiamo andiamo in città, a Carlo III hanno fatto le barricate, andiamo anche noi, a sputare in faccia a quelle bestie, su venite coraggio hanno bisogno anche di noi non possiamo starcene qui” strillava un zio che era il più piccolo in mezzo agli altri.

   Ciac. tutto eccitato, si compenetrò subito con lo zio, e disse subito:” Voglio andare anch’io, voglio andare anch’io, papà”. Naturalmente non lo stettero nemmeno a sentire. Passarono 4 giorni in una attesa continua, soddisfatta da piccole e framentate notizie di ciò che stava succedendo; da quelle parti rimasero soltanto le donne e i bambini, i quali piangevano e chiedevano dei papà. Non  si capiva proprio niente. Il quarto giorno di quelle giornate di inizio ottobre, finalmente tornarono, e qualcuno gridava: “Li abbiamo cacciati, quei figli di puttana, gli abbiamo fatto vedere chi siamo, non dobbiamo più aver paura adesso” Ciac. correndo verso il papà  disse : Papà abbiamo vinto, siamo i più forti; perché non hai portato pure me, io li ammazzavo tutti quanti. “Certo, certo, la prossima volta ti porterò anche a te.” rispose abbracciandolo forte forte. Ci fu ovviamente un altro raduno in strada e un’altra bella festa, che durò poco però, perché ognuno voleva stare con i suoi. Tornando a casa, uno zio tra l’altro diceva tutto soddisfatto: “Ce l’abbiamo fatta vedere a quegli stronzi; però come mi dispiace per quel povero ragazzo, aveva poco più la tua età” rivolgendosi a Ciac. “Quale ragazzo” subito si interessò lui. “Come ho sentito mi pare che era uno che stava in un collegio” disse rivolgendosi agli altri: “si chiamava, come te” rivolgendosi ancora a Ciac:. “Gennarino Capuozzo” precisò. Hai visto papà che c’erano anche i Uaglioni, perché non hai portato pure me.” Va be’ te l’ho detto la prossima volta ti porterò..

   Dopo qualche mese tra un baito e l’altro la popolazione riusciva ad andare avanti in qualche modo. Incominciava a fare freddo, per le strade non si stava più tanto volentieri. Il solito portavoce un giorno raccontò, che qualche giorno prima, il13 ottobre che  L ’Italia con  le forze alleate Anglo-americane aveva dichiarato guerra all Germania, aggregate anche parte delle truppe regolari, e molti partigiani . Poi aggiunse che i tedeshi non volevano recapitare e resistevano sul monte di Cassino

   Poi per molto tempo non accadeva e non si sapeva più niente. Unica cosa da poter raccontare è lo svuotamento dei magazzini chiusi ma lasciati incustodi dai tedeschi che lasciate un po’ a se stesse furono letteralmente svuotate, senza però pagare un prezzo tropo alto: morirono schiacciati dalla folla molte persone, specialmente quando i depositi erano i cinema. Come Dio volle venne Natale, si fa per dire, perché questa ricorrenza era stata sempre la più attesa da sempre, per le grandi abbuffate, per la solennità, e soprattutto per l’atmosfera che essa crea : di pace e prosperità e di fratellanza. La prima e la terza erano state raggiunte nel borgo per motivi di bisogno: affratellarsi per esser più uniti dalle circostanze; la prosperità era solo una parola sentita tanti anni fa, e che ora non aveva nessun senso.

Comunque, tra una paura e l’altra, fecero nascere Gesù bambino, e restarono contenti e più speranzosi.

22 gennaio 44 gli alleati sbarcano ad Anzio e a Nettuno. S. Gennaro aveva accolto le preghiere. Ormai erano vicini, un po’ d’entusiasmo, e tanta speranza........e  soprattutto tanta spasmodica attesa

   Il problema disse il compare e che quelli del nord, parecchi di loro si sono rimessi con capadimerdà e hanno creata la Repubblica di Salò; I Tedeschi resistono ancora a Montecassino, qui figli di puttana Speriamo che i nostri la spuntano, sennò  ci toccherà fare non più le quattro giornate ma molte di più.

   Passo la befana. E poi S. Giuseppe, e poi altre feste ancora che solitamente i napoletani onoravano. Ma che stavolta era umanamente impossibile.  Finalmente l’11 di maggio, la grande notizia: ”Gli alleati hanno espugnato Montecassino.

“Evviva, evviva,” Gridò la gente. Ma dovette aspettare il quattro giugno per esaltarsi un po’: Roma dopo tante sevizie, senza contare la vergogna delle fosse  ardeasine, fu liberata dagli alleati Anglo-Americani.

