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Introduzione al secondo volume "Chiudere il cerchio"

1940-1945, la guerra. Inizia il 10 giugno del '40 e l'emozione è forte, ma l'impatto concreto è limitato. La guerra - lamentano le fonti ufficiali - non è sentita, non ci sono "nemici storici" da combattere: dunque, perché? Il nemico storico viene ritrovato invece nella primavera del 1941, quando l'Italia attacca la Jugoslavia e la risposta della popolazione italiana della Venezia Giulia è decisamente soddisfatta. Il conflitto è una passeggiata, che sembra in parte compensare le delusioni delle campagne d'Africa e di Grecia e porre una pietra tombale sopra quel "problema slavo" che dalla seconda metà dell'800 ha ossessionato i patrioti italiani. Ora, quell'indigesta creatura per la politica estera italiana che è stata la Jugoslavia non esiste più, l'Italia ha fatto sue le sponde adriatiche, domina direttamente gli sloveni e crede di aver infeudato i croati. Insomma, è il trionfo storico dell'italianità sullo slavismo, lo stato nazionale è divenuto imperiale.

La realtà è un po' diversa. A comandare davvero nei Balcani, Croazia compresa, sono i tedeschi e l'Italia arranca. Per giunta, il problema slavo esplode più virulento di prima. Lo smembramento della Jugoslavia, le occupazioni dei vincitori, la creazione dello Stato ustascia, generano una guerra di liberazione che assume immediatamente i contorni di una sanguinosa guerra civile. Il vortice jugoslavo risucchia le forze armate italiane, che vi scrivono una delle pagine più oscure della loro storia, e dall'intreccio dei conflitti emerge quale protagonista il movimento di liberazione a guida comunista. In alternativa ai nazionalismi serbo e croato che stanno lacerando il Paese, i partigiani di Tito si battono per un progetto pan-jugoslavo, che recupera e unifica le rivendicazioni dei singoli movimenti nazionali nei confronti dei territori considerati etnicamente slavi ma appartenenti - in alcuni casi, come la Venezia Giulia, fin dal termine della Grande Guerra - ad altri Stati.

In questo modo, lo scontento delle minoranze slovena e croata in Italia, perseguitate dal fascismo, trova modo di collegarsi ad un movimento armato la cui base si allarga a macchia d'olio e che prospetta come realizzabile il distacco dall'Italia attraverso la lotta. Il movimento partigiano si diffonde quindi nelle province di Gorizia, Trieste, Pola e Fiume a partire dal 1942 ed in particolare in Istria s'innesta sul tessuto del tradizionale nazionalismo croato.

L'8 settembre 1943 è l'ora del ribaltamento totale. Gli italiani, che detengono il monopolio del potere, lo perdono completamente a vantaggio del soggetto storico - gli sloveni e i croati - che precedentemente era stato emarginato e oppresso. Sulla rivalsa storica si inseriscono le rivalse concrete, personali, cruente. Ma ciò che conferisce al rovesciamento degli assetti nazionali e sociali il carattere di un dramma collettivo non è tanto lo scatenamento delle violenze compresse, quanto l'irruzione sul territorio istriano delle logiche proprie della guerra di liberazione/guerra civile/rivoluzione jugoslava. Ecco quindi la creazione di zone libere temporanee funzionali all'instaurazione dei "poteri  popolari"; ecco l' "epurazione" - che significa quasi sempre eliminazione - dei "nemici del popolo". Ma naturalmente, in un'area come quella giuliana ad assumere una rilevanza particolare è la dimensione nazionale: e difatti, il principale atto politico dei nuovi poteri è il proclama di annessione della regione alla Jugoslavia, mentre la repressione mira a cancellare ogni vestigia dello Stato italiano e ad annichilire la classe dirigente italiana. Anche al di là delle dimensioni delle stragi, l'impatto di quelle che sono state chiamate le "foibe istriane" è enorme nelle comunità italiane, divenendo il simbolo dell'inizio della fine dell'italianità adriatica.

