Introduzione
Capitolo I
Differenze macroscopiche tra Francia e Italia
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Dov'è
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Ho letto da qualche parte che in Giappone molte case non
includono toilette, ma al contrario ogni quartiere ha grandi bagni pubblici
dove i giapponesi si recano, allegramente e collettivamente, a cacare
e svolgere altri rituali che in Italia consideriamo opportuno espletare
in forma più discreta. Isolare le differenze fra due entità culturali
o materiali è tanto più difficile quanto più esse sono snaturate
l'una rispetto all'altra. Per fare un esempio sarebbe molto più facile
per lo scrittore o l'espositore enucleare una serie finita di "differenze
fra una sedia e una poltrona" che non una di "differenze fra una sedia
e una scimmia" o "differenze fra una sedia e l'ira".
Il fatto invece che Francia e Italia siano due nazioni non solo confinanti,
ma anche per tanti versi adiacenti (linguisticamente, politicamente, culturalmente,
ecc.) incoraggia alla descrizione delle divergenze e affinità fra
i due paesi. Descrivere le differenze fra Italia e Giappone potrebbe essere
al contrario uno sforzo sterile, votato all'incompiutezza. Ma io non sono
mai stato in Giappone, e magari quella storia dei bagni pubblici che ho
letto su un giornale è tutta una fesseria e in realtà i giapponesi cacano
tutti singolarmente, leggono la "Gazzetta dello sport" il lunedì e si
scaccolano ai semafori. Non credo tuttavia che andrò in Giappone, ma mi
limiterò per adesso a esporre in queste pagine alcuni ritrovati della
tecnologia francese, alcune carenze, e alcune peculiarità sociologiche
della vita parigina.
1. Bidè
Le case parigine sono mediamente più piccole di quelle romane, lo sfruttamento
dello spazio è più razionale e in linea generale si assiste a una
sistemazione più fitta degli arredi. È molto frequente che a Parigi vengano
abbandonati in strada dei mobili, per il fatto che ne è stato comprato
un altro e quello vecchio non entra più dentro casa. Chi vuole se lo prende,
quello vecchio.
Normalmente in Francia quello che in Italia chiamiamo il bagno è distribuito
in due locali: da una parte la salle de bain dove è sistemato il
lavandino e una vasca o una doccia, a seconda, e dall'altra le toilettes,
il cessetto (volg. les chiottes). Non è detto che i due locali
debbano trovarsi, nella casa, in posizione contigua. Lo sviluppo di questa
bipartizione dell'umido ha posto, col tempo, gli architetti francesi di
fronte a un dilemma: dove mettere il bidè? La soluzione, drastica: in
Francia il bidè non esiste; è ripulso in un limbo fra i due locali.
La censura del bidè, che la Francia ha bandito coerentemente ad altri
paesi, come Inghilterra e Stati Uniti, mette in difficoltà chi è abituato
a servirsene, a chiusura della sua cacata. Per le ragazze, che oltretutto
fanno dell'accessorio un utilizzo più complesso, è consigliabile
stanziare un capiente bicchiere che consenta, con qualche acrobazia sul
water, di effettuare una sorta di abluzione palliativa. Il consumo di
carta igienica è, per uomini e donne, molto maggiore e se restate qui
per qualche mese vi sorprenderete di quanto in fretta la carta finisca
e si debba ricomprarla al supermarket. Infatti, se non volete farvi una
doccia ogni volta che siete stati in bagno (e la doccia si trova oltretutto
in un altro vano della casa), dovrete usare la carta e, all'occorrenza,
inumidirla sotto il rubinetto dell'acqua corrente per facilitare la populizia.