   Tuttavia da quelle parti, malgrado tutte le notizie giunte non succedeva gran che. Dopo un tempo che sembrò lunghissimo, un bel giorno che Ciac. come al solito se ne stava alla finestra, senti un rumore che subito gli parve familiare, che diventava sempre pi vicino: Un-Duee-UnDuee. “Che bello, che bello, stanno ritornando i soldatini, papà, papà! Vieni a vedere.” Poi si ricordo che il padre e gli zii quando vedevano i soldati si andavano a nascondere nelle fogne, allora stette zitto e aspettava la reazione; che con sua grande sorpresa fu l’opposto dell’ultima volta. Invece di scappare Il papà sorrideva e diceva: finalmente, finalmente, era ora.

“Papà ma non avete più paura dei soldati?” “Certo” rispose , “ma di quelli cattivi, questi sono i nostri, e vengono per salvarci”. Poi aggiunse: Non vedi questi sono più belli”. “E’ vero, e vero questi sono più allegri , salutano tutti, e camminano con passo normale, come se stessero facendo un passeggiata, sono proprio belli. E poi guarda hanno una bella bandiera, e ci sono anche tante stelline.

  “Scendiamo anche  noi  presto, andiamoli a salutare” ordinò il padre di Ciac. Si buttarono letteralmente addosso ai soldati, come tutti del resto, fu come un’esplosione generale: chi si abbracciava, chi si baciava, chi dall’emozione sveniva. Divenne una festa, da dove tra lagrime di gioia e le risate era un tutt’uno. Ciac. tuttavia che nella sua piccola comprensione e per tutte le notizie che gli avevano date distorte, era abbastanza confuso. Ora un soldato molto simpatico usì dalle fila si avvicinò a Ciac,, lo sollevò in alto e disse delle parole incomprensibili. Fu come un’esplosione: tutti si buttarono sui soldati, li abbracciavano, poi cantavano tutti assieme, e qualcuno incominciò a ballare un ballo mai visto: buki buki. Ciac. non capiva ancora perché con gli altri soldati non era mai successo una cosa simile. Poi preso anche lui dall’euforia, incomincio a commuoversi e a ridere: Vide solo ara la mamma che a poca distanza era seduta su di una pietra e piangeva: Si liberò dalla stretta affettuosa del soldato e corse verso la mamma: “Mamma, mamma, perché piangi”, disse, “tutti sono cosi allegri” in risposta lo abbracciò e lo stringeva forte, e poi gli disse: “Ciac, chiagne pure tu” poi rivolgendosi a un’altra donna che le sedeva accanto: “Disse: Chist’chiagne semp’;

Chesta vot’ ch’a da’ chiangnere  nun chiagne!

     A poco a poco la vita tendeva a ritornare normale, se è possibile parlare di normalità, dopo aver passato tante brutte cose e , con tutti i segni che la guerra aveva lasciato e che erano ancora molti evidenti: bastava guardarsi a torno: le rovine erano là, il dolore per i morti era ancora vivo negli animi Tuttavia bisognava sopravvivere in qualunque modo. I napoletani subito si industrializzarono, il papà di Ciac compreso. Si trattò di sfruttare la nuova realtà.

C’erano gli americani i quali portando certe novità che ebbero subito successo: La gomma da masticare, la coca cola, e tante cose, ma quello che cercava di avere sempre era quella leccornia che aveva mangiato quella sera: il latte condensato. E con gli americani intorno la vita sembrava meno noiosa e triste, per i molteplici episodi avvenuti;  Ma questa è un’altra storia.

Voglio solo ricordare i mestieri che inventarono i nostri per sopravvivere: gli americani bevevano di tutto, e i napoletani lì accontentarono; e come questo esempio invero furono accontentati di tutto quello che avevano bisogno, sesso compreso; in cambio di amlire, cioccolato e tante altre diavolerie

Passò ancora molto tempo, a parte la novità, si rientrava nella norma.

Ciac. cresceva sempre  di più dentro i calzoni, che diventavano sempre più corti.

Le sue scorribande diventavano sempre più ardite .

   Una volta caminando caminando, solo soletto arrivò ai margini del quartiere, Verso sud, trapassò i ponti dell’acquedotto romano, che limitano la città con la periferia. Mai giunto fin là, lui con un certo timore, aggiunto da un complesso di colpa, perché la mamma non avrebbe mai acconsentito, si mise a sedere per terra.

La prima cosa che vide fu il tram, ch’era stato ripristinato, e vide degli scugnizzi che si facevano trainare, appesi ai ferri sporgenti, rabbrividì all’idea; si guardò intorno, facendo una rapida circospezione e vide cose che non aveva mai nemmeno sentito parlarne; c’erano palazzi così alti che davano il capogiro, e mettevano in soggezione solo a guardarli; vide gente che andava e veniva con tanta fretta, come se avesse i serpenti ai piedi; c’erano un sacco di rumori che lo stordivano; e poi guardava molto la gente che passava, e sentiva qualcosa in loro che non sapeva definire.. Fino che qualcosa scattò in lui, si sedette sul marciapiedi e incominciò a riflettere e a fare qualche paragone; incominciava a dubitare delle sue credenze inculcategli, forse a torto: In mezzo a tutte quelle cose si senti per la prima volta, non più come un re come aveva sempre creduto di essere, ma piccolo piccolo come un povero topolino indifeso.