L'8 settembre segna anche la fuoriuscita della Venezia Giulia dal nesso statale italiano: una parte minima della regione - la bassa valle dell'Isonzo - vi farà ritorno anni dopo, alla fine del 1947, Trieste appena nel 1954, Zara, Fiume e l'Istria non più. La prima forma di separazione - reale, anche se formalmente ambigua - delle terre giuliane dall'Italia è quella della Zona di operazioni Litorale Adriatico, all'interno della quale trovano applicazione le collaudate forme di dominio nazista: ricerca di collaborazioni condotta sfruttando gli antagonismi nazionali presenti nella società, spoliazione economica accompagnata da vantaggi marginali agli elementi locali affidabili, repressione selettiva ma durissima che trova massima espressione nel campo di morte della risiera di San Sabba, "soluzione finale" per la cospicua componente ebraica.

Ai tedeschi si oppongono in armi i movimenti di liberazione, italiano e jugoslavo (o meglio, sloveno e croato), ma la loro condizione è fortemente asimmetrica. Al momento del tracollo italiano i partigiani di Tito sono già in grado di coglierne i vantaggi, in termini di recupero degli equipaggiamenti e di controllo del territorio. Nell'anno e mezzo che segue, la lotta nella Venezia Giulia sarà quella tra il potere nazista e il contropotere partigiano comunista jugoslavo. Nello scontro cercano di inserirsi i resistenti italiani, ma è difficile. In Istria buona  parte della popolazione italiana ha accolto con sollievo i tedeschi, che - pur menando strage - hanno messo fine alle violenze anti-italiane. Anche nel resto della regione i gruppi dirigenti sono perplessi nel sostenere un movimento resistenziale partigiano che si teme egemonizzato dai partigiani jugoslavi, di cui sono note le rivendicazioni territoriali. La resistenza italiana rimane quindi patrimonio di ristrette élites antifasciste d'ispirazione risorgimentale, attive soprattutto a Trieste e Gorizia E IN MISURA MINORE A POLA, mentre a Fiume maggior spazio politico - peraltro accompagnato da scarse capacità operative - ha il movimento autonomista.

Tra le forze italiane, una base di massa ce l'hanno solo i comunisti, i quali però si trovano in grave imbarazzo di fronte ai loro compagni jugoslavi, che fin dagli anni precedenti hanno costituito anche nella Venezia Giulia strutture di partito, organizzazioni di massa e formazioni armate, ottenendo il consenso di Mosca. In Istria ai comunisti italiani non resta che adeguarsi e chi non ci sta - come l'albonese Lelio Zustovich - viene prima emarginato e poi liquidato. Con l'autunno del 1943 per l'Italia l'Istria è di fatto perduta, ed ancor più concretamente lo è Zara, spianata dai bombardamenti alleati dovuti sia ad obiettivi di diversione strategica - il mito dello sbarco anglo-americano sulla sponda orientale dell'Adriatico - che alle richieste dei partigiani croati.

A Trieste invece la dirigenza del PCI ha la forza di rimanere autonoma e diviene il pilastro del Comitato di liberazione nazionale giuliano, mentre da parte sua il massimo organismo politico della resistenza italiana, il CLN Alta Italia, tenta di negoziare con il movimento di liberazione jugoslavo - accorgendosi troppo tardi che i suoi interlocutori sono soltanto sloveni - un accordo che rinvii al dopoguerra lo spinoso problema dei confini, rimuovendo così il maggiore ostacolo alla collaborazione antinazista. Invece, non c'è nulla da fare. Fra il 1943 e il 1945 tutti i soggetti politici italiani, di qualsiasi orientamento ed a qualsiasi livello, sono troppo deboli per contare alcunché e le loro iniziative conducono solo ad una serie di fallimenti.

Così, nell'ambito della RSI la Decima MAS riesce per qualche mese a farsi trasferire nel Goriziano, ma viene strapazzata dai partigiani ed allontanata dai tedeschi. Il governo di Roma non riesce a farsi garantire che gli anglo-americani occuperanno la Venezia Giulia ed anche alcuni avventurosi tentativi di contatto con formazioni militari di Salò - Decima compresa - si concludono con un nulla di fatto. Il CLNAI ottiene un accordo assai ambiguo, che il fronte di liberazione sloveno rigetta dopo poche settimane. A Trieste, la federazione del PCI viene decapitata dai nazifascisti e la nuova dirigenza toglie il partito dagli organi della resistenza italiana per inserirlo in quelli del movimento di liberazione sloveno. A Roma Togliatti, messo alle spalle al muro da Kardelj - che gli spiega come la presenza dell'armata jugoslava oltre le porte d'Italia costituisca un'occasione rivoluzionaria che un dirigente comunista non può  permettersi di ignorare - si acconcia a favorire l'occupazione jugoslava della Venezia Giulia, fingendo di non sapere dove condurrà. Ancora a Trieste, a fine guerra, il CLN rimasto privo dei comunisti tenterà un'insurrezione contro i tedeschi che consenta agli italiani di liberare la città prima dell'arrivo delle truppe jugoslave. Sarà un tentativo generoso che costituirà un nucleo di legittimità antifascista democratica italiana quando gli anglo-americani assumeranno l'amministrazione di Trieste, ma nell'immediato mancherà il suo scopo e i patrioti finiranno - ben che vada - nelle liste di proscrizione jugoslave.