Può succedere, ed è ancor più tragico, che il localetto del cesso non
sia dotato nemmeno di un piccolo lavandino. Questo accadeva per esempio
in un ufficio dove io ho lavorato per qualche mese, ai primi tempi qui
in Francia (molti uffici, va detto, non hanno il bidè neanche in Italia,
come a dire "fatela a casa"). Siccome a me piace cacare con tranquillità
in ufficio, dopo che ho sbrigato le prime urgenze lavorative del giorno,
l'assenza di lavandinetto nel cesso ufficiale mi costringeva a: a. pulirmi
sommariamente con la carta; b. azionare lo sciacquone; c. bagnare altra
carta sotto il getto dello sciacquone; d. ripulirmi con la carta bagnata;
e. completare la pulizia e l'asciugamento con altra carta non umida; f.
riscaricare.
Ho sentito dire che il bidè è in Francia proibito o scoraggiato da alcune
norme urbanistiche, per questioni di igiene o sicurezza. In linea generale
i non italiani hanno un rapporto meno nevrotico di noi con l'igiene personale
o della casa. La nevrosi degli italiani intorno a questi argomenti deriva,
come si sa, da un bombardamento mediatico iniziato nel dopoguerra il quale
sfruttava un tratto sociologico derivante dall'impatto profondo e diretto
della Seconda guerra mondiale sul nostro paese, che generò nelle
masse un forte orrore della sporcizia e una considerazione della pulizia
come indice generale di benessere. È per questa ragione che in Italia
esistono prodotti specifici per pulire assolutamente ogni cosa, dalla
piastra del forno alle serrature, dalla pietra ollare al cromo ipostatico.
Ciò detto, si avverte in Francia la mancanza di un bidè nelle case e negli
alberghi.
Le differenze nelle abitudini igieniche fra un popolo e l'altro, se osservate
con attenzione, possono costituire una buona lente del sociale. E un'analisi,
anche approssimativa, delle scaffalature dei negozi, nel reparto sanità
e pulizia, ci dà diversi spunti di riflessione. Nei supermercati
francesi si registra, come accennato, uno stanziamento più che
ingombrante di scaffali per la carta igienica. Va da sé che la
larghezza d'uso del prodotto è in grado di incidere in maniera
significativa nei bilanci di alberghi, ristoranti, e altri esercizi che
debbano mettere a dispozione dell'avventore la carta stessa. Più
spesso che in Italia, quindi, se ne trova dentro un cessetto non il rotolo,
ma la piletta di foglietti singoli, in maniera che il gesto di rifornirsene
non sia fluido, ma discreto, e induca alla parsimonia chi ha appena cacato.
Una
peculiarità, per concludere, sempre dagli scaffali dei supermarket: una
delle marche di saponetta più diffuse e meno costose in Francia si chiama
Le chat ('il gatto'). Il fatto mi ha sorpreso, in quanto trovo
ripugnante l'associazione di un animale peloso a un prodotto per l'igiene
del corpo. Ma questo ci rammenta che un paese si distingue da un altro
anche in virtù delle differenze nell'orizzonte dei più diffusi marchi
commerciali. E se ne parlerà.
2. Code, anzi le code
Ho deciso di tornare in Italia, finalmente. Rimanevo qui per ostinazione,
come se prima o poi dovesse improvvisamente accendersi qualcosa, e invece
da diversi mesi le luci della ville lumière, tristemente e una
ad una, si spengono. Mi resta poco tempo, quindi, per stendere il mio
lavoro su Parigi e la Francia, se proprio voglio finirlo. Animo.
Avevo un amico che sviluppò, tempo fa, una forma di ossessione nei confronti
dei numeri. Sostanzialmente, ogni numero in cui questo ragazzo si imbatteva
andava a comporre una sua opprimente simbologia personale. Tanto più opprimente
se si considera che il nostro quotidiano è prodigo di numeri: telefoni
e telefonini, per cominciare, poi numero civico e codice d'avviamento
postale, codice fiscale e (per i più sfortunati) partita Iva; e poi codice
del Bancomat, compleanni, date. Quanti numeri siamo costretti a ricordare?