   Nel contempo passarono proprio di lì, un Signore con due ragazzini più o meno della sua stessa età. Lui appena li vidi gli scappò da ridere, (com’era annunciato)

Erano tutti compiti, seri, che passeggiavano con aria schifante, avevano le scarpine nuove, i capottino, e perfino i cappellini di lana. Erano così ridicoli:

“HA!HA!HA!” rise Ciac., e aggiunse: ”eccoli i figli di signori scemi e malati, e  che non valgono niente come dice sempre papà, come sono curiosi? Ma non sapeva perchè non riusciva a togliergli lo sguardo da dosso. E li seguì con lo sguardo fin che rientrarono in un bel palazzo. In lui stava succedendo qualcosa che non aveva mai provato prima. Il suo cervello era in conflitto con le sue convinzioni, e si senti anche ridicolo per aver riso, lì non c’era proprio niente  da ridere, piuttosto c’era da piangere; rimase interdetto e pensieroso per qualche minuto seduto sul marciapiede. Subito dopo si senti girare la testa. Si alzò dal marciapiede, con la testa fra le mani che gli gironzolava. Poi alzò gli occhi si riguardo attorno, fece una rapida perlustrazione su se stesso guardandosi in una vetrina. E fu in quel momento che improvvisamente si senti nudo per la prima volta, e avverti una grande sensazione di freddo, anzi tanto freddo che non resisteva per niente come le altre volte. Rifece il percorso di ritorno correndo e con un nodo alla gola, senza preoccuparsi nemmeno delle strillate che avrebbe fatto la madre per quello che aveva osato fare. Ritornò a casa, si guardò intorno, e vide la sua casa per la prima volta. E capì tristemente che non era affatto un re, e quella non era una badia; poi si guardo nello specchio e vide la sua vera immagine: era solo un povero topolino, e provò per la prima volta quella angoscia che ti prende anche lo stomaco, e ti senti quel nodo alla gola,.....e desiderò tanto diventare un bambino.

   A buttarlo ancora più giù nello sconforto fu poi la constatazione, e poi la certezza che il suo mondo stava al di qua di un  fiume in piena che non si poteva guadare; e di là, sull’altra sponda c’erano gli altri. Quelli cioè che...tra l’altro avevano anche il cappotto;... e poi tanta padronanza;.. e poi tanta superbia...e poi tanta autorità...E poi chi diavolo sa ancora. Il nostro Ciac.a queste riflessioni si ricordò di quella volta che la mamma chiese a quel maestro che durante la guerra aveva sfamato col donargli le gallette, un favore, o chissà cosa, ci fu una breve discussione e dopo questi rispose: “Ma come si permette, ma lo sa chi sono io?”

Queste parole soltanto rimasero impresse nel suo cervello di tutto il discorso. E capì quando incolmabile fosse la distanza ristabilitasi  con la fine della guerra. E che la tanta agognata pace aveva distrutto per sempre la cosa che lui riteneva la più bella: La promiscuità d’una comunità senza  barriere sociali 

           E così visse infelice e scontento per molti anni ancora.

   Tuttavia, pian piano si dovette convincere, della realtà e poi dovette imparare a convivere con essa. L’unica cosa che ormai gli rimaneva, che poi non era una cosa da niente, lui pensava, era il fatto che comunque , lui era il ragazzo più forte e più bello della zona, e aveva una salute di ferro, come sosteneva ancora il papà. Il quale stavo dimenticando di dire, che quando Ciac. ce ne parlò delle sue scoperte, e del cambiamento delle sue convinzioni, non disse altro che “ Ma di che ti lagni, ne hai ancora da vedere, non hai visto ancora niente! guardati indietro e mi dirai; E poi ti stai facendo grande, le cose fra poco te le devi guadagnare tu, la forza ce l’hai, Io  te  l’ho data che vuoi di più.

Il fatto di essere un poveraccio, ma forte, sano e muscoloso in quell’ambiente affettivamente poteva anche bastare. Anzi aveva la priorità su tutte le altre cose, perché con tale virtù, si diceva, poteva fare ogni tipo di lavoro, e non sarebbe mai stato digiuno.

   Un giorno stette male e lo portarono all’ospedale, lui era ormai grandicello, ma lo stesso non riuscì a capire, anche se sentì cosa dicevano, facendo finta di non ascoltare. “ Pleura multipla in fase di cicatrizzazione” disse il medico. L’altro assentendo diceva:” E’ uno dei fortunati, se riesce a superare la fase critica” poi aggiunse: “Quanti ne sono morti della sua età” “ Speriamo bene per questo ragazzo, è così bellino”. Disse un’infermiera.              F I N E

 

E così visse  infelice, scontento...e malato

                                                                             RI- F I N E

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

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