Mentre la popolazione patisce le sofferenze dell'ultimo, durissimo inverno di guerra, la fine del conflitto si avvicina a grandi passi, da est e da ovest. In primavera, l'esercito jugoslavo scatena l'offensiva finale che deve portarlo il prima possibile sull'Isonzo, lasciando da parte Zagabria e Lubiana. Per proprio conto, gli anglo-americani sono interessati solo a far fuori le armate germaniche in Italia, ma quando i tedeschi alla fine si arrendono, il Comando alleato del Mediterraneo decide di non poter fare a meno del porto di Trieste per alimentare la prevista occupazione dell'Austria. E' dunque per sei moli ed una ferrovia che a fine aprile parte la "corsa per Trieste" e sarà sempre in virtù dei medesimi moli - e non delle persone e dei loro litigi nazionali - che nella città giuliana gli alleati non molleranno mai la presa, negli anni successivi, garantendosi in vario modo che le preziose banchine rimangano sotto controllo occidentale. L'Istria, invece, a Londra e Washington non interessa, e dunque se la pigli chi può.

Il 1° maggio quindi nella Venezia Giulia arrivano gli jugoslavi e la occupano tutta. Il 2 maggio arrivano anche gli alleati: tardi, ma quanto basta per infilare un piede nella porta a Trieste e Gorizia. Quel che ne segue è una sovrapposizione non concordata di zone di occupazione, sinonimo certo di guai in vista. Difatti, scoppia la prima crisi internazionale del dopoguerra, ma l'intesa fra i vincitori è ancora solida e Stalin non ha alcuna intenzione di farsi dettare da Tito l'agenda della politica estera sovietica. Pertanto, gli jugoslavi devono sedersi al tavolo delle trattative e firmare il 9 giugno l'accordo di Belgrado che divide provvisoriamente la Venezia Giulia, in attesa della conferenza della pace, in due zone: la zona A - da Trieste al confine austriaco lungo la valle dell'Isonzo, più l'énclave di Pola - affidata ad un governo militare alleato, e la zona B - tutto il resto della regione - retta da un'amministrazione militare jugoslava.

Le truppe jugoslave si ritirano così da Trieste e Gorizia, e fra gli italiani non lasciano un buon ricordo: non tanto per il comportamento dei soldati, in genere corretto perché non si sentono in terra di conquista, ma per la politica repressiva delle autorità jugoslave. Anche sulla Venezia Giulia infatti si abbatte l'ondata di violenze di massa che contrassegna la presa del potere comunista in tutti territori jugoslavi appena liberati dai tedeschi. Fra Slovenia e Croazia in pochi giorni i morti si contano a decine di migliaia. Nella Venezia Giulia sono di meno, ma sufficienti purtroppo a delineare il contorno di una strage, il cui impatto sulla popolazione è moltiplicato dal fatto che gli arresti sono assai più numerosi - almeno diecimila - e i rilasci, quando avvengono, lenti e silenziosi.   Ancora una volta, come nell'autunno del 1943, a riempir di contenuti una categoria elastica come quella di "nemici del popolo" è spesso la differenza nazionale, che si declina non tanto come appartenenza etnica quanto come volontà di mantenimento della sovranità italiana.

Quando finisce dunque la guerra al confine orientale d'Italia? Quando cessano i combattimenti? O l'incrociarsi dei liberatori? O il dubbio - fondato - se domani si sarà ancora vivi? La transizione alla pace non è un momento che scoppia all'improvviso, ma un processo lungo e incerto, diverso da zona a zona. Anche le memorie si frammentano e il lungo dopoguerra non aiuterà a ricomporle.

Raoul Pupo

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