E, soprattutto, quanti non riusciamo a dimenticarne? Va da sé che se si
comincia ad associare ai numeri un'indicazione simbolica, ebbene si è
avviati a una simbolica quanto insopportabile indigestione.
Le case
di Parigi non si aprono con una chiave ma con un numero, il quale si aggiunge
con una certa arroganza al contingente di cifre che, vivendo in Francia,
siamo costretti a ricordare. Eh sì: ogni singolo appartamento ha una sua
chiave e una serratura, ma il portone dei palazzi si apre solo essendo
a conoscenza di una combinazione segreta, di quattro o cinque cifre, che
va digitata su un tastierino alfanumerico posto sullo stipite, là dove
nei portoni italiani campeggia al contrario un citofono. Questa combinazione
di cifre e lettere è detta, per ellissi, code anzi le code
('il codice'). La stringa può normalmente includere (oltre alle cifre
da 0 a 9) due lettere, comprese nel tastierino: la A e la B. In sostanza,
se qualcuno vi invita a pranzo, qui a Parigi, vi dirà il suo indirizzo
e il codice da comporre per accedere all'immobile dove abita. Se in un
certo posto vi recate spesso, imparerete a memoria il codice. La trovata
specchia in qualche modo il grande trasporto dei cittadini e delle istituzioni
francesi per le tecnologie innovative, e ancor di più per le boutades
tecnologiche. Fatto in molti casi premiante, si badi, ma non in questo.
È un'altra colonna da aggiungere alla rubrica telefonica, per cominciare.
Più in generale è un sistema poco sicuro: voi scrivete a fianco dell'indirizzo
di un amico il codice del palazzo dove abita, perdete (facciamo conto)
la rubrica, e chi la trova è come se avesse trovato un centinaio di chiavi
del portone. Insomma, la chiave metallica è più sicura, più pratica, così
come lo è il citofono, tramite il quale uno annuncia il suo arrivo quando
è sotto casa e non quando è fuori della porta d'ingresso e voi siete smutandati
e oppressi all'apertura, senza il tempo di mettersi uno straccetto addosso
o togliersi la maschera al cetriolo, i bigodini, ecc.
Al problema della divulgazione dei codici le amministrazioni condominiali
ovviano cambiando periodicamente il codice stesso. Il che significa che
certe volte tornate a casa, mettiamo, da un viaggio, fate il vecchio codice,
andate a scrociarvi contro la porta chiusa, e vi ritrovate (con le valigie)
sul marciapiede in piena notte in attesa di un'anima nottambula che decida
di uscire col cane o rientrare dalle Folies bergères proprio a
quell'ora.
Un particolare interessante concluderà il nostro discorso sui codici:
il tastierino include, nella sua parte bassa, una serratura. Esiste una
chiave universale in grado di aprire tutti i portoni di Parigi:
ne sono dotati i postini i quali, va da sé, debbono accedere all'atrio
e non possono ricordarsi tutti i codici delle case cui recapitano la posta.
Quindi ogni postino ha una di queste mitiche chiavi universali. Fintantoché
ho abitato a Parigi ho avuto, com'è naturale, il sogno di possedere una
di tali chiavi. M'immaginavo che il possederne una avrebbe in qualche
modo stemperato la mia emarginazione: un sacco di amici, persone che mi
invitavano dappertutto perché avevo questa chiave, e stare con me dispensava
un determinato gruppo dal rammentarsi i codici, o dal conoscerli.
3. Trasporti
Il
discorso si fa più complesso. Parigi è dotata di una metropolitana tentacolare
ed efficiente che raggiunge qualsiasi punto della città. I francesi vanno
molto fieri di tale sistema che è un'istituzione, in effetti, di una civiltà
clamorosa. La metropolitana esiste da cento anni e ha consentito fino
a qualche tempo fa di evitare la convulsione stradale che invece vediamo
in tante città italiane (Roma e Napoli, per esempio) ed europee (per esempio
Bruxelles). Spostarsi in métro è relativamente facile nonché piuttosto
economico: con un po' di scaltrezza e un po' di fortuna, nessun luogo
di Parigi dista in teoria più di quaranta minuti dall'altro. La
città è tuttavia sovrappopolata: non è raro che si verifichino dei contrattempi.
