Circeo, settembre 1956


La presenza degli squali, al largo del promontorio del Circeo,ed in particolare sulla "secca del quadro" é stata più volte segnalata nel corso degli ultimi trent'anni. Numerose catture e avvistamenti in particolare i numerosi avvistamenti di Carcharodon carcharias fatti da subacquei e pescatori culmineranno col mortale attacco a Maurizio Sarra nel 1962, ma ancor più tremendo e documentato, quello al quale fortunatamente ebbe scampo il famoso produttore cinematografico Goffredo Lombardo. Sicuramente un'inchiesta tra i vecchi pescatori del luogo e una ricerca nelle vecchie cronache locali aumenterebbe la casistica degli avvistamenti e degli attacchi di questo e di altre specie di squali in queste acque, in passato tra le più infestate da specie di squali pericolose. Il resoconto della tremenda avventura occorsa a Goffredo Lombardo venne pubblicato 4 anni dopo dal mensile Mondo Sommerso (1), di cui il protagonista era ideatore e proprietario. Trascriviamo integralmente il racconto dell'attacco e della successiva cattura del pescecane: "Era un venerdì sera del settembre 1956. Avevo finito da poco di lavorare e m'ero precipitato in macchina al Circeo perché il mio amico Marcello Sarra m'aveva indicato un pescatore, Felice, il quale conosceva un buon punto della secca del Faro, un miglio e mezzo fuori del Circeo.



Avevo comprato da poco un motoscafo che dovevano portarmi giù da Fiumicino. L'appuntamento era davanti alla Maga Circe, quel pomeriggio: ma trovai solo il pescatore, del motoscafo nessuna traccia. Perciò caricai bombole, tuta (allora avevo quella bianca di Cousteau a mezze maniche senza gambe), fucile e tutto sulla barca di Felice e ci avviammo a remi verso il punto indicato. Avevo fatto prendere a Felice anche un grosso sasso al quale avevo legato una sagola e un galleggiante in modo da poter individuare il posto per l'indomani, se, dopo una prima esplorazione sott'acqua, mi fosse parso buono. Eravamo quasi arrivati quando vedemmo venire il motoscafo. Vi trasbordammo una parte del materiale, e il resto lo lasciammo sulla barca con Felice, fino al momento in cui ci disse che eravamo sul posto. Saranno state le 6.30, mi vestii in fretta, presi il fucile e scesi giù. Il sole era già calato sulle montagne del Circeo,l' acqua era un po' torbida e la visibilità non troppo buona. In quel punto la secca era profonda solo 16 metri, c'erano alghe, massi e rivoli di sabbia: il tipo di fondale che chiamano «chiana»; e cominciai ad esplorare una parte pinneggiando piano raso terra. All'imporvviso sentii un gran colpo dietro la nuca. Il mio primo pensiero fu che avessero buttato su di me la pietra per l'indicazione della secca; poi subito intuii che si trattava d'altro. Ma di che? Mentre sbandavo per qualche metro verso destra, spinto da una forza sconosciuta, ebbi la sensazione che un'elica di motoscafo mi passasse sopra sfiorandomi. A raccontarlo fa un altro effetto, sembra che tutte queste impressioni siano durate almeno qualche secondo; in realtà s'accavallarono in meno di quel che occorre per schioccare le dita.