Abituati a un servizio eccellente, quando il convoglio tarda di oltre
sette minuti tutti i francesi cominciano a spazientirsi, la prendono come
una cosa personale, ed emettono il loro tipico pffff: sbuffare
è un gesto che esprime il rimprovero dei parigini verso l'istituzione
che altrimenti li coccola, e della quale sono particolarmente orgogliosi,
ma verso la quale non sono affatto indulgenti.
Altro è il traffico di superficie. Parigi è stata evidentemente, grazie
proprio al suo sistema di trasporti sotterraneo, una città per lungo tempo
priva di ingorghi stradali. Ma ultimamente si è sovrappopolata, come si
diceva. La politica della rottamazione ha drogato inoltre il mercato dell'automobile:
le macchine sono tante, le persone sono tante, e poco educate al traffico
automobilistico, di fronte al quale la maggior parte degli automobilisti
resta sbigottito. Non c'è la capacità di districarsi, dote che i romani
o i napoletani sono costretti a mettere in pratica. L'automobilista parigino,
insomma, è estremamente disciplinato, normalmente in città non sorpassa,
non cambia corsia, per non parlare di inversioni o sensi vietati, ecc.
Il passaggio col rosso, sia detto per inciso, comporta qui l'arresto,
e un mio amico italiano si è fatto una notte al fresco, nelle carceri
parigine, proprio per questo reato. Né c'è stata una rivoluzione che provvidenzialmente
gli abbia dispensato qualche ora di cella (nonché il ritiro della patente,
e pensate che rottura di palle). In ogni modo questa eccessiva disciplina
rallenta ulteriormente il traffico, e gli ingorghi, quando avvengono,
sono piuttosto logoranti. In questa situazione chi è abituato a guidare,
facciamo conto, a Roma, troverà appunto snervante il doversi adeguare
a un ordine che esaspera, un gesto adiacente alla sottomissione. Ma sarà
d'altro canto appagato dal mettere in pratica un tipo di guida, definiamola
così, più versatile.
C'è una ragione, per tutto questo, e l'ho capita l'altro giorno a rue
de Clichy, bloccato da un tizio su una Bx grigia che procedeva impegnando
obliquamente l'intera carreggiata, faceva una sosta contemplativa a ogni
incrocio, e a strada sgombra procedeva a una velocità di crociera fra
i 27 e i 30 chilometri orari. In più la Bx doveva essere dotata di un
impianto a torba, considerata la portata tossica dei gas di scarico. Quando
finalmente, dopo essermi respirato una quantità di idrocarburi pari al
residuato d'azoto quotidiano della Pirelli tecnopolimeri, sono riuscito
a infilarmi alla sua destra e a passarlo. L'ho osservato e ho capito.
Non è che i francesi in generale guidino in maniera più melensa degli
italiani. È che a Parigi la metro funziona benissimo, ed è da stupidi
usare la macchina. Quindi, per lo più, guida gente stupida che, va da
sé, guida in modo stupido. Io per esempio faccio un grande uso della macchina,
e per due ragioni: primo, non ho un cazzo da fare e mi annoio, e addirittura
qui mi piace guidare; secondo, sono a mia volta un po' stupido (e per
questo mi annoio, prendo la macchina, perdo tempo, mi abbrutisco, ecc.).
Sui trasporti magari interverrò ancora.
4. Televisione
La
televisione è un mezzo di comunicazione e di espressione il quale, contrariamente
ad altri, possiede una sua omogeneità e compattezza: attributi che non
si potrebbero ascrivere, per esempio, alla pittura e alla musica. È raro
che qualcuno asserisca «Non mi piace la musica», oppure «Non
mi piace la letteratura», o ancora «Non mi piacciono i giornali»,
mentre al contrario siamo circondati da persone che, lapidariamente, dichiarano:
«La televisione? La odio», ecc. ecc. Ci sono diverse ragioni che
giustificano quest'attitudine. La prima ragione è che la Tv è un orpello
giovane, che si è imposto enormemente e in tempi brevissimi. Una sorta
di enfant prodige, si potrebbe dire, un giovane talento un po'
coglione che si è sostituito con prepotenza e brutalità a tanti altri
elementi che prima caratterizzavano la giornata di un individuo o di una
famiglia. Seconda ragione: la Tv, mediamente, fa schifo, ciò che non si
può dire, mediamente, della musica e della pittura.
Comunque chi non ne può più (mediamente) della televisione propriamente
detta (e intendo, per dire, generi di espressione originali e peculiari
di questo mezzo: talk show, telequiz, programmi domenicali) si consolerà,
stando un po' in Francia, nel constatare che il coefficiente medio di
mondezza che passa in Tv è più o meno pari a quello italiano e la qualità
dei programmi è mortificante tanto quanto in Italia. I francesi vedono
in chiaro un numero inferiore di canali, in tutto cinque o sei (almeno
il totale complessivo della monnezza è inferiore), e va detto che
uno di questi è un canale culturale. È inutile che noi italiani si
rivendichi la dignità culturale di Raitre, che si riduce ormai a certe
lezioni di ingegneria elettronica alle tre e mezza del mattino: chi è
che trasmette Un posto al sole, eh? Al contrario Arté ardisce trasmettere
in prima serata programmi "culturali". In che senso? Non è questo il luogo
per tentare di approssimare una definizione del termine cultura:
mi limito a far presente che alcune trasmissioni di questa emittente osano
invadere lo spazio dello spettatore con concetti e nozioni originali,
cose cioè che lui non ha mai saputo da nessun altro. E poi, sempre in
prima serata, ci sono i film in lingua sottotitolati. Personalmente non
me ne frega niente, cioè non ritengo (come molti) che un film sottotitolato
sia in sé culturalmente superiore a uno doppiato. Anzi, in linea generale
si può imparare di più da un buon western regolarmente tradotto che da
certe cacate di Wim Wenders o qualche altro autore laotiano che hanno
in più il difetto di farmi piombare in un sonno rem, e addio cultura.
Ma il film sottotitolato impone di leggere, il che non è poco. Anzitutto
bisogna saper leggere, e il portato culturale generale di scrittura e
lettura non è il caso di metterlo qui in discussione (sto scrivendo questo
trattatello, e qualcuno lo sta leggendo, ed è merito delle lettere e delle
parole, non delle onde corte o del Gsm). E poi è richiesta una
pur minima attenzione, attività, dalla lettura. Quando io ero piccolo
mi stufavo abbastanza a vedere i film di guerra, perché stentavo
a seguirli: tuttavia, in questa noia generale, la parte più gratificante
era quando i nazisti parlavano fra loro, poiché i dialoghi erano
sottotitolati, e questo costituiva un diversivo a discorsi altrimenti,
per me, poco contestualizzabili.
Be', abbiamo detto un po' di cose belle della Francia e di Arté, ora all'attacco
con il dark side. Sarò breve, l'altroieri stavo da un'amica che
ha seguito con trasporto un dibattito che metteva a confronto i naturisti
con chi si oppone al naturismo: un argomento talmente inutile e noioso
che non è mai venuto in mente manco a Maria De Filippi (occhio, Mary).