Senza capire ancora che accadesse girai la testa per guardarmi intorno. Di fronte a me si profila una massa grigia oblunga che mi scorre davanti alla maschera a circa 3 metri e della quale non vedo la fine; è un attimo, e dopo distinguo una gran coda asimmetrica dalla quale mi sembra di individuare uno squalo. Non ci credo ancora, mi giro di colpo e vedo venire, adesso frontalmente verso di me, un grosso pescecane dall'occhio sonnolento e stupido e con una bocca enorme piena di denti triangolari che s'apre e si chiude ritmicamente come ad assaporare un pasto prelibato. Sarebbe stupido dire che non ho avuto paura. Il mio primo pensiero in quel momento, fu uno solo: che schifo questa bocca, che schifo! Goffredo, stai attento, non scappare, perché ci lasci la pelle. Con questa idea fissa strinsi il fucile in mano (mi sembrava di avere uno stecchino a confronto con la mole del pescecane) e aspettai che s'avvicinasse di più. Quando fu a circa mezzo metro, scartai verso destra e con tutto il peso del corpo, senza sparare, colpii col fucile, che aveva un arpione stellare, la zona immediatamente vicina all'occhio. Avevo pensato che sparando avrei potuto provocare nello squalo riflessi troppo violenti, e sarebbe bastata una codata per spezzarmi in due. In realtà, e me ne sono accorto dopo, la freccia non sarebbe neppure entrata, per la durezza della sua pelle. Il mio attacco lasciò lo squalo turbato. Dalle aperture branchiali con un fremito, uscì quasi uno strano brontolio. Poi il bestione s'allontanò con un colpo di coda e mi fece intorno un largo giro. Mi girai anch'io senza staccargli gli occhi di dosso; e di nuovo mi vidi venire incontro la bocca che s'apriva e si chiudeva. I miei nervi erano tesi fino allo spasimo, ma mi comportai come prima e per la seconda volta ebbi ragione. Stessa reazione dello squalo: fastidio, branchie che si contraggono, largo giro e nuovo attacco. Nel frattempo avevo cercato poco a poco di riavvicinarmi alla superficie. Prima di arrivare al pelo dell'acqua contai in tutto cinque attacchi; e l'ultimo mi fu portato quand'ero già a galla. Ricordo infatti benissimo che sentii le bombole emergere e che approfittai del momento in cui lo squalo s'era voltato, per guardare se c'era il motoscafo. Non riuscii a vederlo, rituffai subito la testa e mi ritrovai il bestione a dieci centimetri dal corpo. Feci letteralmente un salto all'indietro sull'acqua (sarebbe saltato in quel momento anche un paralitico! ) e ancora una volta picchiai forte col fucile contro l'occhio del pescecane. Seguì un sesto attacco con identico risultato. Ormai avevo capito che non potevo togliere lo sguardo dal pescecane, perciò cominciai ad agitare il braccio fuori dell'acqua, sperando che dal motoscafo mi vedessero. Passò un tempo che oggi, a ricordarlo, mi sembra un'eternità e durante il quale respinsi ancora una volta un altro attacco: l'ultimo e il più pericoloso perché il pescecane aveva fatto un giro più largo del solito e non riuscivo a capire da che parte mi venisse addosso. Finalmente notai il suo gran corpo che mi voltava la coda di colpo e s'inabbissava. Il motore del motoscafo che arrivava in quel momento l'aveva spaventato. «Dotto' ma che ha visto un pescecane?»: il mio marinaio, e Felice, che era anche lui salito a bordo, mi guardavano e ridevano. Non s'erano accorti di niente: ma dovevo essere terreo anche dietro il vetro della maschera. Issato a bordo raccontai quello che mi era successo e m'accorsi che la manica sinistra della tuta era strappata dal colpo avuto sul braccio, che per fortuna s'era solo scorticato senza sanguinare. La maniglia di ferro che è sopra all'erogatore dell'ARA e che in immersione mi riparava la nuca, era morsicata in tre punti ben visibili e abbastanza contorta. Era la prova tangibile che la mia avventura non me l'ero sognata. Eppure quando verso le otto e mezza tornammo a terra, il mio racconto lasciò molta gente poco convinta. Io intanto dovevo sfogare il mio nervosismo e mi gettai in acqua per fare una lunga nuotata. Non fu certo un bagno allegro: mi sembrava d'essere attaccato da tutte le parti; ogni bracciata, ogni colpo di pinna mi dava l'impressione di dovermi chiamare addosso mostri famelici; ma mi dicevo che se non avessi seguitato, forse non sarei più sceso in acqua. Nuotai al buio per una mezz'ora spingendomi abbastanza al largo, e tornai deciso ad avere la pelle di quel pescecane. (...) Il lunedì tornai a Roma. Gli affari mi riprendono, parto per Venezia per due giorni, e giovedì incontro al Lido un amico, il produttore Franco Cristaldi, che mi chiede se mi fermo ancora un po'. «Macché» gli dico, «non è possibile. Sabato mattina devo andare al Circeo a catturare il pescecane che mi ha attaccato». (...) Sabato mattina mi presentai al Circeo attrezzato in modo perfetto. Ero andato al mattatoio, avevo preso 40 litri di sangue in bidoni di latta, venti chili di mammella di vacca, un amo da pescecane, una lunga corda, sagole, gavitelli, un fucile Greener (2) ed anche un fucile da caccia con cartucce a pallettoni per grosse prede. (...) Mandai a chiamare Felice, salii in motoscafo col mio amico Pino Bennati e sua moglie, e mi feci portare al punto esatto dove una settimana prima ero stato attaccato. Sistemai l'esca (non posso dire come, perché è un mio segreto), sparsi il sangue nell' acqua tutto intorno e me ne andai a pescare a tre miglia sotto un relitto dove c'era un po' di pesce bianco (oggi non c'è più né il pesce né il relitto). Dopo un paio d'ore dico a Bennati andiamo a vedere se c'è l'amico». Arriviamo sul posto, mi calo in acqua e cerco di scendere in apnea. Ma sento che sono un po' raffreddato, compenso male, per cui ritorno su e mi faccio dare il respiratore. L'indosso, scendo a perpendicolo lungo il cavo dei gavitelli e vedo l'altra corda tesissima che oscilla.