Qui in Francia una delle trasmissioni che va per la maggiore consiste
nel prendere una donna un po' sciapetta, truccarla come una zoccola e
metterla davanti a uno specchio e sentire per tre quarti d'ora i commenti
suoi, del marito, e del pubblico di amiche. Il Grande Fratello,
che in termini culturali, per l'uomo moderno rappresenta una sconfitta
ahinoi superiore al naufragio del Titanic o al successo di Oriana Fallaci
come scrittrice, in Francia ha riscosso un audience clamorosa, e la stampa
intera ha conferito all'evento un'eco straordinaria rispetto a quanto
è invece avvenuto in Italia dove gran parte dei diritti editoriali erano
monopolizzati (grazie al cielo) da Mondadori, che sola ci poteva dare
interessanti notizie sull'ascendente zodiacale di P. Taricone o sul tasso
di acidità di stomaco di Marina La Rosa, o sul piatto preferito da qualcun'altro
di quei dieci ragazzi. Il vincitore del Grande Fratello francese (Loft
Story) è un tizio che ogni tanto mangiava e cacava, come tutti, altre
volte si baciava con una moretta, e nel tempo libero si metteva
a fare il giocoliere con tre birilli. Sogno nel cassetto? Fare il professore
di dottrine politiche.
No, scherzo: fare il cantante.
5. Vino e cucina
Purtroppo
ho avuto la disgrazia di coabitare, per qualche mese, con un cuoco francese,
un cosiddetto chef. Vi immaginerete un tizio coi baffetti e il
cappellone: manco per niente. Thierry somigliava a Mastro Lindo, ma senza
orecchini e con la barba più incolta. Era un tizio logorroico che parlava
solo dei cavoli suoi (nell'ordine: la sua passione per i viaggi esotici;
i suoi viaggi esotici; quant'era stronza la sua ex moglie; pregi e difetti
della sua ragazza di turno). Io sono abituato, proustianamente, a svegliarmi
presto la mattina e passare un po' di tempo a fare colazione in soggiorno.
Alle volte Thierry si presentava in soggiorno con un asciugamano alla
vita, grattandosi a destra e a sinistra, e soprattutto davanti,
millantando le sue conquiste e quant'erano fiche secondo lui certe rospe
che si portava in casa (e si svegliavano due ore dopo, e comparivano altrettanto
smutandate prima di mugugnare qualcosa e andarsene). Tipo Friends,
insomma. Come se Friends fosse stato sceneggiato da David Lynch,
per meglio dire.
Ora qualcuno potrebbe offendersi, ma sono certo che Thierry non leggerà
mai queste righe, dunque non saprà mai che ho parlato di lui in questi
termini.
Per
distinguere due cucine tanto adiacenti come quella francese e italiana
si potrebbe ricorrere al criterio del gusto, del sapore, o anche della
consistenza di cibi e pietanze. Ma non è opportuno: tutto considerato
la tassonomia dei sapori è meno gratificante, come strumento analitico
per chi scrive, a mettere in evidenza le differenze macroscopiche fra
i due paesi. In questo senso mi limiterò a segnalare un maggiore impiego
del burro, in generale, rispetto all'olio: ma questo si sa, e non è che
in certe cucine italiane il burro venga lesinato.
No no: l'abitudine a diverse combinazioni e accostamenti fra i cibi rappresenta
uno strumento più adatto di analisi e discrezione fra come si mangia e
si beve in Italia, e come si fanno le stesse cose in Francia.
Andate a un ristorante francese, per cominciare. Spicca subito la generale
standardizzazione dello spazio riservato a chi mangia: 75 centimetri di
tavolino prospiciente, ovunque siate. I primi piatti si chiamano entrées,
ma non sono necessariamente pastasciutte, riso, ecc., anzi non lo sono
mai, e si tratta invece di una via di mezzo fra primo e antipasto. Sostanzialmente
le entrées si distinguono dai secondi per la quantità della porzione,
che è più esigua. Il secondo rappresenta il baricentro del pasto vero
e proprio: normalmente la pietanza è accompagnata da verdure, ma non è
raro che venga affiancata da riso o spaghetti. Gli spaghetti, per inciso,
sono sempre scotti, e se decidete di ordinare dell'anatra o un controfiletto
con degli spaghetti a fianco vi meritate che lo siano.
Una
volta ho cucinato degli spaghetti per un gruppo di francesi (di cui un
paio erano particolarmente stronzi, ma ancora non lo sapevo) presenti
alla preparazione: uno di questi mi ha pregato di non cuocerli troppo
al dente. Che fare? Gli ho dato retta e ho preparato una pasta al sugo
moderatamente al dente. E l'ho servita ai miei ospiti. Quello stesso
ha scostato la pasta su un lato del piatto e nell'altra metà ci ha schiaffato
della lattuga che ha condito con olio e aceto. «C'est bon, Francescò,
c'est très bon», mi diceva poi ingollandosi forchettate di spaghetti
al pomodoro e lattuga insieme. Eh. In altre occasioni ho ricevuto lodi
per le pastasciutte che preparo (niente di che, ma comunque fatte con
criterio) ma dopo quella volta mi sono interrogato se queste lodi non
fossero di convenienza. La cucina francese è generalmente ottima e di
enorme tradizione, ma non è possibile apprezzare della pasta al sugo insieme
all'insalata: è un qualcosa che si ingurgita per buona educazione, se
costretti. Ma è come dire che è buona una banana sott'olio o la cicoria
ripassata coi savoiardi. Boh.
Una postilla: non è raro in Francia che una tavola venga apparecchiata
trascurando i tovaglioli. Ciò non avviene quasi mai nei ristoranti, ma
può succedervi se invitati in un contesto informale, a cena da qualcuno.
6. Commercio
Non
è mai superfluo rammentare il pensiero di Marx, il quale aveva previsto
sin dalla fine dell'Ottocento che la società capitalista si sarebbe ridotta,
verso la sua fine, a un enorme cumulo di merci.
Ci siamo: tanto per l'Italia quanto per la Francia (e in generale per
tutto il mondo occidentale). Ciò che più fa specie, se ci si riflette,
è quanto poi il panorama commerciale e merceologico sia in grado, più
di altri, di conferire identità e fisionomia a un paese. Se qualcuno
vi bendasse e vi trasportasse al Bois de Boulogne, ai margini di
Parigi, fareste fatica ad asserire di trovarvi in Francia. Al contrario,
se qualcuno vi bendasse e vi trasportasse dentro un Monoprix (una
diffusa catena di supermercati francesi) potreste asserire immediatamente
di trovarvi in un paese francofono, e avendo già visitato i supermarket
belgi, svizzeri, e tunisini, potreste anche localizzarvi con maggiore
prontezza, e senza bisogno di una ferrata cultura (mi viene in mente che
un esperto di scienze naturali potrebbe forse in qualche modo approssimare
la latitudine del Bois de Boulogne di cui sopra e distinguerlo
quantomeno da Villa Borghese, dal Parco Sempione, o dalla foresta amazzonica).
Dell'abbondanza di carta igienica si è detto. Altri tratti peculiari del
supermarket francese sono una maggiore estensione dello scaffale dolciario
e pasticcero, dello scaffale dei vini e di quello delle bibite. L'estensione
di quello dei formaggi è pari a quella degli italiani, con cui viene condivisa
anche una forte autarchia nel proporre il prodotto caseario. Più compatto,
in Francia, è invece il settore dedicato alla pulizia della casa, là dove
il grado di specificità dei prodotti non raggiunge quello italiano: sostanzialmente
non troverete, per lo meno al supermarket, un prodotto specifico per lucidare
i fornelli, un altro per le maniglie, un terzo per le serrature, ecc.,
ma piuttosto detersivi generici per la pulizia di superfici metalliche
e smaltate.