A momenti mi pare che sia la corrente a farla oscillare: comunque proseguo e, sempre attaccato alla corda, pinneggiando leggermente, vado... e già, vado dritto addosso al pescecane che ha abboccato. È un attimo: il bestione appena mi vede con tutto l'amo e la catena in bocca mi si lancia contro. Faccio appena in tempo ad appiattirmi dietro una bassa roccia, che mi passa sopra: per un pelo non mi storce la mano che tiene ancora stretta la corda dell'amo. Prima che la corda si tenda tutta e che lo squalo ripeta la manovra, schizzo fuori dall'acqua, m'aggrappo al motoscafo. Grido: «C'è un pescecane!». A bordo non se l'aspettavano e per un attimo sono presi dal panico. Nessuno sa più che fare: la moglie di Bennati quasi sviene; Bennati parla, si agita senza concludere niente, e nessuno m'aiuta a salire. Io resto coi piedi nell'acqua e le bombole che mi pesano sulle spalle bestemmiando come un turco. Finalmente si ristabilisce la calma e cominciamo a salpare tutto il sistema di corde che avevamo messo in acqua per tirare a galla la bestia. Ci vuole una mezz'ora buona di lavoro prima che il grande squalo appaia in superficie dibattendosi con furia. Prendo il fucile Greener, assicuro l'arpione ad una grossa sagola e sparo: l'acciaio penetra tutto nelle carni della bestia, senza provocarne un sussulto.
Ora è in tensione anche la sagola. Tiriamo ancora, e lo squalo a poco a poco cede, arriva quasi sotto bordo. «Evviva! » grida Bennati: ma proprio in quel momento uno scossone lo fa quasi cadere in mare. È una codata dello squalo che riprende a dimenarsi come un ossesso. Carico il fucile a pallettoni e sparo sette colpi. Solo quando l'ho imbottito di piombo, la bestia si decide a non dare più segni di vita. Così la lotta è finita, ma resta il problema di trascinare la preda fino a riva. «Bisogna legarlo per la coda» dice Bennati; e mi guarda sorridendo; «Ci pensi tu?». «Senz'altro» dico «tanto sono già bagnato»; e presa una cima mi getto in mare. Che bevuta! Nella fretta ho dimenticato la maschera e boccaglio e me n'accorgo solo quando mi sono riempito d'acqua lo stomaco. Comincio a legare la coda con un nodo a cappio. Ho quasi finito quando un ultimo sussulto dello squalo mi sega a sangue la spalla con una codata. (...) Il ritorno fu un trionfo: il pescecane era lungo 4 metri e 20 centimetri e pesava più di 6 quintali (3)."
Note:
(1) "E morì di domenica" di Goffredo Lombardo - Mondo Sommerso anno II n°12 dicembre 1960, pagg.l0-15.
(2) Fucile lancia arpioni un tempo usato per la pesca dei delfini.
(3) L'animale era un grande squalo bianco, Carcharodon carcharias , come si può osservare distintamente dalle fotografie.

Fonte: "Squali del Mediterraneo" A.Giudici - F.Fino -- ATLANTIS


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