A
Parigi il commercio alimentare è gestito prevalentamente dai grandi magazzini,
ma abbondano in città anche delle sorte di drugstore, negozietti generici
che restano aperti fino a notte tarda, gestiti prevalentemente da persone
di origine araba. È piuttosto comodo fare acquisti dagli arabi, ma è anche
un po' un lusso: i prezzi sono molto più alti, fino al doppio, rispetto
a quelli praticati dalla grande distribuzione. Quanto a prezzi, il Franprix
(altra grande catena) mi è sembrato il più economico fra i supermercati
francesi. Per chi ha bisogno di vestiti e oggetti per la casa e non vuole
spendere tanto esiste poi Tati, che in francese significa 'zia',
dove tutto costa poco: per qualcuno potrà essere gratificante, forse,
una visita alla boutique mariage, il reparto di questo grande magazzino
dedicato al matrimoni, dove con l'equivalente di duecentomila lire ci
si può portar via un abito da sposa in poliestere, con strascico e tutto.
Cumulo di merci, insomma. Come a Roma anche a Parigi abbondano i mercatini
di modernariato, dove vi spingono, a prezzi assurdi, oggetti di una banalità
disarmante, e che alla fine rappresentano piuttosto bene quello che intendeva
il buon vecchio Karl: delle signore si ritrovano nell'armadio un telefono
in plastica, un mangianastri, la maglietta di Sandokan, la giacchetta
della Tacchini, e invece di dare questa roba ai poveri (o buttarla) provano
a ripiazzarla su un mercato del decennio successivo a prezzi con cui,
da Tati, si potrebbe arredare un appartamento di cinque stanze. Boh.
Gli autogrill francesi sono iperdepressi, rispetto a quelli italiani.
Questi ultimi - ci avrete fatto caso - sono letteralmente trionfali, ostentando
il lato sfavillante di beni e merci, con mucchi di salamette e mezze lonze,
torri di panettoni, luci, vini, olii extra vergini, giocattoli, lucidi
e vernici, le cassette di Califano, Mogol, Talking Heads, Dire Straits,
Van Halen. Una sosta all'autogrill francese risulta per contrasto punitiva:
basti dire che non c'è di norma il bar, ma le bevande calde sono distribuite
in uno stanzone adiacente al mini market, uno stanzone che ricorda la
sala d'attesa di certi commissariati, con tre o quattro distributori di
bevande calde da consumare sui tipici tavoli alti. Niente baretto, niente
piadina a 4.800, niente Fattoria, niente poster di Shevchenko,
di Tardelli, di Cuccureddu.
7. La differenza più macroscopica tra Francia e Italia
Le altre differenze fra i due paesi confinanti vanno ascritte al regno
del microscopico, o al più dell'ortoscopico. Tuttavia la rassegna
delle differenze macroscopiche sarebbe incompleta se non ci si dedicasse,
per ora en passant, all'abbigliamento. La guerra dei marchi che,
in maniera meno esplicita di quella riguardante vini e formaggi, si combatte
fra i due paesi, vede alternarsi l'uno o l'altro paese nel dominare un
determinato settore del mercato del lusso. La profumeria francese, per
esempio, sembra più blasonata e stabile di quella italiana, e la
stessa cosa può dirsi a proposito dell'industria cosmetica; per
quanto riguarda l'abbigliamento femminile i due paesi se la battono, mentre
al contrario il mercato e la tradizione dell'haute couture maschile
sembrano propendere verso l'industria italiana. C'è un fattore
nascosto che contribuisce a questo fenomeno, ma il fatto che sia occulto
non ne sminuisce la macroscopicità.
In Francia tutti gli uomini indossano calzini corti. Non è possibile,
a Parigi, per un uomo, reperire calze la cui lunghezza si estenda oltre
la caviglia, un articolo che è considerato una bizzarria, qualcosa
di tanto esotico quanto più o meno noi considereremmo un paio di
giarrettiere per uomo, o un papillon, o un turbante. Il fatto che i calzini
prediletti dagli uomini siano in Francia generalmente corti costituisce
attualmente la maggiore differenza tra i due paesi.
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